[...] Anche senza entrare nella banca devastata dalla bomba, non ci voleva molto a capire che quella sera qualcosa era cambiato nella nostra vita, Pietra mi aspettava nel suo ufficio. «Secondo te - mi chiese - chi le ha messe queste bombe?» A bruciapelo risposi: «I servizi segreti impegnati nella guerra fredda, non la polizia dei poveracci che vanno a farsi pestare in piazza dagli scioperanti». «Tu dici?», fece Pietra che conosceva l’arte dell’understatement, e aggiunse: «Mi ha telefonato il prefetto, secondo lui sono stati gli anarchici». Era cominciata l’umiliante operazione di copertura dei veri mandanti dell’eccidio, la serie delle indagini manovrate, dei depistaggi, dall’arresto di Valpreda, denunciato da un tassista, alla morte di Pinelli, precipitato da una finestra della questura.
Pietra era amico di Enrico Mattei, conosceva il gioco dei grandi poteri, i pesanti condizionamenti del potere imperiale, lui poteva intuire la parte che il nostro governo si era subito assunta per coprire i mandanti, le cortine fumogene, le omissioni, i silenzi che avrebbero reso vane le indagini e i processi. Io la lezione degli arcana imperii dovevo ancora capirla, e come molti fui colpito dalla strage come da una rivelazione: era finita la breve pace sociale della prima repubblica, finita l’unione patriottica degli anni della Resistenza. Eravamo una provincia dell’impero, subalterna alle grandi potenze. Veniva meno la fiducia ingenua ma reale nelle "autorità", l’ingenua certezza che un prefetto, un questore, un procuratore generale non potevano mentire ai cittadini, non potevano stare al gioco degli interessi esterni.
di Eros Monti,
vicario episcopale per la Vita Sociale della Diocesi di Milano
(www.chiesadimilano.it, 11 dicembre 2009)
In Piazza Fontana si condensa la memoria di un passato che di continuo richiede di essere riletto, compreso, interpretato. In una parola, riascoltato. Interrompendo magari le frenetiche giornate milanesi con una visita e uno spazio di silenzio - quello che il traffico incessante concede - soffermandosi davanti a lapide e corone, scorrendo la lista in doppia fila di nomi incisi nel marmo, ripercorrendo tratti incancellabili di questi quattro decenni di vita milanese.
In effetti, Piazza Fontana rimane sede di una memoria difficile da cancellare, come tutte le pagine dolenti del passato di una intera città. Ha rappresentato una lacerazione, una ferita profonda per tutti. Tempo fa, ho avuto l’occasione di ascoltare il racconto di quelle ore terribili dalla viva voce di un testimone, una persona giunta sul posto poco dopo la drammatica esplosione. Mi ha ricondotto ad uno scenario dominato da sangue, urla, pianti che si sovrapponevano alle sirene dei mezzi di soccorso. E poi, diradatosi il fumo, quella grande buca, quel cratere lasciato dalla bomba.
Una ferita aperta, un vuoto profondo creato dalla logica della violenza e del terrore, che ha ingoiato vite umane, ha colpito intere famiglie, ha percosso l’intera città, ha scavato un solco nel suo tessuto sociale. Quel solco tante volte approfondito dalla cosiddetta “strategia della tensione” che proprio da Piazza Fontana ha tratto le sue origini, inaugurando i cosiddetti “anni di piombo”, che più volte, troppe volte, hanno insanguinato le strade e le piazze di questa nostra città.
Milano, però, non è rimasta inerte. Ha raccolto la sfida, si è ripresa, ha saputo reagire alla logica del terrorismo, della violenza sfrenata di pochi che pretendeva di imporsi a tutti nell’arco di tempo del bagliore di un’esplosione o di una scarica di proiettili. Milano ha risposto, ha reagito; ha saputo riprendersi. Nel tempo, nei fatti. Con la solida determinazione di una cittadinanza che in tutte le sue componenti non si è mai inginocchiata né arresa, riproponendo di continuo il suo volto di laboriosità, di coesione sociale, per quanto ferita e minacciata. Manifestando anche apertamente il proprio comune sentire: indimenticabile rimane la partecipazione alle esequie di Walter Tobagi. La città ha risposto con la compostezza di un tessuto sociale che in molti modi, per lo più non appariscenti, a partire dalla quotidianità del suo vissuto, delle sue relazioni, del suo mondo associativo, dell’agire responsabile di molti, ha ripetuto e confermato il suo “no” alla logica distruttiva del terrorismo.
A quarant’anni di distanza, la sfida dev’essere di nuovo raccolta. E’ questa la ragione per cui facciamo memoria di una delle stragi più drammatiche - e tuttora impunite della storia del nostro Paese. Non soltanto per volgere lo sguardo al passato, ma per guardare con occhi rinnovati attorno a noi, per scorgere nel nostro tempo quei segni che annunciano risposte vere alle “strategie della tensione” di ieri e di oggi. Quei segni che dicono di legami, personali e sociali, solidi perché capaci di esprimere solidarietà, apertura, accoglienza. Verso tutti. Quei segni che indicano vera volontà di dialogo, di gratuità, disinteresse. Nonostante la creazione di sempre nuove barricate prosegua di gran carriera e individualismo e ricerca del proprio tornaconto personale non cessino di stringere tra loro alleanze inedite. Quei segni, soprattutto, che ci parlano di futuro, ci aiutano a spingere lo sguardo oltre. Oltre l’immediato, l’effimero, il provvisorio. Che ci indirizzano nella direzione di una rinnovata progettualità. Come ci ha recentemente richiamato l’Arcivescovo, in occasione dell’ultimo Discorso alla Città, “si esige un cambiamento radicale, lungimirante e teso al bene comune globale. Si esige una progettazione di ampio respiro, capace di andare oltre le risposte immediate ed effimere, capace di dare un volto nuovo alla nostra Città. Una progettazione che riguardi tutti i grandi capitoli della vita sociale”.
Perché se la carica distruttrice del terrorismo di quarant’anni fa può dirsi sconfitta, occorre vigilare su altre forme, certo più sottili, ma non meno pervicaci, di violenza. Da quella verbale, intimidatoria, al dilagare dell’indifferenza che opprime ed esclude, del giudizio privo di qualsiasi senso della misura, dell’utilizzo strumentale del pensiero e dell’agire altrui per far sì che si prendano distanze nette gli uni dagli altri, non si tenda invece alla reciproca comprensione, alla collaborazione, all’edificazione di una città a misura di uomo - di ogni persona umana - e della sua dignità irrinunciabile.
Occorre allora guardare avanti; in profondità. E con determinazione, come ancora ci suggerisce l’Arcivescovo, indicandoci la traccia di un fecondo, comune cammino: “In questa prospettiva va promossa con decisione una “nuova solidarietà” che assuma la forma di una vera e propria “alleanza” intesa come incontro, dialogo, scambio d’informazioni, condivisione di interventi, collaborazione corresponsabile tra le istituzioni pubbliche e le forze vive della società civile, ovviamente nel rispetto delle diverse competenze e nel segno di una reciproca fiducia: si pensi, in particolare, all’urgenza di una simile alleanza nei fondamentali ambiti della scuola, del lavoro, della salute, della lotta alle varie forme di povertà e di emarginazione sociale”.
È ciò di cui abbiamo bisogno: educarci - tutti, ciascuno secondo la propria competenza, capacità - a guardare al futuro, a quanto ci è possibile costruire in questa direzione, fin dal prossimo passo.
Tutti; e insieme. Senza indugiare nell’aspettativa di soluzioni facili o di prospettive semplificatrici, o nell’attesa che per prima cosa altri comincino ad assumersi le rispettive responsabilità. La risposta al terrorismo e alla violenza di ieri e di oggi esige coralità, costanza, partecipazione.
Sapremo raccogliere la sfida? Siamo consapevoli che la risposta non può che giungere da un agire pienamente rinnovato. Che affidiamo, con le parole del Cardinale, all’unico Signore della storia: “È dunque a Cristo che dobbiamo guardare, come singole persone, come città di Milano, a lui che è il “buon samaritano” e che vuole continuare a essere presente e operante nella storia dell’umanità ferita e bisognosa di “cura” tramite la nostra mediazione”.
12 Dicembre 2009
PIAZZA FONTANA 40 ANNI DOPO
«Mio padre doveva fermare quella bomba»
La figlia di un ex agente Sid: aveva l’ordine di
bloccare gli ordigni ma non arrivò in tempo
Matteo Fusco Di Ravello era un importante 007: «Lui
doveva bloccare i servizi segreti deviati che in quegli -anni agivano con estremisti di destra e anche
con esponenti della mafia»
DA MILANO, NELLO SCAVO (Avvenire, 12,12,2009)
C’è la figlia di un ex agente segreto che dice: «Mio padre voleva fermare la strage, ma non fece in tempo». C’è Carlos, il superterrorista internazionale imprigionato a Parigi, che chiede di essere ascoltato su Piazza Fontana e gli Anni di Piombo. E c’è un’agenda misteriosa, quella del neofascista di Ordine nuovo Giovanni Ventura, dimenticata in un armadio del tribunale di Milano nel corso dell’ultima inchiesta sulla strage alla Banca dell’Agricoltura, aperta recentemente nel massimo riserbo. «Il giorno dell’attentato mi trovavo a Milano. Poco dopo telefonai ai miei genitori a Roma - racconta ad Avvenire Anna Maria Fusco Di Ravello -. Rispose mio padre, non dimenticherò mai la sua voce sconvolta:’non ho fatto in tempo a fermarli’. Quello è rimasto il cruccio della sua vita». L’avvocato Matteo Fusco Di Ravello era in realtà un importante agente del Sid, il servizio segreto dalle mille trame.
Secondo la figlia aveva ricevuto l’ordine di fermare la fazione eversiva degli 007. Una ricostruzione che trova conferma nelle parole del senatore a vita Paolo Emilio Taviani, morto nel 2001: «La sera del 12 dicembre 1969, il dottor Fusco defunto negli anni ’80, stava per partire da Fiumicino (in realtà da Ciampino, ndr) per Milano, era un agente di tutto rispetto del Sid. Doveva partire per Milano - disse Taviani - recando l’ordine di impedire attentati terroristici. A Fiumicino seppe dalla radio che una bomba era tragicamente scoppiata e rientrò a Roma». Dunque ai vertici dei Servizi c’era chi sapeva.
Ma Fusco chi avrebbe dovuto bloccare? «Ciò che posso dire - risponde la figlia - è che mio padre certamente si riferiva ad agenti dei servizi deviati, i quali in quegli anni agivano, secondo quanto ho appreso da mio padre, insieme a neofascisti e, in alcuni frangenti, con esponenti della mafia». Già nel 2001 i ricordi di Anna Fusco furono affidati a due pagine di verbale redatte da due militari del Ros dei carabinieri.
Oggi quelle dichiarazioni potrebbero diradare un po’ di nebbia. L’avvocato Fusco era un uomo di destra, «ma più volte non temette di andare al di là delle sue opinioni politiche per fermare la mattanza».
Qualcosa da dire l’avrebbe anche un sinistro protagonista di quell’epoca. È Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come Carlos lo Sciacallo, il terrorista venezuelano che sta scontando in Francia l’ergastolo per attentati, omicidi e una serie di spettacolari azioni antisraeliane compiute in tutto il mondo. «Carlos - conferma ad Avvenire la moglie-avvocato Isabelle Coutant-Peyreè - è sempre disponibile a testimoniare davanti a una commissione parlamentare italiana, assistito dai suoi legali, ma non ci sono mai state risposte da parte delle autorità francesi. Vorrebbe parlare, ma non in Francia».
I depistaggi dello Sciacallo sono leggendari quanto i suoi silenzi. La sua attività eversiva è successiva di qualche anno all’esplosione di Piazza Fontana, ma i contatti intrattenuti da Ilich Ramirez Sanchez sono sempre stati ad altissimo livello, ottenendo protezione da molti governi. Domandiamo se Carlos intenda riferire, oltre che sulla strage di Bologna, anche sugli attentati in Piazza Fontana e a Brescia in Piazza della Loggia. Risposta: «Certamente».
A questo punto la riapertura di un fascicolo d’inchiesta sulla bomba nella Banca dell’Agricoltura potrebbe voler dire che le 73 pagine con cui nel 2005 la Corte di Cassazione confermò l’assoluzione di Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, non furono l’ultimo atto dell’intricata vicenda giudiziaria: 11 processi in 36 anni. Nel 2005 la Cassazione consegnò alla storia il mistero della strage che il 12 dicembre 1969 fece 17 morti e 85 feriti.
Furono confermate le assoluzioni per i tre neofascisti di Ordine Nuovo, condannati in primo grado all’ergastolo e poi prosciolti in Appello a Milano il 12 marzo 2004. La Suprema Corte sposò la tesi della colpevolezza dei terroristi neri Franco Freda e Giovanni Ventura, comunque non più processabili perché assolti l’1 agosto 1985 dalla Corte d’Appello di Bari con sentenza poi diventata definitiva. Nell’ultimo verdetto la Cassazione li indicava quali «esecutori materiali». Mancano ancora i nomi di mandanti e organizzatori.
Nello Scavo
Quella sera in piazza Fontana
Così entrammo negli anni di piombo
Finirono la breve pace sociale e l’unione nata con la Resistenza
di Giorgio Bocca (la Repubblica, 11.12.2009)
Della sera del 12 dicembre 1969, la sera della bomba nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, ricordo la nebbia fitta, la caligine da Malebolge. Allora abitavo in via Bagutta, a quattro passi dalla piazza.
Ma il mio studio stava nell’interno e non avevo sentito il fragore dell’esplosione. Mi chiamò al telefono Italo Pietra, il direttore del Giorno: «Vai in piazza Fontana, è scoppiata una bomba in una banca. Vai a vedere poi vieni a scrivere al giornale».
C’erano già i cordoni della polizia attorno alla banca, impossibile entrare, ma bastava guardare alla luce dei fari la ressa di autoambulanze, di autopompe per capire che c’era stata una strage, udire le urla dei soccorritori che uscivano con i morti e i feriti sulle barelle.
A forza di giocare con il fuoco degli opposti estremismi eravamo entrati in una guerra vera, e già in quella sanguinosa confusione si poteva capire che nel gioco era entrato qualcuno di superiore alle nostre politiche inimicizie. Un potere feroce come una lama rovente squarciava il nostro grigio Stato democristiano, la nostra burocrazia furba e sorniona e li metteva di fronte al fatto compiuto aprendo la tetra stagione che sarà ricordata come "gli anni di piombo", gli anni del terrorismo.
Anche senza entrare nella banca devastata dalla bomba, non ci voleva molto a capire che quella sera qualcosa era cambiato nella nostra vita, Pietra mi aspettava nel suo ufficio. «Secondo te - mi chiese - chi le ha messe queste bombe?» A bruciapelo risposi: «I servizi segreti impegnati nella guerra fredda, non la polizia dei poveracci che vanno a farsi pestare in piazza dagli scioperanti». «Tu dici?», fece Pietra che conosceva l’arte dell’understatement, e aggiunse: «Mi ha telefonato il prefetto, secondo lui sono stati gli anarchici». Era cominciata l’umiliante operazione di copertura dei veri mandanti dell’eccidio, la serie delle indagini manovrate, dei depistaggi, dall’arresto di Valpreda, denunciato da un tassista, alla morte di Pinelli, precipitato da una finestra della questura.
Pietra era amico di Enrico Mattei, conosceva il gioco dei grandi poteri, i pesanti condizionamenti del potere imperiale, lui poteva intuire la parte che il nostro governo si era subito assunta per coprire i mandanti, le cortine fumogene, le omissioni, i silenzi che avrebbero reso vane le indagini e i processi. Io la lezione degli arcana imperii dovevo ancora capirla, e come molti fui colpito dalla strage come da una rivelazione: era finita la breve pace sociale della prima repubblica, finita l’unione patriottica degli anni della Resistenza. Eravamo una provincia dell’impero, subalterna alle grandi potenze. Veniva meno la fiducia ingenua ma reale nelle "autorità", l’ingenua certezza che un prefetto, un questore, un procuratore generale non potevano mentire ai cittadini, non potevano stare al gioco degli interessi esterni.
La strage di piazza Fontana fu davvero una tragica rivelazione, un annuncio che lasciava sbigottiti i trecentomila milanesi accorsi ai funerali delle vittime, e il cardinale arcivescovo di Milano Colombo, che chiedeva in Duomo ai rappresentanti del governo di assumersi le loro responsabilità. E fu l’inizio degli anni di piombo. Per alcuni la decisione sbagliata ma irrinunciabile della guerra civile, del ricorso alle armi. Per altri l’impegno a mantenere comunque la democrazia, lo stato di diritto anche a costo di stare in prima fila esposto ai fanatismi e alle feroci semplificazioni. Risale a quei giorni la presa di coscienza della grande crisi contemporanea, dell’impossibilità di ridurre la storia a scienza esatta, a matematica. Ci rendemmo conto che la storia è una corrente inarrestabile di cose, di idee, di eventi, qualcosa che ti sovrasta e ti trascina.
Cosa c’era nella tumultuosa corrente sociale dei primi anni Settanta? Di certo la coda della grande utopia comunista, l’ultimo picco delle occupazioni operaie delle fabbriche, l’ultima illusione sulla missione salvifica della classe operaia, classe generale capace di assumersi i doveri e i sacrifici necessari a una crescita sociale universale. Anche la fine dell’utopia socialista, delle richieste dell’impossibile: più salari e meno lavoro, più soldi e meno disciplina, più capitale e meno sfruttamento. E nessuno di noi testimoni saprebbe spiegare oggi perché quel terremoto sociale avvenne allora e non prima e non dopo, perché ogni giorno si tenevano assemblee studentesche e operaie.
Di certo c’è solo che quella febbre c’era, e cresceva irresistibile, si formavano movimenti di opinione e di azione, come Autonomia Operaia, movimenti studenteschi, e i primi gruppi di lotta armata, senza nessuna reale possibilità di successo ma irresistibili. L’unica spiegazione non spiegazione, l’unica irragionevole ragione di quella confusa temperie, me l’ha data il brigatista rosso Enrico Fenzi, quando lo incontrai nel carcere di Alessandria: «Perché abbiamo scelto la lotta armata? Perché io, perché noi eravamo quella scelta. C’è qualcuno che sa spiegare quello che si è e perché lo si è? Eravamo lotta armata perché per noi non era una forma della politica, ma la politica».
Qualcosa di simile mi ha poi detto un altro brigatista, Bonisoli: «Siamo entrati nel grande mutamento con una cultura vecchia, la vecchia cultura rivoluzionaria, e a chi ci rimproverava per l’uccisione di un riformista dicevamo: ma non ci avete sempre detto che i nemici della rivoluzione, i traditori della classe operaia, vanno eliminati».
Ma c’era un’utopia anche nella repressione imperialista, che produceva le stragi come quella di piazza Fontana: c’era l’utopia che fosse possibile, con la forza e con la violenza, rovesciare il corso della storia, o anche, più modestamente, «spostare a destra il governo della repubblica italiana». Anche nell’estrema destra non ci si rendeva conto che a chiudere la stagione rivoluzionaria era stato il mutamento del modo di produrre, le trasferte automatizzate, la perdita del controllo operaio della produzione, l’avvento dei computer e di un mercato unico che consentiva di spostare la produzione nei luoghi dove l’opposizione operaia era debole o inesistente.
La strage che cambiò la nostra storia
Sono passati 40 anni dall’attentato terroristico che fece 17 morti: l’esplosione ha segnato le vicende del Paese
Quattro giorni dopo in Tv Bruno Vespa annunciò che il colpevole era Pietro Valpreda
La verità ufficiale si sgretola nel 1972 con le indagini di alcuni magistrati coraggiosi
di Guido Crainz (la Repubblica, 11.12.2009)
Quarant’anni dopo, quel 12 dicembre del 1969 ci costringe ancora a fare i conti con una lacerazione, con uno stravolgimento. Conclude gli anni del miracolo economico e della speranza solare e dà avvio al clima tragico degli anni Settanta, segnati dalla "strategia della tensione" e poi dal terrorismo di sinistra. "Rivela" parti oscure dello Stato, innesca derive, incupisce le forme e le modalità della politica.
Esplode a Milano la bomba più devastante di quel giorno (altri ordigni scoppiano a Roma, senza effetti mortali). Alla Banca dell’Agricoltura muoiono diciassette persone. Un sacerdote di Cinisello, scampato per pochissimo all’esplosione, porta i primi aiuti e prega «per quei poveri brandelli di sangue». «Sono sotto choc - scrive Pasolini - è giunto fino a Patmos sentore / di ciò che annusano i cappellani / i morti erano tutti dai cinquanta ai settanta / la mia età fra pochi anni». Ed evoca poi una per una, in versi dolenti e prolungati, quelle vittime anziane e innocenti.
Già in sé spaventosa, la strage ingigantisce per lo scenario in cui si inserisce e per i comportamenti di uomini e settori dello Stato e di larghissima parte dei media. Erano stati un pallido annuncio gli attentati compiuti nella primavera e nell’estate dalla cellula neofascista di Freda e Ventura, per i quali erano stati incarcerati invece alcuni anarchici. Vengono poi gli intensi conflitti sindacali dell’autunno, inaspriti da una lunga compressione di diritti e dall’intransigenza padronale. Quegli scioperi vedono inedite forme di democrazia dal basso, portano a conquiste importanti e aprono la via allo Statuto dei lavoratori, un’affermazione di civiltà.
La tensione giunge al massimo nel tragico incidente milanese del 19 novembre in cui perde la vita l’agente di polizia Antonio Annarumma, figlio di braccianti: prima che i fatti siano accertati, il Presidente della Repubblica Saragat parla, poco responsabilmente, di "barbaro assassinio" e invita a «mettere in condizione di non nuocere i delinquenti il cui scopo è la distruzione della vita». La maturità e la forza sindacale però prevalgono e i contratti iniziano a essere firmati: la strage del 12 dicembre irrompe in questo quadro e lo sconvolge. Ci comunicò - ha scritto Adriano Sofri - «poche e terribili notizie: che si era disposti a distruggere la vita delle persone, anche delle persone inermi e innocenti».
Sono di rara intensità le immagini dei funerali delle vittime proposte da uno straordinario servizio di "Tv7". Suonano vere le parole commosse e ferme di cittadini consapevoli, e i volti stessi di quella piazza Duomo gremita dicono al paese che il terrore non ha vinto: «la morte di tanta povera gente... a chi giova?»; «non bisogna mettere insieme questa strage orrenda con il presunto disordine degli scioperi»; «una strage contro il mondo del lavoro...»; «di fronte a una cosa così mostruosa ci siamo ritrovati».
Sono le uniche parole di verità che gli italiani sentono in televisione. Al telegiornale del 16 dicembre Bruno Vespa annuncia che l’anarchico Pietro Valpreda è colpevole, responsabile della strage. Poche ore prima, dopo un fermo illegalmente protratto, era morto cadendo dal quarto piano della questura milanese un altro anarchico, il ferroviere Pino Pinelli, persona buona e giusta: il questore Guida dichiarava che il suicidio era un’ammissione di colpevolezza.
Menzogne, tutte, accompagnate da gravi depistaggi delle indagini che alimentano la campagna contro la sinistra («eravamo perduti e sperduti - ha ricordato un magistrato profondamente democratico, Marco Ramat - freddo di fuori e di dentro»). A rompere la compattezza di quel plumbeo clima esce poco dopo un libro dal titolo sconvolgente, La strage di stato, scritto da "un gruppo di militanti della sinistra extra-parlamentare": richiama l’attenzione sulla pista neofascista e sulle complicità che essa ha trovato. Quella ricostruzione ha presto molte conferme ma la "verità ufficiale" si sgretola solo a partire dal 1972, con le indagini sulla "pista nera" di giudici coraggiosi (Stiz, D’Ambrosio, Alessandrini: destinato quest’ultimo ad essere ignobilmente assassinato anni dopo dal terrorismo di sinistra).
Nei mesi successivi alla strage si era diffusa l’allarmata sensazione di un restringersi della democrazia, e la fondata denuncia di menzogne e depistaggi - che vede in prima fila giornalisti civilmente sensibili, a partire da Camilla Cederna - ha un impatto enorme. «Per la prima volta - ha scritto Giorgio Bocca - gli italiani avevano l’impressione di esser stati ingannati, traditi dal loro Stato».
L’impressione tende a diventare incubo con il procedere della "strategia della tensione", iniziata allora e volta a favorire una svolta autoritaria e di destra: è scandita da crescenti aggressioni squadristiche, da una gestione sempre più repressiva dell’ordine pubblico e da "trame nere" e attentati che hanno culmine nel 1974. Ancora Bocca ha colto però anche un effetto paradossale della preziosa battaglia di verità su Piazza Fontana. Aver avuto ragione, ha scritto, contribuì a togliere lucidità alla sinistra estrema, a «imprigionarla nei suoi sospetti e nelle sue ire», a ingigantirne la sfiducia nella democrazia reale del paese: consolidò cioè letture ideologiche e deformate della realtà, con effetti talora tragici. Senza quel 12 dicembre non capiremmo appieno neppure l’incubazione degli anni di piombo.
Altre questioni ancora pose però quel dramma nazionale. Nel giornalismo ad esempio, in reazione al dominante conformismo delle prime ore, si innescarono fermenti innovativi e fecondi, mossi dall’ansia di un’informazione reale e non subalterna. Non furono superficiali neppure le conseguenze negative di comportamenti illegittimi e gravi di uomini e apparati dello Stato: 36 anni dopo quel 12 dicembre la giustizia italiana ha decretato in via definitiva e abnorme che di quella strage nessuno è colpevole. La democrazia ha tenuto, anche di fronte a prove terribili, ma non ha fugato le ombre: ombre che hanno avvelenato un intero decennio. E la morte di Pino Pinelli addolora e ferisce ancora.
Piazza Fontana: ora niente segreti
Quasi mezzo secolo dopo si sa tutto ma non ancora abbastanza. Adesso è ora di cambiare strada
di Gigi Marcucci (l’Unità, 12.12.2013)
Sapere che il gruppo veneto che ruotava intorno a Franco Freda e Giovanni Ventura fu responsabile, almeno sul piano storico, dei ventidue attentati che squassarono l’Italia nel 1969, ivi compresa la strage del 12 dicembre alla Banca dell’Agricoltura di Milano, conferma le intuizioni di chi non credette alla pista anarchica prefabbricata dai servizi segreti; contribuisce o almeno così si spera ad attrezzare istituzioni e opinione pubblica per il futuro; ma lascia del tutto inevasa la richiesta di giustizia.
Oltre naturalmente a suggerire riflessioni poco ottimistiche sullo stato della democrazia nel nostro Paese. Una bomba, diciassette vittime, una novantina di feriti. Quasi mezzo secolo dopo, si sa tutto ma non si sa ancora abbastanza. Si conosce la matrice ideologica e organizzativa dei fuochi che cominciarono a divampare in quella primavera. Si sa che quattro anni prima, durante il convegno promosso dall’Istituto Pollio, strana associazione molto legata ai vertici militari dell’epoca, si cominciò a parlare di guerra psicologica. Un Ufficio governativo della Guerra Psicologica era stato caldeggiato da uomini delle Forze armate, ma la Dc, all’epoca avviata al primo esperimento di centrosinistra, aveva lasciato cadere la proposta. che lo ha spiegato il professor Aldo Giannuli, storico e consulente di molti magistrati che hanno indagato sulle stragi dei primi anni Settanta avrebbe alterato profondamente gli equilibri democratici, mettendo nelle mani dei militari parte della Presidenza del consiglio e di numerosi ministeri chiave.
Il principio proposto dall’Istituto Polio era di estrema semplicità. Von Clausevitz aveva spiegato che la guerra era la prosecuzione della politica con altri mezzi. I promotori dell’iniziativa sostenuta finanziariamente dall’Ufficio “R” del Sid, quello da cui, si sarebbe scoperto, dipendeva Gladio capovolsero la massima: era la politica a costituire un appendice, non necessariamente pacifica, della guerra. Secondo storici e magistrati, fu quel convegno a gettare le basi del conflitto “a bassa intensità”, oggi conosciuto come strategia della tensione, che cominciò a lasciare cicatrici profonde nella storia del nostro Paese.
Quattro stragi tra il ‘69 e l’80: piazza Fontana, Brescia, treno Italicus, Bologna. Azioni di una guerra mai dichiarata di cui oggi bisognerebbe sapere di più. Se non altro, perché una sanguinosa appendice di quella stagione ci fu all’inizio degli anni Novanta, con le stragi di mafia, e il significativo intermezzo, nel 1984, della strage del rapido 904, per cui è stato condannato con sentenza definitiva Pippo Calò, boss mafioso legato alla Banda della Magliana e all’estrema destra romana.
In nessun processo per strage è stato posto il segreto di Stato. Lo stop del potere politico è scattato in procedimenti contigui, bloccando verità, in alcuni casi (pochi) rivelate in minima parte, molti anni dopo, dagli stessi imputati di allora. Se non fossero scattati quei semafori rossi, oggi forse avremmo le idee più chiare. Sapremmo con maggiore precisione quali strategie, ed elaborate da chi, armarono la mano degli attentatori. Oppure avremmo la certezza ma le carte processuali vanno purtroppo in un tutt’altra direzione che questi si mossero autonomamente, che non ci furono cospirazioni ma solo follia omicida.
Quello del segreto di stato è un coperchio bucherellato. Difficilmente blocca del tutto la visuale su ciò che bolle in pentola, ma non permette di capire se si tratta di minestra o veleno. A metà degli anni Settanta fu Andreotti a opporre il segreto di Stato per il cosiddetto golpe bianco, su cui indagava l’allora giudice istruttore Luciano Violante. Nel 1985, il presidente del Consiglio Bettino Craxi scomodò il segreto per Augusto Cauchi, terrorista nero fatto espatriare nel 1974 dal SID, finanziato da ambienti molto vicini a Licio Gelli e sospettato per gli attentati ai treni.
Ancora Craxi bloccò le indagini sul comportamento del Sismi che, dopo aver recuperato in Uruguay l’archivio di Gelli, decise di restituire alle autorità sudamericane alcuni i fascicoli. Quando, molti anni dopo, Gelli fu condannato con sentenza definitiva per aver depistato, insieme a ufficiali del Servizio segreto militare, le indagini sulla strage alla stazione di Bologna, molti pensarono che bisognava smettere di proteggere certi segreti.
Ma la linea dei governi, quali che fossero i loro colori, non cambiò molto. Persino sulle rivelazioni di Carmine Schiavone, boss della camorra, è calato nel ‘97 il sudario del segreto di stato (governo Prodi). Così, per molti anni, si è fatto finta di ignorare ciò che tutti sapevano e che alcuni giornalisti avevano già raccontato: che nel suolo della Campania erano interrate tonnellate di rifiuti tossici, che molte persone potevano morire di cancro. La lezione di piazza Fontana, 44 anni dopo, potrebbe in fondo essere molto semplice: è ora di cambiare strada.
Piazza Fontana. Solo la memoria
È l’unica cosa che ci rimane a 43 anni dalla strage, uno dei buchi neri del Paese
di Oreste Pivetta (l’Unità, 12.12.2012)
MILANO SONO PASSATI QUARANTATRÉ ANNI DAL POMERIGGIO DELLA BOMBA NELLA BANCA DELL’AGRICOLTURA, IL 12 DICEMBRE 1969. L’esplosione avvenne alle 16,37. Una giornata scura di un cielo nero. Quarantatré anni sono un tempo lunghissimo e incomparabilmente più lungo di qualsiasi ciclo storico abbia caratterizzato il nostro novecento. Dalla fine della prima guerra mondiale, una catastrofe, all’inizio della seconda trascorse appena un ventennio di pace (non tenendo conto del preludio, circoscritto, spagnolo e delle varie imprese coloniali). Un ventennio durò Mussolini. Da un ventennio vediamo agitarsi attorno ai tavoli della nostra politica Silvio Berlusconi e pare una eternità, al punto da poter «imbalsamare» il suo protagonista al modo di una mummia.
Eppure quei quarantatré anni dalla strage di Piazza Fontana sembrano pochi, certo per la forza simbolica di quella tragedia, per quei morti innocenti, per l’inquietante compromissione delle pubbliche istituzioni, compromissione che grava ancora come un’ombra esprimendo qualcosa di irrisolto nella definizione della nostra democrazia (e un tratto mai interrotto con il nostro passato fascista), per l’improvviso riapparire di fantasmi del passato.
La memoria non è mai morta, forse perché la strage di piazza Fontana con il suo dolore, con il sangue, con gli intrighi, rappresenta la svolta in una storia iniziata almeno un decennio prima, la seconda stagione della ricostruzione, che non si interruppe ma che si gravò di infinite contraddizioni, che avrebbero condotto al disastro degli anni ottanta e dei successivi.
LA FINE DELLE ILLUSIONI
La bomba distrusse molte certezze comuni: nella saldezza della nostra democrazia, nella prospettiva di sviluppo, in una società segnata dalla giustizia, dalla solidarietà e da un benessere conquistato con il lavoro (quando ancora la «fabbrica» era centrale). Dopo le certezze, rimasero le speranze o le illusioni, che l’assassinio di Aldo Moro e il crollo dell’esperienza della solidarietà nazionale spazzarono via, aprendo la strada a Craxi e poi a Berlusconi, all’appropriazione dello Stato da parte di alcuni «potentati» e di alcune «famiglie», al trionfo del consumismo espresso da una ideologia individualista, anche all’esplosione del debito pubblico, molto prima di tangentopoli, degli scandali politici, del malaffare, della crisi dei partiti, del tramonto delle «due Chiese», la Dc e il Pci.
Dai primi anni sessanta, la nascita del centrosinistra, al 1978, la morte di Moro, piazza Fontana è una sorta di spartiacque tra la politica e il progressivo abbandono della politica. Non dimentichiamo che il 1969 fu l’anno dell’ «autunno caldo», di ripresa economica, ma anche di rivendicazioni collettive di dignità e di equità, non solo contro i ritmi massacranti della catena di montaggio ma anche per conquistare un’eguaglianza contro discriminazioni umilianti (nello stesso luogo, ad esempio, tra impiegati e operai).
Fra pochi giorni sarà un anno della scomparsa di Giorgio Bocca, narratore di quelle vicende, che in un articolo per il Giorno («La rabbia non ha salario»), scrisse a proposito di quell’operaio che aveva incontrato nei cortei e nelle assemblee: «C’è evidentemente qualcosa che nessun aumento salariale può dargli e che la lotta invece gli ha fatto gustare: un potere, piccolo ed effimero, ma un potere; la eguaglianza delle ore calde, il trattare da pari a pari con i capi, il vedere impaurita l’organizzazione». Una questione di libertà e di democrazia, si potrebbe riassumere. La bomba scoppia per intimidire, per spezzare, per rimettere ai loro posti quei «rivoltosi». Ci riuscirà? Non ci riuscirà? Qualcosa resta. Resta soprattutto se l’attentato diventa una teoria di attentati: i treni, Bologna, poi il terrorismo delle Brigate rosse.
L’ALTRA VITTIMA: GIUSEPPE PINELLI
Nella Banca Nazionale dell’Agricoltura morirono diciassette persone (quattordici subito, una novantina furono i feriti). Un altro morto di piazza Fontana fu Giuseppe Pinelli, il ferroviere anarchico. Morì, il 15 dicembre, precipitando da una finestra della questura di Milano, in una stanza dalla quale da pochi minuti si era allontanato il commissario Calabresi che lo aveva interrogato per giorni e giorni. Non c’era indizio contro Pinelli. Unico indizio la sua «anarchia».
Di quella notte ci ha lasciato pagine indimenticabili Camilla Cederna. Un suicidio, una confessione, fecero sapere dalla questura. La pista anarchica, che avrebbe condotto all’arresto e alla incriminazione di Pietro Valpreda, era già stata individuata. Vengono i brividi rileggendo le righe con le quali il prefetto di Milano svelava i presunti colpevoli (secondo lui) in un telegramma al ministero degli Interni: «gruppi anarchici aut comunque frange estremiste». Vengono i brividi a rivedere Bruno Vespa che al telegiornale annuncia la cattura del «mostro». Pietro Valpreda, appunto.
La menzogna ufficiale su piazza Fontana veniva a confermare in un’opinione pubblica moderata il rapporto tra conflitti sociali, eversione e sinistra, seconda una teoria «ufficiale», alimentata da alcuni organi di stampa (non tutti in verità e non ad opera di tutti i giornalisti, molti dei quali anzi sentirono il bisogno di affermare anche con clamorose iniziative pubbliche il valore dell’indipendenza professionale).
I processi (Il processo infame come si intitola una esemplare ricostruzione del nostro Ibio Paolucci, in un volumetto pubblicato da Feltrinelli e ormai introvabile) furono una passerella non solo di terroristi quanto di generali, ministri, ufficiali dei carabinieri, spie ed infiltrati. Il cittadino qualunque, telespettatore o lettore, avvertì l’avvilente sensazione di venire tradito giorno dopo giorno dal proprio Stato. Ad una verità si giunse: la strage fu fascista (e dei fascisti che gravitavano attorno alla cellula veneta di Ordine nuovo, con Franco Freda e Giovanni Ventura).
Della strage insomma si sa molto: le tessere che mancano sono alcune tra quelle che riguardano le responsabilità degli apparati. Ma il quadro, e cioè i colori e il significato, è perfettamente tratteggiato e raffigura il tentativo, che si ripeterà, di oltraggiare la democrazia, di respingere il protagonismo di alcuni ceti sociali, di ridimensionare le conquiste, di oscurare le riforme e di reprimere quella cultura, quanto cioè anni tumultuosi e ricchi, tra i primi Sessanta e il nostro breve Sessantotto, avevano costruito.
Poi non si spense tutto, ma il cammino non si completò e non si consolidò. In quel ventennio il paese fu in grado di darsi tante riforme (dallo Statuto dei lavoratori al divorzio, dal diritto di famiglia alle legge 180 alla legge per l’aborto). Lo Stato non fu in grado di riformare se stesso: piazza Fontana fu la dimostrazione di un fallimento o di una cattiva volontà, che si sarebbero manifestati nel pieno dei loro effetti qualche anno dopo. Senza più il bisogno delle bombe.
Commemorazione della strage nel giorno del 40esimo anniversario Contestati il sindaco Moratti, il presidente della Provincia Podestà e Formigoni
Piazza Fontana, a Milano due cortei
Napolitano: "Continuare a cercare verità"
MILANO - Continuare a cercare la verità. E’ l’invito che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha rivolto ai familiari delle vittime di Piazza Fontana in occasione del 40esimo anniversario della strage. E durante i due cortei a Milano non sono mancate le tensioni. Contestati con fischi e urla il sindaco di Milano Letizia Moratti, il presidente della Provincia Guido Podestà e il presidente della Regione Roberto Formigoni. I manifestanti dei centri sociali hanno cercato di sfondare i cordoni di polizia per entrare in piazza Fontana; lanci di petardi e fumogeni, abbattute alcune transenne.
Il monito di Napolitano. Una ricerca della verità costante, che possa condurre a dei risultati. Questo il senso dell’intervento del capo dello Stato, un minito a "continuare a cercare perché si possa recuperare qualsiasi frammento di verità rimasto nascosto. Spero che questa vostra ricerca, a cui debbono collaborare tutte le istituzioni, possa condurre a dei risultati. E’ essenziale che quello che avete vissuto, quello che è accaduto nel nostro Paese - ha detto Napolitano - diventi parte di una consapevolezza storica, soprattutto per le nuove generazioni".
Fischiata la Moratti. In occasione del quarantennale della strage, a Milano sono stati organizzati due cortei. Il primo è stato aperto da una delegazione dei familiari delle vittime e dai gonfaloni di numerose città, primo tra tutti quello di Milano dietro il quale ha sfilato anche il sindaco Moratti, che durante l’intervento è stata oggetto di una pesante contestazione: dal pubblico sono arrivati fischi e parecchi "Vergogna!". Il sindaco ha risposto dicendo che "bisogna passare dalle contestazioni alla condivisione, questo può essere utile per cercare la verità. Capisco chi protesta - ha aggiunto - perché non è stata mai accertata la verità dei fatti ed è stata una tragedia che ha ferito la città e il Paese. Capisco le vittime delle stragi del terrorismo ma i fischi - ha concluso il sindaco - non aiutano a trovare la verità".
Ricordato anche Pinelli. A cercare di riportare la calma, Paolo Silva, uno dei familiari delle vittime che ha chiesto "silenzio" e "rispetto". Mentre il vicepresidente dell’associazione, Carlo Arnoldi, accanto ai nomi delle 17 vittime della strage di piazza Fontana, ha ricordato anche quella di Giuseppe Pinelli: "Il 9 maggio scorso - ha detto Arnoldi - il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha fatto un gesto importante, a differenza di quelli che lo avevano preceduto: ha dato dignità a Pinelli, innocente, come 18ma vittima di Piazza Fontana, restituendo l’onore che gli era stato negato. E’ stato un gesto, questo, che ci ha fatto onore".
Il corteo delle sinistre. Il secondo corteo è stato organizzato da Prc, Comunisti italiani e altre organizzazioni della sinistra e anarchiche. A distanza ravvicinata la conclusione delle due manifestazioni: quella ufficiale - la prima - in piazza Fontana, mentre quello delle sinistre in piazza Santo Stefano, nei pressi dell’Università Statale e a poche decine di metri dal luogo della strage del 1969. Impedito il tentativo del corteo delle sinistre di sfondare i cordoni di polizia per arrivare in piazza Fontana: "La chiusura di piazza Fontana per impedire al corteo indetto dai movimenti e dalle forze di sinistra di entrare nella piazza e’ stato un atto vergognoso e immotivato", ha commentato Vittorio Agnoletto, della Federazione della Sinistra.
* la Repubblica, 12 dicembre 2009