La stanza segreta di Francesco
di Tomaso Montanari (Il Fatto Quotidiano,21.10.2013)
Oggi voglio parlarvi di una cosa un po’ difficile: il «patrimonio storico e artistico». Il ’patrimonio’ è quello che i padri (e le madri!) lasciano ai figli: un insieme indivisibile di cose materiali (case, denaro, terreni, oggetti) e spirituali (idee, speranze, parole) che ci lega al passato e ci permette di costruire il futuro. Già, perché se mentre andate a scuola voi vi dimenticaste chi siete, non sapreste nemmeno dove andare.
La Costituzione (il patto che rende gli italiani una comunità) dice che tutti insieme dobbiamo proteggere il «patrimonio storico e artistico»: e cioè i quadri, le statue, i palazzi, le biblioteche, gli archivi, i teatri, le orchestre e tantissime altre cose. Perché se li perdessimo non sapremmo più dove andare.
Quando pensiamo al «patrimonio» pensiamo sempre a cose famosissime: il David di Michelangelo, il Colosseo, i Bronzi di Riace... Vero. Ma forse capiamo meglio quanto è grande il «patrimonio» se pensiamo a una casa. Per esempio alla casa di Francesco Datini, a Prato.
Francesco è vissuto seicento anni fa, e non faceva né il re né il papa: era un mercante. Vendeva le stoffe, e diventò ricchissimo. Sappiamo moltissime cose, di lui: perché volle costruirsi «una casa fatta per durare mille anni» (così diceva). È una casa fatta così bene che in seicento anni non si è mai dovuta rifare la facciata: che ha ancora l’intonaco che volle Francesco.
E, proprio come il patrimonio, quella casa racconta una storia. A un certo punto ci si è accorti che la casa aveva un segreto speciale: una stanza murata, che raccoglieva tutte le carte di Francesco. I suoi conti, le sue lettere, alcuni suoi oggetti: perfino i campionari delle sue stoffe. Così grazie a chi ha letto quelle carte conosciamo Francesco, quasi come se fosse vivo. Come è vivo il «patrimonio»: che è fatto anche del lavoro di chi lo studia.
Quando Francesco sentì che la morte era vicina, cercò un modo per non morire del tutto. E così lasciò la sua casa e il suo denaro a tutti i suoi concittadini. C’è un suo ritratto, a casa sua, che ha come un fumetto che dice: «Francesco io son che lasciai di mie sostanze eredi i miei pratesi, perché la Patria mia più che altro amai».
Francesco era diventato ricco perché era bravo, ma anche perché aveva saputo organizzare il lavoro di tante altre persone che lavoravano per lui: e così è giusto che abbia lasciato tutto alla patria. Cioè alla sua città, alla sua comunità. Ed è per questo che ’patrimonio’ è ha la stessa origine di ’patria’: perché appartiene a tutti noi.
Il paesaggio appartiene al popolo
di Corrado Stajano (Corriere della Sera, 28 settembre 2013)
Quando, nel 1947, l’Assemblea costituente stava discutendo sull’articolo 9 della somma Carta che riguarda la tutela del paesaggio, i giornali umoristici dell’epoca, non propriamente progressisti, andarono a nozze nell’ironizzare pesantemente, in malafede o incoscienti, su quel che significava quell’argomento focale per la vita di un Paese come il nostro. Il Travaso e poi Candido e L’uomo qualunque non lesinarono gli scherni, scrissero di ovvietà e di stupidità, come se la norma fosse una bizzarria degli uomini politici di allora. Basterebbero due film d’autore, Le mani sulla città di Francesco Rosi e Il ladro di bambini di Gianni Amelio, se non esistessero le ragioni della Storia, della Cultura e della Politica pulita a mostrare quel che è successo dopo e far capire com’era essenziale nell’Italia distrutta dalla guerra l’articolo 9 della Costituzione. Anche oggi non ha perso nulla della sua attualità.
Quattro autori - Alice Leone, storica; Paolo Maddalena, giurista; Tomaso Montanari, storico dell’arte; Salvatore Settis, archeologo, già direttore della Normale di Pisa, presidente del consiglio scientifico del Louvre - hanno firmato insieme un libro polemico e documentato, Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, pubblicato da Einaudi (pagine 185, 16,50) che mette intelligentemente il dito sulle piaghe tormentose che seguitano a dilaniare un Paese disastrato, moralmente e materialmente, com’è l’Italia di oggi. Un libro che riesce a fondere la memoria di quel che accadde nel passato, con il presente e il futuro da ricostruire dopo il ventennio berlusconiano segnato dallo slogan «ognuno è padrone in casa propria».
Non era un’elegante astrazione intellettuale discutere quasi settant’anni fa del paesaggio e dell’arte come un fatto pubblico. Non fu, come scrive Alice Leone, né semplice né lineare, arrivare alla dizione dell’articolo 9. Rivolgimenti, mediazioni, scontri accesi, polemiche fuori e dentro gli schieramenti videro infatti contrapporsi interessi e scuole di pensiero. Non fu facile arrivare alla dizione definitiva: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
Racconta Salvatore Settis, con amara nostalgia, che ci fu in Italia un tempo in cui la direzione generale delle Antichità e belle arti del ministero della pubblica istruzione poteva essere affidata a un uomo come Ranuccio Bianchi Bandinelli, «massimo archeologo italiano del Novecento e vigile coscienza della cultura europea»: la tutela delle bellezze naturali non può essere disgiunta da quella delle antichità e belle arti e deve essere sottoposta alla medesima regolamentazione legislativa, era il suo pensiero.
Sembra inimmaginabile un’idea così netta nella società dei consumi di oggi dove anche i beni culturali devono essere strumenti di «valorizzazione economica», dove - come documenta Paolo Maddalena - quei beni, violando la legge, sono diventati soltanto merce; dove trionfa la religione del privato; dove si costruisce senza vergogna, contro la volontà popolare, con l’avallo della Soprintendenza, un immenso parcheggio sotto e tutt’intorno alla più importante basilica milanese, Sant’Ambrogio; dove i prestiti selvaggi di delicatissime opere d’arte sono la regola, esportate all’estero come gingilli, utili più che altro a funzionari per i loro traffici di potere. (Pazienti viaggiatori hanno tentato più volte, per esempio, di vedere a Mazara del Vallo il meraviglioso Satiro danzante, sempre in trasferta come tanti altri capolavori, e hanno potuto esaudire il loro desiderio soltanto a un’esposizione alla Royal Academy di Londra dove il bronzo era ospite d’onore).
L’articolo 9 della Costituzione non nacque dal nulla. Il dopoguerra fu un momento fervido di riscatto e di comune visione del mondo di uomini e donne di diverse fedi e culture, dai liberali di gran nome come Benedetto Croce e Luigi Einaudi, al socialista Pietro Nenni, ai comunisti Togliatti e Concetto Marchesi al democristiano Aldo Moro all’azionista Piero Calamandrei che ebbero un ruolo essenziale nella stesura della Carta. La legge Croce del 1922 e la legge Bottai del 1939 furono il punto di partenza dei costituenti.
Tomaso Montanari spiega con chiarezza la sostanza dell’articolo 9: se la sovranità appartiene al popolo, com’è scritto nell’articolo 1, «anche il patrimonio storico e artistico appartiene al popolo. E la Repubblica tutela il patrimonio innanzitutto per rappresentare e celebrare il nuovo sovrano cui il patrimonio ora appartiene: il popolo».
Fu Concetto Marchesi, il grande latinista, a sostenere con energia la necessità di quell’articolo, voluto e difeso da costituenti di spicco. E fu Tristano Codignola a proporre con forza la parola «tutela», più completa della parola «protezione».
Che cos’è il patrimonio storico e artistico secondo gli autori del libro? «Non è la somma amministrativa dei musei, delle singole opere, dei monumenti, ma è una guaina continua che aderisce al paesaggio - cioè al territorio "della Nazione" - come la pelle alla carne di un corpo vivo».
Il libro (manca un indispensabile indice dei nomi) imposta un’infinità di problemi: la funzione delle Soprintendenze: Montanari propone una sorta di magistratura del patrimonio indipendente dalla politica; il perenne conflitto tra lo Stato e le Regioni competenti in materia urbanistica (un errore fatale dei costituenti); il consumo del suolo: l’8,1 per cento della superficie nazionale è coperta da costruzioni, la media europea è del 4,3 per cento. Dopo ogni terremoto, alluvione, disastro si piange (non per molto). Chi deve provvedere, chi deve controllare i controllori? Lo Stato siamo noi, amava dire Calamandrei. E Bianchi Bandinelli: «Noi siamo, davanti al mondo, i custodi del più grande patrimonio artistico, che appartiene, come fatto spirituale, alla civiltà del mondo». Ce ne siamo dimenticati. Spaesati tra Imu e Iva.