Un raffronto tra il signore di Tebe e il biblico Giuseppe
I crimini di Edipo Re
Quanto dista il mito dalla bibbia
Due "eroi" simili: ma il sovrano incestuoso è colpevole e basta mentre il figlio di Giacobbe smonta ogni inganno
L’antico testamento si oppone sempre in modo consapevole alle religioni mitologiche
Prendiamo "Caino e Abele" e "Romolo e Remo": il fratricidio è visto in modo quasi opposto
di René Girard (la Repubblica, 27.04.2009)
La città di Tebe è devastata dalla peste. Un oracolo religioso annuncia che il responsabile del disastro è un unico individuo che vive in città: egli ha offeso gli dei uccidendo suo padre e sposando sua madre. Si cerca il colpevole e un colpevole si trova: nientedimeno che il nuovo re. Egli non sapeva di aver commesso gli orrendi crimini che pure aveva commesso.
Da bambino era stato abbandonato dai suoi genitori a causa di un oracolo, ancora, lo stesso che aveva previsto quello che più tardi sarebbe avvenuto, che cioè il bambino avrebbe un giorno ucciso suo padre e sposato sua madre.
Diventato adulto, egli torna a Tebe da perfetto sconosciuto, e il vaticinio si avvera. Ancora una volta il risultato è l’espulsione di Edipo dalla sua comunità. Esaminando questo mito da vicino, vi si scoprono alcune corrispondenze con la storia biblica di Giuseppe. Giuseppe ha dodici fratelli, Edipo nemmeno uno, ma entrambi vengono respinti dalle loro rispettive famiglie, Edipo dai genitori, Giuseppe dai fratelli. In entrambe le storie l’eroe viene espulso: prima dalla comunità a cui appartiene per diritto di nascita, poi dalla comunità che l’aveva adottato.
Sia Edipo, dopo il suo ritorno a Tebe, che Giuseppe dopo che fu portato in Egitto si potrebbero definire immigranti di successo. Grazie alla loro abilità nell’interpretare oscuri enigmi entrambi riescono a risolvere seri problemi e a diventare di conseguenza grandi leader. Edipo viene incoronato re di Tebe e Giuseppe nominato qualcosa come primo ministro dell’Egitto. Entrambi gli eroi si trovano a esercitare il loro potere contro un disastro naturale. Per Edipo si tratta di un’epidemia di peste; per Giuseppe di una devastante carestia.
Edipo è colpevole di parricidio e incesto. Giuseppe non commette questo tipo di crimini, ma la sua carriera è macchiata da un incidente che rassomiglia all’incesto di Edipo: la moglie del suo padrone e benefattore egizio accusa falsamente il giovane Giuseppe di aver tentato di sedurla. Il marito di lei aveva accolto a corte e trattato Giuseppe come un figlio ed egli avrebbe dovuto rispettarla come avrebbe fatto con la sua stessa madre. L’accusa richiama in qualche maniera alla mente l’incesto con la madre. Siccome Giuseppe è straniero e la donna egizia, i suoi compatrioti credono a lei e Giuseppe finisce per qualche tempo in galera.
Le corrispondenze esistono, e credo siano da evidenziare più che da tacere, se vogliamo arrivare a cogliere la differenza, quella che ha davvero un’enorme importanza.
Edipo fin da bambino è potenzialmente colpevole del parricidio e dell’incesto che commetterà successivamente. I suoi genitori hanno tutte le buone ragioni per abbandonarlo. Più avanti i tebani avranno anch’essi un buon motivo per espellere Edipo una seconda volta, dato che la sua presenza tra loro aveva provocato un’epidemia di peste.
Nel caso di Giuseppe le cose stanno molto diversamente. I suoi fratelli non hanno alcun valido motivo per eliminarlo, sono semplicemente gelosi di lui. Nemmeno gli egizi avevano motivo di incarcerare Giuseppe: il racconto biblico riferisce che era la moglie del suo benefattore a essere gelosa di lui. (...) Nelle due storie, due eroi simili affrontano simili circostanze con conseguenze non tutto dissimili. Ma se guardiamo al ruolo dell’eroe all’interno della storia, l’interpretazione del mito e l’interpretazione della Bibbia si collocano ai poli opposti.
Si può affermare che le comunità a cui appartenevano Edipo e Giuseppe abbiamo agito giustamente nell’espellerli? Credo che questa sia la domanda predominante in entrambi i testi, ma che rimane implicita nel mito di Edipo, poiché la risposta silenziosa del mito è sempre sì. Quello che Edipo dovrà soffrire è la giusta punizione per i suoi crimini. Nella Bibbia la domanda si fa del tutto esplicita, perché la risposta è un riecheggiante no. Quello che Giuseppe dovrà soffrire è un’ingiusta punizione. Egli non è che una vittima della gelosia. (...)
La storia biblica mette in ridicolo una dopo l’altra le prove senza senso che nel mito vengono presentate contro il capro espiatorio e le sostituisce con argomentazioni in favore della vittima. La mitologia ripudiata è ripudiata come menzogna. Tutte le volte che Giuseppe diventa vittima, dei suoi fratelli o degli egizi, le accuse contro di lui vengono denunciate come falsità prodotte dall’invidia o dall’odio. Abbiamo dunque sia il racconto dei fratelli al padre, sia la denuncia della falsità di quel racconto. I fratelli si sbarazzano di Giuseppe ma raccontano al padre che il giovane è stato sbranato da una bestia selvaggia. In molti miti il processo di vittimizzazione del capro espiatorio è descritto come un attacco da parte di un branco di animali a caccia o da parte di un singolo animale selvaggio. La storia raccontata dai fratelli è, a mio parere, un mito di questo tipo.
La storia di Giuseppe non è la sola nella Bibbia a ripudiare l’inganno e la violenza del mito. Potrei scegliere altri racconti biblici e mostrare che la differenza assolutamente essenziale di cui ho parlato è sempre presente. Denunciano il credo su cui si basa la mitologia come un sistema di rappresentazione coeso e crudele: l’eroe mitico è colpevole e viene giustamente punito anche se si tratta di un dio e anche se alla fine riesce a ripristinare l’ordine delle cose. L’eroe biblico, invece, viene punito ingiustamente, perché è innocente.
La Bibbia si oppone in modo perfettamente consapevole alle religioni mitologiche. Le taccia di idolatria, e credo che la rivelazione della natura fallace del sistema vittimario all’interno della mitologia sia parte essenziale della lotta biblica contro l’idolatria. Confrontiamo ad esempio la storia di Caino e Abele con il mito di Romolo e Remo.
Nella storia di Caino e Abele l’uccisione di un fratello da parte dell’altro è presentata come un crimine e simultaneamente come l’atto fondatore di una comunità.
Nella storia dei gemelli romani questo atto fondatore non può essere considerato un crimine, è l’azione legittima di Romolo. Il punto di vista della Bibbia è lontanissimo da quello del mito. (Traduzione di Eliana Crestani)
Copyright 2009 Pier Vittorio e Associati, Transeuropa, Massa, www.transeuropaedizioni.it
Sul tema, nel sito e in rete, si cfr.:
PERVERSIONI di Sergio Benvenuto. UN CORAGGIOSO PASSO AL DI LA’ DELL’EDIPO
Federico La Sala
LA "#STORIA" DEL "CAPROESPIATORIO" (RENE’ GIRARD): COME UN #ARIETE, UN #MONTONE, DIVENNE UN "CAPRONE".
PRIMAVERA2024, #21MARZO: UNA "NOTA" SULLE "COSE NASCOSTE SIN DALL’ORIGINE DELLA FONDAZIONE DEL MONDO" (Mt. 13, 35).
Ariete ♈️: #25marzo (#Dantedì). Considerando (e accogliendo) astrologicamente che da #oggi "il segno dell’Ariete, simbolo per eccellenza dell’#Equinozio di Primavera", è il #segno "che ci accompagnerà fino al 20 aprile, e che la sua "figura mitologica si collega al Dio primaverile che nelle varie culture poteva rappresentare colui che apre l’anno, colui che abita il bosco sacro, il guardiano del Ponte #Arcobaleno, colui che si sacrifica, ecc." e, ancora, che l’ Ariete "è un segno cardinale di fuoco, governato da #Marte e opposto al segno della #Bilancia" (#LeaCimino, "#Calendariopagano"), forse, è opportuno ricordare che l’Ariete ė una delle figure centrali della storia dell’immaginario occidentale, decisiva per la comprensione stessa non solo dell’importanza dell’ impresa di #Giasone alla ricerca del "Vello d’Oro", come della fuga di #Ulisse dall’antro di #Polifemo, ma anche e soprattutto della "Divina #Commedia" di #DanteAlighieri (e della stessa possibilità di uscita dall’orizzonte della tragedia e dall’inferno, a tutti i livelli).
ARCHEOLOGIA FILOLOGICA A E ANTROPOLOGICA. BENCHE’ SULLA IMPORTANZA DELLA FIGURA DELL’ARIETE SI SIA IN UNA CONFUSIONE "BESTIALE", E SI FACCIA FINTA DI NULLA, FORSE, VALE LA PENA PRENDERE ATTO DI UNA ELOQUENTE "RISPOSTA" DELL’ANTROPOLOGO RENE’ GIRARD. E’ "INUTILE" DIRLO: FORSE, SUL TEMA, VALE SOLO LA PENA PRENDERE ATTO DI UNA ELOQUENTE "RISPOSTA" DELL’ANTROPOLOGO RENE’ GIRARD.
Per Girard (ma così per tutte le storiche Accademie della tradizione culturale europea), un capro, un "capro espiatorio», non è altro che l’«#agnello di Dio», il #Figlio del "Padre Nostro":
"DISAGIO DELLA #CIVILTÀ" (S. FREUD, 1929). René Girard confonde ’ciecamente’ i livelli e nega l’immortale acquisizione di Sigmund Freud. L’ "edipo completo" permette di capire la rivalità dei #fratelli (e delle #sorelle) e lo stesso messaggio evangelico, non viceversa. L’incomprensione della lezione di Freud spinge ad una cieca apologia del cattolicesimo costantiniano (#Nicea 325 - 2025): il #cristianesimo non è un cattolicismo... e in #Principio non c’era un #Logo (altrimenti, si cade e si ricade sempre e ancora tra le "braccia" del ’tragico’ #caprone)!
STORIA, STORIOGRAFIA, E FILOSOFIA:
PONZIOPILATO, CHRISTINEDEPIZAN, E LA FILOLOGIA AL SERVIZIO DELLA COSMOTEANDRIA TERRESTRE.
Alcune note in #memoria di #Franca Ongaro Basaglia. *
A) LA DIGNITÀ DELL’UOMO: «ECCE HOMO». PONZIO PILATO «disse loro: "Ecco, ve lo conduco fuori, affinché sappiate che non trovo in lui alcuna colpa". Uscì dunque Gesù, portando la corona di spine e il mantello di porpora. Pilato disse loro: "«Ecco l’uomo» (gr. ««ἰδοὺ ὁ ἄνθρωπος - idou ho anthropos», vulg. «ecce homo»)". Vedendolo, i sommi sacerdoti e i loro inservienti gridarono: "Crocifiggi! Crocifiggi!" Disse loro Pilato: "Prendetelo voi e crocifiggetelo; io non trovo in lui colpa". Gli risposero gli Ebrei: "Noi abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire, perché si è fatto figlio di Dio"» (Gv. 19, 4-7).
B) UNA QUESTIONE DI #LANA "CAPRINA" (NON DI "#AGNELLO", NON DI "#ARIETE"). ALLA LUCE DELL’ATTENZIONE ALLE PAROLE DI PONZIO PILATO, si comprende meglio anche il significato delle parole di CHRISTINE DE PIZAN, l’autrice della “Città delle dame”: «Or fus jee vrais homs, n’est pa fable,/De nefs mener entremettable » (« Allora diventai un vero uomo, non è una favola,/capace di condurre le navi» - cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Christine_de_Pizan), che dicono ovviamente non della “#metamorfosi” in “vir” - uomo, ma della “#metanoia” in “homo” - essere umano (su questo, in particolare, si cfr. Michele Feo, “#HOMO - Metanoia non Metamorfosi”, Dalla parte del torto, Parma, autunno 2019, numero 86, pp. 12-13).
C) MATEMATICA E #ANTROPOLOGIA: "UN UOMO PIU’ UNA DONNA HA PRODOTTO, PER SECOLI, UN UOMO" (Franca Ongaro Basaglia, #Donna, in Enciclopedia, 5, Torino, Einaudi editore, 1978, p. 89).
N. B. - RENE’ GIRARD , L’#AGNELLO DI #DIO, E L’#INTERPRETAZIONEDEISOGNI (S. #FREUD, 1899): la"Menzogna romantica e verità romanzesca" (1961), il "Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo" (1978), e "Il capro espiatorio" ( "Le bouc émissaire", 1982).
Parola di Girard: "Qualche lettore potrà obiettare che il Nuovo Testamento non ricorre mai all’espressione «capro espiatorio» per indicare Gesù come la vittima innocente di una frenesia mimetica collettiva; questo è vero, ma ciò avviene solo perché le Scritture cristiane dispongono di un’espressione equivalente, e anzi superiore a «capro espiatorio», vale a dire #agnello di #Dio. Questa immagine elimina gli attributi negativi e sgradevoli del capro, e pertanto corrisponde meglio all’idea della vittima innocente ingiustamente sacrificata" (cfr. René Girard, "Vedo cadere Satana come la folgore". Adelphi, Milano 2001, p. 203).
Girard accoglie la tradizionale interpretazione del messaggio evangelico e non tiene conto né di Marx, né di Nietzsche, né di Freud. Sulla lunga durata della tradizione #critica dimentica quanto ha scritto Freud nel #Disagiodellaciviltà (1929) sulla #fondazione del cattolicesimo da parte di san Paolo e, infine, fa dell’agnello un bel #caproespiatorio!
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Religioni e civiltà.
Il silenzio degli agnelli
L’autore dedicò le sue ultime riflessioni all’animale che rappresenta la potenza del sacrificio di Cristo. Spiegato attraverso il contrasto con i temi e i toni dell’Apocalisse
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 14 Aprile 2022)
Il libro Sotto gli occhi dell’Agnello di Roberto Calasso (Adelphi, pagg. 107, euro 13)
Nelle ultime settimane che gli restavano Roberto Calasso rilesse l’Apocalisse. Quel testo, chiuso tra catastrofe e rivelazione, gli si rivelò in una forma inaspettata. Lesse quelle pagine, spesso oscure, immaginifiche, terrificanti avendo negli occhi l’immagine nitida e folgorante del Polittico di Gand, un dipinto, oggi diremmo hollywoodiano, di scene sacre di Jan van Eyck (con la collaborazione del fratello Hubert). Al centro vi è la figura dell’agnello, l’animale più mite e misterioso che l’iconografia religiosa ci abbia consegnato. Tanto da suggerire a Calasso il titolo del nuovo libro: Sotto gli occhi dell’Agnello.
Cosa intercetta l’autore in quello sguardo che improvvisamente diviene imprescindibile per la storia che sta per raccontare? La prima cosa che mi è venuta in mente è La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock. Non perché la relazione sia immediata, ma perché, molti anni prima, dedicando alcune pagine al film di Hitchcock e ai Veda, Calasso rimarcava la centralità dell’occhio del fotografo, interpretato da James Stewart. Con questa differenza: l’occhio dell’Agnello mistico, cioè del Cristo, sembra osservarci con sovrana e remota indifferenza, indotta da un cristianesimo che ha tradito le aspettative e si è ridotto a uno stanco rituale liturgico. Mentre lo sguardo "immobile" del fotografo inviterebbe (nella lettura di Calasso) a uscire dal cristianesimo, per incrociare quel mondo vedico le cui dottrine aprono varchi interessanti nell’Occidente ampiamente secolarizzato.
Ad alcuni potrà risultare arbitrario il passaggio fulmineo dalla dottrina vedantica a Hitchcock. Ma nel ridisegnare - con la sua opera - il grande affresco delle civiltà, e le relative religioni che lo sostengono, Calasso forza i confini spazio-temporali e rigetta la concezione lineare della storia. Credo che una tale impostazione valga anche per la lettura dell’Apocalisse, per il modo diretto e spiazzante con cui interviene sulle cesure e le articolazioni del testo. Fino a farne la chiave (o almeno una delle chiavi) per comprendere il nostro debole e rinunciatario rapporto con il sacro. Niente di quello che i numerosi commenti hanno offerto, tra l’allegorico e il liturgico, si ritrova qui. Volutamente si ignora la tenace fortuna che il testo avrà nei secoli, fino a imporsi come il "Libro" al quale ricorrere ogni qualvolta un mondo, una civiltà, una storia sembrano destinati al dissolvimento e alla distruzione (quanto cinema e quanta letteratura si sono nutriti dei suoi effetti speciali e terrificanti!).
Movimenti millenaristici di ogni epoca e latitudine hanno interpretato l’Apocalisse come se quei fatti che vi sono raccontati fossero veri. Come se davvero Dio abbia stabilito un inizio traumatico (la caduta) e una fine contraddistinta dal trionfo e dalla salvezza dei giusti.
La lettura di Calasso si discosta dalla visione escatologica e rigetta l’idea che il testo di Giovanni (o più probabilmente di qualche allievo) sia la prosecuzione e il compimento dei Vangeli. Al contrario, come già sospettava Lutero, ne rappresenta la rottura. Il messaggio che l’Apocalisse diffonde sarebbe dunque il tentativo del cristianesimo di autodistruggersi. Ma perché mai una religione ancora giovane, erede della tensione giudaica e già proiettata a riscriverne la visione, compirebbe un gesto così autolesionistico? Cosa nasconde e poi rivela quel testo che sembra scritto da un dinamitardo?
Nell’Apocalisse cristiana - diversamente da quella giudaica - il Messia è giunto. La sua presenza nel mondo, descritta dalla dolcezza dei Vangeli, non ha tuttavia prodotto i risultati sperati. Egli ha fallito il compito di far coincidere il cambiamento annunciato con il trionfo della salvezza. Precarietà e delusione circolano nelle prime comunità cristiane. Gesù stesso è consapevole che il nuovo che comincia a farsi imperiosamente strada sta prendendo una direzione sbagliata. Invoca un successore, un altro messia, un "consolatore" in grado di rimettere l’umanità sulla retta via.
Ma dov’è un successore che sappia portare a termine il compito escatologico? Dal ruggito dell’Apocalisse si può dedurre solo che un essere molto potente in grado di domare il nuovo stia arrivando: "Quel demone del nuovo che usualmente viene attribuito al mondo secolare e alla scienza che lo innerva ha un’origine cristiana o più precisamente paolina".
Paolo prepara il futuro al culto della novità, ne sposa i segni della rivoluzione più che della rivelazione. È il depositario di una sapere antico e di un ordine nuovo. Fornito di un pensiero militante, si pone alla testa di una rivoluzione che nel nome della novitas liquida l’intero mondo antico: "Nessun Lenin del futuro avrebbe saputo parlare (e agire) con altrettanta concisione e vigore", commenta con lieve sarcasmo l’autore. Il nuovo che avanza travolgente non ha più bisogno del cosmo e delle sue storie. E se, per avventura, fa appello a qualcosa di remoto, tende a sfigurarlo e a tradirne la legittimità.
Sotto gli occhi dell’Agnello prende spunto da un’immagine potente dove la distanza dello sguardo animale sembra ignorare che qualcuno l’ha trafitto e che una lunga storia sacra - cominciata prima di Abele e giunta fino a Gesù - lo riguarda. Davanti a quella immagine si può solo constatare che senza quel sacrificio la potente macchina del mondo non si sarebbe più messa in moto. Ma le scritture non dicono a quale folle velocità essa è lanciata. Niente prefigura davvero cosa accade dopo che "l’innominabile attuale", sotto il cui segno il nuovo agisce, ha preso il sopravvento.
Sotto gli occhi dell’Agnello non appartiene all’oggi, ma al passato che convive col domani. Alcuni versi dell’Apocalisse sigillano il finale, ma l’autore li fa precedere da un preciso richiamo al senso intimo, starei per dire sacro, del leggere: quasi un’identificazione genetica tra chi scrive e l’idea stessa del libro: "Leggere è qualcosa che si misura con le potenze del mondo".
Cosa c’è di più commovente e rischioso di questa frase? Che cosa può frenare il dissolversi dell’esperienza artistica e religiosa se non il libro? Per tutta la vita Roberto Calasso ha cercato di dare un nome, o meglio ancora un libro, all’innominabile attuale. Quel libro - dove poter ammassare, avrebbe detto Baudelaire, le proprie collere - non è il mondo, così come l’Apocalisse non ne è la fine. È una grande finestra spalancata sul fluire della vita e sulle decisioni da prendere anche quando è giunto il tempo di congedarsi. Un tempo non già scandito dalla rassegnazione ma dallo scegliere da che parte stare, perché le battaglie celesti non finiscono mai.
La vittima e il sacrificio. L’agnello pasquale tra rito e sensibilità moderna
Perché l’uccisione di questo animale è motivo di scandalo nella società dei consumi? Lo storico Franco Cardini ci spiega la ragione della contraddizione più sentita nelle festività pasquali
di Daniela Guaiti (Linkiesta, 29.03.2021).
«L’uomo per purificarsi deve passare attraverso il fuoco del Signore. Egli è la fiamma divoratrice, che consuma il grasso delle primizie nella festa dell’equinozio, là fuori, davanti alla tenda, mentre si fa buio, e noi dentro sediamo timorosi e mangiamo dell’agnello, il cui sangue colora gli stipiti, perché passa l’Angelo sterminatore». Thomas Mann, “Giuseppe e i suoi fratelli”.
L’agnello, la vittima innocente: dalle “Bucoliche” di Virgilio alla Bibbia, al teatro greco, i riferimenti letterari al candore del sacrificio più gradito alla divinità testimoniano il profondo valore di un rito diffuso in tutte le civiltà antiche.
Figura del Redentore, nella cultura cristiana l’agnello diventa simbolo di resurrezione, centro della Pasqua nelle celebrazioni liturgiche come nelle tradizioni popolari. E, in nome di questa tradizione, in Italia la festività pasquale vede da secoli l’agnello protagonista sulle tavole, in decine di preparazioni regionali diverse.
Un menu che si scontra con la nuova sensibilità ecologista e animalista: la levata di scudi contro la “strage degli innocenti” non coinvolge solo i vegetariani, ma anche chi consuma comunemente carne durante l’anno. Perché? «In questo momento sembra irrazionale uccidere un animale in nome di un’esigenza rituale, di un credo religioso; ci si indigna di fronte a un’uccisione che non è funzionale a nulla e non si riesce a concepire il fine ultimo di un momento rituale».
Così Franco Cardini, scrittore, giornalista, saggista, professore Emerito dell’Istituto italiano di scienze umane alla Scuola normale superiore di Pisa, storico che, al di là dei titoli accademici, è da sempre capace di raccontare il passato al grande pubblico.
«È un po’ come per il toro nella corrida: gli uomini oggi non sono più in grado di capire la necessità di ritrovarsi in comunità a celebrare un rito, che è di per sé uno spreco, perché non offre un concreto riscontro immediato». Manca dunque la consapevolezza di una identità culturale legata al passato, così come si è perso completamente il valore simbolico della vittima: «L’agnello pasquale», spiega Cardini, «non rimanda più a nulla: non si conosce più l’arte che lo raffigura, né la musica che lo celebra, si presta attenzione solo al povero animale che soffre in nome di qualcosa che non si può toccare con mano. E lo si vede soffrire perché è sotto i riflettori. Paradossalmente si ignora la sofferenza di tanti bambini, cuccioli umani, che patiscono fame e malattie, ma non si vedono: possiamo voltare la testa da un’altra parte».
È il valore immediato dell’apparire a dominare nella società attuale: «Possiamo comprare costosi capi di vestiario, spendendo cifre sufficienti a sfamare un intero villaggio africano per settimane. In questo non c’è scandalo. Ma il sacrificio di un montone in pubblico, come viene ancora oggi richiesto nelle festività tradizionali dell’Islam, questo fa scandalo».
Il simbolo come punto di riferimento per l’essere umano si è perso: «Abbiamo sradicato Dio dal centro della vita, e ci abbiamo messo l’uomo. Ma a patto che questo uomo non attribuisca un valore al cosmo, concepito come una grande macchina che gira senza senso: siamo liberi, dobbiamo essere liberi, ma la nostra libertà è quella dei marinai che, aggrappati a un relitto, vagano nel mare buio sotto un cielo senza stelle a guidarli. Oggi non solo non c’è più posto per il rito, ma neppure per la metafisica. Tutto deve essere centrato sull’uomo nel momento in cui vive, su quella che Nietzsche chiamava “volontà di potenza”: una potenza che non è più quella militare, ampiamente condannata, ma quella del denaro. Tutto viene riassorbito dal sistema economico: basti pensare a cosa è diventato il Natale, la festa dei consumi assolutamente slegata dal Dio fatto uomo che dovrebbe esserne il centro. Ma il Natale è una porta lasciata socchiusa sull’aldilà. Si continua ad aver paura della morte e a sperare che dopo ci sia qualcosa: e arriva prima o poi il momento in cui, davanti alla morte propria o di una persona cara, si ritorna al pensiero arcaico».
Ugualmente la Pasqua è oggi una Pasqua senza resurrezione, e senza vittima: «Si prepara la colomba di farina, acqua e lievito, non si mangia più l’agnello di carne perché a scandalizzare è il sacrificio, la sofferenza in nome di qualcosa di “inutile”. I gesti rituali, spogliati di ogni valore, sembrano fatti in gloria del nulla; rimane solo la crudeltà. Ma nelle società contadine l’animale veniva ucciso con rispetto. Il sacrificio non dà piacere a chi lo compie, anzi, va celebrato con gesti e attitudine privi di gioia, ma carichi di rispetto. Chi compra asetticamente la carne in un supermercato non entrerebbe mai in un mattatoio, lo fa con indifferenza: in una società tradizionale può esserci crudeltà, mai indifferenza. E del resto i sacrificatori venivano addestrati perché avessero consapevolezza del loro mandato».
E nelle società tradizionali non solo il sacrificante, ma tutta la comunità è chiamata a partecipare alle celebrazioni. La collettività si fa parte attiva e, una volta di più, consapevole, della solennità. È questo un altro aspetto che viene a mancare nel nostro modo di vivere.
«Assistiamo - spiega Cardini - a un rovesciamento all’interno della società occidentale: un tempo si lavorava da soli o in piccoli gruppi, per poi partecipare alle festività tutti insieme. Oggi Dio è morto: non c’è più necessità di ritrovarsi per glorificarlo, mentre il lavoro è diventato occasione di socialità. Si lavora insieme e si festeggia da soli, o con il proprio nucleo familiare. La festa è stata abolita e sostituita con il tempo libero: cambia la qualità; il tempo della festa era dedicato a qualcosa di altro da sé, alla comunità o alla divinità, era un tempo diverso da quello della quotidianità, in cui ci si vestiva con cura, si compivano ritualità precise, si mangiavano cibi speciali. Una liturgia non solo religiosa, ma fatta di abitudini secolari codificate. Oggi al contrario la festa è il giorno in cui ciascuno può fare quello che vuole, libero dai doveri del lavoro. Abbiamo rinunciato a scandire la nostra vita con momenti di spiritualità collettiva».
In una società dominata in gran parte dall’indifferenza, l’agnello continua comunque a far discutere e a far emergere le contraddizioni presenti nel nostro mondo. E per chi non rinuncia a cucinarlo, come per chi non tollera che venga ucciso, continua in fine dei conti a essere un simbolo, così come lo è stato all’alba della civiltà occidentale.
«Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno [...]. In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare. [...]. È la Pasqua del Signore!» (Esodo, 12, 5-12).
LA RELIGIONE CATTOLICA DEL "PADRE NOSTRO", DEL "DEUS CARITAS", E IL CAPITALISMO... *
Oikonomia /10.
Ambiguo è il sacrificio
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 14 marzo 2020)
Sacrificio è parola della religione, dell’economia, di ogni crisi. I sacrifici sono nati o si sono sviluppati durante le grandi crisi collettive - le guerre, le carestie, le pestilenze. Nel mondo antico, quando la vita diventava dura e un male minacciava le comunità, i nostri progenitori iniziarono a pensare che offrire qualcosa di valore alla divinità potesse essere l’essenziale strumento di management delle catastrofi e delle crisi. Il sacrificio agli dèi di animali e, in certi casi, di bambini e di vergini divenne un linguaggio per legare cielo e terra, la speranza collettiva di poter agire sui nemici invisibili. I sacrifici si nutrono di speranza e di paura, di vita e di morte. È una esperienza radicalmente comunitaria, che cura, ricrea e nutre i legami dentro la comunità e tra la comunità e i suoi dèi.
Il sacrificio è luce e buio insieme. Le luci sono chiare. Le comunità non nascono, non durano né crescono senza sacrifici - continuiamo a scoprirlo, e mai abbastanza. Abbiamo imparato a praticare il dono e la generosità in millenni di offerte sacrificali. Ogni dono vero porta intrinseco una dimensione di sacrificio (nel senso più comune della parola). Quei doni che non ci costano nulla non valgono nulla - una delle leggi sociali più antiche -, perché il dono vero è sempre dono della vita. Amiamo molto i doni, soprattutto da parte delle persone più care, perché sono sacramenti del loro amore per noi. Per i nostri ragazzi i giorni della pandemia che stiamo vivendo tra l’inverno e la primavera di questo anno 2020 possono essere anche un tempo meraviglioso per imparare il misterioso e decisivo rapporto tra sacrificio, dono, vita.
Venendo al suo lato oscuro, il sacrificio ha una intrinseca dimensione verticale e asimmetrica. Non si offre qualcosa a un pari grado, ma a una entità sentita superiore. Le comunità sacrificali sono sempre gerarchiche, perché il rapporto uomo-dio diventa immediatamente il paradigma dei rapporti politici e sociali, quindi del potere. La comunità che offre sacrifici e doni agli dèi deve anche offrire sacrifici e doni ai potenti e al re - che in certe religioni è di natura divina. Il dono fatto al re è il regalo (da rex: re), che si fa perché non lo si può non fare.
Se poi guardiamo le stesse parole che abbiamo appena usato per descrivere la luce del sacrificio (“costano”, “valgono”, “care”), ci ritroviamo subito dentro un’altra sua dimensione buia, legata ancor più direttamente all’economia. Il sacrificio non è un atto isolato, è un processo che si svolge nel tempo. All’inizio c’è in genere una aspettativa di ritorno che troppo facilmente diventa pretesa. La grazia desiderata nei sacrifici è oggetto di commercio. In genere il sacrificio si trova prima della grazia. E anche quando il sacrificio arriva dopo, quando torneremo al tempio per fare un’altra offerta sacrificale saremo già dentro un rapporto commerciale con il dio.
È possibile che molte comunità abbiano iniziato la pratica del sacrificio di oggi come riconoscenza per un dono ricevuto ieri dagli dèi, e che dal secondo sacrificio in poi sia prevalso il registro commerciale, e il sacrificio sia diventato il prezzo pagato in anticipo per lucrare una nuova grazia. Ciò che manca (o che è fortemente sfidata) nei sacrifici è proprio la gratuità.
Attraverso la mediazione del cristianesimo il sacrificio è entrato direttamente nell’economia medioevale e poi nel capitalismo, diventandone uno dei pilastri etici. Economia e sacrificio hanno entrambi a che fare con la dimensione materiale della vita. Nei sacrifici non basta offrire preghiere e salmi di lode: occorre offrire qualcosa di materiale, sacrificare cose o vite alla cose assimilate. I primi beni economici della storia umana sono stati gli animali offerti, i primi mercati quelli con gli dèi, i primi commerci quelli tra cielo e terra, i primi mercanti i sacerdoti dei templi.
Il sacrificio lo incontriamo oggi in molti luoghi del capitalismo. E non solo nei fenomeni più evidenti, quali i crescenti sacrifici chiesti dalle grandi imprese ai dipendenti, che oggi prendono spesso la forma di veri olocausti (distruzione totale dell’offerta) della vita intera, perché spesso inutili alla produttività dell’azienda, ma puri segnali di devozione totale e incondizionata.
La presenza più interessante del sacrificio nel capitalismo è però quella meno evidente. Nelle religioni il sacrificio non vuole solo cose: vuole cose vive che muoiono mentre le offriamo. Il sacrificio consiste proprio nel trasformare ciò che vive in qualcosa che muore perché vivo (solo le cose vive possono morire: gli oggetti non muoiono perché non sono vivi). Le monete, ad esempio, si trovano nei santuari di tutto il mondo, ma non sono usate come materia del sacrificio - servono per comprare animali da offrire, o si lasciano come accessori complementari al sacrificio vivo. Nei sacrifici quegli animali o quelle libagioni (vegetali), che come tutte le cose vive sarebbero destinate necessariamente e naturalmente alla morte, grazie al sacrificio riescono, paradossalmente, a sconfiggere la morte, ad acquistare una dimensione che le sottrae al ritmo naturale della vita. Perché se da una parte l’agnello muore prematuramente perché sacrificato quando è ancora vivo, mentre muore sull’altare diventa qualcosa di diverso che vince le leggi naturali. Entra in un altro ordine, acquista un altro valore. Non morendo naturalmente diventa, in un certo modo, immortale.
Anche l’economia vive e cresce trasformando cose destinate alla morte in beni che acquistano valore proprio in questa trasformazione. Ogni giorno le imprese prendono cose vive (materie prime, animali, grano, cotone, le nostre energie...), destinate in quanto vive alla morte, e creano valore aggiunto facendole “morire” trasformandole in merci. Quel valore che si aggiunge alle cose nel trasformarle somiglia molto al valore che gli animali e le piante prendevano mentre venivano offerte sull’altare.
La lettura della morte e risurrezione di Gesù è stata anche letta da questa prospettiva: il suo “sacrificio” sconfigge l’ordine naturale della morte e lo rende, con la risurrezione, immortale. Anche il martirio, o più tardi la verginità, furono lette nel cristianesimo come un’alchimia della morte in una vita diversa e superiore.
Il rapporto tra cristianesimo e sacrificio è però pieno di equivoci. Anche se la vita e le parole di Gesù si muovono dentro una logica anti-sacrificale («Misericordia voglio, non sacrifici»), il cristianesimo da subito ha interpretato la passione e morte di Gesù come un sacrificio, come l’«agnello di Dio» che con la sua morte toglie, definitivamente, il peccato dal mondo. Un nuovo e ultimo sacrificio (Ebrei 10), che sostituisce gli antichi e reiterati sacrifici nel tempio. Il sacrificio di Gesù, del Figlio, sarebbe stato il prezzo pagato a Dio Padre per estinguere l’enorme debito che l’umanità aveva contratto. Gesù il nuovo sommo sacerdote che offre in sacrificio non animali ma se stesso (Ebrei 7).
Questa teologia sacrificale ha attraversato e segnato l’intero Medioevo, ribadita dalla Controriforma, e ancora oggi molto radicata nella prassi cristiana. L’idea sacrificale informa molta liturgia cristiana, e ha trasmesso al cristianesimo anche la visione gerarchica tipica del sacrificio. Per tutto il Medioevo (e oltre) la cultura del sacrificio si è espressa infatti in pratiche sociali di sacrificio dove erano i sudditi, i figli, le donne, i servi, i poveri a doversi sacrificare per i padroni, per i capi, per i preti, per i padri e per i mariti. Il sacrificare a Dio divenne facilmente sacrificarsi per altri uomini che, come Dio, si trovano sopra e più in alto dei sacrificanti.
Il contesto teologico sacrificale ha offerto a rapporti di potere asimmetrici e feudali una giustificazione spirituale, chiamando sacrificio ciò che era, semplicemente, sfruttamento.
Il sacrificio sta finalmente uscendo dalla teologia più recente (grazie a una comprensione più biblica del mistero della Passione), ma sta entrando sempre più nella nuova religione capitalista. Infatti, il processo creativo delle cose vive che muoiono, e “morendo” aumentano il loro valore, è diventato particolarmente forte e centrale nel capitalismo del XXI secolo, dove, diversamente da quanto avveniva nel passato, le prime cose vive che acquistano valore morendo sono diventati i lavoratori.
Marx ci aveva spiegato che solo le persone sono capaci di creare valore aggiunto in economia - non bastano le macchine. Questa antica verità ha subìto recentemente una importante trasformazione. Fino a qualche decennio fa, il “sacrificio” richiesto dalle fabbriche non era eccessivo, tantomeno totale: era soltanto quello inquadrato nel contratto di lavoro e custodito dai sindacati.
Il sacrificio della vita lo si riservava solo alla fede, alla famiglia, alla patria. La mutazione in senso religioso del capitalismo e l’eclissi degli altri ambiti “sacrificali”, ha fatto sì che le grandi imprese siano diventate i nuovi luoghi del sacrificio totale. A questo capitalismo non basta più né interessa consumare la nostra forza-lavoro. Sono i lavoratori che devono offrirsi, spontaneamente, sull’altare. Il loro culto ha bisogno delle persone intere - in ogni religione l’offerta più gradita è quella intera, giovane e senza macchia -, che valgono tanto più quanto più grande è il loro sacrificio. È crescente e impressionante, ad esempio, il numero di manager single o senza figli nelle posizioni apicali delle grandi imprese, un numero che aumenta molto nelle capitali del capitalismo (da Singapore a Milano). Una nuova forma di celibato e di voto di castità, essenziali alla nuova religione. E, come nel Medioevo, la bella parola sacrificio copre la brutta parola sfruttamento. Questo capitalismo sta manipolando troppe parole.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL VANGELO DI PAPA RATZINGER E DI TUTTI I VESCOVI E IL "PANE QUOTIDIANO" DEL "PADRE NOSTRO", VENDUTO A "CARO PREZZO".
GUARIRE LA NOSTRA TERRA : VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’ “8 SETTEMBRE”, LA “CORONA-VIRUS”, E UNA “PACE PERPETUA”. Ora il “capro espiatorio” siamo noi, l’intero genere umano ...
ALLA LUCE DEL FATTO che i “vescovi fiorentini hanno vietato di scambiarsi il segno della pace durante il rito della messa”, che a “Lourdes hanno chiuso l’accesso alle acque miracolose”, “per CARITA’, UN LAICO ILLUMINISTA” (cfr. Mario Pezzella, “Sarà un 8 settembre ?”: http://www.leparoleelecose.it/?p=37917) può pure compiacersi di “quanto la fede religiosa sia diventata un gadget turistico, che non regge di fronte a uno stato di necessità”, MA NON PUO’ CONTINUARE A “DORMIRE”, A PENSARE COME SE FOSSE TUTTO COME “PRIMA” E RIPROPORRE LA STESSA “MINESTRA” :
SE NON SAPPIAMO ANCORA che cosa significa “pensare dentro l’emergenza”, forse, è bene CON BENJAMIN (NON AGAMBEN), RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO E RIASCOLTARE IL SUO “ECCE HOMO” (http://www.leparoleelecose.it/?p=37854#comment-426632), E CERCARE DI CAPIRE COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA SUA LEZIONE.
A DISTANZA DI SECOLI, e dopo Marx, dopo Nietzsche, dopo Freud, e dopo Lacan e dopo Foucault (il Foucault di “Che cosa è l’Illuminismo?”, 1983/1984), continuiamo a non capire che il “capro espiatorio” non è un caprone (cfr. “Note per una riflessione storiografica”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5908), ma un montone, un ariete, venuto a portarci in salvo (cfr.: “Necessità di “pensare un altro Abramo”: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5269 ), non a “sacrificarsi” per noi!!! Al contrario, oggi, l’intero genere umano, “noi stessi” ci apprestiamo a fare da “capro espiatorio” - e, pronti per la “pace perpetua” (cfr. Fine della Storia o della “Preistoria”?: http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1612), abbiamo già messo sulla “nostra” testa la “corona” del sacrificio!
Il capro espiatorio
di Pier Aldo Rovatti (*)
La nostra storia ha prodotto ininterrottamente capri espiatori. Minoranze, intere popolazioni, gruppi sociali e comportamenti sono stati stigmatizzati. La storia recente e contemporanea conosce vicende quasi impensabili come la persecuzione e l’eliminazione di milioni di ebrei durante il regime nazista, ma poi c’è un intero tessuto che continua a innervare il presente, anche là dove l’evoluzione sociale e il progresso materiale avrebbero dovuto cancellarlo, dallo stigma che ancora pesa sui folli o che non ha cessato di discriminare gli omosessuali e perfino le donne.
Oggi l’esempio più clamoroso è costituito dai migranti, sui quali riversiamo le nostre ansie considerandoli spesso alla stregua di orde barbariche che invadono la civile società in cui crediamo di vivere. Ma gli esempi possono moltiplicarsi, dalla paura che ormai ovunque possa celarsi un terrorista al semplice disagio con cui sperimentiamo la prossimità di chi ci appare diverso da noi e dunque capace di disturbare la nostra presunta identità.
Capri espiatori possono dunque essere intere popolazioni o anche singoli atteggiamenti, drammatici fenomeni sociali che si esprimono con un clamore generale oppure insidiosi fenomeni individuali che possiamo verificare nell’ambito ristretto e quotidiano delle nostre vite. Parlo di “capri espiatori” perché questa espressione, che ci arriva dalla notte dei tempi, non solo mantiene un senso fruibile nella sua esplicita chiarezza, ma anche perché, se ci fermiamo un momento a riflettere sulla sua provenienza e le sue implicazioni, ci può aiutare a orientarci dentro i nostri stessi problemi. La festività pasquale ci ha appena ricordato un indizio collegato al mondo cristiano e precisamente alla figura di Gesù Cristo che si sacrifica perché attraverso di lui i credenti rimettano le loro colpe. Al posto di un ispido caprone abbiamo in questo caso un grazioso ma altrettanto innocente agnellino a esercitare la funzione di animale simbolico.
L’ispido caprone o capro appare molto prima nelle parole della Bibbia intitolate al “Levitico”, cioè nel fondo della cultura ebraica e della sua mitologia. Se andiamo a leggere queste parole, scopriamo che in origine i capri sono due, uno il cui sacrificio ha una funzione espiatoria e un altro che svolge il ruolo di “emissario” e viene mandato a perdersi nel deserto, come se non bastasse la cerimonia dell’espiazione dei peccati o delle colpe degli uomini e occorressero quindi un supplemento e uno sdoppiamento, un prolungamento dell’espiazione affidata appunto a un emissario che porti con sé e disperda nello spazio e nel tempo queste colpe.
Ricordando l’origine dell’espressione, balza agli occhi che il significato che oggi le attribuiamo è molto distante, quasi antitetico. È sparita ogni pratica positiva di espiazione attraverso un tramite simbolico e al suo posto troviamo invece l’attribuzione della colpa a un altro soggetto che automaticamente diventa il colpevole. Costui viene caricato di ogni colpa grazie a un’identificazione abnorme. Il capro non era un soggetto o un insieme di soggetti da degradare, era invece un animale simbolico completamente innocente dotato di un formidabile potere espiatorio: esso era supposto possedere un’efficacia reale sullo sviluppo della presa di coscienza di se stessi. Oggi, il cosiddetto capro espiatorio è la vittima prescelta, il colpevole che sta al posto nostro, il nemico sul quale possiamo proiettare ogni male.
Rimando chi volesse entrare nella complessità della questione a un saggio che è ormai diventato un “classico” in proposito, Il capro espiatorio (titolo originale Le bouc émissaire) di René Girard, pubblicato nel 1982 (e tradotto da Adelphi nel 1999). A questo libro si è anche ispirato lo scrittore Daniel Pennac: “Malaussène”, il personaggio da lui inventato per costruirci attorno una serie di romanzi, comici e al tempo stesso seri, ambientati in un quartiere popolare di Parigi, è un capro espiatorio di professione. Pennac arriva anche a immaginare che in un ipermercato vi sia un ufficio dove la clientela possa liberamente esternare le sue lamentele a un funzionario (appunto Malaussène) che è lì proprio per dar ragione a tutti e assumersi ogni colpa. È un contrappasso letterario e sorridente di quanto accade nella dura realtà dei giorni nostri. Tra l’altro, dopo un lungo silenzio, Pennac riprende la sua saga con Il caso Malaussène, annunciato ora da Feltrinelli.
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AUT AUT - IL SAGGIATORE. uscito su "Il Piccolo", 21 aprile 2017 (ripresa parziale).
Addio René Girard, grande antropologo (il triangolo sì, lui l’aveva considerato)
di Luca Mastrantonio (Corriere della Sera, 5 novembre 2015)
Chi crede nella religione del romanzo, e del desiderio che nasce dall’incontro scontro con l’altro, da questa notte è un po’ più solo. Se ne è andato alla veneranda età di 91 anni l’”immortale” dell’Accademia di Francia René Girard, morto dopo una lunga malattia nella notte del 4 novembre 2015. Ne dà notizia sul suo sito l’università americana di Stanford, dove l’antropologo insegnava da 30 anni, venerato da studenti e colleghi, per i quali era inconfondibile quel volto leonino con i capelli bianchi e uno sguardo infossato che restava dolce sotto le ciglia folte corvine.
Dalla Francia agli Usa
Girard, nato ad Avignone, nel 1923, ha rappresentato una figura davvero singolare, di intellettuale francese in America, dove aveva diffuso la “peste” dello strutturalismo e, soprattutto, ideato una teoria, quella del “desiderio mimetico”, che ha rivoluzionato non solo la critica letteraria, ma l’antropologia, anticipando anche l’intuizione di successive scoperte scientifiche, come quella dei “neuroni a specchio”, degli italiani Vittorio Gallese, Giacomo Rizzolatti e di Andrew Meltzoff, che sono alla base del processo psicologico e sociale dell’empatia.
Il Desiderio mimetico
La teoria del “desiderio mimetico”, che compare nel libro Menzogna romantica e verità romanzesca, pubblicato nel 1961 (in Italia da Bompiani), rivela quello che, a posteriori, tutti ammettiamo di aver sperimentato, ma che Girard intuì dalla lettura di Proust, Dante, Dostoevskij, Shakespeare e altri grandi della letteratura: il desiderio non è un rapporto a due, tra il soggetto nella sua individualità compiuta e l’oggetto nella sua unicità seducente, bensì un rapporto a tre, un triangolo formato dal soggetto, dal modello e dall’oggetto. Il modello è il mediatore, che può essere un genitore, un professore, un mito personale, qualcuno che vogliamo imitare, qualcuno che possiede qualcosa che noi desideriamo perché ci sembra più completo di noi. Qualcuno che vogliamo essere attraverso quel desiderio che credevamo nostro e del tutto nostro non è.
Verità romanzesca e menzogna romantica
Questa dinamica svela la finzione, la menzogna appunto del titolo, del romanticismo e, più in generale, della modernità che vedeva il soggetto come un individuo libero, assoluto, autonomo. Qui appare hegelianamente piuttosto schiavo del suo desiderio che non è neanche suo, ma derivato. La verità romanzesca, invece, è quella dei grandi narratori che svelano la realtà del desiderio. Il romanzo è molto importante perché il mediatore può essere anche non reale, un modello di finzione, letterario: Paolo e Francesca, per esempio, che si innamorano leggendo il romanzo di Lancillotto.
Sacra violenza
Il mediatore spesso è un rivale. E qui c’è il rovescio della teoria di Girard, derivata da Freud distaccandosene, così come Girard si allontana anche da Lévi-Strauss: quella del capro espiatorio, come violenza sacralizzata che esorcizza la paura della violenza, tiene lontana quella esterna, fuori dalla comunità, e disinnesca quella interna: una violenza nata dalla rivalità con l’altro, dal voler desiderare quello che l’altro ha. Su questo si incentrano Il capro espiatorio (1967) La violenza e il sacro (1972). Il sacrificio è tipico delle civiltà antiche, arcaiche, come esorcismo della violenza: si uccide qualcuno di debole, remissivo, in un atto reso sacro. Così si placano i conflitti tra le persone e si fonda o rafforza il vincolo sociale. Il sacro è pura coesione.
Imitare il sacrificio
Il cristianesimo, che Girard abbraccia con fervore intellettuale, permette di superare questa violenza, perché manda in cortocircuito il meccanismo del capro espiatorio (in un certo senso svela la “menzogna” della violenza attraverso il racconto di Cristo e l’invito a imitarlo). Cristo si offre per volontà del padre come vittima benché manifestamente innocente: un Dio che non chiede il sacrificio di Isacco, figlio di Abramo, ma offre il suo, di figlio, come sacrificio, svelando la finzione: si sacrifica un innocente. Una epifania che ispira un mimetismo inverso e salvifico, perché non più condannato alla rivalità per ottenere il riconoscimento degli altri, e di noi stessi attraverso gli altri, ma per il superamento del conflitto. Come? Imitando Cristo.
Cristiano d’avanguardia
Chi mi attacca - diceva Girard - è contro la mia teoria perché è allo stesso tempo una teoria d’avanguardia e una teoria cristiana. Quelli d’avanguardia sono anti-cristiani e molti cristiani sono anti-avanguardia. Anche i cristiani sono stati molto diffidenti nei miei confronti.” Molte di queste contraddizioni esplodono con l’ultimo libro, Achever Clausewitz, aveva creato un putiferio in Francia, dove venne pubblicato nel 2007 (in Italia è uscito da Adelphi col titolo Portando Clausewitz all’estremo). Si tratta di un saggio che analizza i conflitti contemporanei partendo dal trattato ottocentesco Sulla guerra, dello stratega prussiano Von Clausewiz. Negli ultimi anni, convinto che Islam e Occidente potessero uscire dalla violenta spirale di rivalità mimetica, Girard era diventato meno apocalittico. Rispetto a quando aveva sostenuto che “la storia è un test per l’umanità. E l’umanità sta fallendo quel test”.
Parigi
Morto a 91 anni il filosofo René Girard
di Daniele Zappalà (Avvenire, 4 novembre 2015)
«I Demoni di Dostoevskij. Poi, Alla ricerca del tempo perduto di Proust». Fu una risposta senza esitazioni, ma tanto più indimenticabile per la dolcezza di voce e di sguardo con cui René Girard la pronunciò, nel suo piccolo appartamento parigino a due passi dalla Tour Eiffel, davanti a un cronista che ci mise un bel po’ a decifrare come fosse possibile che un simile monumento delle scienze umane occidentali, al termine di un’intervista, potesse rispondere con tanta naturalezza a una domanda che avrebbe fatto ridere o al contrario indisposto tanti altri: «Perdoni la facezia. Ma quali romanzi porterebbe assolutamente su un’isola deserta?».
Dietro al grande studioso c’era un uomo di una rara generosità intellettuale, spesso testimoniata da quanti negli anni hanno potuto incontrare o “sentire” Girard. C’erano ancora imprevisti picchi, molto discreti, dietro il massiccio della fama accademica dell’antropologo scopritore della teoria del desiderio mimetico e del capro espiatorio, appena scomparso a 91 anni, dopo una lunga malattia.
Come intuivano i più stretti collaboratori di una vita, questi intimi picchi abitavano l’uomo in simbiosi con la fede di Girard, nato nel giorno di Natale del 1923 ad Avignone, la città del Palazzo dei papi. Con Menzogna romantica e verità romanzesca, uscito nel 1961 e da allora ristampato di continuo in tutto il mondo (per Bompiani in Italia), partì proprio dall’analisi dei più grandi romanzi occidentali la cavalcata di Girard in una nuova prateria vergine dell’antropologia filosofica, riassunta forse da una celebre massima del libro: «L’uomo desidera sempre secondo il desiderio dell’Altro».
Dalle iniziali letture girardiane dei capolavori di Stendhal, Cervantes, Flaubert, Proust e Dostoevskij, quella teoria si è poi diffusa come una sorta di bing bang teorico nei campi più svariati delle scienze umane, come mostra oggi l’estrema varietà dei temi toccati dai convegni dell’Arm, l’Associazione delle ricerche mimetiche, voluta in Francia dagli allievi e amici di Girard per offrire un pur minimo coordinamento, una sorta di mappatura, al rizoma intellettuale propagatosi lungo i decenni dalla grande intuizione di Girard.
«La sua eredità culturale sarà assicurata da tanti e vorrei dire in questo momento che non c’è nessun cenacolo girardiano, perché René ha saputo parlare fin da subito a un vasto pubblico sulle due sponde dell’Atlantico, conservando fino all’ultimo questo gusto dell’apertura», ci dice Benoît Chantre, fra i più stretti amici e presidente dell’Arm, con voce paralizzata dal dolore. Nel 2007, proprio Chantre aveva dialogato con Girard nell’ultima grande opera del pensatore, ancora straordinariamente magmatica e avvolgente, uscita in Italia con il titolo Portando Clausewitz all’estremo (Adelphi).
I critici più attenti l’hanno subito interpretata come un monito dal sapore profetico, puntato sulle enormi capacità d’autodistruzione del genere umano: una sorta di attualizzazione, in chiave filosofica e per i lettori del XXI secolo, del ritratto del nichilismo umano contenuto a livello letterario proprio nei Demoni di Dostoevskij, l’opera preferita da Girard: «Siamo la prima società a sapere che può autodistruggersi in modo assoluto. Ma ci manca la credenza che potrebbe sostenere questo sapere».
Lungo la densa parabola intellettuale girardiana, dal primo fino a quest’ultimo capolavoro, sono tante le opere che hanno impressionato i lettori di tutto il mondo. Volumi scritti quasi tutti negli Stati Uniti, in quella Stanford dove Girard ha condotto quasi tutta la sua carriera accademica. E dove gli studenti del campus della celebre università avevano imparato a incrociare Girard pure la domenica, lungo il percorso verso la Messa.
In Italia, dove il pensiero girardiano è stato accolto con grande favore anche da contrade intellettuali ideologicamente opposte, è uscito nel 1980, per Adelphi, La violenza e il sacro, prima de Il capro espiatorio (1987, Adelphi). «L’amore, come la violenza, abolisce le differenze», aveva scritto in una delle tante opere con cui aveva precisato nel tempo il suo pensiero, Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo (1983, Adelphi).
E di amore ha sempre molto trattato tutta l’opera girardiana, concentrata in proposito pure sul senso profondo, innestato nella stessa natura umana, della Passione di Cristo: per Girard, il Sacrificio che si è offerto come modello, ribaltamento e possibile via d’uscita rispetto alla strada antica, antropologicamente radicata, degli olocausti rituali per placare l’aggressività sociale connessa alle intime trappole del desiderio.
L’ultimo Girard
Benvenuti nell’epoca della violenza “profana”
La società moderna si è emancipata dal sacro ma rischia un uso della forza indifferenziato
Nelle conversazioni con il teologo Wolfgang Palaver, l’antropologo sintetizza il suo pensiero: dai miti arcaici al terrorismo fondamentalista
Le religioni antiche orientano la furia su un individuo solo: è la nascita del sacrificio
di Roberto Esposito (la Repubblica, 9.11.2011)
Il cerchio dei persecutori si stringe intorno alla vittima, indifesa e terrorizzata. Essi ne cercano la carne, la straziano, si nutrono del suo tormento. L’ultimo grido si incide indelebilmente nella loro anima, finché l’angoscia e il senso di colpa si impadronisce di loro. Adesso si sentono a loro volta inseguiti e afferrati dalla morte che hanno dato. Poco alla volta si uniscono al pianto della vittima, collocandosi dalla parte del dolore. Ormai la "muta di persecuzione" è divenuta "muta del lamento". Questa scena, riprodotta in poche, rapide, sequenze in Massa e potere di Canetti, è distesa lungo le diverse fasi della civilizzazione umana da René Girard.
Due conversazioni con il teologo Wolfgang Palaver, tenute a cavallo dell’11 settembre 2001, adesso tradotte da Cortina con il titolo Religione e violenza, ne sintetizzano il percorso iniziato cinquanta anni fa con il libro Menzogna romantica e verità romanzesca. Come si stringe il nodo tra religione e violenza? Quale delle due è causa, e quale effetto, dell’altra? E soprattutto, come si determina il passaggio - cruciale anche per la nostra condizione contemporanea - dalla concezione del sacrificio di una vittima innocente all’idea di potere sacrificare se stesso, o se stessi, a favore di altri? La tesi dell’autore è che all’inizio vi sia la violenza scatenata dal desiderio mimetico - vale a dire rivolto all’oggetto soltanto perché desiderato anche da altri. Come testimonia, oltre che l’esperienza quotidiana, la grande narrativa da Cervantes a Dostoevskij, A desidera B perché lo desidera anche C. Perciò la roba, o la donna, degli altri appare sempre più desiderabile ai nostri occhi. È tale rivalità, costitutiva del meccanismo stesso del desiderio, a provocare una violenza infinita, potenzialmente distruttiva del genere umano.
Solo a questo punto intervengono le religioni arcaiche in una forma che attutisce la violenza incorporandola, e cioè orientandola verso un singolo individuo. È l’origine del sacrificio rituale che si abbatte sul capro espiatorio. Uno scarto si apre nel cuore della violenza, per poi subito richiudersi intorno alla vittima designata. Essa sposta il proprio obiettivo: da tutti a uno - uno al posto di tutti. Nei miti fondatori delle religioni più antiche si ripete ossessivamente la stessa scena originaria, riprodotta anche in Totem e tabù di Freud. Qualcuno - spesso diverso anche fisicamente dagli altri - viene circondato e ucciso, attirando su di sé l’odio che altrimenti finirebbe per annientare l’intera comunità. In tal modo, tutt’altro che causa, la religione costituisce al contempo l’effetto e l’argine della violenza. Il cerchio della morte che si serra intorno la vittima è lo stesso che consente la sopravvivenza degli altri. Naturalmente, perché questo meccanismo possa funzionare, colui che ne è colpito deve essere considerato colpevole - solo così i suoi carnefici appaiono innocenti. I miti arcaici convergono tutti in questa direzione, fondendosi con le religioni del sacrificio.
Finché, ad un certo punto, qualcosa cambia - allorché una religione, quella ebraico-cristiana, staccandosi e contrapponendosi alle altre, rovescia non la realtà, ma l’interpretazione dell’evento sacrificale. Già nei Salmi, per la prima volta la vittima si ribella contro il linciaggio, dichiarando la propria innocenza. Ma è la Crocifissione a rompere definitivamente con il dispositivo vittimario - non salvando la vittima, ma identificando nella folla dei persecutori i veri colpevoli. È proprio lo spontaneo abbandono di Cristo alla loro violenza a riscrivere la storia dell’uomo da una diversa prospettiva che ristabilisce il vero discrimine tra colpa e innocenza. Quando Nietzsche accosta Dioniso e Cristo, coglie per primo la connessione tra mitologia e cristianesimo, senza però collocarsi a fianco delle vittime. Arrivato a lambire la verità, ma non potendo sostenere la sua luce accecante, egli si rifugia nella follia, mantenendo coperto il segreto che da millenni ci tiene prigionieri.
Che dire di simile prospettiva? Fino a che punto il racconto dell’autore appare convincente? Certo rispetto a chi, come Dawkins in L’illusione di Dio. Le ragioni per cui non credere (Mondadori 2007), attribuisce alla religione la responsabilità prima della violenza, l’intelligenza, e anche la suggestione, della ricostruzione di Girard è incomparabile. Per quanto riguarda il terrorismo fondamentalista esploso in questi anni, egli non lo riconduce a una matrice teologica, ma piuttosto ad una politicizzazione parossistica della religione.
Intanto non bisogna dimenticare che, nonostante derivi anch’esso dall’ebraismo, il monoteismo islamico resta lontano dal cristianesimo, proprio perché non ammette la possibilità della sofferenza di Dio, precludendosi in questo modo il significato del meccanismo sacrificale. Ma ciò che conta è soprattutto la differenza tra il monoteismo religioso e quello politico. A differenza del primo, questo finisce per riattivare la spinta indifferenziata della violenza nella misura in cui antepone la potenza alla verità.
Per questo Girard vede nel mondo contemporaneo da un lato una radicale diminuzione di violenza, dovuta allo svelamento del meccanismo vittimario, ma dall’altro la possibilità catastrofica, resa tangibile dagli armamenti nucleari, di una moltiplicazione delle vittime. Emancipandosi dal sacro, le nostre società si liberano della violenza che esso produceva ma anche dello schermo protettivo che costituiva nei confronti di una violenza indifferenziata. E come se la società moderna, finalmente sciolta dall’imposizione del sacrificio, perdesse anche la verità rovesciata che esso conteneva, portata finalmente alla luce dalla religione cristiana.
E tuttavia, nonostante la ricchezza del suo ragionamento, proprio in questo riferimento alla verità della Croce il discorso di Girard sembra mostrare un doppio limite. Prima di tutto perché non tiene conto della teologia della Gloria in cui quella della Croce si è troppe volte capovolta. E poi perché, facendo della fede, necessariamente insicura, e anche "irragionevole", l’espressione di una verità, e anzi dell’unica verità, rischia di rimettere in moto la medesima logica escludente, e dunque anche potenzialmente sacrificale, che aveva inteso denunciare. Cosa c’era, al fondo della menzogna oscena del sacrificio, se non la pretesa di uccidere in nome di una verità più potente di una semplice vita umana?
il Decalogo
«La roba d’altri», l’ultima tentazione
Il grande studioso René Girard indaga «la potenza con cui i comandamenti comprendono il mondo, ancora profondamente attuale»
«Il decimo precetto chiude la lista introducendo il rivoluzionario concetto di ’prossimo’, ma anche portando in primo piano la concreta quotidianità» «Nell’’Onora il padre e la madre’ è costituita la struttura della famiglia moderna, senza le rivalità interne caratteristiche della vecchia poligamia»
DI RENÉ GIRARD (Avvenire, 02.06.2010).
Dovendo commentare i dieci comandamenti, la prima cosa che mi sento di dire è la mia grande ammirazione per la loro capacità di sintesi e la potenza della loro comprensione del mondo umano e divino, e per come riescono a abbracciare le cose più rilevanti e importanti della socialità in epoca antica. Non solo. C’è nei comandamenti una profonda modernità, nel senso che individuano ragioni e comportamenti umani che ci riguardano tutti ancora oggi e per questo possiamo tranquillamente dire che non hanno perso nulla della loro originalità e pregnanza morale.
Nei miei libri non ho mai avuto l’occasione di commentare l’importanza di questi testi, con l’eccezione di Vedo Satana cadere come la folgore, dove per la prima volta mi sono reso conto dell’importanza dell’ultimo comandamento dal punto di vista della teoria mimetica: «Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17).
È un comandamento che esprime un concetto già moderno di legittimazione della proprietà privata, ma più rilevante dal mio punto di vista è l’articolazione intuitiva di quello che io chiamo ’desiderio mimetico’, cioè il desiderio secondo l’altro, il desiderio imitativo che può assumere, e spesso assume, connotazione rivalitarie. Un sentimento che noi moderni abbiamo imparato a sperimentare giornalmente e in quantità, ma che, essendo una componente fondamentale dell’animo umano, era pane quotidiano anche per gli antichi.
È interessante vedere come la legge mosaica cominci enumerando uno a uno gli oggetti che non devono essere desiderati, ma una lista puntuale di potenziali oggetti da proibire per non scatenare la rivalità reciproca sarebbe interminabile, e l’estensore di questo testo se ne rende conto. Per tanto interrompe l’elenco e fissa il centro polare dei processi di desiderio e rivalità sul prossimo e di tutto ciò che gli appartiene. La natura dell’oggetto non è il fattore determinante, ma il fatto che appartenga a chi ci sta vicino. Per tanto l’ultimo dei comandamenti chiude la lista proibendo di desiderare «cosa alcuna che appartenga al tuo prossimo».
Questo comandamento pone un veto esattamente nei confronti del desiderio mimetico. Allo stesso modo in cui i quattro precedenti descrivono crimini contro il prossimo: ucciderlo, rubargli la moglie, rubargli ciò che gli appartiene, calunniarlo. Quale principio li guida? Il decimo comandamento se lo chiede e lo scopre: il desiderio mimetico. Le ultime parole, «cosa alcuna che appartenga al tuo prossimo», mettono il prossimo, il modello, in primo piano. E quello che sembra un comandamento quasi accessorio, diventa la perfetta chiusura del Decalogo.
Infatti se anche rispettassimo tutti i precedenti comandamenti ci rimarrebbe un residuo di desideri concreti, legati alla vita quotidiana, e che testimonia già il livello di comprensione realistica del testo biblico (nel senso espresso da Auerbach in Mimesis ) e in particolare la comprensione del funzionamento dei meccanismi del desiderio. Il prossimo è colui che ci sta accanto, colui con cui è più facile che il principio di rivalità e di conflitto nasca, che è all’interno della nostra stessa comunità, nel nostro cerchio quotidiano, e non qualcuno che ci sia astrattamente nemico.
Questa idea del prossimo ha un’importanza decisiva in tutta la Bibbia, perché è attraverso la relazione con questo altro che costruiamo positivamente o negativamente il nostro mondo relazionale e quindi noi stessi. Un altro comandamento che ha una sua modernità, e che segna un allontanamento dalle culture arcaiche, è «onora il padre e la madre», dove vediamo già enunciata e costituita la struttura della famiglia moderna, e dove non si fa menzione alcuna a forme di poligamia o di condivisione della prole all’interno di strutture famigliari di carattere comunitario. La relazione formativa fondamentale avviene all’interno della famiglia ’nucleare’, attraverso il rapporto di rispetto con i genitori, costruendo quello che io chiamo ’mediazione esterna del desiderio’, ovvero una forma di desiderio imitativo che viene diretta verso un modello con cui non entriamo in rivalità e in disputa. «Onora il padre e la madre» ci insegna appunto questo: che la struttura pedagogica della famiglia deve essere articolata attraverso il rispetto e l’esternalità del rapporto imitativo e pedagogico.
L’importanza di questo comandamento potrebbe essere usata ovviamente contro Freud, che vede nella famiglia il fulcro di quello che io definisco come ’mediazione interna ’ del desiderio, ovvero di ’imitazione rivalitaria’ e che per Freud porta appunto alla sessualizzazione del rapporto fra genitori e figli e allo schema edipico.
Qualcuno potrebbe obiettare che è il cristianesimo stesso che in qualche modo ritraduce il rapporto fra genitori e figli in termini stranamente rivalitari, soprattutto facendo riferimento a quel passaggio del Vangelo in cui Cristo dice: «Non sono venuto a portare la pace, ma una spada.
Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera, e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Mt 10, 34-37). Io ho sempre interpretato questo passaggio in termini ’apocalittici’, nel senso che il cristianesimo porta a un dissolvimento culturale che non può più essere ricostituito, perché quello che teneva coesa la cultura antica era il sistema vittimario, il meccanismo del capro espiatorio, chiamato a risolvere i principi di dissoluzione della comunità attraverso la persecuzione di vittime innocenti, usate come sistema ’farmacologico’ per mantenere l’ordine politico, sociale e culturale.
Con il cristianesimo questo non è più possibile, proprio perché Cristo ha rivelato l’ingiustizia e l’arbitrarietà di questo meccanismo, della vittimizzazione di capri espiatori innocenti: e Gesù lo rivela diventando lui stesso la vittima perfetta, la vittima senza colpa.
Apocalisse
La violenza dell’uomo e la furia di Dio
di René Girard (la Repubblica, 25.01.2010)
Le riflessioni dell’antropologo francese dopo l’11 settembre
Alle origini del Cristianesimo era una promessa, adesso è una forza distruttiva
Se studiamo i capitoli del Libro scopriamo che annunciano rivoluzioni e guerre
L’apocalisse non ha una connotazione storica ma religiosa, per questo non possiamo farne a meno. E’ questo che il cristianesimo moderno non capisce. Nel futuro apocalittico, il buono e il cattivo sono mischiati insieme in modo che, da un punto di vista cristiano, non si può parlare di pessimismo, si tratta di essere semplicemente cristiani.
Equivale a dire che i testi sacri fanno tutti parte di un unico organico. Per capirlo, basti citare la Prima Lettera ai Corinzi: se «i poteri», intendendo con essi chi gestiva il potere terreno, avessero saputo quello che sarebbe successo, non avrebbero mai crocefisso Gesù, perché sarebbe stato come firmare la propria condanna. Perché, mettendo sulla croce il Re della Gloria, il meccanismo del potere, quello della persecuzione ingiusta, viene rivelato.
Mostrare la crocifissione come il sacrificio di una vittima innocente equivale a rivelare la natura collettiva dell’omicidio, permettendoci di capire che si tratta di un fenomeno mimetico. E «i poteri» che l’hanno messo in scena sono destinati a estinguersi a seguito di questa rivelazione.
E la storia non è altro che la realizzazione di questa profezia. Chi dice che i cristiani sono anarchici ha in un certo senso ragione. I cristiani obliterano «i poteri» di questo mondo cancellando la legittimità di qualsiasi forma di violenza. Lo Stato vede il cristianesimo come forza anarchica. Ogni volta che il cristianesimo recupera vigore spirituale, questo aspetto riemerge.
Di conseguenza il conflitto con i musulmani è davvero ben più significativo di quanto pensino gli stessi integralisti. I fondamentalisti pensano che l’apocalisse sia l’ira violenta di Dio. Ma se leggiamo con attenzione i capitoli sull’Apocalisse, capiamo che in realtà parlano della violenza dell’uomo liberata dalla distruzione dei poteri secolari, e cioè degli Stati, che è quello a cui stiamo ora assistendo. (...)
Se studiamo i capitoli sull’Apocalisse, scopriamo che ci annunciano proprio questo: ci saranno rivoluzioni e guerre; gli stati si solleveranno gli uni contro gli altri, e così faranno le Nazioni. Questi sono i doppi. Questo è il potere anarchico presente oggi, dotato di una forza capace di distruggere il mondo. Così che è possibile vedere l’apocalisse avvicinarsi come mai in precedenza. Alle origini del cristianesimo l’apocalisse era considerata in termini magici: il mondo finirà, andremo tutti in paradiso e tutto sarà apposto. «L’errore» dei primi cristiani fu quello di credere che l’apocalisse sarebbe stata questione di un attimo.
I primi testi cristiani, cronologicamente parlando, sono le lettere ai Tessalonicesi ed esse sono una risposta alla domanda: perché il mondo continua quando la sua fine è stata annunciata? San Paolo dice che qualcosa trattiene i poteri, i katochos. L’interpretazione più comune è che si riferisca all’Impero Romano. La crocifissione non ha ancora completamente dissolto tutti gli ordini. Se consideriamo i capitoli sull’apocalisse, essi descrivono una situazione simile al caos dei nostri giorni, che tale non era invece all’inizio dell’Impero Romano: come poteva finire il mondo se era così saldamente tenuto insieme dalle forze dell’ordine? (...)
Fondamentalmente è la religione che annuncia il mondo che verrà. Non si tratta di combattere per questo mondo. E’ il cristianesimo moderno che dimentica le sue origini e la sua vera direzione. L’apocalisse alle origini del cristianesimo era una promessa, non una minaccia, perché i primi cristiani avevano fiducia nel mondo ultraterreno. (...)
Ognuno di noi può vedere che l’apocalisse si fa sempre più concreta ogni giorno che passa: una forza distruttiva capace di cancellare il mondo, armi sempre più potenti e altre minacce ancora si moltiplicano davanti ai nostri occhi. Continuiamo a credere che tutti questi problemi siano gestibili dall’uomo, ma quando poi li consideriamo unitamente vediamo che non è così.
Acquistano una sorta di valore soprannaturale. Come per i fondamentalisti, i capitoli dei Vangeli sull’Apocalisse ricordano a chi li legge la situazione in cui viviamo. Ma i fondamentalisti credono che la violenza finale arriverà da Dio, e non danno per tanto il giusto valore a ciò che sta accadendo ora tutto intorno a noi: la rilevanza degli eventi dei nostri tempi dal punto di vista religioso.
E questo dimostra quanto poco siano cristiani sotto certi aspetti. E’ la violenza degli uomini a minacciare il mondo oggigiorno; e tutto ciò è molto più in conformità con i temi apocalittici del Vangelo di quanto loro non si rendano conto. (...)
Nell’islamismo l’uso della violenza fa inevitabilmente del martire uno strumento di Dio. Questo in realtà equivale a dire che la violenza apocalittica viene da Dio. Negli Stati Uniti è lo stesso per i fondamentalisti cristiani, ma non per le grandi confessioni religiose. Tuttavia, non c’è abbastanza coerenza da pensare che se la violenza non viene da Dio allora viene dagli uomini, e che quindi noi uomini ne siamo responsabili. Infatti, accettiamo che le nostre vite siano protette da ordigni nucleari. Questo è probabilmente il peccato più grave dell’Occidente, basti pensare a quello che comporta. (...)
Bisogna distinguere fra sacrificio dell’altro e sacrificio di sé. Cristo dice al Padre: «Non volevi né un olocausto né un sacrificio e io ho risposto «Eccomi»». In altre parole: preferisco sacrificare me stesso piuttosto che un altro. Ma questo rimane un «sacrificio». Nelle lingue moderne la parola «sacrificio» è intesa solo nel suo significato cristiano, la passione, quindi, è assolutamente giustificata. Dio dice: se nessuno è abbastanza buono da sacrificarsi al posto di suo fratello, lo farò io. Così facendo porto a compimento quello che Dio richiede all’uomo: preferisco morire che uccidere. Tutti gli altri, però, preferiscono uccidere, piuttosto che morire. (...)
Nel cristianesimo non ci si martirizza. Non si diventa volontari della morte. Ma, osservando i precetti di Dio (porgi l’altra guancia, ad esempio), ci si mette nella condizione di essere uccisi. E il cristiano morirà solo perché sono i suoi simili a volerlo uccidere non perché si è offerto volontariamente alla morte. Non è il kamikaze giapponese.
Il concetto cristiano implica di essere pronti a morire piuttosto che a uccidere. E’ l’atteggiamento della prostituta buona nel giudizio di re Salomone che dice: «Da’ mio figlio alla mia rivale ma non ucciderlo». Il sacrificio del figlio equivale al proprio sacrificio: accettando l’equivalente della morte, lei sacrifica se stessa. E quando Salomone riconosce in lei la vera madre del bambino, parla non tanto di madre biologica ma di madre spirituale. Questa parabola è tratta dal libro dei Re, che è un libro piuttosto cruento. Ma direi che non vi è simbolo pre-cristiano dell’atto sacrificale di Cristo superiore a questo.
© 2010 Robert Doran, Jean-Pierre Dupuy
© 2010 Pier Vittorio e associati, Transeuropa