[...] "E’ la parola ascoltata che fa paura ai potenti gruppi mafiosi. Loro mettono in conto omicidi, ergastolo. Non mettono in conto la parola. Raccontare fa parte del diritto" [...]
Saviano dedica laurea a pm pool di Milano *
GENOVA - Roberto Saviano è stato insignito della laurea honoris causa in giurisprudenza dall’ateneo di Genova per "l’importante contributo a difesa del principio di legalità, asse portante dello Stato di diritto". Con queste parole il preside di Giurisprudenza, professor Paolo Comanducci ha attribuito la laurea allo scrittore. Subito dopo il professor Pisa ha letto la Laudatio.
"La criminalità organizzata teme la parola, proclamata in pubblico o scritta in un libro, se questa scuote le coscienze". E’ questo uno dei passi più significativi della Laudatio per la Laurea honoris causa in Giurisprudenza attribuita dall’Ateneo di Genova a Roberto Saviano. "Certo - scrive Paolo Pisa, docente a Giurisprudenza e redattore della Laudatio - non saranno solo le parole a sconfiggere camorra o mafia. Se la disoccupazione giovanile sfiora in alcune zone il 50% e in esse la criminalità organizzata è il primo datore di lavoro, appare fin troppo ovvio che l’ambito politico, economico e sociale rimane fondamentale". Pisa si augura che "tra qualche anno possiamo conferire una laurea honoris causa anche ad una personalità che sappia coniugare la lotta sui diversi fronti".
SAVIANO, DEDICO MIA LAUREA A PM POOL MILANO - "Dedico questa mia laurea ai magistrati Boccassini, Sangermano e Forno che stanno vivendo momenti difficili solo per aver fatto il loro mestiere di giustizia". Lo ha detto Roberto Saviano nella lectio magistralis tenuta a Genova per il conseguimento della laurea honoris causa in Giurisprudenza.
"Non si può negare che chiunque oggi decida di prendere una posizione critica sa quello che lo aspetta: delegittimazione e fango". Lo ha detto Roberto Saviano nella lectio magistralis tenuta a Genova per il conseguimento della laurea honoris causa in Giurisprudenza.
MARINA BERLUSCONI, ORRORE DICHIARAZIONI SAVIANO - ’’Mi fa letteralmente orrore che una persona come Roberto Saviano, che ha sempre dichiarato di voler dedicare ogni sua energia alla battaglia per il rispetto della liberta’, della dignita’ delle persone e della legalità, sia arrivata a calpestare e di conseguenza a rinnegare tutto quello per cui ha sempre proclamato di battersi’’. Lo ha dichiarato il presidente di Fininvest e Mondadori Marina Berlusconi in relazione alle affermazioni fatte oggi a Genova da Roberto Saviano, che ha dedicato ai pm di Milano la laurea honoris causa. Il ’mestiere di giustizia’, come lo chiama Saviano - ha aggiunto nella sua dichiarazione Marina Berlusconi -, e coloro che sono chiamati ad esercitarlo non dovrebbero avere nulla a che vedere con la persecuzione personale e il fondamentalismo politico che questa vicenda mette invece tristemente, e con spudorata evidenza, sotto gli occhi di tutti’’.
Saviano, lezione di legalità all’università
Lo scrittore sventola la laurea honoris causa in giurisprudenza davanti ai professori universitari riuniti per l’inagurazione dell’anno accademico. E spiega: "E’ la parola ascoltata che fa paura ai potenti gruppi mafiosi. Loro mettono in conto omicidi, ergastolo. Non mettono in conto la parola. Raccontare fa parte del diritto"
(la Repubblica, 22 gennaio 2011)
Saviano: dedico la laurea al pool di Milano
Genova - Lo scrittore riceve la laurea honoris causa in giurisprudenza davanti ai professori universitari riuniti per l’inagurazione dell’anno Accademico: "La dedico ai magistrati che indagano su Berlusconi che stanno vivendo momenti difficili solo per aver fatto il loro mestiere di giustizia"
(la Repubblica, 22 gennaio 2011)
Quel fango su tutti noi
di Roberto Saviano (la Repubblica, 28 gennaio 2011)
Per vedere quello che abbiamo davanti al naso - scriveva George Orwell - serve uno sforzo costante. Capire cosa sta avvenendo in Italia sembra cosa semplice ed è invece cosa assai complessa. Bisogna fare uno sforzo che coincide con l’ultima possibilità di non subire la barbarie. Perché, come sempre accade, il fango arriva. La macchina del fango sputa contro chiunque il governo consideri un nemico. Ieri è toccato al pm di Milano Ilda Boccassini.
L’obiettivo è un messaggio semplice: siete tutti uguali, siete tutti sporchi. Nel paese degli immondi, nessuno osi criticare, denunciare. La macchina del fango, quando ti macina nel suo ingranaggio, ti fa scendere al livello più basso. Dove, ricordiamocelo, tutti stiamo. Nessuno è per bene, tutti hanno magagne o crimini da nascondere. L’intimidazione colpisce chiunque. Basta una condizione sufficiente: criticare il governo, essere considerato un pericolo per il potere. Il fango sulla Boccassini viene pianificato, recuperando una vicenda antica e risolta che nulla ha a che vedere con il suo lavoro di magistrato. Quattro giorni fa il consigliere della Lega al Csm chiede il fascicolo sulla Boccassini. Ieri "il Giornale" organizza e squaderna il dossier. Il pm, che fa il suo mestiere di servitore dello Stato e della giustizia, viene "macchiato" solo perché sta indagando su Berlusconi. Sta indagando sul Potere.
C’è un’epigrafe sulla macchina del fango. Questa: «Qualunque notizia sul tuo privato sarà usata, diramata, inventata, gonfiata». E allora quando stai per criticare una malefatta, quando decidi di volerti impegnare, quando la luce su di te sta per accendersi per qualcosa di serio... beh allora ti fermi. Perché sai che contro di te la macchina del fango è pronta, che preleverà qualsiasi cosa, vecchissima o vicina, e la mostrerà in pubblico. Con l’obiettivo non di denunciare un crimine o di mostrare un errore, ma di costringerti alla difesa. Come fotografarti in bagno, mentre sei seduto sulla ceramica. Niente di male. E’ un gesto comune, ma se vieni fotografato e la tua foto viene diffusa in pubblico chiunque assocerà la tua faccia a quella situazione. Anche se non c’è nulla di male.
Si chiama delegittimazione. Quello che in queste ore la «macchina» cerca di affermare è semplice. Fai l’amore? Ti daranno del perverso. Hai un’amante? Ti daranno del criminale. Ti piace fare una festa? Potranno venire a perquisirti in casa. Terrorizzare i cittadini, rovesciando loro addosso le vicende del premier come una «persecuzione» che potrebbe toccare da un momento all ’altro a uno qualsiasi di loro. Eppure il paragone non è l’obiettivo della macchina del fango. Non è mettere sulla bilancia e poi vedere il peso delle scelte. Ma semplicemente serve per cercare di equiparare tutto. Non ci si difende dicendo non l’ho fatto e dimostrandolo, ma dicendo: lo facciamo tutti. Chi critica invece lo fa e non lo dice.
L’altro obiettivo della macchina del fango è intimidire. In Italia il gossip è lo strumento di controllo e intimidazione più grande che c’è. Nella declinazione cartacea e in quella virtuale. L’obiettivo è controllare la vita delle persone note a diversi livelli, in modo da poterne condizionare le dichiarazioni pubbliche. E quando serve, incassarne il silenzio. Persone che non commettono crimini affatto, ma semplicemente non vogliono che la foto banalissima con una persona non sia fatta perché poi devono giustificarla ai figli, o perché non gli va di mostrarsi in un certo atteggiamento. Nulla di grave. Nessuna di queste persone spesso ha responsabilità pubbliche, né viene colta in chissà quale situazione. Eppure arrivano a pagare alle agenzie le foto, prezzi esorbitanti per difendere spesso l’equilibrio della propria vita. Su questo meccanismo si regge il timore di fare scelte, di criticare o di mutare un investimento. Sul ricatto. Il gossip oggi è una delle varianti più redditizie e potenti del racket. Perché il Paese non si accorge di tutto questo?
Berlusconi fa dichiarazioni che in qualsiasi altro paese avrebbero portato a una crisi istituzionale, come quando disse: «Meglio guardare una bella ragazza che essere gay». Oppure quando fece le corna durante le foto insieme ai capi di stato. Eppure in Italia queste goliardate vengono percepite come manifestazioni di sanità mentale da parte di un uomo che sa vivere. Chi queste cose non le fa,e dichiara di non approvarle, viene percepito come un impostore, uno che in realtà sogna eccome di farle, ma non ha la schiettezza e il coraggio di dirlo pubblicamente. Il Paese è profondamente spaccato su questa logica. Quel che si pensa è che in fondo Berlusconi, anche quando sbaglia, lo fa perché è un uomo, con tutte le debolezze di un uomo, perché è «come noi», e in fondo «anche noi vorremmo essere come lui». Gli altri, sono degli ipocriti, soprattutto quando pensano e affrontano un discorso in maniera corretta: stanno mentendo.
Bisogna essere chiari. Le vicende del premier non hanno niente di privato. Riguardano il modo con cui si seleziona la classe politica, con cui si decide come fare carriera. Riguardano come tenere sotto estorsione il governo italiano. Se questo lo si considera un affare privato ecco che chiunque racconti cosa accade è come se stesse entrando nella sfera privata. Che siano sacri i sentimenti di Berlusconi, e speriamo che si innamori ogni giorno, questo riguarda solo lui. Ma l’inchiesta di Milano riguarda altro.
La macchina del fango cerca di capovolgere la realtà, la verità. Chi ha creato ricatti cerca di passare per ricattato, chi commette crimini pubblici, cerca di dichiarare che è solo una vicenda privata, chi tiene mezzo paese nella morsa del ricatto delle foto, delle informazioni, delle agenzie, del pettegolezzo, dichiara di essere spiato. L’ha fatto con Boffo, lo sta facendo con Fini, cerca di farlo con la procura di Milano. Il fango è redditizio, dimostra fedeltà al potere e quindi automatica riconoscenza. A questo si risponde dicendo che non si ha paura. Che i lettori l’hanno ormai compreso, che non avverrà il gioco semplice di parlare ad un paese incattivito che non vede l’ora di vedere alla gogna chiunque abbia luce per poter giustificare se stesso dicendosi: ecco perché non ottengo ciò che desidero, perché non sono uno sporco. Questo gioco, che impone di riuscire nelle cose solo con il compromesso, la concessione, perché così va il mondo, e perché tutti in fondo si vendono se vogliono arrivare da qualche parte, l’abbiamo compreso e ogni giorno parlandone lo rendiamo meno forte.
Ho imparato a studiare la macchina del fango dalla storia dei regimi totalitari, come facevano in Albania o in Unione Sovietica con i dissidenti. Nessuno chiamato a rispondere a processi veri, ognuno diffamato, dossierato e condannato in ogni modo per il solo raccontare la verità. Nelle democrazie il meccanismo è diverso, più complesso ed elastico. Quello che è certo è che la macchina del fango non si fermerà. A tutto questo si risponde non sentendosi migliori, ma, con tutte le nostre debolezze e i nostri errori, sentendosi diversi. Sentendoci parte dell’Italia che non ne può più di questo racket continuo sulla vita di chi viene considerato nemico del governo.
LA POLEMICA
Il vero "orrore" è isolare i magistrati
di ROBERTO SAVIANO *
Ho ricevuto la laurea honoris causa in Giurisprudenza, mi è stata conferita dall’Università di Genova; è stata una giornata per me indimenticabile. Credevo fosse fondamentale impostare la lezione, che viene chiesta ad ogni laureato, partendo proprio dall’importanza che il racconto della realtà ha nell’affermazione del diritto.
Soprattutto quando il racconto descrive i poteri criminali. Senza racconto non esiste diritto. Proprio per questo ho voluto dedicare la laurea honoris causa ai magistrati Boccassini, Forno e Sangermano del pool di Milano. Marina Berlusconi dichiara che le fa orrore che parlando di diritto si difenda un magistrato. Così facendo avrei rinnegato ciò per cui ho sempre proclamato di battermi. Così dice, ma forse Marina Berlusconi non conosce la storia della lotta alle mafie, perché difendere magistrati che da anni espongono loro stessi nel contrasto all’imprenditoria criminale del narcotraffico non vuol dire affatto rinnegare. Non c’è contraddizione nel dedicare una laurea in Giurisprudenza a chi attraverso il diritto cerca di trovare spiegazioni a ciò che sta accadendo nel nostro Paese. Mi avrebbe fatto piacere ascoltare nelle parole di un editore l’espressione "orrore" non verso di me, per una dedica di una laurea in Legge fatta ai magistrati. Mi avrebbe fatto piacere che la parola "orrore" fosse stata spesa per tutti quegli episodi di corruzione e di criminalità che da anni avvengono in questo paese, dalla strage di Castelvolturno sino alla conquista della ’ndrine di molti affari in Lombardia. Ma verso questi episodi è stato scelto invece il silenzio.
Orrore mi fa chi sta colpevolmente e coscientemente cercando di delegittimare e isolare coloro che in questi anni hanno contrastato più di ogni altro le mafie. Ilda Boccassini, coordinatrice della Dda di Milano, ha chiuso le inchieste più importanti di sempre sulle mafie al Nord. Pietro Forno è un pm che ha affrontato la difficile inchiesta sulla P2 ed ha permesso un salto di qualità nelle indagini sugli abusi sessuali, abusi su minori. Antonio Sangermano, il più giovane, ha un’esperienza passata da magistrato a Messina, recentemente ha coordinato un’inchiesta, una delle prime in Italia, sulle "smart drugs", le nuove droghe. Accusarli, isolari, delegittimarli, minacciare punizioni significa inevitabilmente indebolire la forza della magistratura in Italia, vuol dire togliere terreno al diritto. Favorire le mafie. Ecco perché ho dedicato a loro la lezione di cui, qui di seguito, potete leggere un ampio stralcio.
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È difficilissimo in questa fase storica italiana parlare al grande pubblico di come la parola possa contrastare un potere fatto di grandi capitali, di eversione, di forza militare, di grandi investimenti internazionali. Ogni volta che mi trovo a parlare nelle università piuttosto che in tv, c’è sempre dell’incredulità: come è possibile che lobby così potenti possano avere paura della parola?
In realtà forse la dinamica è un po’ più complessa. Non è la parola in sé, scritta, pronunciata, dichiarata, ripresa, quella che fa paura. È la parola ascoltata, sono le persone che ascoltano e che fanno di quella parola le proprie parole. È questo che incute timore alle organizzazioni criminali. Paura che non riguarda semplicemente la repressione, loro la mettono in conto, come mettono in conto il carcere. Ma quasi mai mettono in conto l’attenzione nazionale e internazionale. Che poi significa semplicemente una cosa: significa dire che queste storie non riguardano solo gli addetti ai lavori, i politici locali, i magistrati, i cronisti, ma riguardano anche noi. Quelle storie sono le nostre storie, quel problema è il nostro problema, e va risolto perché è come risolvere la nostra stessa esistenza.
Raccontare è parte necessaria e fondamentale del diritto. Non raccontare è come mettere in discussione il diritto. Può sembrare un pensiero astratto ma quando si entra in conflitto con le organizzazioni, il loro potere, il loro modo di fare, allora si inizia a capire. E si capisce perché, non solo in Italia, c’è chi investe energie e interviene non sul racconto delle cose, ma su chi le racconta. Come se il narratore fosse responsabile dei fatti che sta narrando. Si invita per esempio a non raccontare l’emergenza rifiuti a Napoli per non delegittimare la città: quindi non sono i rifiuti che delegittimano la città ma chi li racconta. Se un problema non lo racconti, e soprattutto se non lo racconti in televisione, quel problema non esiste. È una sorta di teoria dell’immateriale, ma in realtà fa capire quanto sia fondamentale la necessità di raccontare.
Non è una particolarità italiana, dicevo. In Messico per esempio negli ultimi sei mesi sono stati ammazzati 59 giornalisti: ragazzi che avevano aperto dei blog, che avevano fondato delle radio, giornalisti delle testate più importanti. Caduti per mano del narcotraffico, che è oggi il più potente del mondo e che ha deciso di impedire la comunicazione di quello che sta succedendo in Messico con una scelta totalitaria, nell’eliminazione sistematica di chiunque tenti non solo di raccontare. Qualsiasi persona che inizi a raccontare diventa immediatamente un nemico, un pericolo perché accende la luce, anche piccola, ma che può interessare. Ricordo una persona che ho molto stimato, e avevo conosciuto quando decise di esprimermi solidarietà nei momenti più difficili della mia vita: Christian Poveda. Aveva deciso di andare in Salvador a raccontare la Mara Salvatrucha, potentissime bande di strada che controllano lo spaccio della coca. Poveda li riprende con il loro consenso e ne fa un documentario dal titolo La vida loca, meravigliosamente tragico, forte perché anche lì c’è quel principio: queste storie diventano le storie di tutti. Ebbene Poveda con questo documentario comincia ad accendere luci ovunque, anche sui rapporti tra le Maras e la politica. Iniziano ad arrivare i giornalisti. E il 20 settembre del 2009 sparano in testa a Christian, che muore in totale silenzio, sia in Italia che in Europa, lasciando in qualche modo una sorta di ormai fisiologica accettazione: hai scritto di queste cose, o meglio hai ripreso questo cose, non puoi che essere condannato.
Spesso la morte non è neanche la cosa peggiore. Chi prende questa posizione, chi usa la parola per raccontare, per trasformare, paga un prezzo altissimo, nella delegittimazione, nell’isolamento e in quello che devono pagare i loro cari. La poetessa russa Anna Achmatova vive il periodo della rivoluzione bolscevica, il regime la considera una dissidente, una sorta di scarto della società del passato da modificare. Il suo ex marito che è un grandissimo poeta, viene fucilato, bisognava indebolirla in tutti i modi. Lei era già diventata una poetessa di fama soprattutto in Francia, quindi era difficile toccarla senza dare un’immagine repressiva della Russia sovietica. La prima cosa che fanno è cercare di spezzarle la schiena poetica: le arrestano il figlio. Lei è disposta a scambiare la vita del figlio con la sua. Non serve a molto, lui resta in carcere e lei racconta una scena bellissima: ogni mattina migliaia di donne si mettevano in fila davanti alle carceri sovietiche portando dei pacchi, spesso vuoti, soltanto per vedere l’espressione del secondino. Se il secondino accettava il pacco significava che la persona, marito, figlio, fratello, padre, era viva. Se non lo accettavano era stata fucilata. Quando lei si presenta il secondino la riconosce: "Ma lei è Anna Achmatova". Lei fa cenno di sì, e la persona che sta dietro: "Ma lei è una poetessa, quindi può raccontare tutto questo". Lì c’è una poetessa, piccola magra, devastata dai suoi drammi, che diventa all’improvviso la speranza. I versi diventano la speranza: può raccontare, può far esistere, cioè può trasformare.
Mi sono sempre chiesto come si fa a vivere così, come hanno fatto queste persone a sopportare decenni di delegittimazione, per aver scritto poesie o anche solo delle canzoni. Come è successo a Miriam Makeba, a cui il governo bianco sudafricano ha inflitto trent’anni di esilio per il disco "Pata pata", una canzone che racconta di una ragazza che vuole solo danzare, divertirsi, che vuole essere felice. Ma questo fa paura, voler vivere meglio fa paura, Miriam Makeba fa paura. E più canta nei teatri di tutto il mondo, più l’Africa intera si riconosce in quella canzone, che non parla di indipendenza, di lotta ai bianchi, ma di voglia di vivere e felicità. Fin quando non arriva il governo Mandela che la richiama in Sudafrica. È anche questa l’incredibile potenza della parola. Per questo sono convinto che il racconto sia parte del diritto, non può esistere il diritto senza racconto. Ma oggi, e non è solo la mia opinione, in Italia chi racconta ha paura. Certo, siamo in una democrazia, non abbiamo a che fare con un regime, con le carceri. Non siamo in Cina. Ma non si può negare che chiunque oggi decida di prendere in Italia una posizione critica contro il potere, contro il governo, rischia la delegittimazione, rischia di essere travolto dalla macchina del fango. Quando accende il computer per iniziare a scrivere sa già cosa gli può succedere. La formula è scientifica e collaudata: "Se tu racconti quello che dai magistrati è considerato un mio crimine, io racconto il tuo privato. Tutti hanno scheletri nell’armadio, quindi meglio che abbassiate lo sguardo e molliate la presa".
Ma per gli intellettuali raccontare è una necessità, comunque la si pensi. E in queste ore il loro compito è quello di dire che non siamo tutti uguali, non facciamo tutti le stesse cose. Certo, tutti abbiamo debolezze e contraddizioni, ma diverso è l’errore dal crimine, diversa è la corruzione dalla debolezza. Mentre si cerca di far passare il concetto che siamo tutti "storti" per coprire le storture di qualcuno. Oggi si parla molto di gossip e il gossip è rischioso, perché lo si usa per nascondere i fatti emersi dalle inchieste e per dimostrare che "fanno tutti schifo". E il compito, ancora una volta, delle persone che ascoltano, che scrivono e che poi parlano, è quello di discernere, di capire, ovunque esse siano, con i figli a tavola, nei bar, comunque la pensino.
C’è una bellissima preghiera di Tommaso Moro: Dio aiutami ad avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, di sopportare le cose che non posso cambiare ma soprattutto dammi l’intelligenza per capire la differenza. Questo è il momento in cui in noi possiamo trovare la forza di cambiare e comprendere finalmente che non dobbiamo credere che tutto quello che accade sia inevitabile e quindi soltanto sopportare.
Infine, dedico questa laurea e questa giornata, che ovviamente non dimenticherò per tutta la vita, a tre magistrati: alla Boccassini, a Forno e a Sangermano, che stanno vivendo, credo, giornate complicate solo per aver fatto il loro mestiere di giustizia.
* la Repubblica, 23 gennaio 2011