Appello

SCIOPERO DEI GIORNALISTI ...LIBERTA’ DI STAMPA E DEMOCRAZIA IN PERICOLO. Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: “Il rinnovo del contratto dei giornalisti è un diritto primario”. Serventi Longhi: "Parole come pietre". Siddi: "Viva gratitudine al Capo dello Stato". E il grido d’allarme di Furio Colombo.

giovedì 16 novembre 2006.
 

[...] Se i titolari dell’imprese editoriali continueranno a negare non solo il diritto alla contrattazione ma anche il diritto al confronto tra parti sociali, anche a fronte dell’alto messaggio del Presidente della Repubblica, vorrà dire che occorrerà aprire una seria e severa riflessione nel Paese sul venir meno di una funzione fondamentale degli editori che, in tal caso sarebbero avviati verso la via, pubblicamente insostenibile, dell’irresponsabilità sociale. La tutela di un bene primario quale l’informazione, per la formazione della coscienza pubblica, esige considerazioni speciali nella consapevolezza che la concertazione sia una opportunità, non un intralcio per il progresso civile e economico di una democrazia fondata sul lavoro e la giustizia sociale. [...]

INFORMAZIONE E NON SOLO: 3 OTTOBRE 2009. SE BERLUSCONI SI FINGE PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA (1994) E TUTTI E TUTTE STANNO ANCORA AL SUO SPORCO "GIOCO" (2009) ,... LA GUERRA MENTALE DI "FORZA ITALIA" CONTRO L’ITALIA NON E’ FINITA!!! LA MANIFESTAZIONE PER LA LIBERTA’ DI STAMPA. Contro il Presidente della "Repubblica" del "Popolo della "Liberta’", al grido di "Forza Italia"!??


CONTRATTI

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: “Il rinnovo del contratto dei giornalisti è un diritto primario”

Serventi Longhi: "Parole come pietre"

Siddi: "Viva gratitudine al Capo dello Stato" (www.fnsi.it, 28.09.06)

’’Tra i diritti primari che si devono riconoscere ai giornalisti c’è quello ad avere un contratto di lavoro regolarmente rinnovato’’. Lo ha detto Giorgio Napolitano, alla cerimonia al Quirinale per il Premio Saint Vincent. Il presidente della Repubblica ha aggiunto che ’’con molto rammarico purtroppo il tentativo del governo di riaprire le trattative senza chiusure pregiudiziali e senza intransigenze per il rinnovo del contratto è andato fallito. Mi permetto di incoraggiare - ha proseguito - il ministro del Lavoro ad insistere nel suo sforzo e mi auguro, per davvero, che si possa giungere presto ad una soluzione soddisfacente anche nell’interesse del regolare svolgimento dell’attività dell’informazione’’.

Il presidente Napolitano ha parlato a braccio ai vertici degli organismi rappresentanti dei giornalisti riuniti al Quirinale per l’assegnazione del Premio Saint Vincent. Era stato in particolare il presidente della Fnsi Franco Siddi a ricordare che il contratto della categoria, ormai scaduto, non è stato ancora rinnovato e la questione rappresenta per i giornalisti ’’una urgenza primaria’’. (ANSA)


Il Segretario Generale della Federazione nazionale della Stampa Italiana, Paolo Serventi Longhi, ha dichiarato:

“Parole che pesano come pietre quelle pronunciate oggi dal Capo dello Stato sulla vertenza contrattuale dei giornalisti. Mi auguro davvero che le affermazioni di Giorgio Napolitano vengano ascoltate dagli editori della Fieg e che sia rapidamente accolto l’invito del Ministro del Lavoro Cesare Damiano alla riapertura del dialogo. Non mi rassegno all’idea che l’iniziativa del Governo debba considerarsi fallita, nonostante la dura posizione della Fieg che ha escluso ogni disponibilità al confronto. Il contratto è certamente un diritto dei lavoratori ma, ritengo, anche delle imprese perché una intesa non può che essere il frutto di una mediazione tra opinioni e interessi diversi. Il Presidente della Repubblica ha espresso una speranza, quella di una trattativa, che l’intera categoria dei giornalisti fa propria. E’ per questa ragione che occorre dimostrare in questo momento difficile il massimo della compattezza dei giornalisti italiani. Pertanto rinnovo l’appello a tutte le colleghe e i colleghi a partecipare agli scioperi proclamati dal Sindacato dei Giornalisti per rivendicare il diritto al negoziato”.


Il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Franco Siddi, ha dichiarato:

“Ringrazio vivamente il Capo dello Stato Giorgio Napolitano per aver risposto con parole alte e chiare all’appello per la ripresa delle trattative e il rinnovo del contratto dei giornalisti scaduto ormai da 578 giorni, che ho potuto fare stamani, a nome del sindacato di categoria (la Fnsi), in occasione della consegna del premio Saint Vincent al Quirinale. Le espressioni della più Alta Magistratura della Repubblica sono un riconoscimento e un richiamo al rispetto del valore che ha la dignità del lavoro dei giornalisti per l’informazione libera nelle democrazie occidentali, coerentemente e saldamente affermata dalla nostra Costituzione repubblicana.

Se i titolari dell’imprese editoriali continueranno a negare non solo il diritto alla contrattazione ma anche il diritto al confronto tra parti sociali, anche a fronte dell’alto messaggio del Presidente della Repubblica, vorrà dire che occorrerà aprire una seria e severa riflessione nel Paese sul venir meno di una funzione fondamentale degli editori che, in tal caso sarebbero avviati verso la via, pubblicamente insostenibile, dell’irresponsabilità sociale. La tutela di un bene primario quale l’informazione, per la formazione della coscienza pubblica, esige considerazioni speciali nella consapevolezza che la concertazione sia una opportunità, non un intralcio per il progresso civile e economico di una democrazia fondata sul lavoro e la giustizia sociale. E’ auspicabile pertanto che il rinnovato, magistrale appello del Presidente Napolitano sia accolto con rispetto dalla controparte sociale dei giornalisti, la Fieg, e, per quanto gli compete, con rinnovato impegno dal Governo”.


Editori e giornalisti

di Furio Colombo *

È questione di una o due settimane e poi lettori dei giornali e spettatori della televisione leggeranno o ascolteranno di nuovo il messaggio detto da «chi vi parla è autorizzato dal Comitato di Redazione». Dirà che i giornalisti sono ancora costretti a uno, due o tre giorni di sciopero, perché gli editori non intendono firmare il contratto.

Vorrei rassicurare chi legge. Questo non è un intervento sindacale. Altri hanno quel compito, e lo svolgono con impegno. Questa è una storia italiana. Ma è già stata, prima di noi, storia di altri paesi. Una insofferenza profonda ha cominciato a soffiare come un ghibli contro la professione di informare.

Quel ghibli è stato - e continua ad essere - così violento da deformare tutto il paesaggio della professione giornalistica e delle figure che in essa operano al punto che non sempre le puoi riconoscere. Ci sono giornalisti che celebrano festosamente i giorni di sciopero di altri giornalisti, irridendoli e continuando il loro lavoro indisturbati, come se avessero un "passi" o una visione radicalmente diversa della vita professionale. Per esempio: «Ma quale contratto? Si può benissimo lavorare senza, se sei dello stesso partito del padrone. I compensi arrivano in tanti modi». Ci sono giornalisti che fanno finta di non vedere, perché stanno percorrendo una loro strada diversa (per esempio «il quotidiano di proprietà dei giornalisti»). Tutto giusto, se questo fosse una normale, antipatica, difficile disputa economica, quanti soldi in più per questo o per quello.

Ma questa non è affatto una disputa economica. La questione che stanno ponendo gli editori italiani - o almeno chi li guida - è molto più seria e radicale, e dovrebbe riguardare tutti coloro che sono coinvolti in questo mestiere, se non altro come cittadini. Dovrebbe riguardare (se ci fossimo spiegati e ci fossimo fatti capire) tutta l’opinione pubblica. La questione è questa: con l’immenso flusso informativo a disposizione nel mondo, che bisogno c’è dei giornalisti, ovvero della funzione professionale che da oltre due secoli questa categoria va svolgendo?

Le aziende editoriali sono in grado di intervenire in ogni momento su tutto, a partire da un vasto materiale comunque disponibile. Quel che serve è il montaggio del materiale e la spalatura delle scorie, ovvero un brulicare di giovane manodopera precaria intercambiabile, simile a quella delle fabbriche elettroniche, in cui conta più l’agilità delle dita che la qualità della testa (anzi, conta solo l’agilità delle dita). E dunque del "giornalista professionista" - come noi amiamo pomposamente definirci - non si sente più alcun bisogno; e tanto vale usare questa battaglia contrattuale per dirlo adesso e concludere un capitolo durato fin troppo a lungo nella storia dell’editoria.

Non credo che sia esagerata questa rappresentazione del punto del contendere. Si può semplificare così: dei giornalisti non c’è più bisogno. Le notizie piovono dalla rete. Quanto a editoriali, corsivi e commenti, bastano e avanzano piccoli gruppi di punta affini alla proprietà. E il ricco mercato di voci disponibili nelle professioni umanistiche, economiche, scientifiche. Il mercato (la domanda) individua, seleziona, premia quelle voci. E dunque si forma abbastanza rapidamente un serbatoio sicuro al quale attingere. Perché è naturale che "le voci di fuori" (per parafrasare Edoardo De Filippo, le sue Voci di dentro, nella bella versione che Francesco Rosi ha messo in scena con Luca De Filippo in un teatro di Roma) rispondono a un mercato che offre molto a chi ha da dire le cose giuste.

Le cose giuste sono quelle che rappresentano - il più da vicino possibile - le posizioni degli editori, quelle che riflettono interessi, quelle che riflettono scelte, quelle che annunciano o rappresentano interventi in un campo o nell’altro della vita pubblica, i temi morali, le decisioni politiche, le leggi di un governo, le opzioni internazionali. Ma anche le autorizzazioni e i permessi, che riguardano gli specifici campi di attività di vari editori, che sono tutti imprenditori, attivi in molti campi, che coprono quasi tutti i settori regolati dai governi e svolgono attività - come le intercettazioni - che alle attività dei governi si sovrappongono. Si forma così un "caporalato" dell’intervento politico o economico, in cui l’editore-caporale non ha difficoltà a uscire sulla piazza (universitaria, professionale, scientifica, ma anche di schieramento e competenza morale e religiosa) per assumere di volta in volta le voci più consone. Quelle voci, a loro volta, sono incentivate a favorire l’inclinazione dovuta, per non restare spiazzate rispetto alla domanda, ovvero escluse dalle esigenze per cui certe voci sono facilmente assunte, magari per una proficua "giornata", e altre no.

Non conta più che un professionista esperto sia tenuto a bordo a lungo, e formato e preparato per intervenire con sicura competenza sui nodi sempre più ardui del governare contemporaneo. La funzione "terza" del giornalismo non interessa più. Meno che mai il prendere posizione, sia pure argomentato e provato, di giornalisti competenti, a mano a mano che le varie materie del contendere fra opinione pubblica e governo arrivano sui tavoli del dibattito pubblico. In questo caso, anzi, il giornalista già legato da un rapporto di fiducia con i lettori è una palla al piede, se per caso dissente dall’editore. E non puoi neanche immaginare un equipaggio fisso di bravi e competenti e noti giornalisti, disposti a seguire quell’editore in tutte le sue battaglie. Perché quelle battaglie possono durare un anno o un giorno, possono svanire con un accordo di cui non sappiamo nulla, possono continuare, ostinate, per un periodo protratto che chiederà interventi pesanti e ripetuti.

Vorrei a questo punto che i lettori si rendessero conto di due aspetti di questo scontro violento e difficile che sto descrivendo fra coloro che chiamerò "gli editori di adesso" e coloro che mi sembra giusto definire "i giornalisti di una volta", ovvero coloro che si erano abituati a seguire il percorso della loro competenza e della loro esperienza. Vorrei anche che questo modo di descrivere le cose non sembrasse una celebrazione. È un fatto, però, che gli spazi hanno cominciato a restringersi drasticamente a seguito di una serie di movimenti sismici in tutta l’area della notizia. Interessi vasti e importanti si sono spostati verso i punti caldi dell’editoria. I punti caldi dell’editoria si sono addossati al potere economico. Il potere economico a volte è, a volte non è, un governo o tutto un governo. Ma chiede di essere rappresentato in modo vigoroso e istantaneo. Come se non bastasse, in alcune parti del mondo (prima di tutto in Italia) vi è stata un’aperta invasione di campo da parte di un’immensa ricchezza direttamente nell’area delle notizie, con l’effetto di impastare insieme un impero finanziario, un impero mediatico e uno schieramento politico.

Però, per una volta, non è del conflitto di interessi di Berlusconi che intendo parlare - anche se, come molti, mi rendo conto del colpo che Berlusconi ha inferto alla già debole e delicata struttura del rapporto fra potere economico, editoria e giornalismo. Intendo prestare attenzione al problema in generale. Quel problema non nasce in Italia.

Ricordo, al tempo in cui insegnavo giornalismo alla Columbia University (negli anni Novanta), la mia meraviglia quando ho appreso dell’esistenza di un «Comitato per la difesa dei giornalisti». Quel Comitato era coinvolto in molte situazioni drammatiche (l’arresto immotivato di un giornalista in un Paese, la scomparsa improvvisa di un giornalista in un altro). La base dell’esistenza del Comitato, però, si fondava su una definizione di rispetto e autonomia della professione, sulla realistica accettazione della qualità fastidiosa del mestiere, e sulla necessità di un monitoraggio continuo, più per garanzia del principio che per necessità urgente di intervento. In pochi anni la situazione è cambiata.

L’assassinio di Anna Poliktovskaja a Mosca ci ha indignati, ma non ci ha sorpresi, tanto più che, nella sola Mosca, due altri giornalisti sono stati assassinati in due settimane. La Poliktovskaja aveva scoperto, descritto e documentato i delitti e le stragi delle truppe di Putin in Cecenia. Evidentemente anche gli altri - quelli uccisi prima, quelli ucciso dopo di lei - si sono scontrati con zone di potere che non hanno alcuna intenzione di subire il disturbo delle informazioni.

È stato il destino di Antonio Russo, di Ilaria Alpi, un destino preceduto dalla scomparsa di coraggiosi giornalisti italiani in Sicilia. La differenza tremenda è che giornalisti come De Mauro e Fava sono stati vittime del potere perverso e avverso della mafia. Adesso invece la perversione di eliminare i giornalisti viene dal centro di un potere riverito e ammirato dagli altri poteri del mondo. Basti pensare alla Cina, dove basta una riga sbagliata in una e-mail privata per farti sparire, o farti imparare a non ripetere l’impudenza.

Il Senato americano ha lottato a lungo contro la proposta dell’amministrazione Bush di istituire un centro governativo di valutazione e classificazione (secondo il grado di pericolo) dei vari articoli sui giornali o degli interventi in tutti i tipi di comunicazione, dalla Tv commerciale ad Internet. È vero che il pericolo del terrorismo può nascondersi dappertutto. È anche vero che i giornalisti, ormai, vengono visti - anche nelle migliori democrazie - come portatori del virus pericoloso di informare che, a quanto pare, sempre più interferisce col governare. Si dice spesso, in genere con ammirazione, che la Russia di Putin è un laboratorio non solo del futuro di quel Paese. Se è vero, il destino tragico e netto di Anna Poliktovskaja dovrebbe essere carico di messaggi. Come spesso accade, il percorso italiano sembra essere meno drammatico. Si chiede solo meno professionismo (l’età si porterà via un bel po’ di persone scomode, che insistono sui questa storia dei doveri morali della professione) e più precariato, un bel rimescolamento di carte, con tanti ragazzi e ragazze a ore che tagliano e incollano, o vanno in onda disinvolti e gradevoli a leggere strisce di notizie preparate da poche agenzie del mondo. Completate la scena con la gestione accorta delle voci autorevoli raccolte su piazza (le voci degli editorialisti e dei commentatori) da cui, di volta in volta, si può ottenere tutto e il contrario di tutto, considerato che sempre meno gente ha fatto la Resistenza e sempre meno gente la mette giù dura con i principi irrinunciabili della Costituzione.

Dubito - ma lo ha già detto chiaro il direttore di questo giornale - che si possa continuare a difendere il giornalismo con più scioperi. Il dramma si è già consumato prima, quando tanti colleghi, negli anni di Berlusconi, si sono sforzati di non sapere, di non vedere, di non criticare. Vi ricordo, per tutti, il giorno triste in cui un bravo e serio conduttore di un apprezzato e apprezzabile programma Rai mi ha invitato fra i suoi ospiti. In quell’occasione ho detto che «Berlusconi è una barzelletta che cammina», modesta affermazione polemica, assai più mite di ciò che ogni giorno Maureen Dowd o Paul Krugman scrivono di Bush sul New York Times. Vi ricordo che il bravo e serio conduttore della televisione di stato ha chiesto scusa ai telespettatori per la mia affermazione, come se si fosse trattato di una bestemmia. Segue, come nell’Isola dei Famosi, la squalifica per chi ha bestemmiato: fuori dal programma (persino dai «trailers» di pubblicità di quel programma), fuori dalla Tv di Stato. Giusto, no?

Solo che gli editori - per inevitabile e naturale impulso umano - tendono ad approfittarne, come avviene sempre quando l’altra delle due parti a confronto si mostra cedevole. In altre parole, avere ceduto così tanto al potere politico, ai tempio di Berlusconi (certo come risposta a pressioni molto forti) diminuisce adesso la forza di tenere testa alle richieste radicali (e, nelle loro intenzioni, finali) degli editori.

Controprova. Nei giorni dello sciopero, tutti i giornali che noi definiamo «normali» (traduco dall’inglese: mainstream) non escono. Ma le edicole si popolano di tutto il sottobosco dei giornali e dei giornalisti di destra, che invece non scioperano. E di piccoli, orgogliosi giornali di sinistra che - apparendo accanto alla destra in edicola - si prestano a mimare la normalità democratica. «Ecco qui» - finisce per dire il frequentatore di edicole (un italiano su dieci) - «ci sono tutti».

Invece manchiamo tutti. Non sarebbe meglio ripensare al destino della libertà di stampa? Riusciremo a salvarla, mentre essa si deteriora quasi ovunque? Per quanto riguarda i giornalisti, tutto ciò che resta del futuro comincia da queste domande. O finisce qui.

* www.unita.it, Pubblicato il: 05.11.06 Modificato il: 05.11.06 alle ore 15.59


Sul tema, nel sito, si cfr.:

INFORMAZIONE E NON SOLO: 3 OTTOBRE 2009. SE BERLUSCONI SI FINGE PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA (1994) E TUTTI E TUTTE STANNO ANCORA AL SUO SPORCO "GIOCO" (2009) ,... LA GUERRA MENTALE DI "FORZA ITALIA" CONTRO L’ITALIA NON E’ FINITA!!! LA MANIFESTAZIONE PER LA LIBERTA’ DI STAMPA. Contro il Presidente della "Repubblica" del "Popolo della "Liberta’", al grido di "Forza Italia"!??


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