Si tratta della settima Cattedra UNESCO in Italia e della prima al mondo legata al dialogo interculturale promosso attraverso lo studio dell’immaginario, il cui fine è quello di indagare la rete interattiva di rappresentazioni mentali attraverso le quali gruppi e nazioni costituiscono le loro identità ma anche i loro pregiudizi.
La Cattedra nasce come punto di raccordo e coordinamento di diversi centri studi sull’immaginario sparsi nel mondo secondo la filosofia UNESCO. Il sistema delle Cattedre UNESCO è infatti finalizzato alla costituzione di centri di eccellenza che realizzino programmi di insegnamento e ricerca avanzati attraverso azioni multilaterali volte al rafforzamento della cooperazione interuniversitaria, all’accrescimento della mobilità e al sostegno ai sistemi educativi di Paesi in via di sviluppo.
In primo piano *
Ciclo di incontri 2010: Immaginari del Banchetto
I riti della tavola uniti alle sollecitazioni aspre o piccanti, dolci o salate che si offrono al palato inebriano i sensi e esaltano i temperamenti.
Il sistema alimentare è allora proiezione di una pratica culturale che riconosce ai cibi il potere di riunificare le forze spirituali disperse intorno all’ara sacrificale costituita dalla tavola giacché ogni pasto è cerimonia e l’assunzione di cibo immette nella sfera del sacro. Il banchetto come imago mundi e i riti della tavola come rappresentazione personale del mondo saranno dunque gli assi di sviluppo lungo i quali si muoveranno questi incontri.
16 marzo, 15.30 h Aula Seminari
Daria Galateria, "Banchetti sensuali e devoti nella Recherche di Proust"
14 aprile, 15.30 h - Aula Seminari
Jean-Loup Amselle, “Métissage, extranéité et convivialité”
29 aprile, 15.30 h Aula Seminari
Silvano Nigro “Banchetti con artisti”
5 maggio, 15.30 h Aula Seminari
Maryline Desbiolles, “La scène”
7 maggio, 15.30 h Aula Seminari
Paolo Fabbri, “Il banchetto delle avanguardie ovvero rimangiarsi le parole”
* CATTEDRA USCESCO-IULM, 2010.
Kant? Un incapace per i nostri atenei
Giovanni Puglisi: perché alle nostre università serve un cambio di rotta
di Salvo Fallica (l’Unità, 29.6.13
«SE EMANUELE KANT TORNASSE A VIVERE E SI PRESENTASSE AD UN CONCORSO PUBBLICO avendo scritto “solo” un capolavoro quale La critica della Ragion Pura, con le attuali regole di valutazione del sistema universitario italiano, non potrebbe vincerlo. Non basta una sola pubblicazione. Se Einstein si presentasse con il celebre scritto sulla teoria della Relatività ristretta, non lo farebbero nemmeno partecipare. È un testo “troppo breve”. Sembra assurdo ma è la triste realtà di questo Paese».
Sorride con amarezza, Giovanni Puglisi, rettore dell’università Kore di Enna e dello Iulm, presidente dell’Unesco Italia, ed aggiunge: «Può sembrare solo un paradosso provocatorio, eppure è una questione reale. Se oggi Einstein si presentasse con quel testo, che ha cambiato la visione del mondo, non entrerebbe nella griglia delle valutazioni delle mediane, un sistema burocratico, quantitativo ed assurdo. Verrebbe superato da un ricercatore che ha scritto molti testi ed ha avuto parecchie citazioni. È un sistema talmente assurdo che lo stesso ministero della Pubblica istruzione, successivamente alla sua introduzione, ha sottolineato che non necessariamente bisogna tenerne conto in maniera rigorosa. Sa quale sarà il risultato? Un ginepraio di ricorsi giudiziari, alla fine saranno i giudici a doversi esprimere sulla selezione dei docenti».
Puglisi esprime con nettezza e chiarezza le sue critiche in questo dialogo con l’Unità, e mette in guardia sul rischio della deriva che incombe sul sistema del sapere italiano, scuola ed università. Ma una speranza la coglie nella visione culturale e nelle prime decisioni ed azioni del nuovo ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza. «Ha le idee chiare ed è partita bene. Condivido la sua impostazione culturale sulla valorizzazione del merito e sulla centralità degli studenti nel processo formativo. Ed ha anche la capacità del dialogo costruttivo. Vi è però un limite...»
Quale?
«È un limite che non dipende dal ministro Carrozza ma dal programma del governo Letta. In nessun passaggio di quel programma vi è un accenno alla riforma universitaria. Purtroppo Carrozza è costretta a muoversi all’interno di una griglia legislativa che è ancora quella della Gelmini. Potrà apportare modifiche innovative, fare riforme specifiche ma per cambiare profondamente occorre mutare quell’impianto strutturale».
Vi sono già atti concreti, come li giudica?
«L’annuncio delle assunzioni dei ricercatori è senz’altro positivo e in controtendenza rispetto ai governi precedenti, ma la vera novità è il fatto di ottenere l’innalzamento dal 20 al 50, in termini percentuali, del tetto necessario per poter dare corso al turnover quando i docenti vanno in pensione. È un risultato di estrema importanza. Le racconto un aneddoto. L’altro giorno, durante l’incontro dei rettori con il ministro dell’Istruzione, un collega ha detto: “Finalmente Saccomanni ha messo la firma sul decreto”. Il ministro ha chiosato ironicamente: “Prima la firma l’ha messa Carrozza”, rivendicando giustamente, in un quadro di armonico confronto, l’autonomia del suo ruolo, che invece è apparso subalterno nei governi precedenti. Non solo la Gelmini si è fatta dettare la linea da Tremonti, ma anche Profumo ha seguito la linea Monti-Grilli. Vorrei aggiungere che in quei casi vi è stato anche un prevalere del potere della burocrazia del ministero dell’Economia rispetto al potere politico. Ha fatto bene il ministro Saccomanni a cambiare i vertici, non ne metto in dubbio la loro bravura, ma in democrazia vanno fatte delle rotazioni, è fisiologico oltre che razionale. Chi arriva ha uno spirito nuovo, guarda le cose in maniera diversa».
Quali sono i limiti dell’università italiana?
«Purtroppo negli ultimi 20 anni vi è stato un progressivo peggioramento, una moltiplicazione di ruoli che ha avuto un effetto finanziario disastroso. In nome dell’autonomia sono avvenuti fenomeni di dequalificazione, rettori e presidi per ingraziarsi l’elettorato hanno aggregato, a volte, persone diciamo di non alto profilo. Spesso i concorsi sono avvenuti in coincidenza di elezioni di rettori e presidi. Questo è accaduto finché la vacca, munta eccessivamente, non si è spenta. In questo sistema impazzito, si è andata ad incardinare la riforma Gelmini con le sue forme di reclutamento, che oggettivamente le debbo dire, qualche novità l’hanno apportata, ma le novità si stanno dimostrando delle negatività. Abbiamo già citato il paradosso di Einstein».
Quali sono gli altri punti deboli?
«Parliamo delle abilitazioni. Ebbene qui la pseudo novità consiste nel fatto che occorrono 4 voti su cinque, invece di tre su cinque. Sa cosa vuol dire? Basta che uno dei membri della commissione ne convince un altro e la minoranza può ricattare la maggioranza. E per evitare la paralisi, si potranno verificare molti casi di abilitazioni dei docenti con l’unanimità dei voti. Ciò vuol dire che i commissari dovranno spesso trovare una mediazione per evitare l’impasse. Per non parlare delle abilitazioni prima delle sedi, che potranno portare ad abilitati di serie A con le sedi, altri senza. Conoscendo l’Italia non è difficile immaginare che resteranno fuori i migliori».
Rettore, il metodo quantitativo dall’università è giunto anche alle scuole medie inferiori e superiori. Che ne pensa della cultura dei quiz?
«Il metodo quantitativo è semplicemente una boiata. La cultura dei quiz è ancora peggio, è una sottocultura. La dobbiamo smettere di valutare la storia, la letteratura, la filosofia con gli stessi metodi dell’ingegneria, della clinica e della matematica. Così si finisce per uccidere l’area umanistica. Alcuni insistono sulla necessità di regole. Ma la regola non vuol dire omologazione. È servilismo culturale ed esterofilo attingere a modelli di quiz pensati per altre realtà e calarle in contesti diversi. Senza neanche delle opportune modifiche».
Sui media sono state pubblicate notizie sulle domande dei quiz del concorsone per i docenti della scuola. Vi erano anche domande sulla cucina e sulla moda. Dunque un insegnante che non sa queste nozioni non può insegnare?
«Vede, la moda e la cucina sono cose che hanno una loro valenza culturale, ma non necessariamente debbono far parte del bagaglio di conoscenze di un insegnante di lettere. Ma ancor più grave è la medesima concezione dei quiz, oppure i testi brevi di risposta agli scritti, magari ispirati da una visione didattico-scolastica contraria all’originalità interpretativa, all’approfondimento intelligente. In questo modo non si selezionano i migliori, ma quelli che hanno alcune nozioni in più, oppure sono semplicemente più fortunati. Siamo dinanzi a una crisi storica del modello di valutazione, ormai simile ad una forma di sorteggio. Con questi metodi non si coglie la qualità, la preparazione autentica, la capacità di scrittura e di analisi critica. Il metodo quantitativo porta la scuola italiana ad essere più debole rispetto agli altri grandi Paesi. Si uccide la peculiarità della nostra storia».
Professore, in Germania dove convivono armonicamente cultura umanistica e scientifica, in parecchie scuole elementari studiano anche la filosofia...
«In Italia invece ai professori nei concorsi pubblici chiedono qualcosa sul taglio e cucito. Magari alcuni burocrati hanno sbagliato la taglia dei vestiti, dimenticando le taglie grosse. Fuor di metafora, parlo di burocrati, perché non penso che questa cultura dei quiz sia il frutto della Minerva dell’ex ministro Profumo. Ho troppo rispetto per la sua intelligenza, credo che sia stato mal consigliato da qualche burocrate o esperto».
Vi è qualche possibilità di uscire da questo impasse?
«Come dicevo prima ho fiducia intellettuale nelle qualità del nuovo ministro Carrozza, però avrà molte difficoltà ad intervenire in maniera efficace su questi aspetti. L’omologazione verso la cultura dei quiz, il metodo quantitativo applicato a tutto ed in maniera indistinta è ormai una moda. Vi è una deriva pericolosa, se non la si ferma ed inverte avremo un ulteriore decadimento del sistema del sapere ed anche una opinione pubblica peggiore. Serve un nuovo metodo formativo e valutativo che recuperi i valori della cultura e li coniughi con le innovazioni, lo spirito scientifico e tecnologico. Ma il tutto deve avvenire in maniera critica, sì alla multidisciplinarità, non alla distruzione delle specificità e delle differenze».
Com’è sacro sedersi a tavola
di Luigi Lombardi Satriani (Avvenire, 23 marzo 2011)
«Mentre mangiavano prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro dicendo: ’Prendete questo è il mio corpo’. Poi prese il calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse: ’Questo è il mio sangue, il sangue dell’alleanza versato per molti’» (Marco, 14, 22-24). Al termine del funerale i familiari del defunto ritornano nella loro casa dove le famiglie di parenti e amici provvedono a portare cibi e bevande in modo che possano rifocillarsi dopo le lunghe ore che hannoseguitol’evento luttuoso.
Negli anni successivi all’Unità d’Italia, un pizzaiolo napoletano, Raffaele Esposito, e sua moglie, prepararono la famosa pizza con pomodoro e mozzarella in onore della regina Margherita, moglie di Umberto I re d’Italia.
Sono alcuni tra i tanti esempi possibili di diverso livello e portata che mostrano quanto la dimensione del cibo abbia avuto una serie di intersecazioni con il piano del sacro ponendosi come aspetto fondante della nostra civiltà, del nostro orizzonte simbolico, nella nostra storia. Nelle parole di Cristo sangue e memoria sono strettamente connessi; la ripetizione del suo sacrificio, il mangiare e il bere le specie divine devono essere fatti in memoria di Cristo. Viene così completato quel processo di esaltazione della memoria fondante già saldamente avviato dall’Antico Testamento.
Nei paesi meridionali, l’usanza rituale del banchetto funebre ( ricunsulu o consuolu ) è particolarmente diffusa, come ho avuto modo di rilevare direttamente nella mia esperienza pluridecennale di ricerca sulla cultura folklorica che si è concretata, tra l’altro, nell’opera scritta con Mariano Meligrana, Il ponte di San Giacomo. L’ideologia della morte nella società contadina del Sud (Sellerio). La comunità dei sopravvissuti può ricostituirsi, proprio attraverso l’azione del mangiare assieme, come ’comunità del noi’, contrastando così il pericolo della disgregazione costituito dalla morte del familiare.
Il pizzaiolo napoletano e la moglie, su richiesta della regina Margherita, prepararono tre pizze: una con la mustinicola, una alla marinara e una pizza con il pomodoro, la mozzarella e il basilico, pensando al tricolore italiano. Alla regina piacque moltissimo quest’ultimo e il pizzaiolo per tale motivo la chiamò con il nome della regina.
Innumerevoli altri esempi potrebbero essere qui addotti data la costante presenza del cibo negli eventi rituali che cadenzano l’orizzonte festivo e quello quotidiano delle nostre comunità. Tutta la vita rituale è infatti scandita da momenti in cui il cibo mostra la sua ineludibile centralità. Basta assistere alle numerosissime feste popolari durante le quali vengono offerti alimenti ai santi o alla divinità, vengono consumate in loro onore determinate pietanze, si realizzano momenti di intensa solidarietà sociale, si dispiega un piano di comunicazione metastorica con l’aldilà.
Penso, ad esempio, all’offerta dei pani, alle pietanze donate agli indigenti nel giorno di San Giuseppe, all’offerta fatta ai poveri in suffragio dei propri defunti. Ho assistito direttamente a molti di questi rituali e a volte sono divenuto io stesso destinatario di offerte rituali cariche di tale significato metafisico.
Ricordo ad esempio che anni fa, su invito della Rai, andai a Piminoro, piccolissimo centro dell’Aspromonte calabrese, per consigliare a una troupe radiotelevisiva cosa fosse più importante riprendere, da un punto di vista antropologico, nei rituali del 2 novembre, dedicato, come si sa, alla commemorazione dei defunti. Sia io che l’intera troupe televisiva fummo invitati apranzo da una signora del luogo (nel paese non esistevano né ristoranti, né trattorie, né altra maniera per rifocillarsi) e ci fu servito dalla stessa padrona di casa un pasto abbondante. Ai miei ringraziamenti, che sottolineavano anche che mi rammaricavo perché si era presa tanto disturbo, la signora mi rispose che ogni anno preparava un pranzo abbondante che mandava ai poveri del paese.
Quell’anno la nostra presenza di forestieri l’aveva indotta ad offrire a noi il pranzo, sempre in suffragio dei propri defunti. Tutto ciò era coerente con la cultura folklorica tradizionale secondo la quale i bambini, i poveri, i mendicanti, i forestieri possono costituire, proprio per la loro relativa invisibilità sociale, i vicari dei morti, assumere cioè provvisoriamente il ruolo di morto e divenire così destinatari di gesti realistici che altrimenti non potrebbero essere compiuti. In poche parole, attraverso il rapporto fra cibo e sacro è possibile approfondire quel confronto tra culture sempre più necessario data la progressiva multietnicizzazione della nostra società.
Ciò che mi preme qui rilevare è che il cibo è essenziale alla nostra sopravvivenza, sia in senso realistico, pragmaticamente realistico (se non ci alimentiamo, moriamo, come capitò all’asino del monsignore proprio quando, ricorda la barzelletta, questi aveva abituato la sua cavalcatura a digiunare), sia in senso simbolico, di un diverso livello di realismo, essendo i simboli necessari per l’ancoraggio dell’uomo nella sua esistenza, nella sua società.
Cibo e sacro non va visto soltanto come endiadi, ma come affermazione, sostituendo alla ’e’ della congiunzione la ’è’ del verbo. Cibo è sacro perché il cibo si dispiega nella cultura come essenziale forma della sacralità e il sacro è cibo nel senso che si materializza attraverso gli alimenti, si invera in essi. Attraverso il cibo gli uomini realizzano così il loro bisogno fondamentale di senso, di porsi come esseri precari e, contemporaneamente ma non contraddittoriamente, come tendenzialmente eterni, superando così la datità e la finitudine nelle quali si sentono delimitati, ma che tendono, sempre e comunque, a trascendere
Chi ospita l’altro fa un dono anche a sé
di Enzo Bianchi (La Stampa, 25 maggio 2012)
“Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo». Questa esortazione della Lettera agli Ebrei ci ricorda che l’accoglienza autentica crea un dialogo fecondo di cambiamenti e di arricchimenti per l’ospite come per l’ospitante: dal dialogo non si esce come si era entrati, e la sfida del dialogo richiede la disponibilità a intraprendere questo cammino. Nel dialogo emergono visioni inedite dell’altro, si fa strada la fine del pregiudizio, la scoperta di ciò che si ha in comune e anche di ciò che manca a ognuno degli interlocutori. Lì avviene la contaminazione lo spostamento dei confini: quell’altro che io situavo in una dimensione remota si rivela molto più vicino e simile a me di quanto pensassi. Il confine resta, ma non è più luogo di conflitti o di malintesi, bensì di pacificazione e di incontro. L’ospitalità, che ha richiesto si varcasse la soglia di una casa, ora si approfondisce e diviene incontro tra umani.
Certo, se non si attende nulla dall’altro, il dialogo nasce già morto: la sufficienza, il voler bastare a se stessi è di fatto negazione dell’altro, sia che lo si consideri come oggetto da possedere, sia che ci si rifiuti di vederlo e di prenderlo in considerazione. Ma se si accetta la presenza dell’altro, più ancora se si è disposti ad accoglierlo come «ospite interiore» riconoscendone le tracce presenti in noi, allora scocca la scintilla del dialogo autentico: si dà tempo all’altro, si scambiano parole che divengono doni reciproci. Il diá-logos infatti è una parola che si lascia attraversare da una parola altra, è un intrecciarsi di linguaggi, di sensi, di culture: gli interrogativi dell’altro diventano i miei, i suoi dubbi scomodano le mie certezze, le sue convinzioni interpellano le mie. Allora scopriremo che nel dialogo arriviamo a esprimere pensieri mai pensati prima, con l’affascinante percezione di sentirli a un tempo inauditi eppure familiari a noi stessi, finiamo per scoprire di avere da tempo tra le mani realtà che eravamo convinti di ignorare.
È nel dialogo, in quel luogo privilegiato in cui ciascuno resta se stesso e nel contempo accetta il rischio di diventare «altro», che l’ospite diviene la rivelazione di un dono che viene da «altrove», la scoperta di un punto di vista inedito sulla propria esistenza, l’affiorare con parole e gesti dell’interiorità che ci abita.
E tutto questo a partire da un gesto molto semplice e concreto: il dare da bere e da mangiare
all’ospite. Si sa che nei Paesi mediterranei un bicchiere d’acqua o una tazza di caffè sono il gesto
più spontaneo, più immediato di ospitalità. Ma oggi, nella nostra società, la tavola è ancora il
centro, il polo attorno al quale si organizza la casa affinché sia ospitale? Fin dalla sua prima
comparsa nell’evoluzione delle civiltà, la tavola si è manifestata come luogo fatto non solo per
mangiare ma anche per comunicare: se il cibo non è «parlato», nutre solo aggressività, violenza e
sopraffazione. La tavola in comune con l’ospite è lo spazio in cui il cibo è condiviso e il mangiare
diventa «convivio», occasione di comunione vitale: è a tavola, alla tavola condivisa, che l’uomo ha
l’opportunità ogni volta rinnovata di liberarsi dal suo essere «divoratore» - del cibo e dell’altro da sé
e di ridiventare ogni giorno uomo di comunione.
La tavola è infatti il luogo attorno al quale l’uomo ha cominciato a fare amicizia, a creare società, a stipulare alleanze. È atto comunionale per eccellenza. Mangiare è anche il comportamento umano più carico di simbolismo. Mangiare insieme, offrire il proprio cibo all’ospite, significa far entrare l’altro in una comunione profondissima con noi. Infatti, «noi mangiamo ciò che nostra madre ci ha insegnato a mangiare. Non solo», ci ricorda Leo Moulin, «ma tale cibo ci piace e continuerà a piacerci per tutta la vita, perché noi mangiamo con i nostri ricordi. [...] Anzi, noi mangiamo i nostri ricordi, perché ci danno sicurezza, conditi come sono di quell’affetto e di quella ritualità che hanno caratterizzato i nostri primi anni di vita». Questo vale anche per la cultura-madre, per la cultura in cui siamo stati allevati, per la cucina particolare di quella regione o di quel paese che noi offriamo all’ospite (o che ci vediamo offrire). E capiamo anche, scoprendo il disgusto che ci può provocare il cibo che ci viene offerto quando siamo ospiti o le resistenze che l’altro manifesta di fronte ai cibi che noi gli offriamo quando lo ospitiamo, quanto siamo radicati in una storia particolare e quanto sia lungo e faticoso il cammino verso l’incontro con l’altro.
Ora, dalla condivisione della parola nel dialogo e del cibo attorno a una tavola nasce una conoscenza nuova dell’ospite: colui che era estraneo, di cui si ignorava la provenienza, di cui si faticava a comprendere il linguaggio, è ora divenuto qualcuno di familiare, parte di quella cerchia di persone e di mondi che costituisce il «nostro» mondo, fatto di somiglianze e di alterità, di consuetudini e di novità, di tradizioni ricevute e di nuove strade imboccate.
E questo elemento «socializzante» dell’ospitalità non dovrebbe essere dimenticato. Quando uno di noi accoglie un altro, infatti, non è mai solo: nel mio accogliere l’altro c’è sempre con me la mia storia, le persone che l’hanno attraversata, gli incontri che l’hanno determinata, la cultura che l’ha orientata. Analogamente, anche l’ospite accolto non è un individuo a sé stante, non giunge mai solo: con sé porta il suo passato, le persone e le vicende che lo hanno fatto soffrire o gioire, le speranze e le disillusioni, il futuro atteso e quello ignoto. Sì, anche nel faccia a faccia di due singole persone, l’ospitalità resta il luogo comunitario per eccellenza: sono due mondi che si incontrano attraverso l’intrecciarsi di due sguardi e il dialogare di due volti.
L’ospitalità è un dono! Dono a chi è ospitato, dono a chi ospita. Certo, l’ospitalità è solo una tappa, non può essere tradotta in situazione definitiva perché essa si indirizza sempre a nuovi interlocutori temporanei che si affacciano alla soglia della casa o della città. La condizione dell’ospite è quella di chi non resta, altrimenti diventa un membro e perde la propria qualità di forestiero, straniero, altro, pellegrino: l’ospitalità è un rito di passaggio, il dono temporaneo di uno spazio.
Praticare così l’ospitalità, allora, porterà con sé un dono inatteso: quasi inavvertitamente finiremo per scoprire che, facendo spazio all’altro nella nostra casa e nel nostro cuore, la sua presenza non ci sottrae spazio vitale ma allarga le nostre stanze e i nostri orizzonti, così come la sua partenza non lascerà un vuoto, ma dilaterà il nostro cuore fino a consentirgli di abbracciare il mondo intero
Dieta mistica
Dalle vite dei santi alle mode di oggi, così è cambiato il rapporto con il cibo
Politico, religioso e profano, le mille anime del digiuno
di Mariapia Veladiano (la Repubblica, 28.06.2012)
Paradossale nell’età e nelle terre dell’opulenza il tempo speso a parlare di diete, a leggere libri di diete, ad acquistare “cibi senza” (grassi, zuccheri, calorie comunque) che costano più dei “cibi con”. A cercare la più “veloce”, a non temere dolori e allucinazioni. Diete-digiuno che ci seducono, parlano a qualcosa di profondo e insuperabile. Quanto tempo della nostra unica vita se ne va così?
In natura il digiuno non è una scelta. Può essere strategico: il letargo, per non disperdere le energie alla ricerca di cibo che d’inverno non c’è. Oppure necessario: si digiuna se non si trova di che mangiare. Oppure ancora è sintomo: non si mangia quando si sta male, nel corpo e nello spirito. E basta convivere con un animale da compagnia e lo si sa per certo che non solo di noi umani questo si può dire. Anche se un po’ bisogna intenderci sui termini.
Di certo tutti conosciamo l’inappetenza da dolore: inflitto, subito, temuto, pena d’amore. Solo per noi uomini il digiuno può esser scelta. A volte strumento, drammatico, di protesta: dalle suffragette che rifiutavano il cibo per affermare il diritto di voto, ai digiuni per i diritti civili nei nostri anni ancora così segnati dall’ingiustizia.
Digiuno con valore politico e culturale e, spesso, strettamente cultuale, legato alla religione: nella forma attenuata dell’astensione da alcuni cibi oppure in forme più radicali che hanno attraversato anche la storia del cristianesimo portandosi appresso un sospetto di patologia.
Sì, perché il cibo è vita, benedizione, salute, ospitalità, allegria condivisa, dono di Dio, Dio stesso addirittura. Il profeta Ezechiele che mangia il rotolo della Parola è sia realtà dell’uomo che assimila quel che Dio gli dà sia, visto dalla parte di Dio, un consegnarsi senza trattenere nulla di sé.
Per questo gli ordini monastici e la tradizione della chiesa sono sempre stati prudenti sul digiuno. Gli eccessi erano sospettati di autocompiacimento, di un voler accampar meriti davanti a Dio.
Oggi molte di quelle che chiamano diete somigliano a un laico, ostinato digiunare. Certo che la dieta non è un digiuno, in senso stretto. O almeno non dovrebbe esserlo. È un mangiar corretto. Come un mangiar corretto doveva essere quello di Adamo ed Eva. Tutto tranne il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Dieta di salute spirituale, molto prudente. In realtà esercizio di fiducia in Dio: tutto bene è stato fatto nella creazione, possiamo fidarci di un divieto dal senso oscuro?
La Bibbia è attraversata da cibi fatali. Se il frutto di Adamo ed Eva e il piatto di lenticchie di Esaù sono stati infausti, i pani e i pesci del Vangelo o la meravigliosa manna dell’Antico Testamento, che si trovava al mattino nella misura giusta e non si poteva conservare per il giorno dopo, ci raccontano invece la bontà del cibo, vero e metaforico. La libertà di saper vivere il giorno che ci è dato nella fiducia di un pane che viene.
La dieta di oggi sembra il contrario, un digiuno appunto che è un giocar d’anticipo per la paura del pane che non verrà. Forse perché non è venuto e temo che non verrà. Ho paura e allora lo rifiuto. Non verrà e allora non mi serve, angelo divento.
Certo che nel parlare di cibo oggi si deve essere prudenti, perché anoressia e bulimia sono malattie vere, che devastano il corpo e lo spirito, se stessi e gli altri.
Eppure, tutto intorno a questi abissi della malattia, c’è un collettivo “giocare con il pane” che, ci è stato detto fin da piccoli a tavola, non si fa, non si dovrebbe fare.
Ma quale pane? Il pane-cibo o il pane-affetto? Se il primo affetto per tutti noi passa attraverso la cura del corpo, e attraverso il cibo che lo fa vivere, quando questo manca allora il rifiuto del cibo diventa insieme rifiuto del corpo e protesta, potere con cui punire chi il cibo non ha dato. O non abbastanza, senza colpa, o non nel momento giusto, per incapacità o impossibilità.
Forse qualcosa di quel che è capitato alle “sante anoressiche”, secondo l’espressione di Rudolph Bell, può raccontarci un pezzo di noi. Il digiuno da “preghiera del corpo”, come era inteso dalla tradizione cristiana sia occidentale che orientale, diventa in loro un mezzo per esercitare il “potere attraverso il corpo”.
Il controllo del corpo era una delle pochissime forme di potere in mano anche alle donne in un tempo di guerre sante e santi poteri maschili. E infatti sono soprattutto le donne a praticare l’ascesi del cibo nella storia passata, e anche recente: da S. Caterina da Siena (muore nel 1380) a Teresa Neumann (muore nel 1962, dopo aver vissuto per 35 anni di solo pane eucaristico). Una scelta che sfiora il sogno di anticipare, nel corpo fatto sottile quasi come l’anima, la sua stessa incorruttibilità.
Forse le donne lo conoscono per natura il potere del corpo. Che possono esser mangiate lo sanno da sempre. Esser cibo senza che sia una metafora. Lo sanno ben prima che il corpo lo insegni con la maternità. Il trattenersi dal cibo le sottraeva a questa storia scritta, sia nella realtà che nella metafora.
Anche oggi un sogno anoressico accompagna consapevolmente tanti giovanissimi e inconsapevolmente un po’ tutti, senza più guardare al genere. Le diete-digiuno che ammiccano dalle classifiche dei libri, dai reparti light dei supermercati, dalle vetrine tutte taglie-mini dei negozi, ci raccontano un desiderio ormai nostro.
Forse ancora c’entra il potere, che non sappiamo ben più dove risieda, ma certo non in noi. E c’entra anche la fiducia, che non coltiviamo più, per paura. E certamente il corpo. Assillo presente oggi come nel medioevo. Una diversa, strumentale, malata, costruita e bugiarda devozione del corpo ci obbliga ancora. Corpo esibito, giudicato, rifatto, perfetto sennò rifiutato. Un’ossessione che ci rende giudicati e infelici.
E allora forse proprio il corpo che ci occupa, invade l’esistenza fino all’ultimo interstizio, conquista il pensiero, ci impedisce la vita sociale, sempre visto con gli occhi degli altri e soppesato, non nostro, non alleato in quel che desideriamo, e noi a percepire ogni centimetro che deborda dalla cintura, dai pantaloni che pure vogliamo mettere stretti come tutti, proprio il corpo è il nemico. Un altro paradosso, e non solo del nostro oggi ma della vita tutta che è corpo in noi, di certo. Quale che sia la nostra speranza che ci porta oltre.
Così il tempo della dieta in forma di digiuno diventa un tempo del bisogno dei bisogni, quello dell’affetto in forma di cibo, sentito potentemente e negato, per non sentirlo più un giorno. Fame d’amore, di esser visti, amati, riconosciuti. Di potersi fidare e affidare a un futuro di pane che c’è. La manna del credere. Ma se prevale la paura, ci resta allora il potere sul corpo. Pieni del proprio essere vuoti, nemici a se stessi per diventare forse finalmente amici, un giorno. Nella forma di una leggerezza sognata. E così, angeli diventiamo. Come le sante mistiche anoressiche. Leggerissimi da volare via.
Meeting regionale di alto livello sul’insegnamento della filosofia in Europa ed in Nord America 14-16 Febbraio - MILANO
L’ obiettivo di questo incontro è discutere sullo stato dell’insegnamento della filosofia nella regione, nonché le sue sfide a tutti i livelli di istruzione e di formulare raccomandazioni per i soggetti interessati responsabili per l’istruzione,
al fine di introdurre la filosofia nei programmi di studio in cui non esiste e migliorarla dove già inserita. Questa riunione riguarda questioni diverse, come: Quali sono le sfide legate all’ integrazione e l’istituzionalizzazione della filosofia per i bambini? Che tipo di formazione degli insegnanti è necessaria? Quale posto deve essere data alla filosofia per gli adolescenti? Studi di Filosofia, e poi? meccanismi di mobilità e di standardizzazione titolo accademico: Quali sono le sfide? Filosofia e libertà accademica: Qual è la posta in gioco, ecc?
Questo incontro regionale di alto livello dedicato all’insegnamento della filosofia in Europa e Nord America è l’ultimo di una serie di incontri lanciato dall’UNESCO nel 2009 con lo scopo di promuovere l’insegnamento della filosofia nel mondo. In questo quadro, i seguenti incontri sono stati così organizzati: in Tunisia - per la regione araba, nella Repubblica Dominicana - per l’America Latina e i Caraibi, nelle Filippine - per l’Asia e il Pacifico, in Mali - per i paesi dell’Africa francofona; e in Mauritius - per i paesi anglofoni in Africa.
Parteciperanno alla sessione di apertura il Prof. Giovanni Puglisi, Presidente della Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO e Rettore della Libera Università di Lingue e Comunicazione, Pilar Alvarez-Laso, Assistente Direttore Generale per le Scienze Umane e sociali, così come i vari esperti italiani e rappresentanti governativi di alto livello.
Programma del meeting
Per maggiori informazioni
La filosofia? Insegnamola a partire dall’infanzia. Una nota e una premessa:
FILOSOFIA: IL PENSIERO DELLA COSTITUZIONE E LA COSTITUZIONE DEL PENSIERO.
FILOSOFIA, POLITICA, E MERAVIGLIA.
MA DOVE SONO I FILOSOFI ITALIANI OGGI?!
(Federico La Sala)
di Maria Bettetini (Il Sole-24 Ore, 23 gennaio 2011)
Un sorriso di solito accoglie la dichiarazione di appartenenza alla poco compresa categoria degli insegnanti di materie filosofiche. Di sufficienza, o di condiscendenza, ed è comprensibile. Perché affaticare le intelligenze discenti sulla inutile arte del saper porre le domande giuste, del non accontentarsi di risposte preconfezionate, del sapere indagare in se stessi e nel mondo? Se questa è filosofia, però, difficile essere docenti senza insegnare filosofia, per non parlar di chi lo fa di professione. È d’accordo sul valore dell’insegnamento della filosofia l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura.
L’Unesco organizza infatti, area per area, incontri sull’insegnamento di questa materia in tutti gli ordini scolastici e oltre la scuola. L’area che comprende Europa e America del Nord si troverà rappresentata a Milano dal 14 al 16 febbraio da docenti, studiosi, rappresentanti di associazioni filosofiche e pedagogiche.
Le tre sessioni saranno dedicate alla scuola materna e primaria, alla secondaria e all’università. In ogni sessione, italiani e russi, statunitensi e danesi e così via studieranno lo stato della questione e le prospettive dell’età corrispondente, con la guida di documenti di lavoro e una traccia di domande obbligatorie.
L’Italia proporrà un suo documento, elaborato il 25 gennaio, durante una giornata di studio organizzata dalla Sfi, Società Filosofica Italiana, e dal l’Università Iulm, che ospita entrambe le manifestazioni, con il patrocinio della Commissione Nazionale Italiana dell’Unesco.
La giornata italiana vedrà alternarsi gli interventi di docenti delle scuole secondarie e dell’università, e si interrogherà sulla formazione degli insegnanti, sul rapporto tra nuove forme di cultura e nuovi specialismi, e sulle possibilità per la filosofia di superare le barriere scolastiche. Come a dire che la perniciosa e probabilmente inutile attività del ricercare e del saper fare domande e mettere in questione rischia di arrivare forse sui banchi delle elementari (così auspica l’Unesco) e addirittura negli uffici e nelle banche.
*
la filosofia nella scuola italiana 25 gennaio, sfi@sfi.it
high-level regional meeting on the teaching of philosophy. europe and north america
14-16 febbraio Università Iulm, Milano, via Carlo Bo 1, Aula Seminari e Aula Magna
USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’
SAPERE AUDE!
A 400 ANNI DALLA PUBBLICAZIONE DEL "SIDEREUS NUNCIUS" DI GALILEO GALILEI E A 200 DALLE INDICAZIONI DI IMMANUEL KANT SULL’USO CRITICO DELLA PROPRIA FACOLTA’ DI GIUDIZIO (PER UNA STORIA E PER UNA FILOSOFIA DAL PUNTO DI VISTA COSMOPOLITICO - E - PER LA PACE PERPETUA)
Rimettere al centro della filosofia (e soprattutto del suo insegnamento), la lezione dell’illuminismo kantiano!!!
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DAL MEETING, UN ALLARME E UNA SOLLECITAZIONE. Una nota parziale (e - ovviamente - molto, molto riduttiva) sulla ricchezza degli interventi e delle discussioni dell’incontro): *
A) LA FILOSOFIA IN RITARDO (E IN PERICOLO NEL MONDO) E NON PRONTA A UNA DELLE SUE MISSIONI FONDAMENTALI - IL DIALOGO GLOBALE
B) RILANCIARE L’INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA COME EDUCAZIONE ALLA PRATICA DELLA LIBERTA’, ALL’ESERCIZIO CRITICA DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO, ALLA DEMOCRAZIA PLANETARIA - RIUNIRE SAGGEZZA E SCIENZA
C) NON INGESSARE L’UNESCO NELLA VALORIZZAZIONE E NELLA DIFESA DEL PATRIMONIO CULTURAL E DELL’UMANITA’ - PORTARE AVANTI E POTENZIARE L’ESPERIENZA DELLE "CATTEDRE UNESCO".
D) NECESSITA’ E URGENZA DI METTERE IN COMUNICAZIONE LA TRADIZIONE FILOSOFICA E LA POPOLAZIONE DEL "NUOVO MONDO" - I "NATIVI DIGITALI", L’UMANITA’ DIGITALE.
E) DOCUMENTO: "RACCOMANDAZIONI SULL’INSEGNAMENTO DELLA FILOSOFIA IN EUROPA E IN AMERICA SETTENTRIONALE"
Federico La Sala
PER IL DIALOGO E LA PACE TRA LE GENERAZIONI E I POPOLI: Apriarno gli occhi, saniarno le ferite dei bambíni (deí ragazzi) e delle bambine (delle ragazze), dentro di noí e fuori di noí...Riannodiamo i fili della nostra rnemoria e della nostra dignità di esseri umani. Fermiamo la strage...
Linee per un Piano di Offerta Formativa della SCUOLA dell’AUTONOMIA, DEMOCRATICA E REPUBBLICANA. *
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CHI siamo noi in realtà? Qual è íl fondamento della nostra vita? Quali saperi? Quale formazione?
SCUOLA, STATO, E CHIESA: CHI INSEGNA A CHI, CHE COSA?!
IL "DIO" DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI...
E IL "DIO" ZOPPO E CIECO DELLA GERARCHIA DELLA
CHIESA CATTOLICA, EDIPICO-ROMANA.
Alla LUCE, e a difesa, DELLA NOSTRA DIGNITA
DI CITTADINI
SOVRANI E DI CITTADINE SOVRANE E
DI LAVORATORI
E LAVORATRICI DELLA SCUOLA PUBBLICA (campo
di RELAZIONE educativa, che basa il suo PROGETTO e la sua
AZIONE sulla RELAZIONE FONDANTE - il patto costituzionale
sia la vita personale di tutti e di tutte sia la vita politica di
tutta la nostra società),
Per PROMUOVERE LA CONSAPEVOLEZZA (PERSONALE,
STORlCO-CULTURALE) E
L’ESERCIZIO DELLA SOVRANITA’ DEMOCRATICA
RISPETTO A SE STESSI E A SE
STESSE, RISPETTO AGLI ALTRI E ALLE ALTRE, E RISPETTO
ALLE ISTITUZIONI
("Avere il coraggo di dire ai nostri giovani
che sono tutti sovrani": don Lorenzo Milani; "Per rispondere
ai requisiti sottesi alla libertà repubblicana una persona deve essere
un uomo o una donna indipendente e questo presuppone che essi
non abbiano un padrone o dominus, che li tenga sotto il suo potere,
in relazione ad alcun aspetto della loro vita. [...] La libertà richiede
una sorta di immunità da interferenze che diano la possibilità di
[...] tenere la propria testa alta, poter guardare gli altri dritto negli
occhi e rapportarsi con chiunque senza timore o deferenza": Philippe
Pettit)
e un LAVORO DI RETTIFICAZIONE E DI ORIENTAMENTO
CULTURALE, CIVILE, POLITICO e religioso (art.7 della Costituzione
e Concordato),
per evitare di ricadere nella tentazione
dell’accecante e pestifera IDEOLOGIA deII’INFALLIBILITA e
deII’ANTISEMITISMO (cfr. la beatificazione di PIO IX) e di un
ECUMENISMO furbo e prepotente, intollerante e fondamentalista
(cfr. il documento Dominus Jesus di J. Ratzinger, le dichiarazioni anti-
islamiche di Biffi, e il rinvio sine die dell’incontro fissato per il
3.10.2000 tra ebrei e cattolici) e di perdere la nostra lucidità e sovranita
politica,
e per INSTAURARE un vero RAPPORTO DIALOGICO e DEMOCRATICO, tra ESSERI UMANI, POPOLI e CULTURE, non solo d’Italia, ma dell’Europa e del Pianeta TERRA (e di tutto I’universo, cfr. Giordano Bruno),
IO, cittadino italiano,figlío di Due IO, dell’UNiOne di due esseri
umani sovrani, un uomoj ’Giuseppe’, e una donna:’Maria’ (e, in
quanto tale, ’cristiano’ - ricordiamoci di Benedetto Croce; non cattolico
edipico-romano! - ricordiamoci, anche e soprattutto, di Sigmund
Freud),
.
ESPRIMO tutta la mia SOLIDARIETA a tutti i cittadini e a tutte
le cittadine della Comunità EBRAICA e a tutti i cittadini e a tutte lecittadine della comunità ISLAMICA della REPUBBLICA DEMOCRATICA
ITALIANA,
e
PROPONGO
di riprendere e rilanciare (in molteplici forme e iniziative) la riflessione
e la discussione sul PATTO di ALLEANZA con il qúale tutti i
nostri padri (nonni...) e tutte le nostre madri (nonne...) hanno dato
vita a quell’UNO, che è il Testo della COSTITUZIONE, e il ’vecchio’
invito dell’Assemblea costituente (come don Lorenzo Milani
ci sollecitava nella sUa Lettera ai giudici, cfr. L’obbedienza non è più
una virtù) a "rendere consapevoli le nuove generazioni delle raggiunte
conquiste morali e sociali" e a riattivare la memoria
dell’origine dell’uno, che noi stessi e noi stesse siamo e che ci costituisce
in quanto esseri umani e cittadini - sovraní, sla rispetto a
noi stessi e a noi stesse sia rispetto agli altri e alle altre, e sui piano
personale e sul piano politico,
e di RAFFORZARE E VALoRIZZARE, in TUTTA la sua fondamentale e specifica portata, IL RUOLo e LA FUNZIONE deila SCUOLA DELLA nostra REPUBBLICA DEMOCRATICA.
P.S.
"A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno
consapevolmente, che ogni straniero è nemico. Per lo più questa
convinzione giace in fondo agli animi come una infezione laiente,
si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine
di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il
dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo*,
allora, al termine della catena, sta il lager.
Esso è il prodotto di una
concezione del mondo portata alle sue conseguenze con rigorosa
coerenza: finché la concezione sussiste, le conseguenze ci minacciano"
*
"Tutti gli stranieri sono nemici.
I nemici devono essere soppressi.
Tutti gli stranieri devono essere soppressi".
Primo Levi, Se questo è un uomo, Prefazione, Torino, Einaudi, 1973, pp. I 3-14.
***
Andiamo alla radice dei problemi. Perfezioniamo la conoscenza di noi stessi e di noi stesse. Riattiviamo la memoria dell’Unita, apriamo e riequilibriamo il campo della nosha, personale e collettiva, coscienza umana e politica.
Sigmund Freud aveva colto chiaramente la tragica confusione in cui la Chiesa cattolico-romana si era cacciata (cfr. L’uomo Mosè e la religione monoteistica): "scaturito da una religione del padre, il cristianesimo divenne una religione del figlio. Non sfuggì alla fatalità di doversi sbarazzare del padre" ... Giuseppe (gettato per la seconda volta nel pozzo) e di dover teorizzare, per il figlio, il ’matrimonio’ con la madre e, nello stesso tempo,la sua trasformazione in ’donna’ e ’sposa’ del Padre e Spirito Santo, che ’generano’ il figlio!
Karol Wojtyla, nonostante tutto il suo coraggio e tutta la sua sapienza, fa finta di niente e, nonostante il ’muro’ sia crollato e lo ’spettacolo’ sia finito, continua a fare l’attore e a interpretare il ruolo di Edipo, Re e Papa.
QUIS UT DEUS? Nessuno può occupare il posto dell’UNO. Non è meglio deporre le ’armi’ della cecità e della follia e, insieme e in pace, cercare di guarire le ferite nostre e della nostra Terra?
"GUARIAMO LA NOSTRA TERRA": è il motto della
"Commissione per la verità e la riconciliazione" voluta da Nelson
Mandela (nel 1995 e presieduta da Desmond Tutu). In segno di attiva
solidarietà, raccogliamo il Suo invito...
"La realtà è una passione. La cosa più cara" (Fulvio Papi). Cerchiamo
di liberare ii nostro cielo dalle vecchie idee. Benché diversi,
i suoi problemi sono anche i nostri, e i nostri sono anche i suoi...
E le ombre, se si allungano su tutta la Terra, nascondono la luce e portano il buio, da lui come da noi... "nell’attuale momento focale
della storia - come scriveva e sottolineava con forza Enzo Paci già
nel 1954 (cfr. E. Paci, Tempo e relazione, Milano, Il Saggiatore,
1965 - Il ed., p. 184) - la massima permanenza possibile della libertà
democratica coincide con la massina metamorfosí verso un
più giusto equilibrio sociale, non solo per un popolo ma per tutti i
popoli del mondo".
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria ..., Edizioni Ripostes, Roma-Salerno, Febbraio 2001, pp. 49-53.
In philosophos!, in theologos!, in tyrannos!: RIPENSARE L’UNO E I MOLTI ("UNO"), L’IDENTITA’ E LA DIFFERENZA!!! CONTIAMO ANCORA COME SE FOSSIMO NELLA CAVERNA DI PLATONE. NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ....
Il grande filosofo ha creduto nell’espansione della democrazia e dell’emancipazione
Kant, la rivolta dei giovani arabi e l’inganno dello scontro di civiltà
Nessuno ha previsto le rivoluzioni democratiche del Nordafrica. I servizi di intelligence sono stati spiazzati In questi decenni ha dominato la paura dell’Islam. Ma le forze della pace hanno continuato ad operare
di Pino Arlacchi (l’Unità, 08.03.2011)
Sono in molti a chiedersi in questi giorni come mai le rivoluzioni democratiche del Nordafrica non sono state previste da nessuno, e perché i centri di intelligence, soprattutto americani, nonostante i loro enormi budget, siano rimasti così clamorosamente spiazzati davanti ai cambiamenti epocali in corso.
Questo fallimento ha una spiegazione. Non solo gli analisti dei servizi di sicurezza, ma anche la maggior parte degli studiosi di scienze sociali non sono stati capaci di anticipare nulla di ciò che sta accadendo nel mondo arabo semplicemente perché vittime e autori, allo stesso tempo, di un grande inganno. Parlo di un colossale offuscamento delle coscienze durato quasi due decenni, e basato sull’idea che viviamo in un epoca catastrofica, dove la nostra sicurezza corre un pericolo mortale a causa di una serie di minacce, la prima delle quali è l’ Islam, seguita da altre quali gli stati canaglia, l’ immigrazione, l’ espansione della Cina, il riarmo, i conflitti e le guerre.
Il primo decennio del nuovo secolo, dall’ elezione di Bush II all’ inizio del 2011, è stato dominato dall’inganno e dalla paura, cioè dal mito del caos globale. Una visione negativa delle cose che ha avuto conseguenze politiche rilevanti, perché ha abbassato le nostre aspettative, ci ha costretti sulla difensiva, e ci ha tolto la fiducia in un mondo più decente. Eppure, non ci sarebbe voluto molto per cogliere i segnali di una potente forza contraria: quella del progresso umano e della pace. Una forza che ha continuato ad agire sotto la superficie degli eventi e a dispetto della propaganda della destra globale trionfante, e al potere negli Usa ed altrove.
Una potenza benefica, che ha fatto decrescere la violenza grande e piccola, ridotto o azzerato minacce, accresciuto la sicurezza individuale e collettiva, allargato democrazie e diritti.
La transizione democratica del Nordafrica, allora, non è altro che un tassello del mosaico che le forze della pace hanno continuato a comporre sotto i nostri occhi, e con la nostra partecipazione, sia pure poco convinta.
Al tema dell’ inganno e della paura ho dedicato lo studio più importante della mia vita, scritto nel 2008, prima dell’ elezione di Obama, e pensato nei dieci anni precedenti. In esso ho criticato la visione sbagliata della sicurezza internazionale ancora oggi dominante, ed ho richiamato il pensiero di un grande europeo, Emanuele Kant, il filosofo che più ha creduto nell’ espansione della democrazia e dell’ emancipazione umana.
Sarebbe bastato rileggere qualche pagina di un libretto pubblicato da Kant nel 1795, «La pace perpetua» per non stupirsi di fronte al tramonto dei tiranni Nordafricani. In esso il filosofo tedesco ha disegnato un mondo governato dalle democrazie e dalle organizzazioni internazionali, dove la guerra diventa sempre più rara, obsoleta ed assurda. Un mondo dove i cittadini daranno il loro consenso all’ uso della forza solo per autodifesa, e dove la diffusione dei regimi democratici ha instaurato un metodo della nonviolenza che ha finito con l’ estendersi anche ai rapporti tra gli Stati.
Queste dinamiche hanno continuato ad operare in realtà anche dopo l’ 11 settembre 2001. Le forze della pace kantiana hanno continuato il loro lavoro. Fino a sfociare nella «storia che si è dischiusa» all’ alba di quest’anno, secondo la bella definizione di Obama.
Tutto ciò si è verificato nonostante le idee di un pensatore reazionario, Samuel Huntington, il capofila della teoria dello scontro di civiltà con l’ Islam, fossero diventate un pensiero unico che ha ingannato molte persone in buona fede. La bandiera dello scontro di civiltà ha riportato in auge una legione di profeti di sventura, che hanno vaticinato disastri e guerre che esistevano in realtà solo nei loro desideri. Non ne hanno azzeccata una. Ma le loro errate previsioni hanno svolto la funzione di far crescere le paure collettive che hanno gonfiato a loro volta le spese militari.
Le idee di Kant ci hanno invece aiutato a rafforzare le istituzioni del dialogo e dei diritti universali: le Nazione Unite, il Parlamento e l’ Unione europea, e quella panoplia di trattati e di agenzie internazionali che formano come una rete che scoraggia la guerra e incoraggia la democrazia e la giustizia in ogni angolo del pianeta.
L’ imbroglio dello scontro di civiltà (con annessa teoria della superiorità etico-politica dell’ Occidente) è oggi nella polvere, sconfitto dai giovani arabi che manifestano per i diritti universali. Adesso dobbiamo fare attenzione a non cadere in una trappola.
Quella del trionfalismo progressista, che vede una crescita lineare ed ineluttabile della democrazia. Il catastrofismo di Huntington non va sostituito da una fede ingenua e dogmatica nello sviluppo umano. Da una specie di inganno al rovescio che ci porta ad ignorare le potenze distruttive della violenza e dell’ oppressione.
La continuità del processo in corso dipende da noi. Dalle mosse che saremo in grado di fare per tutelare le conquiste appena ottenute, e per espanderle ancora. Anche qui Kant ci può essere utile. Per lui il progresso etico-politico non era scontato, e poteva conoscere fasi anche molto lunghe di regresso e stagnazione. Per evitare le quali occorreva riflettere bene sugli errori passati, ed imparare a non ripeterli: il celebre learning process kantiano.
Se la rivoluzione democratica del Nordafrica sfocerà in un congiungimento politico di quei paesi all’ Europa e in un passo avanti verso la democrazia universale, invece di ripiegarsi su se stessa ed arretrare verso regimi semi-tirannici o verso situazioni di «stati falliti», dipende in primo luogo dalle azioni di chi combatte in loco. Ma dipende anche da noi. Dal sostegno che sapremo dare alle forze della nonviolenza e della solidarietà. Battiamoci, allora, perchè questo secondo decennio del ventunesimo secolo si svolga all’ insegna della profezia kantiana sulla pace democratica.
A chi l’esclusiva dei diritti umani?
di Roberta De Monticelli (Saturno, 4 marzo 2011)
Nel momento in cui ci interroghiamo sul senso e sul futuro delle rivoluzioni in Nordafrica, non c’è forse un testo migliore su cui meditare che la grandiosa Antologia mondiale della libertà, già disponibile on line in tre lingue sul sito dell’Unesco, alla cui versione italiana si sta in questi mesi lavorando. Cos’è, come nasce, questa raccolta di testi che coprono l’arco di due millenni, racchiusi in quasi seicento pagine?
È una splendida avventura del pensiero umano, e vale la pena di raccontare come nacque. Immaginate di trovarvi nel giardino della sede storica dell’Unesco, a Parigi. Là c’è un piccolo edificio di meditazione, cilindrico e vuoto. A rendere il senso di quello che prova chi vi sosti qualche istante non ci sono forse parole più adatte di queste: «Tutte le civiltà veramente creatrici hanno saputo... creare un posto vuoto riservato al soprannaturale puro ... tutto il resto era orientato verso questo vuoto». Le scrisse Simone Weil nelle sue Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione (1937). Teniamole in mente, perché sono quasi certamente all’origine invisibile di questa avventura.
Per l’origine visibile, dobbiamo di nuovo darci appuntamento a Parigi, ma nel 1968. Si festeggia il ventennale della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Jeanne Hersch - professoressa di filosofia a Ginevra, allieva di Jaspers, compagna di studi di Hannah Arendt e per un paio d’anni in carica all’Unesco, dove dirige la sezione di filosofia - decide di impegnare le risorse di quell’organizzazione in un audace esperimento storico ed etnografico. Chiede ai rappresentanti di tutti i Paesi di inviarle testi tratti dalle loro tradizioni, anteriori al 1948, «in cui si manifestasse, secondo loro, in qualunque forma, un senso dei diritti dell’uomo». Dai paesi più lontani, dalle epoche più remote, arrivavano a Parigi pensieri espressi in una babele di lingue, morte e vive: come offerte «con pietà conservate nei veli di parole d’altri tempi e altri luoghi». Così fu impostata una sorta di verifica sul campo della vexata quaestio: è o non è un concetto puramente «occidentale» quello dei «diritti dell’uomo»?
Peccato che molti continuino a ignorare questa preziosa documentazione, costituita dal libro sorprendente e magnifico di Jeanne Hersch, Le droit d’être un homme, la cui edizione francese porta il sottotitolo Anthologie mondiale de la liberté. Fu la base empirica della sua riflessione sul fondamento dei diritti umani, proseguita fino alla morte, nel 2000, ora disponibile anche in italiano a cura di Francesca De Vecchi (I diritti umani da un punto di vista filosofico, Mondadori). E qual è il risultato di questa riflessione, che passa attraverso le culture religiose dei popoli antichi e moderni, ma anche gli autori fondamentali del pensiero occidentale, da Montesquieu, Beccaria e Tocqueville fino a Maritain e Roosevelt? A differenza dei giuspositivisti come Norberto Bobbio, non si accontenta di ritenere la Dichiarazione espressione di un ethos fra gli altri, incapace di giustificazione universale; a differenza dei giusnaturalisti, constata che in natura la legge del più forte ha la meglio. Tuttavia, la prima questione che i diritti umani pongono è quella della loro ragion d’essere, del loro fondamento.
Qui il passaggio attraverso «le offerte» delle culture religiose e arcaiche si rivela non vano: è proprio là - ci dice Hersch, rovesciando tutti i luoghi comuni - che il fondamento si disvela. Questo è, in ogni cultura, l’esigenza degli esseri umani di essere riconosciuti in ciò che hanno di propriamente umano: la libertà, intesa nella sua radice “selvaggia”, assoluta. Essere liberi è essere capaci d’accettare volontariamente la morte, purché sia salvo ciò che è più importante della vita stessa. Come Antigone, o come Socrate. Non c’è libertà fuori da questo impegno assoluto, da questa pericolosa posta in gioco. Ecco perché è vano, spiega Hersch, il tentativo di ridurre il rispetto dei diritti umani al rigetto di ogni impegno verso l’assoluto, a una neutralità ragionevole e pragmatica.
Certo, un impegno verso l’assoluto è sempre pericoloso: attraverso l’integralismo, rischia di ispirare e giustificare le peggiori violazioni dei diritti umani. E allora? Ecco l’intuizione profonda: la possibilità di riconoscere che anche l’altro sta «di fronte all’assoluto» e che nessuno lo possiede è intrinseca a ogni religione in quanto apertura alla trascendenza. Ogni cultura teologica sa chel’idolatria è il più grande dei peccati: non è parlare «di fronte all’assoluto», ma in nome dell’assoluto, come se lo si possedesse. Occorre «conoscere Dio come ignoto». Jeanne Hersch ha scoperto la via che libera potenzialmente ogni cultura teologica dal rischio della teopolitica, e l’apre alla speranza cosmopolitica.
Filosofia per tutti
di Armando Massarenti (Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2011)
«Secondo me il vero scopo di un filosofo non è quello di cambiare il mondo, ma di capirlo; e cioè l’esatto opposto di quel che ha detto Marx», disse una volta Bertrand Russell. Capire il mondo e capire se stessi, tradurre i ragionamenti dei grandi pensatori in un’utile guida per la vita di ogni giorno. Scoprire, leggendo o ascoltando la filosofia, che non si tratta della materia che magari ci hanno fatto odiare a scuola, ma che è un discorso persuasivo e avvolgente che parla di noi stessi, e di cose, pensieri, concetti che ci riguardano da vicino. «Una rondine non fa primavera». Lo sapete di chi è questa frase? Di Aristotele. È talmente comune che non vediamo più quanto è profonda, a meno di non andare a ritrovarla nell’Etica nicomachea, dove serve a spiegare come funzionano la morale e le virtù, a dirci che non basta un singolo atto di coraggio per dire che un uomo è coraggioso o una singola buona azione per dire che è buono. Non lo è se non ha sviluppato le attitudini e, appunto le virtù, che lo rendono buono e coraggioso quasi per natura: una "seconda natura", acquisita con l’esercizio necessario per coltivare, dentro di sé, le parti migliori del proprio carattere e della propria umanità. L’arte della virtù. «Il lavoro sulla filosofia è in verità più un lavoro su se stessi, sul proprio modo di pensare; sul proprio modo di vedere le cose. E su ciò che ci aspettiamo da esse», aggiungerebbe Wittgenstein. Tutto ciò non ci riguarda da vicino? E non ci riguardano le domande fondamentali e irrinunciabili sulle quali da quasi tre millenni si arrovellano le migliori menti dell’umanità: di che cosa è fatto il mondo? Da che cosa ha avuto origine? Perché le cose cambiano? Esiste qualcosa di costante nel continuo mutare e trasformarsi della vita e degli eventi? L’esistenza dell’uomo è destinata a esaurirsi con la morte, o si può sperare in un’anima immortale? Perché soffriamo? La vita ha un senso, magari un destino, o è un futile agitarsi per nulla? Siamo liberi di scegliere, o tutto è già scritto da qualche parte? Come dobbiamo comportarci con i nostri simili? Esiste Dio? E una giustizia al di sopra degli uomini? E delle norme per orientare la nostra condotta nella vita quotidiana, tali da aiutarci a rispondere a un’ulteriore domanda - posta per la prima volta da Socrate e che, ancora oggi, rimane la più importante di tutte - su «come uno deve vivere»?
Le trovate domande interessanti? E allora non è il caso di stupirvi dell’enorme successo che riscuote la filosofia negli ultimi tempi. E del perché Il Sole 24 Ore abbia deciso, a grandissima richiesta da parte dei propri lettori, di riproporre la serie dei sedici dvd che compongono lo straordinario Caffè filosofico che, attraverso le parole dei maggiori studiosi di oggi, ci permette di ripercorrere l’intero arco della storia della filosofia occidentale, dai presocratici fino a Popper e a Foucault. Lo fa in un modo diverso, multimediale, rispetto alla serie di 30 volumi de «I grandi filosofi» che pubblicammo nel 2006-2007 e che registrò vendite da record: 88mila copie del primo volume su Socrate, con una tenuta straordinaria fino all’ultimo tomo che ancora vendeva 50mila copie. Erano volumi ponderosi introdotti da mie brevi prefazioni, fulminee e anche un po’ dissacranti e umoristiche, scritte nello stile della mia rubrica «Filosofia minima». Sono state poi raccolte in un volume, Il filosofo tascabile (Guanda, 2009), che in poco più di un anno è giunto alla sua sesta edizione. E tascabili, tascabilissimi, sono anche «i filosofi di ieri raccontati dai filosofi di oggi» di questo Caffè.
«Pensate da uomini saggi, ma parlate come la gente comune» diceva ancora Aristotele. Che la filosofia e la saggezza oggi non siano solo per i filosofi, ma per tutti, lo sanno bene i protagonisti di questi dvd. Il loro stile è sempre chiaro, conciso. I termini tecnici sono ridotti al minimo e comunque sempre spiegati con grande limpidezza. Non guasta neppure che questi studiosi del nostro tempo abbiano gusti e attitudini filosofiche e umane diverse. La varietà dell’intelligenza e degli stili di vita è sempre una buona cosa. Ma è anche vero che tra i diversi filosofi si respira sempre una certa aria di famiglia, e che tutti condividono un nucleo importante di problemi. A partire dall’idea secondo cui, come diceva Socrate (nelle parole riportate da Platone), «una vita senza riflessione e senza ricerca non è degna di essere vissuta». Parole un po’ forti, forse, urtanti come è spesso la filosofia. Ma se le trovate tali, provate ad arrivare allo stesso concetto a partire da una famosa battuta di Woody Allen: «E allora tutto il film della mia vita mi passò davanti in un istante. E io non ero nel cast!». Ecco che cosa vuol dire condurre una vita "pensata", piena di ricerca, filosofica. Provare a essere nel cast, almeno nel film della nostra stessa vita.