12 dicembre 1969, Milano. La strage che cambiò la nostra storia. Quella sera in piazza Fontana finirono la breve pace sociale e l’unione nata con la Resistenza ...

PIAZZA FONTANA: UNA "VORAGINE" DI STATO, ANCORA APERTA, QUARANT’ANNI DOPO. Articoli di Eros Monti, Nello Scavo, Giorgio Bocca, Guido Crainz - a cura di Federico La Sala

A quarant’anni di distanza, la sfida dev’essere di nuovo raccolta. E’ questa la ragione per cui facciamo memoria di una delle stragi più drammatiche - e tuttora impunite della storia del nostro Paese. Non soltanto per volgere lo sguardo al passato, ma per guardare con occhi rinnovati attorno a noi, per scorgere nel nostro tempo quei segni che annunciano risposte vere alle “strategie della tensione” di ieri e di oggi.
sabato 12 dicembre 2009.
 

[...] Anche senza entrare nella banca devastata dalla bomba, non ci voleva molto a capire che quella sera qualcosa era cambiato nella nostra vita, Pietra mi aspettava nel suo ufficio. «Secondo te - mi chiese - chi le ha messe queste bombe?» A bruciapelo risposi: «I servizi segreti impegnati nella guerra fredda, non la polizia dei poveracci che vanno a farsi pestare in piazza dagli scioperanti». «Tu dici?», fece Pietra che conosceva l’arte dell’understatement, e aggiunse: «Mi ha telefonato il prefetto, secondo lui sono stati gli anarchici». Era cominciata l’umiliante operazione di copertura dei veri mandanti dell’eccidio, la serie delle indagini manovrate, dei depistaggi, dall’arresto di Valpreda, denunciato da un tassista, alla morte di Pinelli, precipitato da una finestra della questura.

Pietra era amico di Enrico Mattei, conosceva il gioco dei grandi poteri, i pesanti condizionamenti del potere imperiale, lui poteva intuire la parte che il nostro governo si era subito assunta per coprire i mandanti, le cortine fumogene, le omissioni, i silenzi che avrebbero reso vane le indagini e i processi. Io la lezione degli arcana imperii dovevo ancora capirla, e come molti fui colpito dalla strage come da una rivelazione: era finita la breve pace sociale della prima repubblica, finita l’unione patriottica degli anni della Resistenza. Eravamo una provincia dell’impero, subalterna alle grandi potenze. Veniva meno la fiducia ingenua ma reale nelle "autorità", l’ingenua certezza che un prefetto, un questore, un procuratore generale non potevano mentire ai cittadini, non potevano stare al gioco degli interessi esterni.


Piazza Fontana quarant’anni dopo

-  di Eros Monti,
-  vicario episcopale per la Vita Sociale della Diocesi di Milano
-  (www.chiesadimilano.it, 11 dicembre 2009)

In Piazza Fontana si condensa la memoria di un passato che di continuo richiede di essere riletto, compreso, interpretato. In una parola, riascoltato. Interrompendo magari le frenetiche giornate milanesi con una visita e uno spazio di silenzio - quello che il traffico incessante concede - soffermandosi davanti a lapide e corone, scorrendo la lista in doppia fila di nomi incisi nel marmo, ripercorrendo tratti incancellabili di questi quattro decenni di vita milanese.

In effetti, Piazza Fontana rimane sede di una memoria difficile da cancellare, come tutte le pagine dolenti del passato di una intera città. Ha rappresentato una lacerazione, una ferita profonda per tutti. Tempo fa, ho avuto l’occasione di ascoltare il racconto di quelle ore terribili dalla viva voce di un testimone, una persona giunta sul posto poco dopo la drammatica esplosione. Mi ha ricondotto ad uno scenario dominato da sangue, urla, pianti che si sovrapponevano alle sirene dei mezzi di soccorso. E poi, diradatosi il fumo, quella grande buca, quel cratere lasciato dalla bomba.

Una ferita aperta, un vuoto profondo creato dalla logica della violenza e del terrore, che ha ingoiato vite umane, ha colpito intere famiglie, ha percosso l’intera città, ha scavato un solco nel suo tessuto sociale. Quel solco tante volte approfondito dalla cosiddetta “strategia della tensione” che proprio da Piazza Fontana ha tratto le sue origini, inaugurando i cosiddetti “anni di piombo”, che più volte, troppe volte, hanno insanguinato le strade e le piazze di questa nostra città.

Milano, però, non è rimasta inerte. Ha raccolto la sfida, si è ripresa, ha saputo reagire alla logica del terrorismo, della violenza sfrenata di pochi che pretendeva di imporsi a tutti nell’arco di tempo del bagliore di un’esplosione o di una scarica di proiettili. Milano ha risposto, ha reagito; ha saputo riprendersi. Nel tempo, nei fatti. Con la solida determinazione di una cittadinanza che in tutte le sue componenti non si è mai inginocchiata né arresa, riproponendo di continuo il suo volto di laboriosità, di coesione sociale, per quanto ferita e minacciata. Manifestando anche apertamente il proprio comune sentire: indimenticabile rimane la partecipazione alle esequie di Walter Tobagi. La città ha risposto con la compostezza di un tessuto sociale che in molti modi, per lo più non appariscenti, a partire dalla quotidianità del suo vissuto, delle sue relazioni, del suo mondo associativo, dell’agire responsabile di molti, ha ripetuto e confermato il suo “no” alla logica distruttiva del terrorismo.

A quarant’anni di distanza, la sfida dev’essere di nuovo raccolta. E’ questa la ragione per cui facciamo memoria di una delle stragi più drammatiche - e tuttora impunite della storia del nostro Paese. Non soltanto per volgere lo sguardo al passato, ma per guardare con occhi rinnovati attorno a noi, per scorgere nel nostro tempo quei segni che annunciano risposte vere alle “strategie della tensione” di ieri e di oggi. Quei segni che dicono di legami, personali e sociali, solidi perché capaci di esprimere solidarietà, apertura, accoglienza. Verso tutti. Quei segni che indicano vera volontà di dialogo, di gratuità, disinteresse. Nonostante la creazione di sempre nuove barricate prosegua di gran carriera e individualismo e ricerca del proprio tornaconto personale non cessino di stringere tra loro alleanze inedite. Quei segni, soprattutto, che ci parlano di futuro, ci aiutano a spingere lo sguardo oltre. Oltre l’immediato, l’effimero, il provvisorio. Che ci indirizzano nella direzione di una rinnovata progettualità. Come ci ha recentemente richiamato l’Arcivescovo, in occasione dell’ultimo Discorso alla Città, “si esige un cambiamento radicale, lungimirante e teso al bene comune globale. Si esige una progettazione di ampio respiro, capace di andare oltre le risposte immediate ed effimere, capace di dare un volto nuovo alla nostra Città. Una progettazione che riguardi tutti i grandi capitoli della vita sociale”.

Perché se la carica distruttrice del terrorismo di quarant’anni fa può dirsi sconfitta, occorre vigilare su altre forme, certo più sottili, ma non meno pervicaci, di violenza. Da quella verbale, intimidatoria, al dilagare dell’indifferenza che opprime ed esclude, del giudizio privo di qualsiasi senso della misura, dell’utilizzo strumentale del pensiero e dell’agire altrui per far sì che si prendano distanze nette gli uni dagli altri, non si tenda invece alla reciproca comprensione, alla collaborazione, all’edificazione di una città a misura di uomo - di ogni persona umana - e della sua dignità irrinunciabile.

Occorre allora guardare avanti; in profondità. E con determinazione, come ancora ci suggerisce l’Arcivescovo, indicandoci la traccia di un fecondo, comune cammino: “In questa prospettiva va promossa con decisione una “nuova solidarietà” che assuma la forma di una vera e propria “alleanza” intesa come incontro, dialogo, scambio d’informazioni, condivisione di interventi, collaborazione corresponsabile tra le istituzioni pubbliche e le forze vive della società civile, ovviamente nel rispetto delle diverse competenze e nel segno di una reciproca fiducia: si pensi, in particolare, all’urgenza di una simile alleanza nei fondamentali ambiti della scuola, del lavoro, della salute, della lotta alle varie forme di povertà e di emarginazione sociale”.

È ciò di cui abbiamo bisogno: educarci - tutti, ciascuno secondo la propria competenza, capacità - a guardare al futuro, a quanto ci è possibile costruire in questa direzione, fin dal prossimo passo.

Tutti; e insieme. Senza indugiare nell’aspettativa di soluzioni facili o di prospettive semplificatrici, o nell’attesa che per prima cosa altri comincino ad assumersi le rispettive responsabilità. La risposta al terrorismo e alla violenza di ieri e di oggi esige coralità, costanza, partecipazione.

Sapremo raccogliere la sfida? Siamo consapevoli che la risposta non può che giungere da un agire pienamente rinnovato. Che affidiamo, con le parole del Cardinale, all’unico Signore della storia: “È dunque a Cristo che dobbiamo guardare, come singole persone, come città di Milano, a lui che è il “buon samaritano” e che vuole continuare a essere presente e operante nella storia dell’umanità ferita e bisognosa di “cura” tramite la nostra mediazione”.



-  12 Dicembre 2009

-  PIAZZA FONTANA 40 ANNI DOPO

-  «Mio padre doveva fermare quella bomba»

-  La figlia di un ex agente Sid: aveva l’ordine di
-  bloccare gli ordigni ma non arrivò in tempo

-  Matteo Fusco Di Ravello era un importante 007: «Lui
-  doveva bloccare i servizi segreti deviati che in quegli -anni agivano con estremisti di destra e anche
-  con esponenti della mafia»

-  DA MILANO, NELLO SCAVO (Avvenire, 12,12,2009)

C’è la figlia di un ex agente segreto che dice: «Mio padre voleva fer­mare la strage, ma non fece in tem­po». C’è Carlos, il superterrorista internazio­nale imprigionato a Parigi, che chiede di es­sere ascoltato su Piazza Fontana e gli Anni di Piombo. E c’è un’agenda misteriosa, quella del neofascista di Ordine nuovo Giovanni Ventura, dimenticata in un armadio del tri­bunale di Milano nel corso dell’ultima in­chiesta sulla strage alla Banca dell’Agricoltu­ra, aperta recentemente nel massimo riserbo. «Il giorno dell’attentato mi trovavo a Milano. Poco dopo telefonai ai miei genitori a Roma - racconta ad Avvenire Anna Maria Fusco Di Ravello -. Rispose mio padre, non dimenti­cherò mai la sua voce sconvolta:’non ho fat­to in tempo a fermarli’. Quello è rimasto il cruccio della sua vita». L’avvocato Matteo Fusco Di Ravello era in realtà un importante a­gente del Sid, il servizio segreto dalle mille trame.

Secondo la figlia aveva ricevuto l’or­dine di fermare la fazione eversiva degli 007. Una ricostruzione che trova conferma nelle parole del senatore a vita Paolo Emilio Tavia­ni, morto nel 2001: «La sera del 12 dicembre 1969, il dottor Fusco defunto negli anni ’80, stava per partire da Fiumicino (in realtà da Ciampino, ndr) per Milano, era un agente di tutto rispetto del Sid. Doveva partire per Milano - disse Taviani - recando l’ordine di im­pedire attentati terroristici. A Fiumicino sep­pe dalla radio che una bomba era tragica­mente scoppiata e rientrò a Roma». Dunque ai vertici dei Servizi c’era chi sapeva.

Ma Fu­sco chi avrebbe dovuto bloccare? «Ciò che posso dire - risponde la figlia - è che mio pa­dre certamente si riferiva ad agenti dei servi­zi deviati, i quali in quegli anni agivano, se­condo quanto ho appreso da mio padre, in­sieme a neofascisti e, in alcuni frangenti, con esponenti della mafia». Già nel 2001 i ricordi di Anna Fusco furono affidati a due pagine di verbale redatte da due militari del Ros dei ca­rabinieri.

Oggi quelle dichiarazioni potreb­bero diradare un po’ di nebbia. L’avvocato Fusco era un uomo di destra, «ma più volte non temette di andare al di là delle sue opi­nioni politiche per fermare la mattanza».

Qualcosa da dire l’avrebbe anche un sinistro protagonista di quell’epoca. È Ilich Ramirez Sanchez, meglio noto come Carlos lo Scia­callo, il terrorista venezuelano che sta scon­tando in Francia l’ergastolo per attentati, o­micidi e una serie di spettacolari azioni anti­sraeliane compiute in tutto il mondo. «Car­los - conferma ad Avvenire la moglie-avvocato Isabelle Coutant-Peyreè - è sempre disponi­bile a testimoniare davanti a una commis­sione parlamentare italiana, assistito dai suoi legali, ma non ci sono mai state risposte da parte delle autorità francesi. Vorrebbe parla­re, ma non in Francia».

I depistaggi dello Scia­callo sono leggendari quanto i suoi silenzi. La sua attività eversiva è successiva di qualche anno all’esplosione di Piazza Fontana, ma i contatti intrattenuti da Ilich Ramirez Sanchez sono sempre stati ad altissimo livello, otte­nendo protezione da molti governi. Doman­diamo se Carlos intenda riferire, oltre che sul­la strage di Bologna, anche sugli attentati in Piazza Fontana e a Brescia in Piazza della Log­gia. Risposta: «Certamente».

A questo punto la riapertura di un fascicolo d’inchiesta sulla bomba nella Banca dell’A­gricoltura potrebbe voler dire che le 73 pagi­ne con cui nel 2005 la Corte di Cassazione confermò l’assoluzione di Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi e Giancarlo Rognoni, non furo­no l’ultimo atto dell’intricata vicenda giudi­ziaria: 11 processi in 36 anni. Nel 2005 la Cas­sazione consegnò alla storia il mistero della strage che il 12 dicembre 1969 fece 17 morti e 85 feriti.

Furono confermate le assoluzioni per i tre neofascisti di Ordine Nuovo, con­dannati in primo grado all’ergastolo e poi pro­sciolti in Appello a Milano il 12 marzo 2004. La Suprema Corte sposò la tesi della colpe­volezza dei terroristi neri Franco Freda e Gio­vanni Ventura, comunque non più proces­sabili perché assolti l’1 agosto 1985 dalla Cor­te d’Appello di Bari con sentenza poi diven­tata definitiva. Nell’ultimo verdetto la Cassa­zione li indicava quali «esecutori materiali». Mancano ancora i nomi di mandanti e orga­nizzatori.

Nello Scavo



Quella sera in piazza Fontana

Così entrammo negli anni di piombo

Finirono la breve pace sociale e l’unione nata con la Resistenza

di Giorgio Bocca (la Repubblica, 11.12.2009)

Della sera del 12 dicembre 1969, la sera della bomba nella Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana a Milano, ricordo la nebbia fitta, la caligine da Malebolge. Allora abitavo in via Bagutta, a quattro passi dalla piazza.

Ma il mio studio stava nell’interno e non avevo sentito il fragore dell’esplosione. Mi chiamò al telefono Italo Pietra, il direttore del Giorno: «Vai in piazza Fontana, è scoppiata una bomba in una banca. Vai a vedere poi vieni a scrivere al giornale».

C’erano già i cordoni della polizia attorno alla banca, impossibile entrare, ma bastava guardare alla luce dei fari la ressa di autoambulanze, di autopompe per capire che c’era stata una strage, udire le urla dei soccorritori che uscivano con i morti e i feriti sulle barelle.

A forza di giocare con il fuoco degli opposti estremismi eravamo entrati in una guerra vera, e già in quella sanguinosa confusione si poteva capire che nel gioco era entrato qualcuno di superiore alle nostre politiche inimicizie. Un potere feroce come una lama rovente squarciava il nostro grigio Stato democristiano, la nostra burocrazia furba e sorniona e li metteva di fronte al fatto compiuto aprendo la tetra stagione che sarà ricordata come "gli anni di piombo", gli anni del terrorismo.

Anche senza entrare nella banca devastata dalla bomba, non ci voleva molto a capire che quella sera qualcosa era cambiato nella nostra vita, Pietra mi aspettava nel suo ufficio. «Secondo te - mi chiese - chi le ha messe queste bombe?» A bruciapelo risposi: «I servizi segreti impegnati nella guerra fredda, non la polizia dei poveracci che vanno a farsi pestare in piazza dagli scioperanti». «Tu dici?», fece Pietra che conosceva l’arte dell’understatement, e aggiunse: «Mi ha telefonato il prefetto, secondo lui sono stati gli anarchici». Era cominciata l’umiliante operazione di copertura dei veri mandanti dell’eccidio, la serie delle indagini manovrate, dei depistaggi, dall’arresto di Valpreda, denunciato da un tassista, alla morte di Pinelli, precipitato da una finestra della questura.

Pietra era amico di Enrico Mattei, conosceva il gioco dei grandi poteri, i pesanti condizionamenti del potere imperiale, lui poteva intuire la parte che il nostro governo si era subito assunta per coprire i mandanti, le cortine fumogene, le omissioni, i silenzi che avrebbero reso vane le indagini e i processi. Io la lezione degli arcana imperii dovevo ancora capirla, e come molti fui colpito dalla strage come da una rivelazione: era finita la breve pace sociale della prima repubblica, finita l’unione patriottica degli anni della Resistenza. Eravamo una provincia dell’impero, subalterna alle grandi potenze. Veniva meno la fiducia ingenua ma reale nelle "autorità", l’ingenua certezza che un prefetto, un questore, un procuratore generale non potevano mentire ai cittadini, non potevano stare al gioco degli interessi esterni.

La strage di piazza Fontana fu davvero una tragica rivelazione, un annuncio che lasciava sbigottiti i trecentomila milanesi accorsi ai funerali delle vittime, e il cardinale arcivescovo di Milano Colombo, che chiedeva in Duomo ai rappresentanti del governo di assumersi le loro responsabilità. E fu l’inizio degli anni di piombo. Per alcuni la decisione sbagliata ma irrinunciabile della guerra civile, del ricorso alle armi. Per altri l’impegno a mantenere comunque la democrazia, lo stato di diritto anche a costo di stare in prima fila esposto ai fanatismi e alle feroci semplificazioni. Risale a quei giorni la presa di coscienza della grande crisi contemporanea, dell’impossibilità di ridurre la storia a scienza esatta, a matematica. Ci rendemmo conto che la storia è una corrente inarrestabile di cose, di idee, di eventi, qualcosa che ti sovrasta e ti trascina.

Cosa c’era nella tumultuosa corrente sociale dei primi anni Settanta? Di certo la coda della grande utopia comunista, l’ultimo picco delle occupazioni operaie delle fabbriche, l’ultima illusione sulla missione salvifica della classe operaia, classe generale capace di assumersi i doveri e i sacrifici necessari a una crescita sociale universale. Anche la fine dell’utopia socialista, delle richieste dell’impossibile: più salari e meno lavoro, più soldi e meno disciplina, più capitale e meno sfruttamento. E nessuno di noi testimoni saprebbe spiegare oggi perché quel terremoto sociale avvenne allora e non prima e non dopo, perché ogni giorno si tenevano assemblee studentesche e operaie.

Di certo c’è solo che quella febbre c’era, e cresceva irresistibile, si formavano movimenti di opinione e di azione, come Autonomia Operaia, movimenti studenteschi, e i primi gruppi di lotta armata, senza nessuna reale possibilità di successo ma irresistibili. L’unica spiegazione non spiegazione, l’unica irragionevole ragione di quella confusa temperie, me l’ha data il brigatista rosso Enrico Fenzi, quando lo incontrai nel carcere di Alessandria: «Perché abbiamo scelto la lotta armata? Perché io, perché noi eravamo quella scelta. C’è qualcuno che sa spiegare quello che si è e perché lo si è? Eravamo lotta armata perché per noi non era una forma della politica, ma la politica».

Qualcosa di simile mi ha poi detto un altro brigatista, Bonisoli: «Siamo entrati nel grande mutamento con una cultura vecchia, la vecchia cultura rivoluzionaria, e a chi ci rimproverava per l’uccisione di un riformista dicevamo: ma non ci avete sempre detto che i nemici della rivoluzione, i traditori della classe operaia, vanno eliminati».

Ma c’era un’utopia anche nella repressione imperialista, che produceva le stragi come quella di piazza Fontana: c’era l’utopia che fosse possibile, con la forza e con la violenza, rovesciare il corso della storia, o anche, più modestamente, «spostare a destra il governo della repubblica italiana». Anche nell’estrema destra non ci si rendeva conto che a chiudere la stagione rivoluzionaria era stato il mutamento del modo di produrre, le trasferte automatizzate, la perdita del controllo operaio della produzione, l’avvento dei computer e di un mercato unico che consentiva di spostare la produzione nei luoghi dove l’opposizione operaia era debole o inesistente.



La strage che cambiò la nostra storia

-  Sono passati 40 anni dall’attentato terroristico che fece 17 morti: l’esplosione ha segnato le vicende del Paese
-  Quattro giorni dopo in Tv Bruno Vespa annunciò che il colpevole era Pietro Valpreda
-  La verità ufficiale si sgretola nel 1972 con le indagini di alcuni magistrati coraggiosi

di Guido Crainz (la Repubblica, 11.12.2009)

Quarant’anni dopo, quel 12 dicembre del 1969 ci costringe ancora a fare i conti con una lacerazione, con uno stravolgimento. Conclude gli anni del miracolo economico e della speranza solare e dà avvio al clima tragico degli anni Settanta, segnati dalla "strategia della tensione" e poi dal terrorismo di sinistra. "Rivela" parti oscure dello Stato, innesca derive, incupisce le forme e le modalità della politica.

Esplode a Milano la bomba più devastante di quel giorno (altri ordigni scoppiano a Roma, senza effetti mortali). Alla Banca dell’Agricoltura muoiono diciassette persone. Un sacerdote di Cinisello, scampato per pochissimo all’esplosione, porta i primi aiuti e prega «per quei poveri brandelli di sangue». «Sono sotto choc - scrive Pasolini - è giunto fino a Patmos sentore / di ciò che annusano i cappellani / i morti erano tutti dai cinquanta ai settanta / la mia età fra pochi anni». Ed evoca poi una per una, in versi dolenti e prolungati, quelle vittime anziane e innocenti.

Già in sé spaventosa, la strage ingigantisce per lo scenario in cui si inserisce e per i comportamenti di uomini e settori dello Stato e di larghissima parte dei media. Erano stati un pallido annuncio gli attentati compiuti nella primavera e nell’estate dalla cellula neofascista di Freda e Ventura, per i quali erano stati incarcerati invece alcuni anarchici. Vengono poi gli intensi conflitti sindacali dell’autunno, inaspriti da una lunga compressione di diritti e dall’intransigenza padronale. Quegli scioperi vedono inedite forme di democrazia dal basso, portano a conquiste importanti e aprono la via allo Statuto dei lavoratori, un’affermazione di civiltà.

La tensione giunge al massimo nel tragico incidente milanese del 19 novembre in cui perde la vita l’agente di polizia Antonio Annarumma, figlio di braccianti: prima che i fatti siano accertati, il Presidente della Repubblica Saragat parla, poco responsabilmente, di "barbaro assassinio" e invita a «mettere in condizione di non nuocere i delinquenti il cui scopo è la distruzione della vita». La maturità e la forza sindacale però prevalgono e i contratti iniziano a essere firmati: la strage del 12 dicembre irrompe in questo quadro e lo sconvolge. Ci comunicò - ha scritto Adriano Sofri - «poche e terribili notizie: che si era disposti a distruggere la vita delle persone, anche delle persone inermi e innocenti».

Sono di rara intensità le immagini dei funerali delle vittime proposte da uno straordinario servizio di "Tv7". Suonano vere le parole commosse e ferme di cittadini consapevoli, e i volti stessi di quella piazza Duomo gremita dicono al paese che il terrore non ha vinto: «la morte di tanta povera gente... a chi giova?»; «non bisogna mettere insieme questa strage orrenda con il presunto disordine degli scioperi»; «una strage contro il mondo del lavoro...»; «di fronte a una cosa così mostruosa ci siamo ritrovati».

Sono le uniche parole di verità che gli italiani sentono in televisione. Al telegiornale del 16 dicembre Bruno Vespa annuncia che l’anarchico Pietro Valpreda è colpevole, responsabile della strage. Poche ore prima, dopo un fermo illegalmente protratto, era morto cadendo dal quarto piano della questura milanese un altro anarchico, il ferroviere Pino Pinelli, persona buona e giusta: il questore Guida dichiarava che il suicidio era un’ammissione di colpevolezza.

Menzogne, tutte, accompagnate da gravi depistaggi delle indagini che alimentano la campagna contro la sinistra («eravamo perduti e sperduti - ha ricordato un magistrato profondamente democratico, Marco Ramat - freddo di fuori e di dentro»). A rompere la compattezza di quel plumbeo clima esce poco dopo un libro dal titolo sconvolgente, La strage di stato, scritto da "un gruppo di militanti della sinistra extra-parlamentare": richiama l’attenzione sulla pista neofascista e sulle complicità che essa ha trovato. Quella ricostruzione ha presto molte conferme ma la "verità ufficiale" si sgretola solo a partire dal 1972, con le indagini sulla "pista nera" di giudici coraggiosi (Stiz, D’Ambrosio, Alessandrini: destinato quest’ultimo ad essere ignobilmente assassinato anni dopo dal terrorismo di sinistra).

Nei mesi successivi alla strage si era diffusa l’allarmata sensazione di un restringersi della democrazia, e la fondata denuncia di menzogne e depistaggi - che vede in prima fila giornalisti civilmente sensibili, a partire da Camilla Cederna - ha un impatto enorme. «Per la prima volta - ha scritto Giorgio Bocca - gli italiani avevano l’impressione di esser stati ingannati, traditi dal loro Stato».

L’impressione tende a diventare incubo con il procedere della "strategia della tensione", iniziata allora e volta a favorire una svolta autoritaria e di destra: è scandita da crescenti aggressioni squadristiche, da una gestione sempre più repressiva dell’ordine pubblico e da "trame nere" e attentati che hanno culmine nel 1974. Ancora Bocca ha colto però anche un effetto paradossale della preziosa battaglia di verità su Piazza Fontana. Aver avuto ragione, ha scritto, contribuì a togliere lucidità alla sinistra estrema, a «imprigionarla nei suoi sospetti e nelle sue ire», a ingigantirne la sfiducia nella democrazia reale del paese: consolidò cioè letture ideologiche e deformate della realtà, con effetti talora tragici. Senza quel 12 dicembre non capiremmo appieno neppure l’incubazione degli anni di piombo.

Altre questioni ancora pose però quel dramma nazionale. Nel giornalismo ad esempio, in reazione al dominante conformismo delle prime ore, si innescarono fermenti innovativi e fecondi, mossi dall’ansia di un’informazione reale e non subalterna. Non furono superficiali neppure le conseguenze negative di comportamenti illegittimi e gravi di uomini e apparati dello Stato: 36 anni dopo quel 12 dicembre la giustizia italiana ha decretato in via definitiva e abnorme che di quella strage nessuno è colpevole. La democrazia ha tenuto, anche di fronte a prove terribili, ma non ha fugato le ombre: ombre che hanno avvelenato un intero decennio. E la morte di Pino Pinelli addolora e ferisce ancora.


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