LA CRISI UNGHERESE E NOI
Il paradosso del politico mentitore
di Barbara Spinelli (La Stampa, 24.09.2006)
A prima vista sembra un’ennesima rivolta popolare contro i politici che mentono, non solo in dittatura ma anche in democrazia: gli ungheresi che sono scesi in piazza dopo aver ascoltato alla radio le parole dette in una riunione segreta dal proprio premier («Ho mentito, abbiamo tutti incessantemente mentito sullo stato della nostra economia: il mattino, a pranzo e la sera, per diciotto mesi», queste le parole intercettate del primo ministro Ferenc Gyurcsany) hanno parlato addirittura di rivoluzione. Hanno evocato il Cinquantasei, quando il popolo insorse contro la grande menzogna comunista. Hanno denunciato i politici corrotti, cinici, bari, accusati di vendersi allo straniero.
Ben felice di cavalcare sì solenni campagne, la destra nazionalista di Viktor Orban promette rivincite: sì, è possibile sbarazzarsi di questa sinistra che asserve Budapest all’Europa e le impedisce di fare da sé, dunque di spendere come potrebbe se solo fosse lasciata in pace. Chissà che colore avrà quest’ennesima rivoluzione Est europea: se si chiamerà arancione o come. Fatto sta che tutto suona falso e paradossale, in quella che oltre a un trauma è un’esemplare tragicommedia. Quel che accade in Ungheria da sette giorni - da quando è stato diffuso, domenica per radio, il discorso confidenziale tenuto dal premier il 26 maggio in una riunione di socialisti sul lago Balaton, dopo le legislative di aprile - non è una rivoluzione ma qualcosa che la dice lunga, sulle nostre democrazie e il loro rapporto con la verità, la menzogna, le promesse elettorali, le necessità del governare che contraddicono le promesse stesse.
Le contraddicono cronicamente: è accaduto quando vinse Mitterrand, e poi fu obbligatorio rinunciare al programma dell’81. È accaduto quando Kohl promise «paesaggi fiorenti» alla Germania orientale, e i paesaggi non vennero. È accaduto quando Berlusconi promise tasse ridotte. Può succedere con le 281 pagine del programma del centrosinistra in Italia.
Nell’evento ungherese si racchiude insomma una lezione dalla quale gli europei possono apprendere molto, essendo paradigmatica. Cos’è successo infatti esattamente, nella riunione segreta dei socialisti? È successo che il premier ha detto una nuda verità, ammettendo d’aver sistematicamente mentito.
È l’ha detta perché non ne poteva più, di falsità che si protraevano da anni, che contaminavano la classe politica di governo e opposizione, e che avevano effetti concreti visto che producevano politiche economiche dispendiose, distruttive. E cosa dicono i dimostranti? Chiedono in apparenza un linguaggio veritiero, ma nel farlo essi per primi mentono. In verità sono affezionati alla menzogna, come il cane è affezionato al proprio guinzaglio. In realtà sognano che il politico continui a offrir loro menzogne calducce, a dire che si può vivere sopra i propri mezzi, a proclamare che l’Ungheria, solo che potesse agire da sola, senza i superciliosi controlli europei, potrebbe ottenere quel che vuole.
Chi mente di più: il premier al popolo o il popolo a se stesso? Il falso impostore o i falsi sinceri? Se non fosse drammatica (i feriti son centinaia), la storia somiglierebbe a una commedia d’inganni e paradossi, stile Marivaux: l’impostore dice il vero; il veritiero mente. Certo è importante che il parlar vero trovi una maniera d’affermarsi in pubblico oltre che in privato, nonostante i rischi che questo comporta. Che l’antica dissimulazione sia ammissibile ma limitata, astuta ma onesta; che il politico abbia fiducia nel proprio Paese e non lo consideri ormai «depravato» dalle menzogne della politica, come crede Gyurcsany.
Il premier ungherese non ha avuto questo coraggio: il suo linguaggio più che crudo è volgare, e tradisce un cinismo appreso nella gioventù comunista. Resta il suo scopo primario: svegliare il circolo di iniziati, disilluderli, dando loro una nuova disciplina di linguaggio e d’azione. Quando il premier ricorda che per anni si è mentito ai cittadini, spiega che la bugia ad altro non serviva che a conquistare e preservare il potere: a «tutelare gli interessi del partito e non dell’Ungheria», conferma oggi in un’intervista a Le Monde. Proprio questa malattia bisogna superare: «Nessuno in Europa ha fatto coglionate simili, lasciando che il deficit pubblico si gonfiasse a dismisura». E ancora: «Sono quattro anni che in pratica non abbiamo fatto nulla, non potete citarmi una sola nostra misura di cui si possa esser fieri, a parte il fatto che siamo riusciti a tirar fuori il partito dalla merda nelle elezioni del 2006».
A questo urge porre termine, scegliendo un risanamento dei conti pubblici oneroso ma di cui Budapest ha bisogno: «Se continuate a rispondere “Sì, però...”, non è di me che avete bisogno». Questo dice il premier ai socialisti recalcitranti, e insiste che scelte simili occorre compierle non solo per entrare nell’euro e perché Bruxelles le chiede. Occorre comunque: da tempo l’Ungheria vive nell’illusione e nella menzogna delle cifre. Quel che colpisce nel paradigma ungherese è la confusione degli animi e dei ruoli. I mentitori si contrabbandano come uomini veraci. L’uomo di verità è quello che ammette d’aver mentito e che è giudicato persona non grata, fedifraga, o come dicono le destre ungheresi: «moralmente morto».
Siamo in pieno paradosso del mentitore, quale enunciato da Epimenide: «Tutti i cretesi mentono», pare abbia detto il filosofo del VI secolo avanti Cristo e con ciò, essendo lui stesso cretese, non si sa se abbia detto il vero o il falso.
Se tutti i cretesi mentono allora anche lui è un bugiardo e la frase è invalidata.
Se esiste almeno un cretese che dice il vero (Epimenide), l’enunciato è falso.
Comunque siamo di fronte a un archetipico dramma della democrazia contemporanea. Ovunque son proposti programmi e promesse elettorali, poi d’un tratto ai vincitori governanti tocca dire la verità, a se stessi e ai cittadini: non è stato calcolato né detto il costo delle promesse, che si rivelano non mantenibili. Si rivelano tali non solo perché lo dicono Europa e mercati: basta l’aritmetica. Così le promesse vengono infrante, comincia la disillusione, in un circolo vizioso che indebolisce i partiti e fa perdere le elezioni. La gente non sopporta il massacro delle illusioni, il suo amore della menzogna è non meno radicato dell’amore della verità.
Lo scrittore ungherese Peter Zilahy ha scritto un caustico e ironico testo-pamphlet, il 22 settembre sulla Sueddeutsche Zeitung: nella cultura europea contemporanea - scrive - ci sono figure evidentemente non presentabili, non salonfähig: «quando l’attrice rutta, quando uno scrittore mente, e quando un politico dice la verità».
Secondo Zilahy il premier s’è macchiato di questo peccato. L’ha commesso in segreto, temendo di esporsi. Ma la realtà paradossale resta quella: tutti i cretesi mentono, dunque se lui ha mentito ancor più menzogneri sono i difensori della verità. Ottusamente, il partito popolare europeo ha chiesto le dimissioni del premier falso impostore senza criticare i falsi veritieri, pur di fare un dispetto alle sinistre. Che fare a questo punto? Dissimulare per meglio ottenere quel che vuoi (più fai, più devi far finta di non fare) o dire la verità a costo di spiacere e indebolirsi elettoralmente? Forse qualcosa di mezzo e di diverso. Non promettere quel che manifestamente non si manterrà. Onorare la parola data e per questo darla con eccezionale discernimento. Fissare l’obiettivo, ma sapendo che le strade che a esso conducono possono esser profondamente diverse e dunque non indicarle.
Oppure, se proprio non si sa che fare, dissimulare fino a non azzardar verbo. Al limite, se Ségolène Royal vince le presidenziali francesi del 2007 a forza di non dir niente, come sta facendo, sarà un’impresa notevole: niente la terrà prigioniera, nessuna disillusione crescerà - mala pianta - su illusioni e vasti programmi. In fondo è quello che diceva Karl Kraus: «Chi ha qualcosa da dire, si faccia avanti e taccia». La lezione ungherese non è del tutto inutile, da questo punto di vista. Sconsolato, Zilahy conclude che l’unico risultato sarà che «nessuno, da ora in poi, dirà più la verità». Non è detto. Il massacro ungherese delle illusioni può servire, se i paradossi del mentitore non saranno dimenticati.
“COGLIONI”, DAVVERO !!! LA PAROLA RUBATA
Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli).
di Federico La Sala*
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande! "IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE?!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato. Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente"(U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani. Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia. Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia. E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi.
Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà.
Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia.
Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala
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www.ildialogo.org, Mercoledì, 05 aprile 2006
“DEUS CARITAS EST ”: IL “LOGO” DEL GRANDE MERCANTE
di Federico La Sala*
In principio era il Logos, non il “Logo”!!! “Arbeit Macht Frei”: il lavoro rende liberi, così sul campo recintato degli esseri umani!!! “Deus caritas est”: Dio è amore, così sul campo recintato della Parola (del Verbo, del Logos)!!!
“La prima enciclica di Ratzinger è a pagamento”(L’Unità, 26.01.2006 - cfr. www.ildialogo.org/filosofia)!!! Il grande discendente dei mercanti del Tempio si sarà ripetuto in cor suo e riscritto davanti ai suoi occhi il vecchio slogan: con questo ‘logo’ vincerai! Ha preso ‘carta e penna’ e, sul campo recintato della Parola, ha cancellato la vecchia ‘dicitura’e ri-scritto la ‘nuova’: “Deus caritas est”!
Nell’anniversario del “Giorno della memoria”, il 27 gennaio, non poteva essere ‘lanciato’ nel ‘mondo’ un “Logo” .... più ‘bello’ e più ‘accattivante’, molto ‘ac-captivante’!!! Il Faraone, travestito da Mosè, da Elia, e da Gesù, ha dato inizio alla ‘campagna’ del Terzo Millennio - avanti Cristo!!!
Federico La Sala
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www.ildialogo.org, Giovedì, 26 gennaio 2006
Sul tema, nel sito, si cfr.:
La destra illiberale cerca lo scontro frontale
Parlamento europeo. Orban all’offensiva a Strasburgo, non cede niente. Oggi il voto sull’articolo 7. La destra tradizionale del Ppe è spaccata. I governi di Italia e Austria a pezzi. Orban inneggia al "popolo" contro la democrazia rappresentativa
di Anna Maria Merlo (il manifesto, 12.09.2018)
PARIGI Muro contro muro. Viktor Orbán sceglie lo scontro diretto e non cede niente di fronte all’europarlamento. Il primo ministro ungherese, leader del fronte illiberale, è intervenuto ieri a Strasburgo, la vigilia del voto di oggi degli europarlamentari per avviare la procedura dell’articolo 7, una risoluzione che, se approvata, chiederà al Consiglio di “constatare l’esistenza di un rischio chiaro di violazione grave da parte dell’Ungheria dei valori su cui si fonda l’Unione europea”. Anche se il risultato del voto di oggi resta estremamente incerto, Orbán ha accusato preventivamente il parlamento europeo di voler “condannare” non un governo ma un popolo, “che da mille anni è membro della famiglia europea”, che sarà punito “perché ha deciso che non sarà patria di immigrati”.
Orbán: “Volete escludere un popolo”. Ha urlato: sono venuto a Strasburgo “per difendere la mia patria”, anche “contro di voi se necessario”, perché “non accettiamo minacce e ricatti delle forze pro-immigrazione, difenderemo le nostre frontiere, fermeremo l’immigrazione clandestina”. Il fronte illiberale getta la maschera e afferma il disprezzo per la democrazia rappresentativa: in Italia, Salvini riprende la tesi di Orbán, il “parlamento non processi il popolo”.
Marie Le Pen lo complimenta: “Bravo! Orbán è rimasto inflessibile di fronte ai maestrini del Parlamento europeo, che calpestano la democrazia pretendendo di difenderla”. Orbán rilegge la storia e ingloba nella sua deriva autoritaria anche la rivolta contro i sovietici del ’56: “condannerete l’Ungheria che con il suo lavoro e il suo sangue ha contribuito alla storia della nostra magnifica Europa, che si è sollevata contro l’esercito più potente del mondo, quello sovietico, e che ha pagato un forte scotto per difendere la democrazia”.
Oggi l’Europarlamento vota sull’articolo 7 da applicare all’Ungheria (ci vogliono i due terzi di voti per presentare la richiesta al Consiglio, ma la procedura potrà poi essere bloccata da un veto, la Polonia è implicata in una procedura analoga avviata dalla Commissione nel dicembre 2017). Ma l’offensiva del fronte illiberale sta spaccando il Ppe, il principale gruppo parlamentare a Strasburgo con 218 seggi.
Emmanuel Macron, indicato come “nemico” principale dal fronte illiberale, qualche giorno fa ha inviato un messaggio al Ppe, perché chiarisca la sua posizione: “non si può essere contemporaneamente a fianco della cancelliera Angela Merkel e di Viktor Orbán” (in Francia, i Républicains sono già spaccati, in Germania la coabitazione tra Merkel e il ministro degli Interni Seehofer è sempre più problematica, soprattutto dopo le manifestazioni di Chemnitz e Köthen).
La Fidesz di Orbán fa ancora parte del Ppe. Oggi, tutti gli occhi saranno puntati sul voto del capogruppo, il tedesco (Csu) Manfred Weber, che ambisce alla successione di Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione e che ha cercato di calmare Orban, con una telefonata. Oltre a quello italiano, spaccato anche il governo austriaco, con l’Austria presidente semestrale del Consiglio Ue: il cancelliere Sebastian Kurz (Ppe) ha indicato che il suo partito voterà a favore dell’applicazione dell’articolo 7 all’Ungheria, mentre il vice-premier, Heinz-Christian Strache, dell’Fpö, ha invitato Orbán a raggiungere il gruppo dell’Europa delle nazioni e a creare un forte polo di estrema destra a Strasburgo. Per Juncker (Ppe) “l’appartenenza di Fidesz al Ppe è un problema”.
Oggi, al Ppe si conteranno i voti e l’entità della spaccatura (Forza Italia voterà contro l’applicazione dell’articolo 7, in sintonia con la Lega e l’estrema destra). A favore della procedura di sanzione dell’Ungheria ci sono la sinistra della Gue, il Pse, i Verdi, i centristi dell’Alde. Alexis Tsipras - la Grecia ha sofferto dell’intransigenza europea quando si tratta di soldi, mentre oggi il rischio del voto sull’Ungheria è di un cedimento di fronte alla difesa dei valori - ha riassunto a Strasburgo la situazione a pochi mesi dalle elezioni europee: sarà “una battagli di valori e di principi” e “tutte le forze progressiste, democratiche, pro-europee devono essere unite, non dobbiamo lasciare l’Europa fare un salto nel passato”.
Orbán vuole forzare la Ue, scardinarla dall’interno, ma non intende portare l’Ungheria fuori dall’Unione. I Fondi strutturali Ue sono il 4,4% del pil ungherese. La ministra delle relazioni con la Ue, Judith Varda, ha respinto “vigorosamente” il contenuto del rapporto dell’Europarlamento, redatto dalla verde (olandese) Judith Sargentini, considerato “una vendetta” per il rifiuto di Budapest di accogliere migranti. Ma l’Ungheria ha anche cercato di convincere gli europarlamentari delle sue buone ragioni. Ha inviato un documento di 109 pagine, dove pretende di smontare le critiche del rapporto Sargentini, si difende, sui Rom, sul sistema giudiziario. A luglio, la Commissione ha già contestato di fronte alla Corte di giustizia la legge anti-immigrazione dell’Ungheria.
Il Parlamento Ue condanna Orban, ora decidono i leader
Via libera all’articolo 7 per le sanzioni all’Ungheria
di Ansa (12 settembre 2018)
STRASBURGO - Il Parlamento europeo ha approvato la relazione Sargentini sullo stato di diritto in Ungheria, dando così l’ok all’applicazione dell’articolo 7 dei Trattati, che nella sua fase più avanzata può condurre a sanzioni contro il Paese. A favore hanno votato 448, 197 si sono espressi contro, 48 si sono astenuti, per un totale di 693 votanti. Ora la parola passa al Consiglio europeo, ovvero ai capi di Stato e di governo dell’Unione. E’ la prima volta il Parlamento ha adottato tale iniziativa per l’attivazione dell’articolo 7 per una grave minaccia allo Stato di diritto, alla democrazia e ai diritti fondamentali in uno Stato membro, in questo caso l’Ungheria.
Il Partito popolare europeo europeo si è spaccato, con la maggioranza del gruppo che ha votato a favore delle sanzioni a Orban e una minoranza, tra cui Forza Italia, che si è espressa contro. "Se fossi stato un eurodeputato, oggi anche io avrei votato per l’attivazione dell’articolo 7", ha detto il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, che fa parte del Ppe. Solo 59 i voti contrari tra gli eurodeputati del Partito popolare europeo. Il movimento 5 Stelle è stato l’unico all’interno del gruppo (Efdd) a votare in favore delle sanzioni all’Ungheria di Viktor Orban, mentre gli europarlamentari della Lega, insieme a tutti gli altri componenti del gruppo Enf, hanno votato contro.
Dura la condanna della Lega. "Le sanzioni contro Orban e l’Ungheria votate dal Parlamento Europeo sono una pagina bruttissima per la democrazia e l’intera Europa", ha commentato la capogruppo del partito al Parlamento Europeo, Mara Bizzotto. "Che una parte consistente del Ppe si sia prestato a questo linciaggio politico contro uno dei suoi leader - ha sottolineato - è sotto gli occhi di tutti: spero che Orban, dopo questo affronto, molli il Ppe ed entri a far parte del nuovo blocco identitario e sovranista che stiamo costruendo in vista delle Europee del 2019". Secondo la Bizzotto, "il voto di oggi crea un precedente pericolosissimo. Dopo l’Ungheria di Orban e la Polonia di Kaczyski e Morawiecki, nei prossimi mesi la sinistra e la Ue metteranno nel mirino anche l’Italia, il nostro governo e il nostro leader Matteo Salvini. Non so se gli amici 5 Stelle abbiano compreso questo rischio".
E Salvini si schiera con Orban
“Insieme cambieremo l’Europa”
di Amedeo La Mattina (La Stampa, 05.06.2018)
Matteo Salvini oggi non sarà presente al vertice europeo dei ministri dell’Interno che dovrà discutere della modifica del regolamento di Dublino. Il responsabile del Viminale sarà impegnato al Senato per il voto di fiducia a governo e ha incaricato l’ambasciatore italiano in Europa, Maurizio Massari e il prefetto Gerarda Pantalone, che guida il dipartimento Immigrazione, di esprimere la netta opposizione a una riforma che ci penalizzerebbe.
«Ci opponiamo con forza a una norma decisamente peggiorativa che farebbe arrivare più immigrati da mantenere per un tempo maggiore. L’Europa continua a non farsi carico della questione, i ricollocamenti tanto sbandierati non esistono», afferma il deputato della Lega Nicola Molteni, sottosegretario in pectore all’Interno. Molteni è l’autore del capitolo sull’immigrazione del contratto sottoscritto da Salvini e Luigi Di Maio. Obiettivo principale è la riduzione dei flussi e la cancellazione delle clausole che prevedono «l’approdo delle navi utilizzate per le operazioni nei nostri porti senza alcuna responsabilità condivisa dagli altri Stati europei». Ecco perchè «è necessario il superamento di Dublino». A Lussemburgo il governo italiano proporrà «il ricollocamento obbligatorio e automatico dei richiedenti asilo tra gli Stati membri».
Una posizione quasi identica a quella che avrebbe espresso Marco Minniti se fosse rimasto al governo: «Procedura di ridistribuzione automatica dei richiedenti asilo nell’ambito dell’Unione europea». Salvini apprezza il lavoro fatto da Minniti. E lo dice pubblicamente che c’è un’ottima squadra al ministero dell’Interno: «Non smonteremo il lavoro del mio predecessore che ha lavorato bene. Se qualcuno ha fatto qualcosa di utile, anche se aveva una maglietta diversa, non riconoscerlo sarebbe sciocco».
L’Italia non intende sottoscrivere le clausole per la distribuzione previste dalla riforma del Trattato di Dublino: sono troppo aleatorie, lasciano troppe scappatoie a quei Paesi che chiudono le loro frontiere. Tra questi Paesi però ci sono quelli di Visegrad (a cominciare dall’Ungheria di Orban) ai quali la Lega guarda con interesse. Nonostante quei paesi sostengano una riforma opposta e non certo favorevole all’Italia. In ogni caso Salvini insiste nel costruire un asse con Budapest: «Oggi ho avuto una telefonata cordiale con il primo ministro ungherese Viktor Orban: lavoreremo per cambiare le regole di questa Unione europea».
Sarà difficile smontare la riforma di Dublino, ma oggi Salvini farà la prima mossa. Vuole, tra le altre cose, cancellare la regola che prevede la possibilità di ridistribuire solo i richiedenti asilo di cui si abbia la certezza che non rappresentano rischi per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico. Se questa norma venisse approvata, si prolungherebbe la durata delle verifiche fatte in Italia.
C’è una ripida salita davanti al governo che si trova in queste ore ad affrontare l’incidente diplomatico causato dal leader leghista. La Tunisia ha convocato l’ambasciatore italiano a Tunisi per protestare contro le parole di Salvini che ha accusato il Paese nordafricano di esportare «galeotti».
Salvini ha cercato di buttare acqua sul fuoco, dicendo di volere incontrare il suo collega tunisino. «Qualcuno in Tunisia si è offeso sbagliando, perché io ho detto solo che arrivano qui anche persone non perbene». Infine in un comizio a Fiumicino ha replicato a Balotelli: «Di politica ed immigrazione ha parlato anche Balotelli: ognuno ha il profeta che si merita...”.
CONFRONTI. Dialogo con la filosofa ungherese sulla modernità (non solo l’attualità dell’autore del «Capitale», ma di Freud, Kierkrgaard, Nietzsche), e sul futuro della democrazia. «Al contrario di quel che si crede il nostro continente è estraneo al liberalismo. Profondamente radicato qui, invece, è il nazionalismo»
Marx è un messia
conversazione di Donatella Di Cesare con Agnes Heller (Corriere La Lettura 20.05.2018)
DONATELLA DI CESARE - Nel 1944 suo padre Pàl Heller, ebreo austriaco, fine intellettuale, uscì e non tornò più. Fu deportato ad Auschwitz e ucciso il 16 gennaio 1945. Lei fu reclusa nel ghetto di Budapest a 15 anni e sopravvisse solo perché Eichmann aveva deciso di deportare prima gli ebrei sparsi fuori dalla città. Sebbene lei si dichiari laica, il suo rapporto con l’ebraismo mi pare molto profondo.
ÁGNES HELLER - Essere ebrea era per me ovvio. Come sarebbe stato possibile altrimenti negli anni della persecuzione? Avevo 10 anni quando in Ungheria, nelle università e nelle scuole, fu introdotto il numero chiuso. Non mi fu possibile studiare, se non al liceo ebraico. Dal momento che ero cresciuta in una famiglia non religiosa, pensai di provocare il rabbino Sámuel Kandel, un uomo straordinario. Mi rivolsi a lui con sfrontatezza: «Io non credo in Dio». Mi aspettavo un finimondo. E invece mi raccontò una storia ambientata ai tempi dei pogrom in Ucraina. «Un cosacco, responsabile di quei massacri, sfidò il rabbino dello shtetl, la piccola città, intimandogli: “Sono pronto a salvare i superstiti della tua comunità, se riuscirai a riassumere l’essenza dell’ebraismo stando in piedi su una gamba sola”. Il rabbino disse d’un fiato: “Ama il prossimo tuo come te stesso”». La storiella mi turbò; ancora oggi avverto quel sentimento. «E tu - chiese il rabbino - ami il prossimo tuo come te stessa?». Replicai: «Ci provo; non so se ci riesco». «Bene - proseguì - allora sei una brava ebrea. A Dio non interessa che tu creda o no, ma che tu segua le sue leggi».
Per anni fui convinta che fosse solo un’idea di Kandel; solo dopo mi accorsi che la storiella fa parte della tradizione e capii che l’ebraismo non si occupa dell’esistenza di Dio, bensì dell’agire in conformità alla legge. Non ci sono dogmi, ma interpretazioni. In questo senso posso dire che sono religiosa, provo ad esserlo. Per anni studiai allora la Torah e la storia del popolo ebraico. Poi ci fu l’occupazione tedesca e l’olocausto degli ebrei ungheresi. Quasi tutta la mia famiglia venne sterminata; persi anche molti amici d’infanzia. Il rabbino Kandel fu assassinato con la moglie dai nazisti ungheresi.
DONATELLA DI CESARE - Trovo molto importante quello che lei osserva nel libro Breve storia della mia filosofia, che il grande problema è perché mai sia esistita ed esista una «questione ebraica». Giustamente lei connette antisemitismo e antiebraismo nel bel libro Gesù l’ebreo. Rivendicando la figura di Gesù all’ebraismo («Gesù non ha infranto la legge, l’ha radicalizzata») si chiede perché questo fatto sia stato così a lungo taciuto.
ÁGNES HELLER - Il mio libro è legato al rabbino Kandel, che ci parlava di Gesù sostenendo che apparteneva alla corrente ebraica degli esseni. Per me Gesù non è mai diventato un biondo tedesco, ma è sempre rimasto un amato profeta. Sebbene questo primo amore abbia contribuito in modo decisivo al mio interesse per la sua figura, quel che mi ha spinto allo studio non è stata un’esperienza personale, bensì un interrogativo storico e filosofico. Perché non solo i cristiani, ma anche gli ebrei hanno dimenticato per secoli il Gesù ebreo? La questione filosofica riguarda la memoria e l’oblio - la memoria di una comunità e l’oblio collettivo. Perché i testi - ad esempio i testi evangelici - sono stati letti in modo selettivo e ha prevalso sempre un’unica interpretazione? In che modo questa lettura ha finito per alimentare un terribile e ingiustificato odio contro gli ebrei? E perché negli ultimi 70 anni è stato riscoperto il Gesù ebreo?
DONATELLA DI CESARE - Lei ha più volte rivendicato il diritto di richiamarsi a Marx senza essere marxista. E lo ha pagato a caro prezzo con persecuzioni e vessazioni. Il suo ultimo libro su Marx, appena uscito in italiano, ha un titolo per alcuni versi sorprendente: Marx. Un filosofo ebreo-tedesco. Che cosa c’è di ebraico nell’opera di Marx? Questo lei si chiede. E la risposta è: la «liberazione dell’umanità». Lei inserisce Marx in una prospettiva messianica. Quasi come Walter Benjamin... Il ruolo messianico è quello del proletariato.
ÁGNES HELLER - All’università, dal 1946 in poi, sono stata allieva di György Lukács, famoso marxista. Quella è stata la mia formazione. Tuttavia, a parte il primo volume del Capitale, non conoscevo altro. Per quanto possa apparire paradossale, non c’erano in quel tempo molte possibilità di studiare Marx, perché fino al 1953 tutti i suoi libri erano «materiale secretato». Solo in seguito, quando cominciai a leggere Marx, diventai una vera marxista, ma critica e selettiva. Lasciai perdere il Marx economista e scelsi invece quello giovane dei manoscritti di Parigi, che profetizza il nuovo Messia, e cioè i «proletari di tutto il mondo». Alcune importanti tesi di Marx, come il paradigma della produzione, mi sono sempre parse lontane ed estranee. Era quasi obbligatorio allora definirsi marxista o postmarxista. Ho imparato infine, grazie a Michel Foucault, che la filosofia è personale (non privata!) e non è quindi necessario identificarsi in uno dei tanti «ismi», per essere riconosciuti come filosofi.
DONATELLA DI CESARE - La sua teoria dei bisogni, che proprio in Italia ha avuto negli anni Settanta grande successo, resta più che mai attuale. A partire da Marx, lei identifica nei «bisogni radicali» - una vita piena di senso, un lavoro gratificante, l’esigenza di tempo libero, cultura, amore - i bisogni che, proprio perché mirano a una liberazione radicale, non possono essere soddisfatti in una società ingiusta. Sono perciò antitetici ai bisogni alienanti - il consumo di merci gratificanti, la necessità di conformarsi - che creano sempre ulteriore assoggettamento. Nell’egocentrismo illimitato del tardo capitalismo manca infatti sempre qualcosa.
ÁGNES HELLER - Continuo a vedere in Marx una delle voci più radicali del pensiero moderno che insieme a Kierkegaard, Nietzsche e Freud, ha influenzato profondamente il mondo di oggi. In particolare Marx e Nietzsche, loro malgrado, sono stati oggetto di una ricezione per certi versi esiziale. Nietzsche è stato utilizzato dai nazisti, Marx da Stalin. Ma non si è responsabili di una recezione contro cui non è possibile farsi valere (semplicemente perché non si è più in vita).
DONATELLA DI CESARE - Sebbene lei abbia difeso una «filosofia radicale», il suo atteggiamento verso la democrazia liberale non è critico come si potrebbe immaginare. Lei sostiene che non c’è bisogno di trasformazione rivoluzionaria e che le istituzioni democratiche odierne hanno un potenziale nascosto che non siamo riusciti ancora a liberare.
ÁGNES HELLER - Prima con la teoria dei bisogni, poi con il saggio sulla rivoluzione della vita quotidiana ho preso questa posizione avvicinandomi alla Nuova Sinistra. Si è trattato anzitutto di un cambio di paradigma nell’interpretazione di Marx.
DONATELLA DI CESARE - Nel suo libro Paradosso Europa, lei ha più volte sottolineato giustamente la contraddizione tra diritti del cittadino e diritti dell’uomo che segna la democrazia occidentale almeno dalla rivoluzione francese. Nel frattempo questa contraddizione è divenuta - io credo - un vero contrasto, anzi un conflitto: quello fra i cittadini di uno Stato-nazione e i migranti. Di qui la crisi dei diritti umani, calpestati ovunque, che si è tradotta in criminalizzazione di chi, fra gli Stati, tenta ancora di innalzare il vessillo della solidarietà. Tengo a dire che considero la prospettiva dell’universalismo cosmopolita un fallimento; penso che occorra guardare a un’articolata politica dell’accoglienza e allo sviluppo di comunità aperte. Mi pare che su questo punto lei assuma una posizione che non condivido, quando sostiene - più o meno apertamente - che i cittadini sono sovrani, che hanno insomma il diritto di escludere, di respingere. Per lei è valida la distinzioni tra profughi politici e immigrati economici, che io considero invece fittizia, un retaggio della guerra fredda. Di più: lei afferma che l’Europa si deve difendere, deve chiudere le porte a coloro che sono «estranei» alla sua civiltà e che ne metterebbero a repentaglio il futuro. Non le sembra una posizione reazionaria?
ÁGNES HELLER - La Rivoluzione francese ha proclamato i diritti dell’uomo e quelli del cittadino. Sappiamo già da tempo che i diritti umani possono essere preservati solo dove sono garantiti i diritti dei cittadini - come fa lo Stato. Negli ultimi anni è all’ordine del giorno la questione del conflitto tra questi due tipi di diritti a causa della crisi migratoria. Per quel che riguarda i diritti umani, tutti sono nati liberi e hanno il diritto di vivere lì dove vogliono. Ma per quel che riguarda lo Stato, i cittadini possono e devono decidere con chi coabitare. Sono contraria a recinti e confini; ma occorre riconoscere questo diritto dei cittadini che limita purtroppo i diritti umani. C’è il rischio di conflitti e guerre. Ma temo soprattutto che paure, legittime e comprensibili, verso un altro che non conosciamo, possano essere strumentalizzate dai populisti.
DONATELLA DI CESARE - Lo Stato nazionale mostra però oggi il suo lato peggiore, più aggressivo e violento. Basti pensare ai muri, ai fili spinati, ai campi di internamento per i migranti. La xenofobia dilaga, in Ungheria, ma anche in Italia.
ÁGNES HELLER - Sì, il razzismo è presente ovunque, in forme vecchie e nuove. L’antisemitismo è in particolare odio per Israele. La miccia che ha riacceso il nazionalismo è stata la crisi economico-finanziaria. I leader populisti hanno raggiunto grandi consensi fomentando l’odio e attingendo ai sentimenti più bassi. Il populismo autoritario ha precedenti in quello che chiamo «bonapartismo», un fenomeno inaugurato da Napoleone. Di fronte a problemi complessi, che richiederebbero condivisione, responsabilità, solidarietà, si ricorre all’uomo forte, che incarna lo Stato, rivendica verità, promette soluzione a tutto quel che affligge il «popolo». In realtà rappresenta interessi parziali e agisce senza scrupoli. La scorciatoia del bonapartismo resta purtroppo una tentazione, malgrado la rovina portata da tutti quei leader populisti che promettevano salvezza. Nel mio Paese, l’Ungheria, il populismo di Orbán ha assunto caratteri autoritari e sempre più preoccupanti. Ma vedo che ormai rischia di non essere un’eccezione in Europa...
DONATELLA DI CESARE - Il sovranismo populista, che si nutre di complottismo, odio per l’altro, stereotipi razzisti, non è più una tendenza marginale, ma sta diventando forza di governo.
ÁGNES HELLER - L’espressione «populismo» è fuorviante. Perón è stato un populista, una sorta di dittatore, che tuttavia aveva la sua forza nei sindacati. I populisti attuali, come Trump o Orbán, sono appoggiati dalle oligarchie, più o meno velate. Oggi viviamo in società dove i tiranni possono essere votati liberamente. Gli interessi di classe non hanno più un ruolo significativo in campo elettorale; le ideologie, invece, sono decisive. In Europa vedo nei prossimi anni lo scontro tra due forze: da una parte la tradizione autoritaria, dall’altra il federalismo, di cui il primo esempio fu Roma antica. Certo, i partiti populisti possono vincere le elezioni, ma non governare a lungo. La democrazia, intesa come governo di maggioranza, non basta a garantire la libertà.
DONATELLA DI CESARE - Lei ha fatto ritorno in Europa, malgrado il lungo esilio, prima in Australia, poi in America. Vuol dire che ripone ancora speranze nel vecchio continente... Io penso che l’Europa avrebbe dovuto diventare una forma politica postnazionale. E invece è rimasta un agglomerato di Stati nazionali.
ÁGNES HELLER - L’Europa si è ridotta a mero progetto burocratico. L’occasione mancata è la Costituzione europea, senza la quale appare difficile fermare le derive populiste e autoritarie. Al contrario di quel che si crede, l’Europa, con il suo passato tetro, è estranea alla democrazia liberale. Profondamente europeo è, invece, il nazionalismo che oggi si riafferma. Il motivo? È mancata una coscienza europea, la costruzione di un’identità unificante. Non si possono incolpare solo i governi; anche i cittadini hanno perseguito interessi nazionali.
DONATELLA DI CESARE - La liberazione delle donne è forse le rivoluzione più significativa, perché rimuove l’unica disuguaglianza che nei secoli è stata ritenuta ovvia, naturale. Perciò lei ha scritto, non senza una punta di provocazione, che lo stato di minorità delle donne è oggi «autoinflitto». Che cosa intende? Si riferisce alla paura della libertà?
ÁGNES HELLER - Sì. La liberazione delle donne è stato anche obiettivo della Nuova Sinistra. Sono molte le «ovvietà» dominanti messe in questione. È una lunga e difficile storia. Ma dal 1968 a oggi noi donne abbiamo ottenuto più riconoscimento di quanto fosse mai avvenuto prima.
DONATELLA DI CESARE - «Oggi sosteniamo che la Nuova Sinistra è stata sconfitta, ma è una sciocchezza». Così lei ha scritto qualche anno fa precisando che «le speranze rivoluzionarie non possono essere realizzate, ma ciò non significa che la rivoluzione sia un inganno». Lo pensa ancora?
ÁGNES HELLER - La Nuova Sinistra mi ha attirato per molti motivi. Sin dall’inizio è stata ostile al comunismo sovietico. Inoltre al suo interno non era necessario concordare su tutto. Infine è sempre stata internazionale - è fiorita in Francia, in Italia, negli Usa, in Sudamerica. I suoi obiettivi erano concreti e diversi. Sotto il profilo filosofico ha contribuito al passaggio dal moderno al postmoderno. Questa rivoluzione per me non è sconfitta né tanto meno conclusa, nonostante le disillusioni e, anzi, proprio per questo. Ma è chiaro che serve mobilitare la società civile sia per ridistribuire le ricchezze sia per coinvolgere tutti in un grande impegno per l’istruzione. Altrimenti attecchiranno i populismi.
DONATELLA DI CESARE - Contro i becchini della filosofia, che vanno proclamandone ormai da tempo la fine, lei dice che la filosofia non è morta, a patto che non si riduca a puro gioco speculativo.
ÁGNES HELLER - Occorre essere cauti quando si parla di futuro, specie nel campo della filosofia. Nell’epoca postmetafisica le opere filosofiche di maggior rilievo sono state prodotte nell’ambito della fenomenologia e dell’ermeneutica. Adesso sembra quasi che il pensiero creativo si sia esaurito. Mentre i filosofi analitici non fanno che risolvere enigmi, gli storici coltivano una filosofia da museo. Tutto ciò serve a poco - come i nodi di un fazzoletto che dovrebbero ricordarci quel che non vorremmo dimenticare... Vedo però anche nella filosofia continentale, in cui mi riconosco, il rischio di un’eccessiva popolarizzazione.
Il bonapartismo è ancora qui
L’Europa non è al sicuro, la democrazia è un’acquisizione recente
Ágnes Heller parla di diritti, migranti e islam: ci salverà Berlino
intervista di Danilo Taino (Corriere, La Lettura, 01.05.2016)
Ai tempi del nonno di Ágnes Heller, «in Bosnia i cristiani andavano dai vicini musulmani a fumare; e i musulmani dai vicini cristiani a bere vino». La filosofa ungherese, che il 12 maggio compirà 87 anni, lo racconta per dire che non è sempre stato come oggi, in Europa. Nell’impero asburgico, popoli ed etnie vivevano fianco a fianco. Poi, però, tutto finì comunque in tragedia. È che «il mondo è sempre stato un posto pericoloso, chi pensa il contrario non ha mai letto un libro di storia», dice.
La casa di Budapest della signora Heller ha un largo terrazzo sul Danubio, nel lato di Pest: di fronte, sulla sponda di Buda, l’università tecnica e il museo di Storia naturale. È una mattina di sole. Nel pomeriggio andrà al funerale di Imre Kertész, scrittore e premio Nobel, morto il 31 marzo e seppellito venerdì 22 aprile. Prima, si siede a un tavolo tondo colmo di libri e di fogli per questa intervista, nella quale intravede un futuro buono per i Paesi anglosassoni, incerto per l’Europa.
Sembra che nel mondo ci sia desiderio di uomini forti: Putin in Russia, Erdogan in Turchia, Al-Sisi in Egitto, Orbán qui in Ungheria, Xi Jinping in Cina, Trump in America.
«A parte il caso di Trump, uomini forti ci sono sempre stati in questi Paesi, niente di nuovo. Anche in Europa ce n’erano, ora non più. C’è una donna forte in Germania, ma è profondamente democratica».
La democrazia sembra avere un problema, però. Dopo la caduta dell’Unione Sovietica si espandeva. Ora è in ritirata.
«Era un’illusione che la democrazia avanzasse. Cambiano i modi in cui il potere si manifesta, ma la sostanza tende a restare uguale».
Non vede una crisi della democrazia, nel mondo?
«Gli anglosassoni vivono nella democrazia e continueranno a viverci. Per loro la democrazia e i diritti civili sono fondati nella costituzione, non nello Stato. La crisi è in Europa, dove la democrazia non è una tradizione, dove ancora oggi il bonapartismo non è scomparso. Non possiamo dimenticare che per Paesi come la Spagna, il Portogallo, la Grecia la democrazia è un fatto degli scorsi 40 anni. Anche in Italia e in Germania è relativamente nuova, per non dire dell’Europa dell’Est. Il ruolo del costituzionalismo si vede bene nell’approccio agli immigrati».
In che senso?
«Integrazione non significa avere tutti gli stessi vestiti o dire tutti le stesse preghiere. Significa semplicemente rispetto delle leggi. Che non c’è religione che superi la legge. E che tutti gli ospiti devono rispettare le regole della casa: mantenere le proprie tradizioni nella legge. In America e in Australia succede. In Europa no, perché il costituzionalismo è più debole. In Francia una ragazza non può andare a scuola con il chador. In America sì; però deve obbedire all’insegnante. È fondamentale che al centro ci sia la legge. Poi, il chador o la croce non sono un problema dello Stato. Sì, sono liberale: non dobbiamo avere paura delle culture diverse».
Torniamo a Trump. Anche in America sembra esserci voglia di un uomo forte.
«Trump è un peronista e su quella base mobilita le masse. Ma non diventerà presidente. Quello che è interessante negli Stati Uniti è che molta gente è insoddisfatta e per questo sostiene Trump o un ebreo socialista come Sanders. Perché non riconosce più l’establishment. È la prima volta che in America c’è una sfiducia così forte nell’establishment. Ma non è una crisi politica, è una crisi economica. Abituati a credere nelle possibilità infinite, gli americani sono di fronte a una mobilità che era fondata sull’istruzione e ora si è molto ridotta. Perché l’istruzione costa troppo. Ma in discussione non è la democrazia. L’America non abbandonerà la democrazia, non ha una tradizione bonapartista. Lo stesso vale per la Gran Bretagna. In Europa, invece, tutto è possibile. Non vedo un continente dominato dall’islamismo, ma una vittoria della destra e un’Unione Europea illiberale sono possibili».
A proposito, ha letto il romanzo di Houellebecq, «Sottomissione»?
«Sì, è un bel libro. Ma l’ho letto come un avvertimento, non come una previsione. Nel senso che l’islamismo è totalitario, ma non è il pericolo maggiore che corre l’Europa, dal punto di vista della sua possibilità di accettare una sottomissione. Si è già sottomessa ai fascismi, al nazismo, al bolscevismo. Non è impossibile che si sottometta all’islamismo, però lo ritengo improbabile. Le questioni della razza, dello scontro di classe, del nazionalismo esistevano come tradizione in Europa e su di esse quelle ideologie si sono sviluppate e affermate. L’islam no, non è nella tradizione europea. Non credo che sia un vero pericolo. Ma bene l’avvertimento di Houellebecq».
Forse, proprio per il passato fascista, nazista, bolscevico, abbiamo anticorpi contro la sottomissione.
«No, non credo all’antidoto. Qui nell’Est europeo sappiamo bene che coloro che si sottomisero al nazismo si sottomisero poi anche al bolscevismo».
Veniamo alla questione dei rifugiati. Iniziamo proprio con l’Europa dell’Est, dove il loro rifiuto sembra più forte. Cosa succede?
«Alcune differenze tra i Paesi dell’Est europeo ci sono. Gli ungheresi ad esempio hanno paura degli immigrati, ma non di Putin; i polacchi, invece, hanno paura di entrambi. Diversità che dipendono da ragioni storiche. Ma tutti questi Paesi hanno un passato comune, l’occupazione sovietica e il paternalismo. Non hanno affrontato il loro passato durante la guerra, non ne hanno mai discusso, non sono arrivati a dire basta al nazionalismo. Il nazionalismo ha iniziato a imporsi sotto l’impero asburgico, ma i popoli allora vivevano fianco a fianco. È dopo la Prima guerra mondiale che sono emersi gli Stati nazionali, etnicamente omogenei, che hanno negato il passato di convivenza. Ora, questi Paesi difendono lo Stato nazionale per difendere le loro omogeneità etniche: ritengono che se arrivano estranei perderanno i vantaggi dello Stato nazionale. L’omogeneità etnica non è razzismo, ma ha a che fare con esso. In questi Paesi, i governi non parlano mai di rifugiati, ma sempre di migranti che distruggono la società e portano una cultura parallela».
Non è solo una caratteristica dell’Est.
«No. Tutti gli Stati nazionali tendono a parlare di culture parallele e a temerle. In Europa l’eccezione è la Svizzera, che infatti non è uno Stato nazionale. In Italia questo aspetto sembra essere meno forte tra la popolazione, forse perché il vostro è uno Stato nazionale più tardo e meno forte. Non c’è invece questione di cultura parallela in America o in Israele. Ma da noi si è affermata un’ideologia di comodo: qui, quando dici islam dici Parigi e Bruxelles, gli attentati. Identificare islam e terrorismo è una concezione del tutto errata, empiricamente: gli iraniani non si fanno esplodere, solo certi arabi lo fanno. Però è un’identificazione che sostiene la demagogia».
Che opinione ha della cancelliera Merkel?
«Una gran donna. Non era probabilmente del tutto cosciente della portata della decisione di aprire le porte ai rifugiati, ma la sua è stata un’ottima decisione. Il suo cuore è nel posto giusto. Però ha fatto errori, non aveva un piano, probabilmente. Ma mi pare la leader migliore in Europa. È che la Germania ha fatto una riflessione enorme sul proprio passato e l’ha rifiutato. I tedeschi sono diventati un popolo diverso. Il che non risolve il problema dell’Europa, perché per stare ritti non basta un piede, ne servono almeno due: ma oggi la Francia è attraversata da un nazionalismo di destra e di sinistra molto più forte di quello tedesco».
Come legge le tensioni nazionaliste che crescono in tutta Europa?
«Nel XVIII secolo si è sviluppato e ha preso piede l’universalismo, abbracciare tutti. Nel Flauto Magico , Mozart poteva musicare la frase riferita a Tamino, “è più di un principe, è un uomo”. Ma subito dopo arriva la Nazione Tedesca di Fichte. Universalismo e nazionalismo sono nati assieme e gli europei tendono a ubbidire a questa dualità. È la ricerca di un compromesso tra i diritti dell’uomo e lo Stato. Caratteristica europea, perché i diritti umani sono basati sullo Stato nazionale e non sulla costituzione».
Oggi ha più senso parlare di divisione tra destra e sinistra o tra nazionalisti e globalizzati?
«Destra e sinistra sono categorie tradizionali che ora hanno contenuti diversi, collegati più ai modi di vita che all’economia. La destra è più per famiglia e religione, la sinistra più per modernizzazione e piacere della vita. Ma la questione capitalismo versus collettivismo è sparita, l’Europa ha di fatto accettato l’americanizzazione. Quanto alla globalizzazione, sì, la cultura è globalizzata, sia quella alta sia quella bassa; come l’economia e la tecnologia. Ma non sono globalizzati i modi di vita, basati sulla tradizione: non possono esserlo. Anche nell’impero romano all’assimilazione seguì la disassimilazione. Ciò può essere una buona cosa, le differenze non sono un male».
Non sono passi indietro?
«Il progresso della natura umana è un’illusione dell’universalismo. È meglio la realtà dell’illusione. Nel mondo ci sono strutture diverse, anche strutture di omicidio di massa, masse di poveri mobilitate dalle élite. Servono le radici delle libertà democratiche per limitarle e prevenirle. Ma non illudiamoci di andare verso una società giusta: non esiste la società giusta, niente è perfetto. In Europa possiamo trattare i problemi, ma non risolverli. La vita non può essere risolta».
Un mondo di incertezze.
«Gli anglosassoni sono al sicuro. L’Europa non lo so. Ma ho fiducia nei tedeschi».
Il comune destino degli ungheresi Istvan Toth e Geza Kertesz
Sport e Shoah. Costruirono una rete clandestina per salvare gli ebrei, diventarono allenatori in Italia, tornati in patria furono fucilati nel ’45
di Pasquale Coccia (il manifesto, 23.01.2016)
Gottfried Fuchs e Jiulius Hirsch furono gli unici calciatori ebrei a vestire la maglia della nazionale tedesca, primato che detengono ancor oggi. Amici per la pelle in campo e fuori, furono segnati da un diverso destino. Il primo, una mezzala in grado di trasformarsi in un veloce attaccante e mettere la palla in rete, passò alla storia del calcio alle olimpiadi di Stoccolma del 1912, quando con la nazionale tedesca in una sola partita realizzò dieci dei sedici gol che la Germania inflisse alla Russia. Prima che la furia hitleriana si abbattesse sugli ebrei Gottfried Fuchs fuggì in Canada, dove visse fino al 1972. Diversa fu la sorte dell’ala sinistra Julius Hirsc. Convinto che la persecuzione degli ebrei fosse passeggera rimase in Germania, ma per lui non ci fu scampo, fu deportato ad Auschwitz dove morì nel maggio del 1945.
Ebbero destini comuni fino alla morte Istvan Toth e Geza Kertesz, due calciatori ungheresi, poi allenatori in Italia, che aiutarono gli ebrei e mettersi in salvo attraverso una rete clandestina cui avevano dato vita. Come facevano ad aiutare centinaia di ebrei al giorno? Forti del loro perfetto accento tedesco, vestiti da ufficiali delle SS li prelevavano direttamente dal ghetto di Budapest.
Toth e Kertesz furono due calciatori che da giovanissimi giocarono nel Btc Budapesti, una delle più forti compagini del campionato magiaro. Toth, il più forte tra i due esordì in nazionale a soli 18 anni in, Ungheria-Inghilterra, 4 a 2 a favore degli inglesi. Toth e Kertesz, giocarono insieme per tre anni, poi Toth passò nelle file del Ferencvaros. Facevano parte di quella scuola danubiana che si affermò rapidamente e dominò il calcio europeo dagli anni Trenta fino al dopoguerra. Finita la carriera calcistica, Istvan Toth e Geza Kertesz restarono entrambi nel mondo del calcio, intraprendendo la carriera di allenatori, seppero applicare moduli innovativi e vincenti.
Toth al suo primo anno da allenatore alla guida della Ferencvaros, conquistò lo scudetto, un trofeo che mancava da ben tredici anni, e l’anno successivo la Coppa dell’Europa centrale, rispondente all’attuale Champions. A 40 anni Istvan Toth era sul tetto d’Europa, l’allenatore più conosciuto per gli allenamenti e i moduli tattici rivoluzionari che aveva saputo introdurre nel calcio, non solo era un grande motivatore, contava sulla forza del gruppo, ma per la prima volta ogni calciatore aveva una sua scheda di allenamento con i punti forti e deboli da curare.
Nell’estate del 1931 per Istvan Toth arrivò la chiamata dall’Inter. I nerazzurri l’anno precedente avevano vinto lo scudetto sotto la guida di un altro grande allenatore ungherese, Arpad Weisz, che aveva lasciato i campioni d’Italia per passare al Bologna di Leadro Arpinati, fascista della prima ora e ras della città emiliana, il quale voleva i felsinei scudettati a tutti i costi. I nerazzurri avevano nelle proprie file Giuseppe Meazza, che appena ventenne era stato lanciato nella massima serie proprio da Arpad Weisz.
Quell’anno l’Inter concluse il campionato al sesto posto, una delusione per le aspettative dei nerazzurri, a Toth non restò altro che raggiungere l’Ungheria per allenare altre squadre. Diverso il percorso da allenatore di Geza Kertesz, che fece una carriera tutta italiana. Alla guida dello Spezia portò la squadra ligure al passaggio di categoria, passò alla Carrarese che condusse in serie B, fu allenatore del Viareggio e della Salernitana.
A fargli una corte spietata e a non badare a spese fu il barone Enrico Talamo, proprietario del Catanzaro, Geza Keretsz al termine del campionato 1932-33, portò la squadra calabrese in serie B, dopo aver vinto gli spareggi contro il Napoli e il Perugia, mai una squadra calabrese aveva conquistato un risultato del genere. Keretzs divenne un eroe popolare, ma l’affetto della gente di Catanzaro non lo trattenne. L’allenatore magiaro era un animo irrequieto e dopo il successo calabrese, passò in Sicilia dove prese ad allenare il Catania, anche qui Keretsz replicò il successo ottenuto l’anno prima a Catanzaro.
La squadra etnea non aveva mai raggiunto la serie B, dopo il successo la piazza si riscaldò e voleva la serie A, la squadra siciliana acquistò Biavati, futuro campione del mondo nel ’34, ma concluse il campionato di B al terzo posto. A reclamare l’allenatore magiaro fu il Taranto, Keretsz alla guida della squadra pugliese conquistò per l’ennesimo anno la serie B, ormai era considerato un esperto di promozioni. Intanto aveva rifatto capolino in Italia il suo amico Toth, il quale allenò la Triestina, dove lanciò Gino Colaussi, che vinse i mondiali di Francia nel 1938, ma i risultati furono deludenti, mentre Keretsz approdò in serie A alla Lazio, piazzandosi al quarto posto nel campionato 1939-40.
L’anno successivo all’euforia seguirono risultati deludenti, alla sesta giornata di campionato Keretsz fu esonerato, allenò anche la Roma l’anno dopo quello dello scudetto del 1939-40. L’aria si era fatta pesante, l‘Italia era in guerra, Keretsz tornò a Budapest. Dopo l’invasione di Hitler, organizzò con Toth una rete per salvare ebrei e oppositori politici, Keretsz parlava perfettamente il tedesco e vestito da ufficiale SS andava nel ghetto a prelevarli per metterli in salvo. La rete di resistenza durò un anno, fino a quando una spia denunciò i due allenatori, la Gestapo li fucilò il 6 febbraio del 1945, il 13 febbraio Budapest fu liberata.
MILANO
Lunedì 16 Novembre 2015 ore 21.00
I nazionalismi minacciano l’Europa?
I nazionalismi minacciano l’Europa?
Incontro con Agnes Heller, prestigiosa filosofa ungherese allieva di György Lukàcs
Introduce Ferruccio Capelli
traduzione dall’inglese all’italiano
In Europa
Intervista ad Agnes Heller
L’Europa dei nazionalismi
(Il Mulino,, 29 settembre 2015)
Quando scende dallo sgabello in cui si è inerpicata per leggere le mail al computer, ti rendi conto di quanto sia piccola ma energica Agnes Heller. 86 anni, ha vissuto il nazismo nel ghetto di Budapest, si è innamorata della filosofia studiando con Lukacs, è stata marxista non ortodossa, espulsa e poi riammessa nel Partito comunista ungherese. Negli anni Settanta riesce a uscire dal Paese per insegnare prima in Australia poi a New York. Il suo ultimo libro è La bellezza (non) ci salverà (Il Margine, 2015), dove dialoga con un altro vecchio mitteleuropeo, il sociologo polacco Zygmunt Bauman. Abbiamo incontrato Agnes Heller a pordenonelegge e abbiamo chiesto a lei, ungherese, che parole userebbe per descrivere cosa sta accadendo nel suo Paese ai migranti.
AH: I problemi sono complicati. Ecco perché non c’è una sola parola chiave. Si può descrivere cosa succede ora, cosa potrebbe accadere in futuro, quali possibili alternative per l’Europa e per il mondo: ma questo non può essere sintetizzato in una sola parola chiave. Ecco, forse, si può affermare che il volto dell’Europa cambierà.
Ma come cambierà l’Europa è tutta un’altra questione.
L’Europa sta chiedendo a chi bussa alle sue porte di accettare le sue leggi e la sua cultura. Cioè di assimilarsi, non integrarsi.
AH: L’Europa è fatta di Stati-nazione. E l’Europa è pessima nell’attuare l’integrazione. I popoli con differenti abitudini e culture hanno bisogno di essere integrati. L’Europa invece finisce sempre per tendere all’assimilazione. Ma assimilarsi diventa quasi impossibile per un così gran numero di persone. Credo che l’Europa debba chiedersi se vuole veramente l’integrazione, e non l’assimilazione: è un’opzione. In questo caso, se siamo d’accordo a integrare e non ad assimilare, otterremo nuovi e buoni lavoratori, dei patrioti. Ma se vorremo assimilarli produrremo dei nemici. Bisogna capirlo, altrimenti non si sa cosa accadrà in futuro.
Guardate gli Stati Uniti: non sono uno Stato-nazione, hanno legalizzato 3 milioni di immigrati che sono diventati americani, quindi patrioti. Ma in Europa non è così: bisogna imparare la lingua, le abitudini, le regole del Paese ed è molto difficile. I musulmani, per esempio, non assimileranno mai la cultura cristiana. L’unica cosa che si può - e si deve - chiedere loro è di non limitare la libertà altrui, quella dei figli, delle donne, degli amici e di rispettare le leggi dello Stato e la sua Costituzione. Se lo fanno, possono fare ciò che vogliono. Possono vestirsi come vogliono, andare alla moschea quante volte desiderano. Possono continuare a vivere la propria cultura, a meno che essa non contravvenga alle leggi dello Stato o limiti la libertà altrui. Non si può introdurre la sharia per gli altri, ma si può seguirla individualmente. Che importa? Basta lasciare in pace gli altri, senza accusarli di decadenza o ateismo, altrimenti anche chi è integrato non sarà tollerato. Entrambe le parti devono imparare una lezione, oppure ci saranno molti problemi in futuro.
La storia dell’Europa è un susseguirsi di guerre, di sangue versato in nome dei nazionalismi.
AH: Gli Stati-nazione sono nazionalisti! È una loro caratteristica. Sono nati dopo la Rivoluzione francese. Sono nazionalisti dalla nascita. Come ho già scritto, è stato durante la Prima guerra mondiale che il nazionalismo ha vinto contro l’internazionalismo proletario e la borghesia cosmopolita. Da allora l’Europa è stata caratterizzata dal nazionalismo. E non è facile cambiare. Perché se nella storia si sviluppa una certa identità, è molto difficile farla scomparire.
E il nazionalismo è anche l’ideologia vincente di questo momento: come si può combatterlo?
AH: La gente può avere una propria identità anche senza avere un’identità nazionale. L’Europa era un’Europa di popoli, ora è diventata un’Europa di nazioni. E da allora non si è più trattato di un’identità di popoli, di religione, di città (come in Italia) o di Stati (come negli Stati Uniti), ma di una soverchiante identità nazionale.
Come si può contrastare questo fenomeno? Si può affermare che bisogna invertire la direzione, che l’Europa deve tornare a essere un’Europa dei popoli. Ma chi può farlo? Quale potere ne è in grado? La nazione e il nazionalismo sono ottime armi politiche con cui i potenti conservano ed esercitano ancora più potere. I potenti possono fare sempre riferimento al bene della nazione. I cuori iniziano subito a battere quando si sente parlare della difesa della propria nazione... Ma come la difendiamo? Contro altre nazioni o no? Per esempio, quando vivevo in Australia e l’Italia ha vinto i Mondiali, tutta Melbourne era piena di emigrati italiani che festeggiavano. Non facevano male a nessuno! Se "nazione" significa volere che il mio Paese vinca nello sport, o provare orgoglio quando un mio compatriota riceve il Nobel o è una celebrità del tennis, va benissimo! Ma se "nazione" implica odio o disprezzo per altre culture, che consideriamo diverse, allora è difficile cambiare le cose. È difficile tirare indietro l’orologio della storia!
(Questa intervista ad Agnes Heller è stata raccolta e trasmessa da Radio Popolare)
Solidarietà spontanea e dissenso civile in Ungheria
di Leila Kozma (alfapiù, 28 settembre 2015)
Gli ungheresi non debbono essere identificati con il loro governo. Si è parlato molto delle decisioni governative con cui è stata affrontata la crisi dei rifugiati, ma non si sono raccontate le azioni dal basso compiute per combattere le circostanze disumane che i rifugiati hanno dovuto sopportare.
La maggior parte del popolo ungherese si vergogna profondamente dell’atteggiamento mentale terroristico scatenato dal governo Orban, ma non dispone di canali attraverso i quali esprimere il suo dissenso. A parte alcuni rari esempi, come la lettera aperta firmata da intellettuali ben conosciuti, per i cittadini non c’è stata la possibilità di manifestare il disgusto verso la retorica fascista che il governo ha tentato di istillare nell’opinione pubblica.
Inoltre non si è manifestata una posizione uniforme dell’opinione pubblica: un senso generale di apatia è stato prevalente negli ultimi anni. e alle due proteste che si sono svolte recentemente, una contro la crisi dei rifugiati e l’altra contro le misure legali che peggiorano gli effetti di quella crisi, hanno partecipato circa tremila persone ciascuna. Molti provano compassione, rabbia, e desiderio di aiutare, però non dispongono dei mezzi per rendere noti i loro sentimenti e le loro azioni.
Perciò molti hanno scelto di affrontare il conflitto dei cittadini contro lo stile politico dominante attraverso la creazione di piccoli gruppi auto-organizzati. Questi gruppi considerano essenziale protestare contro la disumanizzazione e contro le condizioni impossibili prodotte dalle decisioni dei gruppi dirigenti ungheresi col risultato di mettere a rischio la vita stessa dei rifugiati. Questi gruppi agiscono con l’intenzione di ristabilire la solidarietà, l’empatia e la compassione tra esseri umani. Questi gruppi sono costituiti da singolarità che pensano sia necessario prendersi cura l’uno dell’altro a prescindere dalla nazionalità, dalle identità, e dalle posizioni politiche personali.
Le azioni che compiono questi gruppi non possono avere una risonanza nazionale, non tentano di istituzionalizzare la resistenza, e queste azioni hanno carattere effimero, provvisorio e non sono necessariamente destinate a coordinarsi. Sono motivate da relazioni interpersonali e sono stimolate dall’informazione che circola sui social media. La mancanza di visibilità, l’informazione che passa da una persona all’altra, e il sospetto e la paura sono inevitabili in un periodo in cui l’azione dello stato è finalizzata a sfruttare la buona volontà dei cittadini. Recentemente è stata avanzata addirittura una proposta di legge intesa a permettere agli agenti di polizia di entrare nelle case private senza notifica e di perquisire, in caso di sospetta presenza dei migranti o di attività in loro favore.
Di seguito riportiamo alcune azioni copiate in modo spontaneo dai gruppi che ritengono che sia possibile rimanere umani e non perdere il sentimento di compassione verso altri esseri umani.
Bekefeszek è una piattaforma aperta attraverso cui dei cittadini rendono pubblica la disponibilità per qualche notte di spazi gratuiti nelle loro case. Molti nella città di Budapest offrono ospitalità e cibo in modo tale che i migranti rimasti davanti alla stazione di Keleti, senza l’informazione necessaria per sapere se potranno continuare il viaggio, si possano riposare, possano mangiare un pasto caldo e possano trovare temporanea ospitalità. Questo lavoro diventa estremamente importante se pensiamo agli attacchi e alle condizioni meteorologiche cui i rifugiati sono stati esposti.
Un’applicazione telefonica chiamata InfoAid ha la finalità di distribuire le ultime notizie e di tradurre l’informazione fornita ai rifugiati. Questa applicazione raccoglie informazioni sugli orari dei treni e degli autobus, e aiuta la gente in fuga a trovare un temporaneo rifugio. Dato che i campi allestiti lungo le frontiere ungheresi sono gestiti dalle autorità ungheresi e l’ungherese è la sola lingua parlata nei campi e dalla polizia, questo servizio ha un carattere essenziale. Il rifiuto dei burocrati di parlare in un linguaggio comprensibile da tutti è stata la principale causa di manipolazione nelle settimane passate.
Vestiti, cibo, medicine e altre donazioni sono state fornite da due organizzazioni di solidarietà, MigSzol e MigrationAid . Quanto al trasporto è diventata abitudine di molti individui comprare biglietti ferroviari e consegnarli ai rifugiati, e organizzare servizi automobilistici col rischio di essere accusati di partecipare a un traffico illegale di esseri umani.
Dottori e studenti di medicina si sono messi a disposizione per aiutare. Le farmacie hanno fornito i loro materiali per migliorare le condizioni igieniche generalmente piuttosto cattive. La Telecom ungherese ha fornito gratuitamente internet per tutti quelli che soggiornavano davanti alla stazione ferroviaria Keleti.
Altri hanno organizzato delle azioni di animazione creativa, proiezioni cinematografiche, lezioni di disegno, programmi di infermeria per rendere più tollerabili le condizioni di ira dei rifugiati.
In Ungheria la popolazione è arrabbiata con il governo. Molti non riescono a capire perché le condizioni umane fondamentali debbono essere violate, e perché si possa venir accusati come criminali per aver fornito aiuto ad altri esseri umani.
Per fornire aiuto si sono dovuti creare piccoli gruppi di base e la finalità principale è stata quella di ridurre gli effetti dannosi che il governo ha provocato con le sue scelte e i suoi temporeggiamenti.
Non si deve sottacere il ruolo svolto dai civili. Senza di loro la crisi dei rifugiati sarebbe stata ancora più intollerabile. E’ grazie agli aiuti volontari, al lavoro volontario di dottori farmacisti, cuochi, autisti, traduttori, grazie ai contributi anonimi della popolazione, che i rifugiati hanno potuto per qualche momento avere la sensazione di essere un po’ più a casa loro.
Ue insorge contro Budapest, "Non serve muro contro migranti"
L’Ungheria aveva annunciato barriera di 175 km a confine con Serbia
di Redazione ANSA *
"In Europa sono stati recentemente abbattuti dei muri, non abbiamo bisogno di costruirne di nuovi". Lo afferma Natasha Bertaud, portavoce del Commissario Ue per l’Immigrazione Avramopoulos, commentando l’annuncio di Budapest della costruzione di un muro anti-immigrati tra Ungheria e Serbia.
Nuove cortine di ferro rischiano di spuntare in Europa. L’ultimo muro, per barricare l’Ungheria contro l’afflusso di migranti, è stato annunciato oggi dal governo di Budapest: deciso a blindare il confine meridionale con la Serbia a dispetto delle polemiche internazionali. Il progetto, ideato unilateralmente, è stato illustrato dal ministro degli Esteri Peter Szijjarto in queste ore. Ma era stato evocato dal premier populista Viktor Orban già la settimana scorsa, impegnato in una sorta di campagna elettorale anticipata. "L’immigrazione è pericolosa", bisogna ormai considerare "tutte le opzioni", aveva detto Orban nel suo intervento settimanale alla radio pubblica, evocando quella barriera che ora pare prendere forma.
Mentre il premier serbo Aleksandar Vucic si è detto "sorpreso" e "scioccato". Ma il governo ungherese si aggrappa al consenso popolare interno. E sottolinea come nell’ultimo anno siano passati dal confine serbo - terminale della cosiddetta rotta balcanica - decine di migliaia di migranti e profughi diretti verso lo spazio Ue: kosovari, ma soprattutto (al 70%) siriani, afghani, iracheni in fuga da guerra e violenze. L’Ungheria, assieme a Italia e Grecia, si considera in effetti in prima linea sul "fronte dell’emergenza immigrazione".
Il Paese ha ricevuto più di 50 mila richieste di asilo solo dall’inizio del 2015, contro le 43 mila di tutto il 2014, con la più alta percentuale pro capite dell’Ue. Per comprendere l’esplosione del fenomeno, i profughi registrati nel 2012 nel Paese erano stati appena 2.157. La barriera annunciata sarà alta di 4 metri lungo tutta la frontiera con la Serbia, per un tracciato di circa 175 chilometri, incluso un tratto fluviale.
Lo scopo dichiarato è quello di bloccare la principale via terrestre dei migranti verso l’intera Europa occidentale. Szijjarto ha informato che il primo luglio ci sarà una consultazione con Belgrado su questo progetto. Ma la Serbia - che proprio ieri ha annunciato un rafforzamento del pattugliamento comune del confine con l’Ungheria - si è mostrata sconcertata. Noi siamo determinati a contrastare l’immigrazione illegale "ma i Paesi dell’Unione Europea ci aiutino" invece di innalzare muri, è sbottato il ministro dell’Interno di Belgrado, Nebojsa Stefanovic. Budapest va in ogni modo avanti.
Ungheria, le destre fanno il pieno di voti
Stravince il premier conservatore Orban
Gli xenofobi di Jobbik salgono al 20%
Flop della sinistra
di Andrea Sceresini (La Stampa, 07.04.2014)
Nuovo trionfo per Viktor Orban. Il premier uscente ungherese, leader del partito di centrodestra Fidesz, ha sbaragliato la fragile coalizione composta da socialisti, liberali e verdi, si è aggiudicato il 48% dei consensi e si appresta a governare, per altri quattro anni, forte di una assoluta maggioranza parlamentare, ben 134 seggi su 199 secondo le prime proiezioni. Nulla da fare per il centrosinistra, che si ferma al 25%. Il partito dell’estrema destra Jobbik, più volte tacciato di antisemitismo e xenofobia, fa registrare un ulteriore balzo in avanti, seppure non travolgente, attestandosi a ridosso del 20%. Un risultato ottenuto a suon di provocazioni e slogan nazionalistici: «Votate Jobbik per sconfiggere gli zingari», è il testo del lapidario sms che milioni di ungheresi si sono ritrovati ieri mattina sul proprio cellulare.
Budapest si getta ancora più a destra, confermando i sondaggi della vigilia e i timori di parte della comunità internazionale. Per Viktor Orban è il secondo mandato consecutivo, il terzo della sua carriera politica. «Andremo avanti senza esitazione sulla strada che abbiamo tracciato», aveva promesso alla vigilia. Certamente sarà così. Dopo il clamoroso trionfo del 2010 - quando ottenne il 53% dei consensi contro il 19% dei socialisti - il leader di Fidesz diede vita a una controversa serie di riforme: fece approvare unilateralmente una nuova carta costituzionale; varò la legge sui media, che contribuì a imbavagliare le voci d’opposizione; riformò la Banca centrale magiara, riservando all’esecutivo il potere di nomina dei nuovi governatori.
Cinquantuno anni ancora da compiere, decisionista dal piglio burbero e spiccio, Viktor Orban ha ottenuto il suo primo mandato di governo nel lontano 1998. Durante gli ultimi quattro anni si è conquistato la stima - e le preferenze elettorali - dei membri delle comunità ungheresi residenti in Romania, Ucraina e Slovacchia, concedendo loro, con l’ennesimo colpo di teatro, il diritto di voto in patria. «Manifestare contro il governo equivale a tradire il Paese», ha dichiarato. Grande amante del calcio, ex centravanti di belle speranze, fierissimo self-made man in salsa post-socialista: «il Berlusconi magiaro», così lo chiamano da queste parti. Il suo Milan si chiama Felcsùt, la squadra del villaggio dove è cresciuto, per la quale ha fatto edificare un futuristico stadio da quattromila posti, che troneggia come un’astronave tra le modeste casupole dal tetto di legno.
Ha detto di lui il leader dell’opposizione, il socialista Attila Mesterházy: «Orban è a capo di una potentissima lobby politico-economica, grazie alla quale è riuscita a soggiogare l’intero Pease». L’ultimo colpo di scena risale a un paio di mesi fa, quando il premier magiaro ha firmato un accordo economico con Vladimir Putin, concedendo alla società russa Rosaton l’incarico di costruire due nuovi reattori nella centrale nucleare di Paks, l’unica dell’Ungheria. I suoi provvedimenti sono stati aspramente contestati dall’Unione Europea, che lo scorso anno minacciò sanzioni finanziarie. Ben lungi dal lasciarsi intimorire, il leader di Fidesz ha reagito alzando la voce: «Noi non crediamo nell’Unione Europea - ha dichiarato -, crediamo nell’Ungheria».
Il suo cavallo di battaglia si chiama economia. Nel ultimi quattro anni il Paese è riemerso dalla crisi, i salari sono aumentati e la disoccupazione è stata sensibilmente ridotta. Un dato su tutti: dalla primavera del 2013 a oggi il numero dei senza lavoro è sceso dall’11% all’8%. Oggi Orban promette nuovi miracoli: gli ungheresi hanno deciso di credergli.
Budapest, dove il sonno dell’Europa genera mostri
Oggi c’è un abisso tra la ragion d’essere della Ue e i comportamenti concreti
Alla freddezza sociale fa riscontro una colpevole insensibilità verso i diritti e i doveri della democrazia
di Paolo Soldini (l’Unità, 07.04.2014)
Il sonno dell’Europa genera mostri. Un mostro è Fidesz, il partito di Viktor Orbàn, che ha vinto le elezioni in Ungheria sulla base di un politica ultranazionalistica e autoritaria sul piano interno.
Non è ancora chiaro se riuscirà a conservare la maggioranza dei due terzi dei parlamentari che gli consentirebbe di proseguire la sua politica di smantellamento delle garanzie nell’ordinamento democratico del paese, ma comunque la sua vittoria è chiara. Jobbik, il partito fascista alla sua destra, ha avuto un successo temperato per fortuna dalla buona (e inattesa) tenuta dell’opposizione democratica, ma il suo estremismo xenofobo, revanscista e antisemita che va a sommarsi all’autoritarismo in doppio petto di Fidesz rende ancor più minacciosi i molti fantasmi dell’eversione che si agitano per l’Europa, dalla Francia lontana alla vicina Ucraina.
La conferma dello strapotere di Orbàn racconta all’Europa il contrario di quello che predicano le anime belle delle attuali istituzioni di Bruxelles e del Ppe, il partito popolare cui l’uomo forte di Budapest e i suoi aderiscono. Senza che nessuno abbia mai posto loro un problema di coerenza. Anzi, il capogruppo del Ppe al parlamento europeo, Joseph Daul, ha fatto addirittura un comizio con il primo ministro magiaro.
Ha «messo la faccia» (come si ama dire di questi tempi) sua e del Ppe accanto all’uomo che rivendica l’esistenza della Grande Ungheria in cui dovrebbero riunirsi tutte le minoranze sparse per l’Europa orientale. Che ha asservito al governo la Banca centrale e ha cacciato i giudici costituzionali che lo infastidivano. Che ha istituito un organismo che distribuisce direttive e «visti di qualità» ai giornali e alle tv per controllare che non diffondano notizie «inopportune, offensive e non rispettose delle esigenze di ordine pubblico». Che ha promosso una politica di incentivi alle imprese, dopo averle strette in una ragnatela di clientele, che fa a pugni con le direttive Ue.
Ora ci si può chiedere: se le autorità di Bruxelles fossero state più coerenti e più attente, se i partiti che fanno capo al Ppe, a cominciare dalla Cdu tedesca, non avessero pesato col bilancino dei propri vantaggi l’apporto di Fidesz al gruppo popolare nel parlamento europeo sarebbe cambiato qualcosa in Ungheria e lo strapotere di Orbàn sarebbe stato almeno contenuto? Poiché la controprova non c’è nessuno può dirlo.
Si sa però che tempo fa il gruppo dei liberali europei propose l’apertura di un procedimento contro Budapest in base all’art. 7 del Trattato di Lisbona, quello che prevede la sospensione dei Paesi che non rispettano i criteri minimi di democraticità e di rispetto dei diritti fondamentali dell’Unione.
L’iniziativa fu bloccata, e non solo dai popolari, ma anche dai socialisti perché i loro colleghi ungheresi temevano che potesse sfociare nell’uscita pura e semplice del Paese dalla Ue. Patetica manifestazione di impotenza e di colpevole rassegnazione che dice tutto sulla debolezza della sinistra magiara, povera di idee politiche e ricca di scandali, non ultima delle cause della resistibile ascesa di Viktor Orbàn. A voler essere ottimisti si può pensare che il risultato migliore delle pessime previsioni che circolavano alla vigilia ottenuto dalla coalizione democratica tra i socialisti, centristi e liberali sia un primo segnale di risveglio. Un segnale, nulla di più.
Ma la riflessione più seria che l’Europa deve fare prendendo spunto da quanto accade in un paese piccolo ma importante nella sua geografia e nella storia come l’Ungheria è quella evocata all’inizio. Ed essa non riguarda solo la contingenza, l’imminenza di elezioni per il parlamento europeo che rischiano di far diventare l’unica istituzione dell’Unione votata dai cittadini la tribuna di un populismo senza princìpi che vuole sfasciare tutto. Riguarda qualcosa di ben più profondo.
Oggi c’è un abisso tra la ragion d’essere dell’Unione europea, la comunità di valori che essa rappresenta, prima e oltre l’economia, e i comportamenti concreti delle sue istituzioni e dei governi nazionali. Alla freddezza sociale, l’inimicizia quasi verso i cittadini, che le politiche economiche europee hanno dispiegato con l’austerità, i tagli e le trojke specie negli ultimi anni, fa riscontro una colpevole insensibilità verso i diritti e i doveri della democrazia, che pure sono esplicitamente sanciti nella Carta fondamentale approvata 14 anni fa e recepita nei Trattati.
Il problema, prima che con l’Ungheria di Orbàn, si era posto con l’Austria delle coalizioni con gli xenofobi di Jörg Haider e per qualche altro paese in più di un passaggio della sua vita politica.
Inclusa l’Italia, almeno per quanto riguardava l’informazione e la giustizia, ai tempi del Berlusconi trionfante. A Bruxelles e nelle cancellerie si sono commessi peccati di omissione.
Il neonazista che si scoprì ebreo
L’incredibile e vera storia dell’eurodeputato ungherese Csanád Szegedi, dall’estrema destra alla sinagoga
di Carla Reschia (La Stampa, 22/10/2013)
In giro sulla rete si trovano ancora le sue foto da nipotino di Hitler, panciotto nero, braccio levato e sotto il podio, su bandiera tricolore, la scritta “Magyarorszag a magyaroke!”, ovvero l’Ungheria agli ungheresi. Ma Csanád Szegedi non è più lui, ha lasciato il partito, si è pentito, è diventato ebreo quasi osservante.
Giovane eurodeputato, cofondatore della “Guardia ungherese”, promessa del partito di estrema destra Jobbik, secondo solo al leader Gábor Vona e ancora più popolare di lui, Szegedi era fino a un anno fa, nel suo campo, una promessa: autore infuocato di severi diktat contro ebrei e rom e profeta del “complotto ebraico”. In un paese già molto a destra, si collocava oltre il primo ministro Orban, in zona Alba Dorata, per capirci.
In questi giorni però, il tedesco Die Welt, e molti siti ebraici dedicano molto spazio all’incredibile ma vera storia della sua conversione. Una conversione dettata, in un certo senso, da motivi di forza maggiore perché Szegedi ha scoperto di appartenere al popolo che più odiava.
La vicenda covava da tempo, pare: in rete giravano voci sulla sua “scandalosa “ origine tanto che i suoi stessi colleghi di partito a un certo punto avevano iniziato a fare ricerche. Senza dover neppure andare troppo in là nel tempo: la nonna di parte materna, Magdolna Klein, era scampata ad Auschwitz, nascita, il nonno, Imre Molnar, già Meisels, era sopravvissuto ai campi di lavoro. Altri parenti erano stati meno fortunati.
Szegedi, allevato nella religione luterana e nell’antisemitismo ha allora chiesto conferma all’interessata, 94enne ma ancora lucida. “Non voleva ma alla fine mi ha raccontato tutto, di Auschwitz, di come la sua famiglia fosse stata sterminata. Uno shock, ho capito che l’Olocausto era accaduto davvero”, ha raccontato l’eurodeputato alla CBN. Da lì è iniziato, racconta, un percorso che l’ha avvicinato a un rabbino, Shlomo Köves, del movimento Lubavitch - contattato cautamente via SMS. Sono l’eurodeputato Csanád Szegedi. Desidero essere richiamato - e che per un certo periodo gli ha fatto vivere una vita schizofrenica, trattato come un “lebbroso” dai quasi ex compagni di partito, incerto sulla propria identità umana e culturale.
Ora Szegedi siede ancora all’Europarlamento, ma come indipedente, è uscito dal partito che lo ha a sua volta rinnegato, prende lezioni di ebraico, frequenta la sinagoga e tenta di mangiare kosher dopo aver in altri tempi rivendicato il maiale e la panna acida come element indispensabili della vera cucina ungherese. Sospetto ai suoi nuovi correligionari dato il recente passato, disprezzato dagli ex commilitoni che hanno scoperto di essersi allevati una serpe in seno, ammette di aver vissuto per trent’anni secondo “valori sbagliati” e cerca di capire come sia potuto accadere.
Ma, già, com’è potuto accadere? Die Welt racconta nei dettagli la lunga e complessa storia che è alla fine, la storia di una grande paura. Fu il nonno scampato allo sterminio - mentre la prima moglie e i suoi figli erano stati sterminati - a imporre alla seconda moglie, Magdolna, anche lei ebrea, sposata con tanto di rito ortodosso, e alla loro figlia, la madre di Csanád Szegedi, di non rivelare mai a nessuno il segreto di famiglia, nella convinzione che la persecuzione si sarebbe potuta ripetere.
Ma il padre di Csanád lo venne a sapere e ne trasse ulteriori motivi per il suo odio antisemita in cui allevò il figlio. Un odio che ha resistito al pentimento del figlio, che nella sua nuova vita ha cercato invano di proporgli un incontro pacificatore con il “suo” rabbino.
Adesso Szegedi ammonisce contro l’odio razzista e ricorda di aver avuto qualche segnale della verità, che al momento aveva trascurato. La madre, a un certo punto, quando lui a 17 anni aveva iniziato a frequentare i gruppi neonazisti, aveva cercato di metterlo in guardia, “Immagina come ti sentiresti se l’ebreo fossi tu”. “Mi ero arrabbiato a morte con lei”, confessa. Ora lo sa.
L’Ungheria contro gli scrittori dissidenti "Screditano il Paese, via la cittadinanza"
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 31 gennaio 2013)
Per essere veri patrioti occorre fedeltà alla patria, al confronto il talento non vale nulla. Se non ci stai, rischi di perdere la cittadinanza. Minacce impossibili in Europa? Errore, è il nuovo credo nella politica culturale del governo di destra nazionalpopulista euroscettico di Viktor Orbàn.
Lui di persona, l’autocrate, non si pronuncia. Ma lascia parlare i suoi turiferari. «Dovremmo pensare a una revoca spirituale della cittadinanza per scrittori come Gyorgy Konràd, Péter Esterhàzy o Imre Kertész», ha detto Adam Medveczky, dirigente dell’accademia un tempo prestigiosa. Parliamo dei tre massimi scrittori magiari viventi, Kertész Nobel 2002 della letteratura. Strappare la patria ai letterati: lo fece Hitler con Mann e Brecht.
«Sono parole di pochi estremisti, ma il governo non li sconfessa. Il pericolo più serio è perdere al consenso sui valori liberal i giovani, esposti a informazione e propaganda ufficiali», dice Péter Esterhàzy, che aggiunge: «L’Europa non farebbe male a farsi sentire, ma tocca a noi lottare». «Chi è nato come ungherese, ma all’estero insulta e danneggia l’Ungheria, non può essere considerato ungherese", ha insistito Medveczky. Rafforzato da dichiarazioni del presidente dell’Accademia delle belle arti ungherese (Mma), Gyorgy Fekete: «Nessun membro della nostra accademia può permettersi d’ignorare la sensazione dell’appartenenza genetica alla nazione».
Nemmeno sotto il comunismo gli intellettuali venivano minacciati in modo così brutale. Tragedia ungherese, ancora un atto. Non è bastato a Orbàn riscrivere in senso autoritario e nazionalista la Costituzione, né epurare funzione pubblica, ministeri, magistratura, né istituire la Nmhh, l’autorità-grande fratello di controllo sui media.
E va ogni giorno più avanti, scommettendo sui silenzi colpevoli dell’Unione europea. «Non appoggeremo più opere non patriottiche», ha detto Fekete. Statue dell’ex dittatore fascistoide e alleato di Hitler, Miklos Horthy, erette ovunque, libri antisemiti suggeriti dal governo come testi obbligatori a scuola, consegna della Nmhh ai giornalisti a esaltare in ogni articolo "l’identità nazionale".
L’Ungheria membro di Ue e Nato, che mendica a Ue e Fmi crediti per non finire come Atene, spara a zero sui valori comuni europei. I perdenti non sono solo i valori costitutivi dell’Europa: gli estremisti neonazi e negazionisti di Jobbik (terza forza in Parlamento) si vedono il terreno dei consensi strappato dall’abile demagogia di Orbàn. Nazionalismo, retorica etnica, riabilitazione di Horthy, lavoro obbligatorio in uniforme arancione in stile Guantanamo per i rom.
Orbàn cerca sempre più consensi rubando i temi e le soluzioni alla destra più radicale. Fino alle proposte di togliere la cittadinanza ai massimi scrittori, appunto. E l’Europa, su Budapest tace
Ungheria, la cultura in campo
"Il nostro cinema è dissenso"
Nuova sfida al potere autocratico del premier di destra nazionale ungherese, Viktor Orbàn. il festival da domani a domenica a Budapest. Tutto autofinanziato e organizzato in pubblico dalla sola gente del cinema come un clamoroso evento pubblico di contestazione
dal nostro corrispondente ANDREA TARQUINI *
BUDAPEST - Nuova sfida coraggiosa del mondo della cultura al potere autocratico del premier di destra nazionale ungherese, Viktor Orbàn. Da domani a domenica si terrà a Budapest il festival del cinema magiaro. Sembra un appuntamento normale, ma non lo è: il festival è tutto autofinanziato, organizzato in pubblico dalla sola gente del cinema come un clamoroso evento pubblico di dissenso. Da quando è al potere, il governo di Orbàn ha fatto di tutto per normalizzare la cultura: dimezzate le università, tagliati i fondi, affidati i teatri a gente di fiducia (al prestigioso Uj Szinhàz, teatro nuovo, di Budapest, il nuovo responsabile è un noto nazista negazionista). E la scure della normalizzazione si è abbattuta anche sul cinema: chiusa la Fondazione del cinema, organismo indipendente che aiutava i registi a produrre, tutti i poteri sul cinema nazionale affidati ad Andrew Vajna, un ex imprenditore di Hollywood di fama non lustra, vicino al premier.
"Aiutateci, il nostro cinema è sempre stato una parte della cultura europea, vogliamo conservare questo ruolo, mandarci alla rovina vuol dire distruggere parte della cultura europea", si legge nell’appello che il grande Miklòs Jancsò, Marta Mészaros, Béla Tarr, Benedek Fliegauf, Agnès Kocsis e gli altri protagonisti del mondo del film ungherese - che con quello polacco fu la grande voce critica sugli schermi nell’Impero del Male sovietico, sfidando con intelligenza e successo la censura di allora con tanti capolavori di livello mondiale - hanno inviato ai loro colleghi in tutto il mondo. Oggi sembra peggio di allora: il potere nazionalpopulista schiaccia, o cancella, la vita culturale, in fin dei conti più di quanto non avesse fatto la cinica, blanda dittatura di Jànos Kàdàr. E ancora una volta l’Europa politica tace. A cominciare dalla Germania: la CduCsu, il partito della cancelliera federale Angela Merkel, si ostina a tenere la Fidesz, il partito di Orbàn, nel Partito popolare europeo all’Europarlamento, come se l’autocrazia di Budapest avesse qualcosa a che fare coi valori di Adenauer, De Gasperi e Kohl.
Sale concesse gratis dai gestori, hotel che offrono camere per ospiti e invitati, gente che presta l’auto per trasportarli. E’in un clima di sfida ottimista, mi spiega Béla Tarr, presidente dell’associazione dei cineasti ungheresi, che il festival dei resistenti della pellicola è stato organizzato. Non vuole anticipare quali film saranno presentati, ma sono tutti autoprodotti low cost, e tutti tesi a narrare con occhio critico la realtà. Come ’Csak a szél’(solo il vento), di Benedek Fliegauf, presentato ieri anche a Berlino. Storie dei drammi dei Rom maltrattati, e perseguitati dall’ultradestra.
"Vogliamo continuare a fare cinema come ci piace, come abbiamo sempre fatto. E’quello che loro non vogliono: hanno bisongo d’una nuova cultura, non so che cosa sia, quale sia l’idea di nuova cultura ungherese, ma non vogliono le nostre voci", mi dice Béla Tarr, uno dei grandi del cinema magiaro, organizzatore del festival dei resistenti. Andrew Vajna "adesso è il governatore del cinema con poteri speciali", mi spiega. "Che vuol dire governatore? Serve un governatore davanti alle catastrofi, il cinema ungherese non è nella catastrofe", continua. "Sopravviveremo anche a loro. Quando i miei colleghi mi hanno chiesto di divenire presidente dell’Associazione dei cineasti ungheresi, ho accettato subito, per sopravvivere". Nel nuovo sistema del ’governatore governativò non è stato prodotto nessun film. E il regime di Orbàn, prima di nominare Vajna, ha chiuso la Fondazione del cinema. "Col pretesto che era indebitata: sciocchezze, è ovvio che prima si finanziano i film e poi i profitti vengono un po’dopo che il film è sul mercato", nota Tarr.
"Non capisco cosa vogliano, quali siano le loro ambizioni", continua. Essere regista oggi è difficile, nel paese che dette al cinema mondiale ’Silenzio e gridò o ’I giorni freddì di Jancsò, per citare solo alcuni esempi. Più di allora, a conti fatti. Da un anno e mezzo, cerco invano di produrre un bel film che Péter Gothar, un regista di prima classe, propone, ma nessuno si fa avanti. "Da vent’anni, dopo la caduta dei Muri, con la nostra Fondazione e la sua indipendenza funzionava, la Fondazione lavorava in modo democratico e capiva qualcosa di arte e cultura. Loro l’hanno chiusa senza chiederci niente". Ecco i risultati. Ora devi pregare il governatore Vajna per fare un film. Il festival dice no, e da domani sfida il potere in nome della cultura. "Dobbiamo farlo, rispondere in piedi mostrando che il cinema ungherese è vivo, pluralista, colorato, vicino al pubblico con la sua narrazione critica della realtà e della Storia. Fatto da gente con dignità che non ha bisogno del potere", nota Tarr. "Un festival gratis, realizzato grazie ai volontari che ci aiutano, dalle sale cinematografiche agli alberghi a chi presta l’auto. Questa è libertà".
Anche i film sono autofinanziati, anche gli attori sono volontari. "Un primo successo ce lo ha già dato il pubblico, per ogni proiezione c’è il tutto esaurito dei biglietti, gli intellettuali sono con noi. Il nostro problema non è il pubblico, sono ottimista", egli sottolinea. Sfida dal cinema a Orbàn, dunque, mentre un nazista prende in mano un prestigioso teatro, e la vecchia direzione - artisti di professione - di quel teatro si è congedata dal pubblico con due prime senza rappresentazioni successive. Tra cui, simbolicamente, ’La montagna incantatà tratta dal romanzo di Thomas Mann, il grande amico della cultura democratica ungherese del passato. La sfida va in scena al cinema a Budapest, l’Europa tace. La sua personalità più potente, Angela Merkel, vola intanto a Pechino per chiedere aiuto cinese all’eurozona. Come fa Orbàn, chiedendo alla Repubblica popolare di salvare la compagnia di bandiera magiara Malév in bancarotta.
* la Repubblica, 01 febbraio 2012
Ungheria, si muove la Ue
"Basta leggi liberticide"
Barroso annuncia l’apertura delle procedure d’infrazione
Orbàn promette concessioni: oggi è all’Europarlamento e il 24 vedrà il capo della Commissione
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 18.01.2012)
BERLINO - Divisa sull’euro, minacciata dalla recessione, debole sulla scena internazionale, l’Europa almeno in un caso ha mostrato carattere: la risposta alla svolta autoritaria in Ungheria, paese membro dell’Unione dal 2004. Il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha annunciato ieri l’apertura di procedure d’infrazione a carico di Budapest.
Bruxelles contesta alcune delle leggi liberticide varate dal governo di destra nazionale dell’autocratico premier Viktor Orbàn: la minaccia all’autonomia della Banca centrale, le mani sulla giustizia, le leggi non garantiste sulla protezione dei dati personali. Orbàn - soprannominato dall’opposizione "Viktàtor", gioco di parole tra il suo nome e "dittatore" - reagisce promettendo vagamente concessioni. Il 24 incontrerà a Bruxelles Barroso per un chiarimento. Ma già oggi andrà a parlare al Parlamento europeo. «Per difendere l’Ungheria dall’attacco della sinistra internazionale», ha detto il suo portavoce, Péter Szijjàrtò. Dura, ironica la replica del nuovo presidente del Parlamento europeo, il socialdemocratico tedesco Martin Schulz: «Bella notizia, non sapevo che Barroso fosse di sinistra».
«Non vogliamo ombre di dubbio sul rispetto della democrazia in un paese membro dell’Unione», ha detto Barroso. L’iniziativa della Commissione segue di pochi giorni la dura richiesta di chiarimenti presentata dalla direttrice del Fondo monetario internazionale (Fmi), Christine Lagarde. Se non fornirà concrete garanzie di modifiche alle leggi - denunciate ieri anche da Amnesty international - l’Ungheria di Orbàn non rischierà solo di essere deferita alla Corte europea di giustizia. Sarà in pericolo il credito di 15-20 miliardi di dollari chiesto a Ue e Fmi, e senza il quale un suo default, a causa della fallimentare politica economica autarchica di Orbàn e non solo degli errori dei precedenti governi socialisti, sembra inevitabile.
Le leggi contestate sono: i pesanti limiti all’autonomia della Banca centrale, in contraddizione con il Trattato di Lisbona. Il pensionamento anticipato a 62 anni dei giudici, con la creazione di un’autorità che controlla la magistratura, affidata a un’amica della famiglia Orbàn. E la protezione dei dati privati. «Siamo pronti a regolare tutto», ha detto il ministro della Comunicazione, Zoltàn Kovacs. Ma nel regime falchi affiancano colombe. «Non permetteremo gli attacchi della sinistra», insiste Szijjàrtò.
Tra stretta autoritaria, aumento della povertà e crisi economica, la tensione minaccia di salire. I sostenitori di Orbàn organizzano per sabato una grande marcia su Budapest: contadini, militanti da ogni angolo del paese, ussari in uniforme. Con la promessa di una diaria. L’ultradestra neonazista (Jobbik, terza forza in Parlamento) brucia in piazza le bandiere della Ue. «Dobbiamo liberarci di Orbàn, è un uomo malvagio», ha scritto ieri sulla Frankfurter Allgemeine lo scrittore magiaro Gyorgy Konrad, leader del dissenso sotto il vecchio regime comunista.
Ungheria. Chiesta l’applicazione dell’art. 7 del Trattato di Lisbona, che congela il diritto di voto
I leader Swoboda e Verhofstadt: «Dobbiamo proteggere i diritti, no a pericolosi precedenti»
Socialisti e liberali europei: «Orban deve essere fermato»
Per Bruxelles è «l’extrema ratio»: ma i socialisti e i liberali chiedono che si applichi l’articolo 7.
Vi si ricorre in caso di violazioni dei principi fondanti della Ue.
Sarebbe la prima volta nella sua storia.
di Roberto Brunelli (l’Unità, 06.01.2012)
L’Ungheria danza in cima ad un vulcano pronto ad una doppia esplosione. Gli indicatori economici stanno precipitando di ora in ora, e il Vecchio continente continua ad aumentare la sua pressione. Ieri è stata la volta dei socialisti e liberali del Parlamento europeo, che hanno chiesto sanzioni politiche molto dure nei confronti del Paese dopo la svolta ultra-nazionalisti imposta dal governo guidato da Viktor Orban con la nuova Costituzione.
E non si tratta di bruscolini: il vicepresidente del gruppo, l’austriaco Hannes Swoboda, ed il leader dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa, il belga Guy Verhofstadt, propongono l’applicazione dell’articolo 7 del Trattato di Lisbona, cui si ricorre in caso di violazioni di principi fondanti della Ue in tema di democrazia, libertà fondamentali e diritti dell’uomo. Politicamente, un macigno: l’articolo 7 prevede, tra le altre cose, la sospensione del diritto di voto in Consiglio. Per avere nozione della gravità della cosa, mai nella sua storia l’Unione europea ha fatto ricorso all’articolo 7, che lo considera un’extrema ratio. «Non siamo ancora a questo punto», si fa sapere dalla Commissione: ma il solo fatto che se ne parli viene considerato di per sé emblematico.
Swoboda è molto netto. «Siamo dalla parte del popolo ungherese, che viene sempre più messo sotto pressione dal governo Orban. L’applicazione dell’articolo 7 deve essere seriamente presa in considerazione se il premier ungherese continua a sfidare deliberatamente le leggi ed i valori europei». L’esponente socialdemocratico austriaco sfida anche il Ppe sul «dossier ungherese», proponendo che il premier magiaro venga sospeso dal ruolo di vicepresidente del partito. Anche Verhofstadt si esprime in modo da non lasciar adito a dubbi, forse anche per accrescere la pressione sulla presidenza della Commissione: «Non è più tempo per scambiare lettere: a questo punto è degenerata la situazione in Ungheria. È arrivato il momento di avviare sanzioni legali e politiche sulla base dell’articolo 7. Che va applicato per proteggere la democrazia ed i diritti fondamentali in Ungheria e nella Ue, ma anche per evitare di stabilire un pericoloso precedente e dare un cattivo esempio ai Paesi che aspirano ad entrare nell’Unione».
La partita è grossa, insomma, ed investe in pieno «l’anima» della grande casa europea. La quale, per i critici, è talmente alle prese con la crisi di Eurolandia da scordarsi i suoi principi fondanti. Crisi che, per intanto, attanaglia pesantemente la stessa Ungheria. L’esecutivo di «Orban il Viktator» è al centro di una bufera selvaggia, ma fa finta di non accorgersene: ieri l’altro gli interessi sui titoli sovrani sono saliti al 10,9 per cento, un punto e mezzo in più rispetto al giorno precedente. A detta degli analisti, un tasso così alto significa che l’Ungheria non potrà più permettersi di ripagare il suo indebitamento. In bilico tra stagnazione e recessione, le prospettive economiche del Paese vengono inabissate ad un debito pubblico all’82,6 per cento del prodotto interno lordo. Nelle grandi capitali finanziarie si evocano giù da tempo scenari di bancarotta imminente (entro un mese, per intendersi), con ricaschi facilmente immaginabili su tutta l’Eurozona.
LA BEFFA DELL’AMNISTIA
Ecco che l’ineffabile Orban comunque si decide di battere un colpo, nel tentativo di allentare la tenaglia sul suo governo. Che ha annunciato ieri la proposta al Parlamento di un’amnistia per 43 manifestanti arrestati lo scorso 23 dicembre. Fra questi, 15 deputati socialisti e verdi, nonché l’ex premier anche lui socialista Ferenc Gyurcsany, accusati di aver ostacolato il traffico per essersi incatenati davanti al parlamento di Budapest. Anche loro protestavano contro la nuova Costituzione, poi entrata in vigore il 1. gennaio. Peraltro, anche se gli arrestati sono stati tutti rilasciati ieri, la procedura penale nei loro confronti va avanti comunque. Non sorprendentemente, però, Gyuarcsany e gli altri rifiutano l’amnistia, chiedendo anzi la cancellazione della procedura con la formula «il reato non sussiste».
Tra coloro che il 23 dicembre si sono incatenati davanti alla sede del Parlamento, c’era anche la deputata del partito ecologico Lmp, Virag Kaufer. Ebbene, per protesta contro la nuova Costituzione liberticida (riassumiamo: forti limitazioni alla libertà d’informazione, all’autonomia della Banca centrale e ai diritti civili), e per lanciare l’allarme per un Parlamento de facto esautorato, la signora Kaufer si è dimessa. Per la precisione, l’esponente ecologista ha dichiarato ieri all’agenzia Mti che intende organizzare un movimento di resistenza nella società alla politica autoritaria del governo. «Il Parlamento ungherese ormai è ridotto a un teatro di marionette di Orban, dove l’opposizione non ha nessun ruolo, e dove manca un reale confronto politico», ha detto Kaufer. Lei, insieme agli altri centomila manifestanti che lunedì gridavano la propria rabbia davanti al Teatro dell’Opera, chiedeva aiuto all’Europa. I primi colpi sono stati battuti.
Bruxelles. La Commissione: al via una procedura di verifica sulla nuova Costituzione ultra-nazionalista Reazioni. Il premier Orban sempre più isolato, ma ostenta sicurezza: il fiorino cade ai minimi storici
Ungheria, si sveglia l’Europa: «È democrazia o una dittatura?»
Dopo una forte pressione internazionale, la Commissione europea attacca con durezza: «Verifichiamo se la nuova Costituzione sia conforme con i valori democratici dell’Europa».
di Roberto Brunelli (l’Unità, 05.01.2012)
A Bruxelles il «dossier ungherese» passa di mano in mano, come una patata bollente. Scotta tanto da risvegliare antiche vibrazioni democratiche, tanto da decidere di andare allo scontro diretto con Budapest, dopo la dura svolta reazionaria impressa dal governo dell’ultraconservatore Viktor Orban con il varo della nuova Costituzione, considerata liberticida non solo tra le file della risorta opposizione ungherese, ma anche tra i più compassati funzionari di Eurolandia. La nota ufficiale consegnata ieri alle agenzie di stampa dal portavoce della Commissione europea non lascia spazio a dubbi: l’Ue afferma Olivier Billay si chiede se in Ungheria «ci sia una democrazia o una dittatura».
È questo il senso dell’«approfondita analisi» da parte di Bruxelles delle leggi costituzionali entrate in vigore il primo gennaio. Un procedimento che potrebbe portare anche alla Corte di giustizia europea: «La Commissione è stata la prima a sollevare dubbi sulla conformità delle nuove leggi ungheresi sui media, la giusitizia e la Banca centrale con i valori e i trattati europei». E se l’esame dei servizi giuridici confermasse quelli che con un eufemismo Billay chiama i «dubbi», a sua volta già espressi in numerose occasioni sia dal presidente José Manuel Barroso che da svariati commissari, Bruxelles è pronta ad aprire una procedura di infrazione contro Budapest.
L’attacco che avviene dopo la protesta di piazza di lunedì nella capitale ungherese e dopo una crescente pressione internazionale culminata con le dure critiche del segretario di Stato Usa Hillary Clinton e del ministro degli Esteri francese Alain Juppé è frontale, e fa il paio con la sospensione delle trattative con Ue e Fmi per la concessione degli aiuti finanziari richiesti proprio dal governo Orban. Che, tuttavia, pare più preoccupato di mettere «sotto tutela» governativa la Banca centrale e l’informazione, nonché mettere pesantissimi limiti ai diritti civili, eliminando sinanche la denominazione «Repubblica» dal nome di quest’Ungheria tutta Dio e totalitarismo, che non a mettere in sicurezza i propri conti disastrati.
L’esecutivo è sempre più isolato, con effetti pesanti anche sui mercati: il fiorino ha segnato ieri il suo record negativo. Per un euro ieri erano necessari circa 320 fiorini: un abisso. Negli ultimi mesi la moneta magiara ha perso circa il 20 per cento del proprio valore. Gli analisti concordano sul fatto che è proprio sul fronte economico che l’autocratico Orban definito «piccolo tiranno di provincia» dall’intellighentia magiara si sta giovando gran parte della credibilità interna. Dopo la doppia bocciatura da parte delle agenzie Standard & Poor’s e Moody’s, che hanno portato il rating sul debito sovrano sotto il livello d’investimento, il rendimento dei titoli di Stato è salito vertiginosamente, col risultato di ingrossare ulteriormente un debito pubblico arrivato nei giorni scorsi al suo massimo storico.
IMBARAZZI CONTINENTALI
Con la dura presa di posizione di ieri («democrazia o dittatura?»), Bruxelles cerca di uscire da un vero e proprio impasse nei confronti dell’Ungheria, che è membro dell’Ue da sette anni: ovvio che non può restare indifferente ai metodi di governo di Orban, agli attacchi al pluralismo dei media e alle minacce all’indipendenza dell’apparato giudiziario. Qualcuno (come Le Monde, ieri) ipotizza esplicitamente che l’Europa possa alla fine ricorrere all’articolo 7 del trattato di Lisbona, che prevede di togliere il diritto di voto agli stati membri che violano le regole democratiche.
Le voci che spingono ad una maggiore presa di coscienza nei confronti del «caso Ungheria» crescono di ora in ora. «È tempo che l’Europa si scuota, si svegli dallo shock dell’eurocrisi, ritorni ai valori fondamentali di coesione e di solidarietà. È tempo che rigetti gli incubi dei nazionalismi e dei populismi che scaricano su tutti noi i disagi di quest’epoca», dichiara il responsabile esteri del Pd, Lapo Pistelli. Il quale chiede anche un maggiore protagonismo dell’Italia per quel che riguarda «la vigilanza dei valori democratici».
In tutto questo, Orban, che ieri celebrava la totale indifferenza nei confronti dei centomila che lunedì sera affollavano le vie di Budapest («vedete, siamo un Paese libero?»), continua a fare orecchie da mercante. Il premier manda avanti i suoi spargendo segnali contrastanti alle controparti europee: al sottosegrtario per gli affari economici il premier fa dire che il fallimento dei negoziati per i prestiti «non sarebbe una tragedia». Orban «il viktator» ostenta sicurezza, e celebra con grandi celebrazioni ultra-kitsch la sua nuova Costituzione. Intanto, però, i sondaggi cominciano a turbare i suoi sonni: secondo un’indagine recente dell’istituto Szonda Ipsos, la Fidesz rimane sì il primo partito, ma perde il 18 per cento rispetto a quando conquistò sull’onda di un populismo trionfale i due terzi dei seggi parlamentari. Oggi, domani, dopodomani l’opposizione all’assolutismo magiaro del nuovo millennio rischia di crescere sempre di più. A Bruxelles lo sanno bene: meglio non sottovalutare chi s’indigna, di questi tempi.
Ungheria: intervenga la Ue
di Paolo Flores d’Arcais (il Fatto, 05.01.2012)
L’Ungheria democratica chiama, l’Europa istituzionale nicchia, fa orecchie da mercante, traccheggia nell’ipocrisia. Ma se i governi europei vogliono trastullarsi in paralizzanti e irresponsabili lungaggini procedurali, è necessario che i cittadini europei facciano della “questione Ungheria” un loro problema e una loro battaglia. Ormai improcrastinabile. Il governo di Victor Orban ha imposto una nuova Costituzione che calpesta i diritti democratici minimi che l’Europa ha posto come vincolanti e irrinunciabili per ogni paese che voglia aderire alla Comunità. La legge elettorale è ritagliata su misura per facilitare al partito di Orban la vittoria anche in futuro, stampa e televisione vengono imbavagliate, i magistrati asserviti alla volontà dell’esecutivo, la Banca centrale perde ogni margine di autonomia, sciovinismo e razzismo diventano il collante “popolare” di questo vero e proprio fascismo postmoderno.
Se l’Ungheria di Orban chiedesse oggi di aderire all’Europa verrebbe respinta, in quanto indigente dei requisiti democratici minimi. Ma l’articolo 7 del trattato di Lisbona specifica che un governo di un paese già membro dell’Unione Europea deve perdere il suo diritto di voto qualora violi quei requisiti. È perciò necessario che il Parlamento di Strasburgo , la Commissione di Bruxelles e i singoli governi europei si attivino immediatamente per applicare con assoluta intransigenza l’articolo 7. Ogni attendismo, ogni diplomatismo, ogni “gradualismo” nelle sanzioni, non farebbe che incoraggiare il governo Orban a proseguire sulla strada protervamente imboccata, che minaccia di contagio antidemocratico l’intera comunità politica continentale.
Piegarsi alle prepotenze dei poteri antidemocratici, in nome del “male minore”, è l’eterna tentazione degli establishment del privilegio. Tragici protagonisti di questa sindrome di viltà (che scolora nell’omertà) furono a Monaco, nel 1938, i democratici tiepidi Chamberlain e Daladier, che si piegarono agli antidemocratici coerenti Hitler e Mussolini. Se l’Europa delle Merkel, dei Cameron e dei Sarkozy cedesse oggi a Orban, guardando dall’altra parte o riducendosi a sanzioni di facciata, replicherebbe su scala ridotta l’infamia del ’38. E per favore non si citi Marx, che a proposito di Napoleone III giudicava come la storia si ripetesse sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come farsa. Talvolta è così, talvolta la nuova tragedia, benché in formato mignon, è per chi la vive devastante quanto la precedente.
CON L’AGGRAVANTE che Hitler era ormai una potenza militare ed economica che da sola valeva il resto del-l’Europa, mentre il governo di Orban è costretto a chiedere aiuto al Fondo Monetario Internazionale col cappello in mano, e di fronte ad un efficace cordone sanitario europeo dovrebbe andarsene (proprio come l’amico Berlusconi). La viltà di Merkel, Cameron e Sarkozy sarebbe perciò una viltà al quadrato. Sarebbe complicità. Se Orban ha sempre indicato in Putin e Berlusconi i suoi modelli, ricambiato dal loro appoggio più sfegatato (dichiarò Berlusconi dieci anni fa a Budapest: “i nostri programmi e le nostre politiche sono identiche, tra noi c’è una straordinaria sintonia”), non è certo un caso. Dimostra come la peste del fascismo postmoderno, soft solo in apparenza, sia un forza diffusa e minacciosamente in crescita, di cui Marina Le Pen e la destra olandese nella maggioranza di governo sono solo altri inquietanti iceberg.
Se si vuole evitare il contagio, gli appestati vanno trattati come appestati. L’Europa ha fatto malissimo a non intervenire contro Berlusconi per quasi vent’anni, se non interviene contro Orban prepara il proprio suicidio. Perché sanzionare Orban, privarlo del voto nelle istituzioni europee, significa sostenere la Repubblica ungherese, la cittadinanza democratica ungherese, scesa in piazza cantando l’Inno alla Gioia di Schiller/Beethoven che l’Europa ha adottato come il proprio inno. Il nostro inno, se non vogliamo che l’Europa resti quella dei mercanti (e relative orecchie), dei banchieri (e relativi titoli tossici integrati di megabonus), dei governi democratici tiepidi (e relative viltà/omertà).
Ungheria, prova di diritto per l’Ue
di Vladimiro Zagrebelsky (La Stampa, 05.01.2012)
L’attenzione focalizzata sulle difficoltà economiche e finanziarie dell’Italia e dell’Europa e la discussione sulle misure prese o da prendere per uscire dalla crisi, rischia di mettere in ombra, sotto la pressione dell’urgenza, un tratto fondamentale dell’Unione europea. Da lungo tempo ormai l’iniziale esclusivo scopo di creare un mercato comune si è arricchito di componenti diverse, di natura culturale e politica. Di esse si dà conto in apertura del Trattato sull’Unione, dichiarando che essa «si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini». La coerenza con quei principi delle leggi e dei comportamenti di ciascuno dei ventisette Paesi membri è condizione per l’adesione all’Unione e per l’esercizio dei diritti che essa comporta. Tanto che la partecipazione di uno Stato membro può essere sospesa se gli organi dell’Unione constatano che esiste un rischio di violazione grave di quei valori. Le vicende in corso in Ungheria ci aiutano a ricordarcene.
L’Ungheria ha aderito (ha chiesto di aderire ed è stata accolta) all’Unione europea nel 2004, superando i test di democraticità e di compatibilità del sistema economico. Da allora il Paese ha vissuto gravi crisi economiche e politiche, ora giunte a un punto che allarma gli organi dell’Unione e l’opinione pubblica ungherese ed europea. Alle critiche provenienti dall’Unione e da altri Stati, il primo ministro ungherese Orban reagisce proclamando che nessuno può dettare al suo Paese ciò che deve fare. Con ciò solletica il suo elettorato e il nazionalismo ungherese, ma nega in radice la logica dell’appartenenza a una comunità come l’Unione. In Europa le vicende interne agli Stati membri, siano esse economiche o relative alla democrazia e alle libertà civili, riguardano tutti, istituzioni europee e cittadini. Non è irrilevante che ogni cittadino di ciascuno Stato membro sia anche cittadino dell’Unione.
Vinte le elezioni politiche e ottenuti, per il gioco della legge elettorale, più di due terzi dei seggi parlamentari, il governo ha introdotto modifiche alla Costituzione e alle leggi che confliggono con i valori propri dell’Unione. Sono stati fatti inquietanti richiami alla «ungheresità» etnica che urtano gli Stati confinanti in cui vivono minoranze magiare, è stata abolita la indipendenza della Banca centrale e sono state drasticamente ridotte l’indipendenza della magistratura e la libertà della stampa. Un’ampia epurazione è in corso. Il presidente della Corte suprema, già giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, si è dimesso.
Il reclutamento dei nuovi magistrati è ormai nelle mani di un organismo che risponde al governo. La composizione della Corte costituzionale è modificata per legarla alla maggioranza di governo. La stampa, le radio e televisioni sono sottoposte a limitazioni e controlli che hanno iniziato a produrre dimissioni e licenziamenti di giornalisti non in linea. Il quadro che deriva dal contemporaneo attacco alla magistratura e alla stampa, il terzo e il quarto potere in democrazia, è per un verso classico in ogni regime autoritario e per l’altro è in esplicita rotta di collisione con i principi di democrazia su cui l’Unione europea si fonda e che sono comuni a tutti gli Stati membri.
Merita di essere particolarmente richiamato un aspetto delle riforme che il governo ungherese, forte della sua maggioranza, ha introdotto. Si tratta dell’attribuzione a un organo amministrativo legato al governo della possibilità di obbligare i giornalisti a svelare l’identità delle loro fonti di informazione. La Corte costituzionale, prima della modifica della sua composizione, ne ha constatato la incostituzionalità, rilevando che solo il giudice può obbligare in casi eccezionali il giornalista a rivelare le sue fonti.
Un orientamento della Corte costituzionale in linea con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani e la pratica esistente negli altri Paesi dell’Unione. L’eccezionalità della violazione del segreto delle fonti, ammessa solo quando sia assolutamente necessaria per tutelare fondamentali interessi pubblici, è una regola indispensabile per consentire alla stampa di svolgere il suo ruolo di informazione e controllo nella società democratica. Per rimarcare la distanza tra le pretese del governo ungherese e la pratica negli altri Paesi si può ricordare la recente sentenza della Cassazione francese, che ha annullato un’indagine promossa dal pubblico ministero (che in Francia dipende dal ministro della giustizia), per individuare le fonti dei giornalisti che avevano ottenuto e pubblicato notizie da una istruttoria penale riguardante anche personaggi politici della maggioranza governativa.
La Corte di Cassazione, richiamando la Convenzione europea dei diritti umani, ha osservato che le notizie pubblicate, da un lato avevano un notevole interesse per il pubblico e dall’altro non mettevano in pericolo essenziali esigenze di segretezza e ha annullato l’indagine. Proteggere le fonti delle notizie raccolte dai giornalisti, è necessario per evitare che esse si inaridiscano e per consentire alla società di far emergere notizie imbarazzanti per il potere, mantenendo vivo il dibattito democratico. Poiché la sola volontà della maggioranza non basta a dar linfa a una democrazia.
L’indipendenza della magistratura, la libertà della stampa e la completezza dell’informazione della opinione pubblica, sono condizioni essenziali per la vitalità delle istituzioni della democrazia a garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini. Centottant’anni orsono Tocqueville, segnalando i pericoli della dittatura della maggioranza, scriveva che «quando sento la mano del potere appesantirsi sulla mia fronte, poco m’importa di sapere chi mi opprime, e non sono maggiormente disposto a infilare la testa sotto il giogo solo perché un milione di braccia me lo porge».
In piazza. Centomila a Budapest contro la nuova Costituzione voluta dal premier Orban
Divieti. Stretta sulla libera informazione, stravolto il ruolo della Banca centrale, limitazioni ai diritti
Ungheria, fa paura all’Europa la svolta ultra-nazionalista
«È il declino della democrazia, una nuova dittatura», denunciano i maggiori intellettuali ungheresi. Bruxelles e Fmi bloccano i negoziati con Budapest. E qualcuno pensa che il Paese possa venire espulso dalla Ue
di Roberto Brunelli (l’Unità, 04.01.2012)
Umorismo magiaro, lo chiamano. «Hey Europa, scusaci per il nostro primo ministro» c’era scritto su uno dei cartelli dei manifestanti che sfilavano lunedì sera per le strade di Budapest. Settantamila, secondo la polizia, centomila per gli organizzatori: cifre comunque inedite in Ungheria, che la dicono lunga sulla profonda inquietudine che ormai attanaglia il Paese, nel quale finora le mobilitazioni muovevano poche centinaia di persone. Questa volta è diverso. Davanti all Teatro dell’Opera c’erano i militanti i partiti della sinistra, certo, ma anche gli ambientalisti, i movimenti della società civile, cittadini comuni. Turbati, oltreché infuriati, per la radicale svolta fieramente reazionaria del governo guidato da Viktor Orban. Una svolta che preoccupa non solo Bruxelles, ma anche Parigi, Washington, l’Fmi. Una svolta cupa e piena di ombre, che fa dire ad un diplomatico di lungo corso, come l’ex ambasciatore americano Mark Palmer, che «l’espulsione dell’Ungheria dalla Ue oggi non è più una prospettiva impensabile».
Sotto accusa c’è la nuova Costituzione, fatta approvare dal premier con un colpo di mano ed entrata in vigore il primo gennaio. Un testo che «distrugge lo Stato democratico», come denuncia in una durissima lettera-appello un gruppo di ex dissidenti ungheresi. Gente che se ne intende di repressione e di Stati totalitari, visto che tra loro figurano storici come Janos Kenedi, scrittori come Gyorgy Konrad e attivisti per i diritti umani come Miklos Haraszti, gente che tra il 1956 e il 1989 non esitò ad opporsi apertamente ai governi comunisti dell’epoca e che oggi non esita a parlare di «declino della democrazia» e di «avvento della dittatura». L’accusa della piazza e degli intellettuali, la preoccupazione delle istituzioni europee ed internazionali, è che Orban abbia preparato il terreno per «rimuovere pesi e contrappesi democratici e di perseguire la sistematica chiusura delle istituzioni indipendenti». Con i numeri di cui dispone, il premier ha potuto agevolmente cucirsi addosso una legge fondamentale su misura: duramente criticata anche dal segretario di Stato Usa Hillary Clinton, la nuova Costituzione non solo rispolvera concetti cari al nazionalismo magiaro, come la Corona di Santo Stefano, ma si scatena su ogni aspetto della vita civile e pubblica. Dal divieto del matrimonio gay al giro di vite sul pluralismo dell’informazione, fino all’indipendenza del sistema giudiziario: il tutto nel nome di Dio, come spesso capita in questi casi.
CONTROLLO TOTALE
Con il suo partito, Fidesz, l’autoritario primo ministro occupa i due terzi dei seggi parlamentari. Una forza che gli ha permesso di stravolgere anche il ruolo dell’autorità monetaria. Nel penultimo giorno del 2011, con apposita legge, Orban ha de facto sottomesso la Banca centrale ungherese al potere politico. La nuova norma fonde l’istituto di emissione del fiorino con l’autorità di controllo finanziario (Pszf), esautorando così il governatore Andras Simor, notoriamente sgradito a Orban, e arriva sinanche a metter mano ai meccanismi che determinano i tassi d’interesse.
L’Europa è in grave ambasce per quello che ogni giorni di più si profila come il «caso Ungheria». Bruxelles, attraverso il portavoce della Commissione Olivier Bailly («siamo molto preoccupati»), fa sapere che si riserva di analizzare i testi costituzionali per verificare la loro compatibilità con il diritto europeo. Bailly ricorda anche che a dicembre Ue e Fmi hanno interrotto i negoziati preliminari sulla richiesta di aiuti finanziari (15-20 miliardi) avanzata da Budapest e che «ancora non è stata decisa» una data per l’avvio delle trattative formali, previste per gennaio. E a Orban che ha dichiara di non ritenere «cruciali» tali negoziati, l’Unione europea ribatte che la modifica dello statuto della Banca centrale è ritenuta una possibile «violazione dell’articolo 130 dei Trattati». Lo stesso presidente Barroso pare abbia «più volte» esercitato pressioni su Viktor Orban: senza alcun effetto visibile. Anche il ministro degli esteri francese, Alain Juppé, lancia l’allarme: «A Budapest c’è un problema oggi». Parigi chiede l’intervento della Commissione europea «nel rispetto del bene comune di tutti i Paesi europei e dei grandi valori democratici». Il sospetto è che sia troppo tardi.
Giorgio Pressburger. La svolta a destra dell’Ungheria
“Fermiamo questi zombi xenofobi e razzisti”
di Elisabetta Reguitti (il Fatto, 04.01.2012)
Nessuno può permettersi di considerare marginale quello che sta accadendo in Ungheria”. Lo scrittore e regista Giorgio Pressburger parla nella giornata in cui l’Ue annuncia di voler verificare la compatibilità della nuova Costituzione con il diritto europeo. Contro la Carta, decine di migliaia di ungheresi sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni del premier conservatore Viktor Orbán.
Professore chi sono gli “zombi” ungheresi?
È l’immagine delle figure che tornano dal passato più nero dell’Ungheria che agitano i sentimenti nazionalisti, xenofobi e razzisti. Intendo le squadracce che ricordano molto quelle fasciste. Gli obiettivi punitivi sono le popolazioni Rom ma un servizio di questo genere può essere utilizzato anche per altro, soprattutto in un clima di deriva autoritaria come questo.
Cosa è davvero cambiato nella Repubblica ungherese?
Che hanno tolto “Repubblica”. Si è tornati alla denominazione originaria di Paese magiaro, un modo soft per dare un segnale forte della direzione che ha preso questo governo che sottopone tutti i mezzi di comunicazione a uno stretto controllo. L’ultima emittente radiofonica indipendente chiamata Club Rádiò sarà chiusa a febbraio. I magistrati verranno scelti e nominati dal governo. Si teme che possano essere messi in galera gli esponenti dell’ex governo ora a capo dell’opposizione, potrebbero sparire soldi pubblici. Si temono ritorsioni. Potrebbe accadere di tutto, nel silenzio assoluto perché i mezzi di comunicazione sono nelle mani del nuovo esecutivo.
Orbán ha vinto con il 60% dei voti.
Vero. Gli elettori erano troppo scontenti degli ultimi anni di governo di sinistra. Ha pesato molto la profonda crisi economica. L’Ungheria non ha materie prime o risorse naturali, ha solo cervelli e intellettuali che verranno messi nella condizione di non potersi esprimere. Penso a una filosofa come Ágnes Heller che ha sempre lottato contro la deriva antisemita e che ora verrà oscurata. Poi c’è il partito Jobbik (terza forza politica), gli stessi che accusarono i rom di essere i responsabili della riduzione del livello di vita degli ungheresi in questo periodo di crisi.
L’altra sera a migliaia sono scesi in piazza per protestare.
Cinque mesi fa quando sono tornato a Budapest ho sentito abulia tra le persone. L’abulia è un brutto stato d’animo e se aggiungiamo che le notizie sono molto filtrate mi chiedo se quello che si vuole fare sapere è esattamente ciò che avviene anche sulle manifestazioni. È fondamentale che nessuno consideri la situazione ungherese qualcosa di dissociato dagli altri paesi. L’Ungheria è l’unica nazione in tutta l’Europa centrale dove si è arrivati a tanto ma non va dimenticato che due guerre mondiali sono scoppiate in quell’area geografica.
Orbán ha annunciato che l’Ungheria potrebbe anche uscire dall’Europa.
Il Primo ministro ungherese non vede di buon occhio l’appartenenza all’Ue perché non vuole condividere le direttive con nessuno. Ma l’Europa è e rimane un’enorme potenza culturale ed è stato un miracolo che si realizzasse. Per l’Ungheria uscirne sarebbe una pazzia, un gesto di pura follia. Io non mi intendo di economia, oggi tutti parlano di economia. Io preferisco parlare delle persone che non hanno sufficienti mezzi di sostentamento. E poi io scrivo, continuo a scrivere, segnalando i pericoli e gli “zombi” che si aggirano per l’Europa.
Il morbo antico che avvelena l’Ungheria
di Bruno Ventavoli (La Stampa, 04.01.2012)
Erano in centomila i manifestanti la scorsa notte intorno al Teatro dell’Opera, tra i palazzi e i viali più eleganti di Budapest, per protestare contro la nuova carta costituzionale voluta dal premier Orbán e votata dal solo centrodestra. Erano tanti, molti più del solito, in una società civile inebetita dalla crisi economica, ma come inutili ragazzi della via Pál combattevano per un grund ormai perso.
Dentro al Teatro, con orgoglio e luminarie, il governo ha invece festeggiato l’architettura del nuovo Stato bocciato dalla comunità internazionale. Il pacchetto prevede una Banca Centrale sottomessa al potere politico (ideona bizzarra in questo momento di turbolenza finanziaria), insieme alla Corte Costituzionale e ai media (molti giornalisti dissidenti sono già stati licenziati dalla legge-bavaglio sulla stampa), i dirigenti dell’attuale partito socialista possono essere processati retrospettivamente per «crimini comunisti» prima dell’89, e tanti altri dettagli, dagli ungheresi all’estero al matrimonio etero. Il risultato è un Paese più autoritario, antimoderno, che allarma la Ue, l’America di Obama. E il fondo monetario internazionale, che ha congelato i negoziati per un maxiprestito al fiorino esanime.
Orbán, nato liberale, ma presto contaminato dal populismo, e l’estrema destra degli Jobbik, hanno portato a galla un’anima reazionaria che ha preso in contropiede l’Occidente. Chi ha letto i romanzi di Márai o Krúdy forse stenta a riconoscere nella realtà quelle atmosfere letterarie. Ma è proprio lì la chiave per capire i borborigmi fascisti della nuova Ungheria. Márai, come molti altri scrittori nati nel secolo breve, raccontava lo splendido mondo borghese della grande Budapest imperial-regia (il suo capolavoro, non a caso, è «Confessioni di un borghese»). Brillantezza intellettuale, tolleranza, quella civiltà delle buone maniere indagata da Elias, amore patriottico compensato da un naturale e brillante cosmopolitismo. Non poteva essere così, per chi era nato in case foderate da libri dove si parlavano in famiglia, correntemente, tre-quattro lingue. La borghesia era stato il motore dell’Europa moderna, ovunque. Anche in Ungheria. Ma con un problema. Lungo il Danubio, la borghesia, dopo secoli di guerre e dominazioni straniere, era nata in ritardo. E nonostante gli splendori della Belle Époque, era fragilissima.
Quando Márai scriveva, quel mondo borghese già non esisteva più, sepolto dalle macerie della prima guerra mondiale. Terrorizzato da una breve e sanguinaria rivoluzione bolscevica, poi tranquillizzata dal fascismo di Horthy, che però amava simboli, parole d’ordine, pennacchi, nazionalistici e feudali. Negli oltre quarant’anni di democrazia popolare, dal ’48 in poi, naturalmente, l’eutanasia della borghesia è proseguita.
L’economia di mercato introdotta da un giorno all’altro nell’89 ha ridato ossigeno alla classe media. Ma non è bastato. Il fiorino cagionevole ha presto spento i sogni di benessere, di rinascita, di prosperità a livelli occidentali, liberando il campo alle paure e agli orgogli nei quali l’Ungheria è vissuta per secoli, incuneata tra Occidente e Oriente. I valori della democrazia, del pluralismo, del dialogo, della diversità, sembrano superflui e accantonabili nella vita quotidiana dove è faticoso fare la spesa e pagare le bollette. Torna la tentazione del ripiegarsi su se stessi, appigliandosi all’idea di una Grande Ungheria, magari con un pizzico di ottuso vittimismo, per ciò che è successo nel corso della Storia, dalle guerre col turco, all’invasione sovietica, al trattato di pace di Trianon voluto dalla Francia che tolse alla fine della Grande Guerra due terzi del Paese.
Nei momenti di difficoltà, per antico morbo, l’Ungheria più che sentirsi parte del continente rimarca la sua fiera alterità suicida, corroborata da quella lingua dolce e altaica che nessuno in Europa capisce. Quando Orbán ha sfidato la comunità internazionale con la nuova costituzione, «Nessuno può sindacare su quel che facciamo», parlava anche in questo spirito. Le riforme, la modernità, il mercato, possono attendere. Meglio affidarsi a miti imprecisi di purezza, di sacralità della terra (che può essere comprata con quattro fiorini dagli stranieri della globalizzazione), di uomini forti al comando. Ancora una volta la classe media è stata stritolata, dalla farragine dello Stato e dall’inflazione. Ancora una volta torna la tentazione non di sconfiggere gli avversari politici, ma di cancellarli, processarli, zittirli. Ma per non perdere di nuovo i cugini ungheresi dalla famiglia europea, bisogna capire perché si sono ammalati.
Parla la filosofa ungherese Agnès Heller
"Questa voglia di democrazia è un nuovo inizio"
All’Europa chiediamo aiuto nel suo interesse, l’autoritarismo è contagioso
Intervista di A. T. (la Repubblica, 04.01.2012)
BUDAPEST «La gente in piazza può essere un nuovo inizio, ma l’autocrazia resta. L’Europa deve aiutarci aiutando i media indipendenti poveri, ostacolati dal regime. Nel suo interesse: l’autoritarismo è contagioso». Agnès Heller, massima intellettuale ungherese di oggi, analizza lucida la crisi magiara.
Quanto conta il nuovo trend di protesta?
«È importante. Molte nuove organizzazioni, da "Szolidaritàs" a "Quarta repubblica", voglia di libertà di stampa, di diritti civili, libertà della proprietà privata e libertà d’imprese contro gli oligarchi».
Che regime è quello di Orbàn?
«Orban dice: "noi siamo i più grandi, sappiamo fare tutto meglio, gli altri non capiscono quanto siamo bravi, noi siamo il modello per tutta Europa". Peggio che nazionalismo, è folle mania di grandezza».
Nuova Costituzione, addio Banca centrale... si va verso una dittatura?
«È già una dittatura. Con un distinguo: un dittatore tipico decide su tutto, anche di vita e morte della gente. E può chiudere le frontiere. Qui non c’è la pena di morte e la gente può ancora viaggiare. Molti giovani qualificati vogliono andarsene, non ne avremo più a casa. Se Orbàn potesse chiudere le frontiere lo farebbe».
Fino a quando non potrà?
«Non possono ancora, non sono così pessimista. Hanno abolito il sistema di checks and balances costitutivo della democrazia. Non possono fermare le critiche dall’esterno, vitali anche qui. Qualche media indipendente vive ancora. Ma non è libertà. È come le voci tollerate sotto Horthy (ndr. il dittatore di destra che governò dal 1919 al 1944)».
Horthy è un modello per Orbàn?
«Non so quale sia il suo modello. Orbàn è Orbàn. Come tutti i tiranni è convinto di essere il solo ad avere ragione, e chi non è d’accordo con lui non è ungherese. Né Berlusconi né Putin lo hanno mai detto. Cuore straniero, quasi come dire "sangue straniero", viene definita l’opposizione».
Fascismo?
«Non amo i paragoni. I partiti siedono in Parlamento. Ma il Parlamento è diventato una macchina per votare le leggi senza dibattito. Con le istituzioni attuali non ci sarebbe più possibile entrare oggi nell’Unione europea. La gente ha paura sul posto di lavoro, ovunque. Paura di venire licenziata senza ragione con ogni pretesto legale di "ristrutturazione" se critica il governo, se non gli piaci».
L’Europa può muoversi?
«Nel suo interesse. La paura è diffusa in tutta la società, nei media pubblici restano solo opportunisti incapaci o chi teme di perdere lo stipendio. Ma molti credono a chi dice che la crisi è colpa di finanza internazionale, America, Israele. Slogan anticapitalisti e anticomunisti rafforzano il consenso del regime, l’idea di cospirazione internazionale e anche ebraica paga ancora, molti sono apatici».
Insisto, cosa può o deve fare l’Europa?
«Aiutare i nostri media indipendenti, e parlare chiaro. Ma prima di tutto dobbiamo aiutarci da soli».
Nero ungherese, la svolta autoritaria di Orban
Con la nuova costituzione, poteri eccezionali all’esecutivo
Riaffiora il germe dell’antisemitismo
di Piero Benetazzo (il Fatto, 03.01.2012)
Nessuno è riuscito a fermarlo, né le continue manifestazioni di protesta, né le lettere di Hillary Clinton, di Barroso degli altri leader europei, né le migliaia di dimostranti, ieri davanti al Parlamento. Il premier ungherese Viktor Orban - che ha a disposizione due terzi del Parlamento - ha trascinato il suo paese, passo passo, verso una forma di autoritarismo che, dice lo scrittore Gyorgy Konrad, sconfina nella dittatura. Orban dice di voler fare uscire il paese dalla “melma” del lascito comunista, di voler rigenerare la nazione.
MA LE LEGGI approvate e la Costituzione - entrata ieri in vigore - danno all’esecutivo poteri eccezionali, che incidono profondamente nel sistema del checkes and balances: i giudici vengono nominati dal governo, le funzioni della Corte costituzionale sono limitate e “sorvegliate”, una Commissione governati-va, con ampi poteri, sorveglia la stampa, la Banca centrale perde la sua indipendenza. Hillary Clinton ha espresso “la fondata preoccupazione per le libertà democratiche” ora in pericolo, ma Orban si è vantato di un “cambio di sistema che mostrerà all’Europa le virtù finora inespresse” della nazione ungherese. In attesa, una massa di giudici è stata costretta alla pensione (sostituiti da altri di nomina governativa) molti giornalisti sono stati licenziati, la stazione radiofonica Klubradio ha perso le sue frequenze per eccesso di criticismo verso il governo e per “l’appoggio di ambienti diplomatici stranieri”, il partito socialista già al governo e nel Parlamento europeo, viene considerato erede del vecchio regime e “responsabile di tutti i crimini commessi dal comunismo”.
Non è chiaro come la Comunità europea reagirà: la svolta contrasta con gli stessi principi a cui si è ispirata l’adesione dell’Ungheria all’Europa, che dunque potrebbe, in teoria, essere sospesa. Ma la Comunità non si è mossa quando Orban, già in “piena azione”, aveva assunto, all’inizio dello scorso anno, la sua Presidenza. Oggi la maggiore preoccupazione sembra essere soprattutto la perdita dell’indipendenza della Banca Centrale che rende complicati e difficili i rapporti con il Fmi e le istituzioni finanziarie europee e quindi più tormentata la grave crisi finanziaria ed economica che attraversa l’Ungheria con il debito pubblico più alto di un paese dell’Est, degradato a “livello spazzatura” e con una crescita praticamente inesistente.
Ma in realtà l’aspetto più inquietante è quella che è stata definita la “guerra culturale” per rinvigorire una nazione che si ritiene vittima della Storia (punita da un trattato di Versailles che le ha sottratto ampie porzioni di territorio e quasi la metà della popolazione) e inquinata da un dibattito culturale definito “estraneo e cosmopolita”. Si riaffaccia, dunque, lo slogan dell’Ungheria come “nazione cristiana” con tutti i suoi corollari di violento e proclamato antisemitismo: era lo slogan di una minoranza, oggi è programma di governo in un Parlamento dove sono entrati (con ben il 17%) i rappresentanti del vecchio partito filonazista, quello delle “croci uncinate”, che odiano musulmani, ebrei e zingari, si oppongono all’Europa e vogliono la “Grande Ungheria”.
Il governo ha dunque licenziato i direttori di molti dei teatri sparsi per il paese e a Budapest ha velocemente sostituito quello che da anni gestiva il prestigioso Uj Szinhaz con due accesi sostenitori del nuovo trend: il vecchio attore Gyorgy Doerner, conosciuto come il doppiatore di Mel Gibson, che ha promesso di porre fine “all’egemonia liberale degenerata e malsana” e lo scrittore Istvan Csurka che da anni si batte per la Grande Ungheria e per “strappare” la nazione dal controllo degli ebrei e rafforzare finalmente una “borghesia cristiana”. Nel frattempo si annuncia che la statua di Attila Jozef sarà rimossa: poeta proletario con debolezze marxiste non è degno di sedere davanti al Parlamento. Ma c’è un ultimo aspetto che promette nuove tensioni: da oggi viene abolita la parola Repubblica, si parla solo di “Ungheria”, con l’accento dunque sulla dimensione etnica, un paese che si ripromette di rappresentare tutti gli ungheresi a cui si estende il diritto di voto ovunque essi siano. Si allargano dunque i confini, entra nel dibattito l’ultima grande questione nazionale del Centro Europa.
Ungheria, uno schiaffo alla Clinton
Cancellata piazza Roosevelt alla vigilia della visita. Gli ex dissidenti: liberaci da questa destra
L’ultradestra esulta per il cambio di nome: ora è dedicata a un politico del 1800
"Nel Paese svolta autoritaria"
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 28.06.2011)
BERLINO - Uno schiaffo dal potere, un saluto e un appello alla solidarietà dagli intellettuali liberal. Domani, quando Hillary Clinton arriverà a Budapest, le sembrerà forse di essere tornata a prima del 1989 della caduta dell’"Impero del Male". Perché nell’Ungheria del governo nazionalconservatore, molte cupe ombre del passato pesano sul presente. Roosevelt tér, la piazza dedicata al presidente americano che sconfisse Hitler, Mussolini e il Giappone di Tojo, è stata ribattezzata. E intanto i grandi nomi dell’intellighenzia che combatté per la libertà contro il comunismo hanno lanciato un drammatico appello alla Segretario di Stato: le chiedono di levare la sua voce contro la svolta autoritaria.
Dal dopoguerra, anche sotto la dittatura e l’occupazione sovietica, la centralissima piazza Roosevelt aveva continuato a chiamarsi così. La Memoria di "FDR", tollerata dall’ancien régime comunista, è cancellata dalla nuova destra al potere. La piazza ora è intitolata al conte Istvan Szechenyi, leader politico e imprenditore del 19mo secolo, «il più grande tra gli ungheresi». Roosevelt era odiato dalla dittatura alleata dell’Asse, che nel 1944 lo chiamò «ministro degli Esteri dell’ebraismo mondiale». L’ultradestra di oggi, Jobbik, esulta per il cambio di nome. Come se cancellare il ricordo dell’eroe del New deal e della vittoria equivalesse a togliere i nomi di piazze strade che evocano il socialismo reale.
Su questo sfondo, è partito l’appello a Hillary dei grandi della cultura ungherese. Lo scrittore Gyorgy Konrad, il filosofo Gaspar Miklos Tamas, il romanziere Miklos Haraszti, l’ex sindaco liberal di Budapest Gabor Demszki: erano, prima dell’89, gli amici magiari di Solidarnosc, di Havel, o di Sakharov. Leader del dissenso tornati dissidenti oggi, emarginati come pensiero critico dal nuovo potere. Denunciano che «l’Ungheria si sta velocemente allontanando dagli standard dello Stato di diritto», che «un sistema autocratico è in costruzione».
Il governo, denuncia la lettera aperta, ha avuto per prima vittima la stampa, con l’onnipotente autorità di controllo dei media e la legge-bavaglio. Poi sono venuti i limiti alla Consulta, la nuova Costituzione criticata dal Consiglio d’Europa, le mani sull’indipendenza della magistratura. Infine leggi che riducono il diritto di habeas corpus e allungano a 120 ore la detenzione senza controllo della magistratura e a 48 ore la detenzione senza diritto di consultare i propri avvocati. «La visita del presidente Bush senior nel 1989 aiutò noi ungheresi a costituire la democrazia, la sua visita, signora Clinton, può aiutarci a impedire la demolizione della democrazia oggi, siamo certi che farà sentire la sua voce», scrivono le grandi voci critiche dell’Ungheria. (ha collaborato Agi Berta)
Chi ha paura della Filosofia?
Così l’Ungheria criminalizza gli intellettuali
L’obiettivo è quello dell’intimidazione: farti tacere educatamente se non vuoi essere denunciato
Sono stata tacciata di essere una pensatrice "liberale" che nel loro lessico è sinonimo di "antipatriottico"
La Heller, celebre studiosa, racconta la campagna di diffamazione che il governo di Budapest ha organizzato contro di lei e altri suoi colleghi
di Ágnes Heller (La Repubblica, 18.03.2011 - Le Monde 14 mars 2011) *
Dall’Illuminismo in poi, scrittori, teatranti, musicisti e redattori e cronisti dei giornali di qualità si sono fatti carico delle responsabilità che derivano dalla libertà di opinione. In altre parole, i loro pensieri e le loro convinzioni hanno cominciato a essere dettati dalla propria coscienza e dalla propria ragione, e non più dai loro signori e maestri. Nel campo della filosofia, invece, la riflessione indipendente è da sempre una delle "malattie professionali" del filosofo, ma l’Illuminismo ha esteso questo morbo a tutti coloro che successivamente sono stati designati con il termine di "intellettuali".
Gli intellettuali critici ebbero il loro momento di gloria sotto le dittature. Furono loro a incarnare l’idra a sette teste in rivolta contro la tirannia. E se una delle teste cadeva, per corruzione, assassinio, invio in campi di internamento o di sterminio, o ancora per esilio forzato o incarcerazione, altre spuntavano a prendere il loro posto. Un drago che si è dimostrato invincibile. Con l’arrivo della democrazia, finisce l’eroismo! Ma il coraggio civico resta sempre di attualità. È questione di investire tempo ed energia, di rifiutare le promozioni facili per mantenere desto lo spirito critico. È la tensione che scaturisce dal dibattito, lo scambio incessante di argomentazioni e controargomentazioni che alimentano la dinamica della società moderna Per anni ho creduto che la filosofia fosse diventata una disciplina universitaria come le altre, una professione che si occupava del proprio passato e dalla museificazione della sua storia, che interessava soltanto i suoi rappresentanti. La funzione critica che tradizionalmente svolgeva ormai veniva assolta dai vari media.
E poi, la sorpresa. Il nuovo Governo ungherese, appena entrato in carica, ha lanciato una campagna di diffamazione contro i filosofi ungheresi, e attraverso di loro contro tutta la filosofa critica, sottoposta ad attacchi in serie lanciati simultaneamente da tre quotidiani e tre reti televisive. La campagna è durata quasi due mesi, insistendo sempre sulle stesse accuse, asserzioni stucchevoli e reiterate da tempo smentite. L’accusa, ripetuta fino alla nausea, era che «la banda Heller», con mezzi sospetti e con il pretesto di lavori di ricerca, aveva rubato, sottratto mezzo miliardo di fiorini (quasi 2 milioni di euro).
Di che si trattava? Su un centinaio di progetti sono sei quelli sotto accusa. Le cifre destinate ai vari lavori in questione (ricerca, traduzione, curatela di opere...) sono state sommate, e una persona è stata additata come capro espiatorio. Perché proprio io, che su sei direttori di progetto non ho mai percepito un centesimo? Gli accusatori non hanno fatto mistero delle loro ragioni. Sono stata tacciata di «filosofa liberale», e «liberale», nel lessico del Governo attuale, è sinonimo di «opposizione», «diabolico», «antipatriottico». Questi sei bersagli selezionati sono stati scelti perché rappresentano il gruppo ideale per criminalizzare tutti coloro che mettono in discussione la politica del Governo ungherese, in particolare la recentissima legge sui mezzi di informazione.
Quali sono gli obbiettivi politici di questa criminalizzazione? Tanto per cominciare l’intimidazione degli intellettuali critici, in particolare dei filosofi. Costringerli a stare sul chi vive, indurli a tacere educatamente se non vogliono essere denunciati e trattati come vengono trattati i criminali comuni.
Inoltre, questa campagna consente di criminalizzare anche numerosi esponenti del Governo precedente e l’ex primo ministro social-liberale. In generale sulla base del pretesto che in questi ultimi dieci anni l’indebitamento dell’Ungheria ha raggiunto un livello preoccupante. Questo fatto, che è una questione di politica economica, ora viene presentato come un atto criminale, come se la precedente dirigenza si fosse intascata milioni di euro.
Assistiamo a un Kulturkampf, a un’offensiva del potere contro gli intellettuali. La maggior parte delle personalità di rilievo dell’élite culturale è stata «eliminata». È il caso, ad esempio, del direttore artistico e direttore d’orchestra dell’Opera di Budapest Adam Fischer, famoso a livello mondiale, o ancora del direttore del Balletto e di un gran numero di direttori di teatro, di redattori televisivi, di presentatori, di opinionisti, di giornalisti. Ed è in questo contesto che si inserisce l’attacco contro i filosofi.
Abusando della sua maggioranza parlamentare di due terzi, questo Governo di destra che si proclama «rivoluzionario» ha fatto approvare una legge sui mezzi di informazione gravemente in contraddizione con lo spirito democratico europeo. È stata creata una commissione ad hoc, composta unicamente da esponenti del partito di maggioranza, con la missione di controllare e definire sanzioni nei confronti dei media, inclusa la carta stampata (fino ad ora, la competenza per giudicare un reato mediatico - che si trattasse di diffamazione o di altro - spettava a un tribunale indipendente).
Quando molti deputati europei sono insorti contro questa grave violazione della libertà di stampa, il capo del Governo, Viktor Orbán, se l’è presa con gli intellettuali critici (i famosi «liberali»), accusati di aver pugnalato alla schiena il Governo legittimo del loro Paese, di essere dei nemici della patria, attribuendo a loro la responsabilità del fatto che l’Unione Europea non abbia apprezzato a dovere la particolarità di questo hungaricum, come chiamiamo noi le specialità magiare. Questo non lo nego, e mi dichiaro colpevole, come tantissimi altri colleghi. Ma la stampa europea non ha avuto bisogno di noi per lanciare l’allarme, perché la limitazione della libertà di stampa si può propagare come una malattia contagiosa, e bisogna fermarla fin dal manifestarsi dei primi sintomi.
Tuttavia, il Governo è ricorso a ogni genere di riforme per mettere alla prova i nervi degli intellettuali, sensibili al rispetto dei diritti. Ad esempio, eliminando metodicamente i contrappesi istituzionali, concentrando i poteri, nazionalizzando i contributi versati alle casse pensionistiche private, limitando l’indipendenza della Banca centrale, introducendo e applicando leggi a effetto retroattivo e altre misure ancora. Gli economisti e i politologi «liberali» si ritrovano in questo caso alleati dei filosofi. Un motivo di soddisfazione però c’è, in tutta questa triste faccenda. La solidarietà che ci è stata manifestata dai filosofi del mondo intero, e dagli intellettuali e dai liberi pensatori in genere, ci riconforta. L’eco è stato più ampio di quello che ci si sarebbe potuti immaginare. Petizioni e lettere di protesta sono affluite dai quattro angoli del pianeta, da tutti i Paesi d’Europa. Ovunque, la stampa si è mobilitata.
Sembra finalmente che la libertà di espressione, la libertà di opinione, la libertà di pensiero siano concetti che non conoscono confini. E che anche la filosofia, alla fine, non sia diventata un vecchio leone sdentato.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Amico Silvio 1.0
di Alessandro Robecchi *
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Prestazioni. Veloce e duttile, Amico Silvio 1.0 è un programma che risolve problemi operativi apparentemente impossibili. Per esempio, fare una legge sul conflitto di interessi e nel frattempo chiedergli di comprare un po’ di Telecom sembrerebbe una contraddizione secca e irrisolvibile. Ma Amico Silvio 1.0 scardina il problema con eleganza, un sorriso, una pacca sulla spalla.
Compatibilità. Amico Silvio 1.0 si interfaccia perfettamente e senza problemi con tutti i programmi. Gli va bene quello del Partito Democratico, gli piace l’ipotesi di una federazione con Fini, è predisposto per dialogare via mail persino con Casini. Soprattutto, per la prima volta, Amico Silvio 1.0 si sente riconosciuto dagli altri programmi che cominciano a pensare a lui come un software affidabile.
Manuale Utente. Un consiglio. Tenete installato Amico Silvio 1.0. sul vostro computer finché non si parla seriamente della legge Gentiloni. Per allora uscirà il nuovo programma Silvio Si Incazza Di Nuovo 1.0, oppure reinstallate il vecchio Conflitto di Interessi 2.0. Per ora, però, usate questo Amico Silvio 1.0. Un programma di enorme successo. Molti ci stanno già cascando. Gli stessi che per ben tredici anni non hanno mai usato l’antivirus.
* il manifesto del 29 aprile 2007
Visita del presidente a Budapest per il cinquantenario dei fatti di Ungheria. Importante atto politico dopo l’ammissione "Pietro Nenni aveva ragione"
Napolitano sulla tomba di Nagy: "L’omaggio è un dovere morale"
(www.repubblica.it, 26.09.2006
BUDAPEST- ll primo atto della visita del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a Budapest per il cinquantesimo anniversario dalla rivolta, è stato l’omaggio commosso e solenne ai martiri della rivoluzione antisovietica del 1956, repressa nel sangue dall’Armata Rossa.
Il capo dello Stato ha deposto una corona di fiori al monumento ai martiri e un mazzo di fiori con unnastro tricolore sulla tomba di Imre Nagy, il primo ministro ungherese che nel 1956 fu deposto, imprigionato, impiccato due anni dopo e le cui spoglie fino agli anni ’80 erano poste in una tomba anonima, che non poteva essere visitata. Il presidente si è inchinato sulla tomba di Nagy ed è rimasto a lungo in raccoglimento, mostrandosi visibilmente commosso. Accanto a lui, la signora Clio e intorno il consigliere militare, il generale Giovanni Mocci, il sottosegretario Famiano Crucianelli e i suoi più stretti collaboratori al Quirinale. Il presidente ha dichiarato che, con questa visita, ha "sentito il dovere di compiere non solo un dovere di Stato, ma anche politico, morale e personale".
Subito dopo, si è recato in un altro settore del cimitero, nel "riquadro militare italiano" e ha deposto un’altra corona di fronte all’ara di marmo dove riposano le salme di 1.536 soldati italiani caduti nella prima guerra mondiale e le spoglie di 13 soldati italiani della seconda guerra mondiale. Quindi, il corteo si è incamminato verso la città, dove Napolitano avrà un colloquio con il presidente della Repubblica ungherese Laszlo Solyom.
Il gesto significativo del presidente ha, così, portato a compimento il processo di autocritica sui "fatti del 1956". Il processo ebbe inizio oltre vent’anni fa, quando Giorgio Napolitano ammise che Antonio Giolitti aveva avuto ragione nel criticare l’intervento sovietico in Ungheria. In un messaggio di un mese fa a Taburrano il capo dello Stato ha, inoltre, affermato che "Pietro Nenni aveva ragione" sui fatti di allora.
Il leader socialista era stato duramente attaccato nel 1956, insieme a Giolitti, quando Napolitano, giovane funzionario del Pci, si era schierato a sostegno delle tesi di Palmiro Togliatti, favorevole all’intervento deciso da Krusciov.
In quei mesi del 1956, all’ottavo congresso del Pci fu proprio di Antonio Golitti l’unico disorso di dissenso a Togliatti. Napolitano ha ricordato con sincero rimorso di aver, in quell’occasione, preso la parola duramente contro di lui, sviluppando le tesi di Togliatti e ha affermato di conservare un ricordo tormentato di quell’episodio, che lo ha condotto negli anni Ottanta a chiedere pubblicamente scusa a Giolitti.
Appena eletto presidente della Repubblica, è, infatti, andato a trovare il vecchio Giolitti, ormai noventenne, per rinnovargli la sua amicizia. E con lo stesso sentimento ha deciso di recarsi a Budapest nel cinquntesimo anno dalla rivolta, la cui ricorrenza cade il mese prossimo, per portare il suo omaggio alla tomba di Nagy.
(26 settembre 2006)
Imre Nagy, un comuinista libero
di Roberto Roscani *
A vederlo nelle vecchie foto in bianco e nero Imre Nagy non ha affatto l’aspetto di un eroe. Eppure quest’uomo col prince-nez (gli occhialini tondi agganciati al naso) e i baffi spioventi, sempre con la lobbia, era uno dei quei militanti d’acciaio così tipici (ed eccezionali al tempo stesso) dell’Internazionale comunista. Processato e ucciso dopo che i carri armati con la stella rossa lo avevano deposto nel sangue. Proprio lui che con l’esercito bolscevico aveva combattuto come volontario contro la guardia bianca dopo esser stato prigioniero in Russia durante la prima guerra mondiale.
Come era Nagy? Un comunista che aveva le sue idee e non ci rinunciava. mandato negli anni trenta a Mosca per un congresso del partito clandestino sostenne che la terra doveva essere distribuita ai contadini e non collettivizzata. Proprio mentre Stalin stava avviando la repressione contro i kulaki e la collettivizzazione forzata. Gli costò l’ostracismo, fu costretto all’autocritica. Ne uscì senza dover troppo chinare la testa, anche perché in un partito piccolo e litigioso come quello comunista ungherese Nagy cercò di tenersi fuori dalle battaglie di corrente che si incrociavano con le purghe e le accuse staliniane (così fu ucciso Bela Khun, leader storico del partito e fondatore della breve repubblica dei consigli). Gli anni della guerra li visse in Urss e quando le armate sovietiche liberarono il suo paese lui vi fece ritorno cominciando ad avere da subito incarichi di governo e di partito. Ma è con la morte di Stalin e via via con la destalinizzazione che la figura di Nagy assume incarichi più rilevanti anche se la sua ascesa conosce inciampi e incertezze: i due uomini forti del partito sono Rakosi e Nagy. Rakosi uomo di Stalin prevale per uno di quegli strani giochi del destino che segnarono gli anni confusi tra il ‘53 e il ‘56. Eppure col XX congresso del Pcus si possono misurare le distanze aperte nel partito comunista ungherese. Di quel congresso abbiamo gli appunti presi da Nagy: «Rakosi persevera nell’errore... principi del 20° congresso sono diretti contro il dogmatismo, il dottrinarismo, la "sinistra" settaria i cui rappresentanti principali in Ungheria sono rimasti Rakosi e i suoi...».
In queste carte i prodromi di un mutamento rapidissimo. Nagy è a capo del partito quando scoppia la prima rivolta che lui tenta di gestire politicamente. Chiede ai ribelli di deporre le armi ma annuncia anche l’amnistia per tutti quelli che lo faranno. È il tentativo di disinnescare una tragedia che ha la forma dei tank sovietici schierati alla frontiere. Mosca appare indecisa e alla fine di ottobre la prima invasione seguita alla rivolta finisce, ma poi nei primi giorni di novembre, mentre Nagy e altri rappresentanti del governo e dell’esercito sono impegnati in trattative per impedire l’invasione i carri tornano nelle strade.
Il partito, che con Nagy appare tutto interno alla rivolta si sfalda: uno degli uomini che apparivano più decisi a resistere all’Urss Janos Kadar veste alla fine i panni di Bruto. Mentre nelle strade di Budapest si combatte (alla fine le vittime saranno circa 25 mila) Kadar prende il potere con un governo filosovietico e Nagy è costretto a rifugiarsi nell’ambasciata jugoslava.
Qui inizia la parte più triste, questo vecchio comunista viene indotto da Kadar a credere che se lascia l’ambasciata avrà salva la vita. È una trappola, uscito dal cancello della sede diplomatica con un pulmino in cui si trova anche il capo dell’esercito ungherese Pal Maleter. Verrà condotto in Romania, processato in maniera farsesca e - due anni dopo - fucilato. Con un apparente paradosso Kadar che era riuscito ad aprire anche una trattativa coi rivoltosi e coi consigli operai che per mesi continuarono a lottare non seppe in alcun modo perdonare Nagy. I sovietici vollero con la condanna a morte innviare un segnale atroce agli ungheresi e a tutti i paesi satellite. Tanto che i principali leader comunisti vennero consultati per esprimersi sull’esecuzione. E nessuno fu capace di dire di no.
* www.unita.it, Pubblicato il: 27.09.06 Modificato il: 27.09.06 alle ore 9.46
Budapest a ferro e fuoco mezzo secolo dopo *
Violenti scontri a Budapest nel cinquantesimo anniversario dell’inizio della rivolta ungherese del 1956. Paradossalmente il centro della capitale è stato messo a ferro e fuoco da decine di migliaia di manifestanti di estrema destra che attaccavano la polizia ungherese in memoria dei comunisti ungheresi repressi dai carri armati sovietici il 23 ottobre di mezzo secolo fa.
I manifestanti chiamati in piazza dal partito nazionalista di opposizione Fidesz hanno eretto barricate con alcuni cassonetti dell’immondizia, barre di ferro e cartelloni stradali divelti dal viale che porta a piazza Kossuth, di fronte al parlamento, dove dietro una cortina di transenne si sarebbero dovute celebrare le commemorazioni ufficiali del ‘56. La polizia in assetto antisommossa ha risposto lanciando candelotti lacrimogeni e usando proiettili di gomma e idranti. La "battaglia" più dura è avvenuta nel primo pomeriggio davanti all’albergo Astoria e nelle piazze Erzsebet e Deak e lungo il corso Bajcsy Zsilinski. Lì i manifestanti hanno risposto alle cariche della celere tutando pietre e pezzi di ferro. In serata un gruppo di giovani avvolti nel tricolore ungherese con lo stemma nazionale sormontato dalla corona di Santo Stefano, primo re e costrutture dello stato ungherese nell’alto Medioevo, si sono impadroniti di un carro armato sovietico T34 vecchio di 50 anni e di un camion della stessa età che facevano parte di un’esposizione di cimeli della rivolta al centro della città. Il carro armato, con l’armamento disattivato da decenni, ha compiuto qualche decina di metri prima di essere definitivamente bloccato da un blindato della polizia.
Al raduno organizzato dal Fidesz era previsto l’intervento di Wilfred Martens, presidente del partito popolare europeo che da quando sono iniziate le proteste di piazza contro il governo del premier socialista Ferenc Gyurcsany ha sempre appoggiato i manifestanti. L’Ungheria dove le prime elezioni democratiche si sono svolte nel 1990, è entrata nell’Unione europea nel 2004 e attualmente è chiamata a fare un pesante riordino dei suoi conti pubblici in funzione del suo ingresso nell’Eurozona, previsto nel 2008. Lo scorso 17 settembre il capo del governo aveva ammesso - in una registrazione intercettata a sua insaputa e divulgata - di aver mentito sul programma di austerità e riforme del governo allo scopo di vincere le elezioni legislative di aprile. E da allora l’opposizione ha inscenato dure proteste che hanno coinvolto anche giovani teppisti dei gruppi ultras di calcio.
In mattinata corone e mazzi di fiori sono stati deposti a nome del governo dai ministri degli Esteri, Kinga G"ncz, e della Difesa, Imre Szekeres, sotto la lapide che ricorda tutti gli «eroi sconosciuti» della rivolta anti-comunista che nel 1956 costò 228 vittime oltre all’imprigionamento e all’uccisione del premier riformatore Imre Nagy. Tutti i partiti presenti oggi alla cerimonia ufficiale organizzata in Parlamento hanno tenuto anche commemorazioni separate. Il partito socialista a Kaposvar presso la casa natale di Nagy, dove a pronunciare un discorso è stato il leader Istvan Hiller. I liberi democratici si sono riuniti nei pressi cimitero del lotto 301. Quanto ai centristi del Foro democratico, hanno ricordato la rivolta a piazza Szena, teatro di violenti scontro 50 anni fa. Alla cerimonia ha partecipato Jeno Fonay, un ex condannato a morte, poi amnistiato, presidente dell’Associazione dei prigionieri politici. Varie organizzazioni di ex combattenti hanno inaugurato nel parco del Politecnico un monumento dedicato al movimento popolare del ’56.
La tensione è iniziata a salire quando , il premier Ferenc Gyurcsany ha deposto una corona ai piedi della statua di Nagy collocata nelle vicinanze di Piazza Kossuth e i dimostranti dietro le transenne hanno iniziato a fischiarlo e a insultarlo. E poi è esplosa al termine della commemorazione solenne in Parlamento, a cui hanno partecipato le alte autorità dello Stato magiaro, capi di stato e ministri di 56 Paesi. Alcune migliaia di giovani si sono distaccati dal corteo principale e si sono appropriati di grandi lettere in plastica che formano la scritta «Szabadsag», cominciando a erigere barricate da cui sono iniziate le sassaiole contro i cordoni di poliziotti. Negli scopntri almeno un manifestante è rimasto ferito alla testa.
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www.unita.it, Pubblicato il: 23.10.06 Modificato il: 23.10.06 alle ore 19.00
Ungheria, un paese diviso
Scontri di piazza nel cinquantenario della rivolta antisovietica
(www.lastampa.it, 23/10/2006)
BUDAPEST. Nel cinquantennale della Rivoluzione, l’Ungheria sembra non tanto celebrare il passato ma esprimere la propria insoddisfazione nei confronti di quanto accade oggi: un anniversario che non riesce a unire un Paese che ha colto l’opportunità per contestare l’attuale esecutivo.
A dire il vero, nenache l’eredità del 1956 - che tuttavia secondo gli storici rappresentò un momento di unione per tutto il Paese - è mai stata esente da polemiche: alla ferma condanna dell’intervento sovietico di quello che oggi è lo schieramento conservatore fa riscontro l’atteggiamento meno netto degli eredi politici del comunismo, tra cui i socialisti oggi al potere.
Su questa linea di faglia si inseriscono le polemiche che vedono al centro il premier socialista Ferenc Gyurcszani, attaccato dalla destra - e non solo - dopo la sua ammissione di avre mentito all’opinione pubblica sulla situazione economica nel corso della campagna elettorale.
L’opposizione ha deciso infatti di disertare i banchi del Parlamento in occasione dell’anniversario della Rivoluzione, per ricordare la quale sono giunti invecce a Budapest oltre venti Capi di Stato e di governo.
Ma gli elettori hanno anche altri motivi per essere men che entusiasti del programma di Gyurcszany, che di fronte alla reale situazione dei conti pubblici ha dichiarato di voler tagliare posti di lavoro nel pubblico impiego e di voler aumentare la pressione fiscale; il tutto per stimolare la crescita economica necessaria per portare il Paese nell’Unione Europea entro il 2010.
Il risultato paradossale è che le celebrazioni per l’anniversario della Rivoluzione, festa popolare per eccellenza, sono rimaste in gran parte appannaggio delle istituzioni: per strada sono scesi sì i dimostranti, ma per protestare contro il governo e le riforme volute dal premier.
Quel carro che ritorna
di Enzo Bettiza
(La Stampa, 24/10/2006)
L’IMMAGINE della tv riproduce a colori quella sgranata e in bianconero del carrarmato di Budapest che le prime televisioni e i giornali dell’epoca ci fece vedere allora. È una sovrapposizione sorprendente e drammatica: cambia soltanto il colore. C’è anche un ricorso storico che può avere una spiegazione: questa rivolta è una rivolta contro il governo in carica il cui presidente Ferenc Gyurcsany era segretario della gioventù comunista, erede di una dinastia comunista, che come tanti leader dei Paesi dell’Est conoscendo bene i meccanismi del potere ha realizzato ed abusato delle privatizzazioni come fossero un affare privato.
Gyurcsany non soltanto è diventato l’uomo più ricco dell’Ungheria e uno dei più ricchi d’Europa, ma ha irritato la popolazione budapestina che non naviga tutta nell’oro affermando che il suo partito socialista ha continuato a mentire per conservare il potere. C’è un perverso filo storico che sembra congiungere il 1956 con il 2006, dopo mezzo secolo dalla rivoluzione. In Ungheria, ma anche in Polonia, Slovacchia e Repubblica Ceca c’è la voglia di chiudere definitivamente i conti con il totalitarismo comunista e i suoi ultimi eredi, conti che non sono stati fatti fino in fondo nel 1989. Gli ex comunisti divenuti socialisti che perseguono politiche di liberismo selvaggio, come è stato ed è il caso del partito di Gyurcsany, costituiscono un paradosso brutale, quasi una beffa, che i nuovi ragazzi della via Pal sembrano non desiderare né approvare.