Eu-ropa, Eu-angelo, ed UmaNITA’ .... contro l’omofobia e la cultura della morte!!!

SALVARE PEGAH. CARA "LONDRA" ... L’estradizione di Pegah Emambakhsh non sarebbe semplicemente un’ingiustizia, PER L’INGHILTERRA E L’EUROPA SAREBBE SOLO UN’IMMANE CECITA’ E UNA VERGOGNA PLANETARIA. Un articolo-appello di JOHN LLOYD, un’intervista a Pegah, e (a seguire) una proposta di SALVATORE CONTE - a cura di pfls

mercoledì 5 settembre 2007.
 
[...] Pegah Emambakhsh ha trovato rifugio nel Regno Unito nel 2005, in seguito all’arresto, alla tortura e alla condanna a morte per lapidazione della sua partner sessuale (non è chiaro, ad ogni buon conto, se la sentenza è stata eseguita o lo sarà in futuro). La sua domanda di asilo però è stata respinta: secondo l’Asylum Seeker Support Initiative di Sheffield, dove Pegah si trova rinchiusa in un centro di detenzione, quando le è stato chiesto di fornire le prove della sua omosessualità e lei non ha potuto farlo, le è stato riferito che doveva essere deportata. L’estradizione, che doveva avvenire oggi, all’ultimo momento è stata rinviata al 28 agosto: alla fine del mese potrebbe essere già morta [...]

__ PEGAH E’ LIBERA!!! __


-  La lesbica iraniana che Londra vuole cacciare
-  l’espulsione rinviata solo di pochi giorni

Salviamo Pegah dalla lapidazione

di JOHN LLOYD *

LAPIDARE un uomo o una donna fino a farli morire può richiedere molto tempo, specialmente se coloro che scagliano le pietre desiderano di proposito prolungarne l’agonia. Il colpo di grazia alla testa, in grado di portare a uno stato di incoscienza o alla morte, può farsi attendere anche un’ora, mentre le pietre di piccole dimensioni che provocano contusioni sono rimpiazzate poco alla volta da pietre di dimensioni maggiori in grado di frantumare gli arti. Soltanto quando il corpo è in agonia in ogni sua parte può sopraggiungere la morte.

Questa è la sorte che potrebbe attendere Pegah Emambakhsh, una donna iraniana di quaranta anni, il cui crimine è quello di essere lesbica. Pegah Emambakhsh ha trovato rifugio nel Regno Unito nel 2005, in seguito all’arresto, alla tortura e alla condanna a morte per lapidazione della sua partner sessuale (non è chiaro, ad ogni buon conto, se la sentenza è stata eseguita o lo sarà in futuro). La sua domanda di asilo però è stata respinta: secondo l’Asylum Seeker Support Initiative di Sheffield, dove Pegah si trova rinchiusa in un centro di detenzione, quando le è stato chiesto di fornire le prove della sua omosessualità e lei non ha potuto farlo, le è stato riferito che doveva essere deportata. L’estradizione, che doveva avvenire oggi, all’ultimo momento è stata rinviata al 28 agosto: alla fine del mese potrebbe essere già morta.

La Repubblica Islamica Iraniana, si legge in un recente rapporto, è "più omofobica di qualsiasi altro paese al mondo o quasi. La tortura e la condanna a morte di lesbiche, gay e bisessuali, caldeggiate dal governo e contemplate dalla religione, fanno sì che l’Iran sembri agire in barba a tutte le convenzioni sottoscritte a livello internazionale in tema di diritti umani".

Leggere il rapporto, redatto da Simon Forbes dell’organizzazione londinese Outrage, è terribile: vi si leggono storie di giovani uomini e giovani donne perseguitati, arrestati, picchiati, torturati e giustiziati - spesso con soffocamento lento - per avere avuto rapporti omosessuali.

Il brutale giro di vite nei confronti dei gay iraniani - gruppo che non ha mai goduto di grande supporto nel suo stesso paese - è iniziato dopo il 1979 e l’arrivo al potere del regime religioso ispirato dall’Ayatollah Khomeini. All’epoca gli omosessuali colti in flagranza o sospettati di essere gay erano impiccati agli alberi sulla pubblica piazza. In linea di massima si trattava di uomini, ma non mancavano le donne. A quei tempi i diritti degli omosessuali non erano una causa granché popolare da nessuna parte e il nuovo regime, ispirato da un genere di fondamentalismo islamico che non poneva limiti al proprio radicalismo e che addossava a Stati Uniti e Occidente la responsabilità di tutti i suoi mali, non vedeva necessità alcuna di dissimulare le proprie azioni. Tutto ciò è andato avanti fino alla fine degli anni Ottanta, quando i diritti dei gay hanno riscosso ovunque maggiore comprensione: le proteste internazionali hanno iniziato a moltiplicarsi e il regime, preoccupato in maggior misura per la propria immagine a livello internazionale, è diventato meno radicale e ha posto fine a queste dimostrazioni.

Ciò non significa che le esecuzioni fossero cessate. Il 19 luglio 2005 due adolescenti gay della città iraniana di Mashhad sono stati impiccati in pubblico, giustiziati con un lento strozzamento. Sono stati condannati a morte per il fatto di essere gay. Le autorità li avevano accusati di aver rapito e stuprato un minore, ma a loro carico non è mai stata prodotta alcuna prova. La comunità gay iraniana e i gruppi di difesa dei diritti umani non hanno mai creduto alle accuse ufficiali. La loro condanna a morte è servita a rammentare a tutti che l’omosessualità, nell’Iran di Ahmadinejad, è tuttora considerata un reato punibile con la condanna a morte. Per gli uomini o le donne sposate la condanna a morte è eseguita tramite lapidazione, perché nel loro caso il reato è considerato più grave. (Pergah, che ha due figli, ha dovuto contrarre un matrimonio organizzato).

Quantunque negli ambienti della middle-class di Teheran una certa discreta attività gay sia ancora possibile, il rischio - estremo, di morte - lo si corre sempre. Il rapporto di Outrage così commenta: "Affermare che per gli omosessuali del 2006 alcune zone dell’Iran sono più sicure di altre equivale ad affermare che per gli ebrei del 1935 alcune zone della Germania erano più sicure di altre".

Deportare una donna sulla quale incombe una morte tramite lenta agonia per il fatto di esercitare le proprie preferenze sessuali non è azione degna di uno Stato civile: non possiamo che augurarci che le autorità britanniche facciano dietrofront. Una speranza ancora c’è: uno dei membri del Parlamento dell’area di Sheffield dove vive oggi Pegah, Richard Carbon, Ministro dello Sport, alcuni giorni fa ne aveva bloccato la deportazione e le autorità l’hanno rinviata a domani sera. Le associazioni gay hanno diffuso la notizia in tutto il mondo e i media di molti paesi, Italia inclusa, hanno sollevato il caso.

Per la Gran Bretagna in tutto ciò vi è un triste paradosso: essa è stata e rimane il rifugio di molti musulmani che professano apertamente di odiarla, in parte proprio per le sue opinioni relativamente liberali in fatto di omosessualità, e per le sue leggi sui diritti umani. Alcuni musulmani, accusati di istigare al terrorismo, sono stati deportati, la stragrande maggioranza no. Eppure, adesso una donna che in Gran Bretagna ha trovato salvezza da una pena efferata e che ha fatto appello alle autorità perché le considerava tolleranti, potrebbe essere rispedita indietro e, di fatto, mandata a morire. Deportare Pegah Emambakhsh non sarebbe semplicemente un’ingiustizia: sarebbe indegno di uno Stato civile.

Traduzione di Anna Bissanti

* la Repubblica, 23 agosto 2007



-  «"Meglio morire che tornare in Iran"»
-  intervista a Pegah Emambakhsh

di Paola Coppola *

Pegah Emambakhsh ha paura. Sa che esporsi, raccontare la sua storia può costarle la vita. Lo ha fatto davanti a un giudice e non è stata creduta. Ripetere ancora perché non vuole tornare in Iran significa ripercorrere un’esperienza terrificante: la fuga, un’attesa di due anni, il sogno di poter vivere alla luce del sole la sua omosessualità e poi la prigione e il terrore di rientrare nel suo Paese dove ha lasciato due figli, nati da un matrimonio combinato, e una compagna, che è stata arrestata, torturata e condannata alla lapidazione. Pegah è provata. Dal 13 agosto è rinchiusa nel centro di detenzione di Yarls Wood vicino a Sheffield, dove ha tentato di togliersi la vita. È stanca, ma in questi giorni ha ricominciato a sperare che alla fine, martedì prossimo, non prenderà quel volo della British Airways diretto a Teheran.

Da due anni vive sospesa fra il desiderio di vivere in un Paese libero e la paura di dover tornare in Iran. Come ha vissuto, finora, questa attesa?

«Sono stanca. All’inizio ero piena di speranza, anche se ero preoccupata per mio padre e mi mancavano i miei figli. Sapevo che il Regno Unito è un Paese aperto, un paese che accoglie tutti. Così ho deciso di venire qui e ho chiesto asilo. A Sheffield ho trovato anche degli amici che mi hanno aiutato. Ogni tanto sembrava che tutto andasse per il meglio e che la mia domanda sarebbe stata accolta e ogni tanto mi dicevano, invece, che l’Home Office non mi aveva creduta e che mi avrebbero costretta a tornare in Iran. In quei momenti avrei voluto essere morta».

Secondo lei, perché non l’hanno creduta?

«Non lo so. Sono fuggita perché sono una donna lesbica, perché mi ero innamorata di un’altra donna ed era sempre più difficile nasconderci. Poi lei è stata arrestata. Io mi trovavo nella sua stessa condizione, se no non me ne sarei mai andata, perché sono molto legata alla mia terra e voglio molto bene ai miei figli. Forse volevano delle prove, ma non so che prove avrei potuto portare». Ha avuto notizie della sua compagna, dopo l’arresto? «Sì. È stata interrogata e condannata alla lapidazione, perché l’hanno giudicata una donna immorale. Mi fa ancora molto male parlare di lei».

Sul suo caso si è creato un movimento: molte persone le sono vicine, soffrono con lei, protestano, inviano lettere all’Home Office, ai governanti, alle ambasciate. Chiedono al Regno Unito di concederle l’asilo perché è un suo diritto. Questo l’aiuta a sentirsi meno sola?

«Sì, queste voci mi aiutano a sperare ancora. Da quando mi hanno portata a Yarls Wood, non ho fatto che pensare alla morte. Non avevo più fede e desideravo morire pur di non tornare in Iran dove mi aspettava qualcosa che è molto più brutto, molto più doloroso della morte. Io credo nella bontà di Dio e a un certo punto è accaduto un miracolo. "Pegah", mi ha detto un giorno al telefono un amico, "tutto il mondo sta parlando di te. È nato un movimento che chiede di salvarti la vita. Il tuo nome è sui giornali, in Internet, è sulla bocca di tutti". Ora tante persone si interessano a me, anche un membro del Parlamento inglese. Ho scoperto di avere amici non solo fra i movimenti inglesi per i diritti degli omosessuali, ma anche in Italia. La persona che mi segue e mi aiuta qui a Sheffield ha creato un nome per queste persone: Friends of Pegah Campaign».

In Iran gli omosessuali sono costretti a nascondersi perché se vengono scoperti, rischiano la tortura, la pena delle cento frustate e, se sono "recidivi", la lapidazione o l’impiccagione. I gay e le lesbiche iraniani seguono il suo caso con trepidazione e la considerano un simbolo. Che prova, pensando a loro?

«Preoccupazione, angoscia. Spero solo che le cose cambino, che le leggi cambino».

Ha un messaggio per le autorità che possono decidere se concedere asilo ai rifugiati omosessuali?

«Salvate le loro vite».

È stata condannata a causa del suo modo di amare, solo perché è diverso da quello della maggioranza. E ha avuto il coraggio di dirlo a tutto il mondo, che rappresenta per lei l’amore?

«È la cosa più importante. Grazie all’amore la maggior parte degli uomini e delle donne creano una famiglia e realizzano la propria vita. È stato l’amore a guidare la mia vita e qualunque cosa mi accada, sarà l’amore a guidarmi».

Se la sua vicenda si concluderà felicemente e i suoi diritti saranno riconosciuti, ha già pensato al futuro, a quali sogni vorrebbe realizzare?

«Voglio camminare in mezzo alla gente, senza guardarmi alle spalle e ripetere dentro di me: "Sono libera"».

* La REPUBBLICA del 26 agosto 2007




-  PER PEGAH
-  di Roberto Malini
-  di Salvatore Conte

URGENT!

Sign the Petition to stop her deportation to death

And

Send flowers to Ms. Pegah Emambakhsh


Rispondere all'articolo

Forum