[...] Quali sono state le fonti che hai utilizzato per scrivere questo spettacolo? E per quanto tempo ci hai lavorato?
"La gestazione di Cani di bancata è durata un anno. Per costruire questa pièce ho letto il Vangelo, tanto e a lungo, e non per ragioni religiose, anche se la componente del sacro è parte della cultura mafiosa, ma perché trovo che sia un grande libro e una grande opera d’arte. Ho studiato la vita di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, e migliaia di faldoni di documenti processuali. Ho ripreso in mano il libro di John Dick su Cosa nostra, ma soprattutto sono ritornata all’opera di Leonardo Sciascia" [...]
Cosa nostra è femmina
RIVELAZIONI Si definisce "teatrante" e cura da cima a fondo i suoi spettacoli, tutti sulla mafia. Nell’ultimo, Emma Dante lancia un’accusa feroce
di Chiara Dino *
L’ultima cena di Emma Dante è un rito blasfemo, una messinscena grottesca, una ridondante invettiva contro quanti si adoperano a far credere ancora che la mafia sia solamente folclore e coppole, sgarri e regolamenti di conti. Una citazione religiosa spiazzante, ecco cos’è il canovaccio di Cani di bancata, il nuovo spettacolo della "teatrante" - come lei stessa ama definirsi - palermitana, prodotto dal Crt Teatro dell’Arte di Milano.
Presentato in anteprima al Nuovo Montevergini, nel capoluogo siciliano, fino al prossimo mese di marzo sarà in tournée in tutta Italia. È il lavoro di un’artista poco apprezzata nella sua città ma adorata nel resto d’Italia e in Europa, che usa il teatro come una macchina capace di generare emozioni violente, il più possibile aderenti a quelle che prova lei stessa: suoi sono i testi, sua la regia, suoi i costumi e le scene. Il risultato è una pièce che, scardinando l’immagine di una mafia da cartolina, lancia un atto di accusa feroce contro la sonnolenta accettazione del sovvertimento delle regole e della violazione della giustizia nell’Italia intera.
Emma Dante lavora dal ’93, e si è affermata con lo spettacolo mPalermu (2001), che ha scritto e diretto. Sono seguiti Carnezzeria (2002, con cui ha vinto il Premio Ubu), Medea (con Iaia Forte, 2003) e Vita mia (2004). L’abbiamo incontrata a Milano, la metropoli che l’ha accolta e l’ha lanciata nell’empireo del teatro di ricerca, permettendole di mettere in scena la sua ultima creazione.
Da mPalermu a Cani di bancata, il filo che lega i vari capitoli del tuo lavoro è sempre una riflessione sul fenomeno mafioso. Che cosa è diventata Cosa nostra oggi, secondo te?
"La mafia significa sovvertimento delle regole, un fenomeno che è accettato oramai a tutti i livelli. Nel mio ultimo spettacolo il capo dei capi, il mammasantissima, è una donna, che imbandisce una tavola dove i commensali fanno a brandelli l’Italia intera e se la spartiscono in maniera scientifica. La scena si apre con una citazione religiosa, in cui la donna-boss dà il segnale d’inizio della cena recitando un Padre nostro sovvertito, L’incipit, in questo caso, è: ’Madre nostra...’. Tutto questo è un espediente per raccontare in maniera visiva la parte folcloristica del fenomeno mafioso. La femmina rappresenta colei che custodisce i valori dell’organizzazione, che ne rende possibile la permanenza in vita. È indispensabile all’esistenza di Cosa nostra, ma rimane dietro le quinte e non gestisce alcun potere. La donna rappresenta l’architettura di un’organizzazione che si manifesta nella gestione dello Stato, anzi, che è lo Stato".
Puoi provare a spiegarci meglio questo tuo pensiero?
"Quindici anni fa, vent’anni fa, nel periodo della guerra tra cosche a Palermo e poi degli omicidi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, offendere il mafioso, anche solamente con le parole, era un atto di accusa potenzialmente pericoloso, un forte gesto di rottura. Ancora prima, a causa della sua ostinazione nel denunciare i boss, aveva perso la vita il giovane Peppino Impastato (fondatore di Radio Aut, voce contro nel piccolo paese di Cinisi e autore del più importante atto di accusa contro gli interessi di Cosa nostra nel territorio dove è sorto l’aeroporto di Palermo; nel 2000 la sua vicenda ha ispirato il film I cento passi di Marco Tullio Giordana, ndr). Oggi, tutto questo è acqua passata. Ai giorni nostri, i mafiosi se ne fregano di chi parla male della loro organizzazione. Anzi, fanno campagne contro la mafia, investono denaro in attività di denuncia, perché non hanno più bisogno di proteggersi come in passato. Il punto è che, fino a pochi anni fa, il boss era quello che incontravi mentre guidava contromano per le vie di Palermo, e con cui non osavi discutere per paura. Oggi il capomafia si è ripulito, ha abbandonato gli abiti del cafone, non commette infrazioni e gira con la macchina blu per le strade di Roma".
Non è consolante, quello che dici.
"Lo so, ma è la verità. La mafia ha insegnato un metodo, e continua a tenere in vita l’humus indispensabile perché questo metodo possa essere efficace per molto tempo ancora. Però, si è trasferita ai piani alti della politica".
È una novità, questa? Nel nostro Paese sono stati intentati molti processi contro grandi personaggi dello Stato, e spesso sono finiti con assoluzioni.
"So anche questo, e rispetto gli esiti processuali. Credo nella giustizia e ho fiducia nella magistratura, ma questo non cambia il sistema. Nella mia città, ho visto personaggi inquisiti per mafia mettersi alla testa di campagne di sensibilizzazione contro i reati che si attribuivano loro".
Quindi, è inutile anche cercare di combattere la guerra contro Cosa nostra?
"No, non è questo il punto. Giovanni Falcone diceva sempre che la mafia è un fenomeno umano e storico. L’inevitabile conseguenza è che, come ogni cosa degli uomini, Cosa nostra è nata, avrà un suo percorso di vita e morirà. Mi sembra un’idea ragionevole, condivido questo modo di vedere le cose. Il vero punto, allora, è: bisogna centrare l’obiettivo, evitare di disperdere le energie e combattere contro il vero nemico".
E qual è il vero nemico? L’humus culturale che alimenta la mafia o i responsabili di fatti concreti?
"Vuoi sapere come la penso davvero? Annientare il fenomeno mafioso è compito dello Stato, della magistratura, delle istituzioni. Pretendere che un commerciante palermitano non paghi il pizzo, rifiuti di soccombere al ricatto dei mammasantissima, è un’ipocrisia. Se questo commerciante non gode di alcuna protezione da parte delle forze dell’ordine, chiedergli un comportamento del genere significa votarlo al martirio. Io credo nel lavoro dei magistrati, della polizia e dei carabinieri, innanzitutto. Poi è ovvio che, in parallelo, si debba intervenire sulla mentalità della gente, facendo tutto il possibile per estirpare l’abitudine all’omertà e la violenza dell’individualismo. Non basta, tuttavia, ragionare in termini sociologici. Dobbiamo continuare a parlare e a raccontare in giro quello che avviene nel nostro Paese".
Quindi, tu sei convinta che il territorio siciliano dovrebbe essere presidiato, un po’ come si sta provando a fare, in questi giorni, con Napoli?
"Non ho ricette per risolvere i problemi di Napoli, e non so se sia giusto, in questo momento, presidiarne il territorio. Forse sì. Ma ricordo cosa successe a Palermo, dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino. La città era piena di ragazzini con i mitra spianati più spaventati di noi. Non mi sembrò una misura efficace. Tanto più perché arrivò dopo che Falcone aveva già subito un attentato, e nessuno gli aveva creduto. Lo avevano delegittimato e lasciato solo: una condizione perfetta e insostituibile per chi, poi, lo avrebbe fatto saltare in aria. Non sono le misure straordinarie a risolvere il problema. Basterebbe che fosse applicata la legge, che i processi avessero un iter più veloce, che le sanzioni - anche contro le infrazioni banali - venissero veramente applicate".
La logica del "chi sbaglia paga", insomma.
"Esattamente: dovrebbe funzionare così, a tutti i livelli e anche velocemente".
Come si vive in Sicilia in questo momento?
"Si respirano uno strano torpore e una generale noncuranza. Non si parla granché del fenomeno e, anche se se ne parla, nessuno ha più alcuna paura delle denunce verbali. Alle più recenti elezioni regionali, Rita Borsellino ha perso contro Totò Cuffaro (Borsellino ha però ottenuto il 41,63% dei consensi, ndr) perché non è stata sostenuta dai suoi compagni di partito. Eppure, lei doveva essere il fiore all’occhiello del movimento antimafioso, per storia familiare (è sorella di paolo Borsellino, ndr) ma anche personale. È una grande donna, che si è sempre impegnata in prima persona per estirpare alla radice la cultura mafiosa, portando la sua testimonianza ovunque, soprattutto nelle scuole".
Torniamo per un attimo allo spettacolo in scena, in questi giorni, al teatro Palladium di Roma. È tutto pensato e costruito da te. Non deleghi mai, a nessuno? In altre parole: esiste qualcuno in cui hai fiducia, o di cui ascolti i suggerimenti?
"Non sono una regista né un’attrice: sono una teatrante. I miei spettacoli nascono dall’urgenza di raccontare cose che riguardano tutti, ma che io sento implodere dentro. È per questo che faccio tutto da sola. Però, sono una che sa ascoltare. O meglio, che, con il tempo, ha imparato ad ascoltare".
Mi fai un esempio?
"Per Cani di bancata avevo pensato a un finale diverso. È stato Sisto Dalla Palma (patron di Crt, uomo di teatro da sempre, oltre che produttore di Emma Dante, ndr) a spiazzarmi con le sue osservazioni. Mi ha detto: ’Parli di mafia, eppure, nel tuo spettacolo, non ci sono omicidi né morti. Non credi che la violenza dell’organizzazione mafiosa dovrebbe palesarsi in maniera ben più evidente?’. Ci ho pensato su, e mi sono convinta dell’opportunità di cambiare il copione".
Perché lo hai fatto?
"Perché aveva ragione lui. Perché se è possibile che, nel mio lavoro, gli "uomini d’onore" riuniti intorno al desco del mammasantissima si dividano l’Italia ribaltando la cartina geografica del nostro Paese, se è possibile che vada a buon fine quanto il capo dice loro, ’Andate per il mondo e mescolatevi’, se tutto questo è possibile, lo si deve al fatto che, sotto sotto, questi personaggi sanno perfettamente che il prezzo da pagare, se non rispetteranno i diktat del boss, è quello più alto, e cioè le loro stesse vite. La mafia è più violenta di altre organizzazioni malavitose perché il suo metodo prevede la soluzione finale".
Quali sono state le fonti che hai utilizzato per scrivere questo spettacolo? E per quanto tempo ci hai lavorato?
"La gestazione di Cani di bancata è durata un anno. Per costruire questa pièce ho letto il Vangelo, tanto e a lungo, e non per ragioni religiose, anche se la componente del sacro è parte della cultura mafiosa, ma perché trovo che sia un grande libro e una grande opera d’arte. Ho studiato la vita di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, e migliaia di faldoni di documenti processuali. Ho ripreso in mano il libro di John Dick su Cosa nostra, ma soprattutto sono ritornata all’opera di Leonardo Sciascia".
Qualcosa in particolare?
"Ho riletto tutto quello che Sciascia ha pubblicato. Trovo che sia uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento. È lo stesso tessuto narrativo delle sue storie a spiegare il fenomeno mafioso".
In che senso?
"Italo Calvino diceva che il romanzo giallo di Sciascia è la perfetta dimostrazione di come sia impossibile scrivere un giallo ambientato in Sicilia. Un controsenso geniale. In tutti i suoi libri aleggia la figura del responsabile di un delitto e di varie azioni criminose. Il lettore lo sa, riconosce il reo, ma dimostrare la sua colpevolezza è impossibile. I suoi scritti sono perfetti proprio per questo".
Qual è, oggi, il tuo rapporto con Palermo?
"È la mia città, ci vivo, la amo e la odio. Mi sono allontanata dalla Sicilia più volte, ma poi sono sempre tornata. Insomma, prendo la mia terra come punto di partenza e di ispirazione, come un luogo da cui trarre le ragioni profonde del mio fare teatro, ma poi cerco di guardare altrove. È un problema d’identità. Credo che tutti noi dobbiamo appartenere a un luogo, ma, allo stesso tempo, essere capaci di mescolarci con modi di vedere la vita diversi dai nostri. Riuscire a rimanere se stessi senza però fossilizzarsi nei cliché".
* la Repubblica/D, n. 527, 02.12.2006, pp. 91-96.
Per approfondire e allargare il discorso, si cfr. nel sito:
Pronto il calendario con le foto degli esercenti che hanno osato sfidare Cosa Nostra. "E’ un segnale forte che in questa città si può vivere in modo limpido"
Commercianti palermitani in posa per un 2007 libero dal racket mafioso *
PALERMO - Non sono famosi e non sono neppure belli, ma per sostenere la loro causa hanno deciso di farsi fotografare per un calendario. Sono i commercianti palermitani dell’associazione Addiopizzo che hanno osato sfidare apertamente il racket delle estorsioni mafiose. Le immagini in bianco e nero di 47 di loro scandiranno il 2007 di un volume da tavolo di 24 pagine rilegate con un vermiglione e con copertina in cartoncino.
Il progetto è stato ideato e realizzato da Affiche, in collaborazione con il Comitato Addiopizzo, e sarà presentato ufficialmente presso la Galleria Affiche il 14 dicembre, alle 20.30, unitamente a una mostra dei servizi fotografici che resterà esposta sino al 6 gennaio 2007.
"Obiettivo di questa iniziativa è quello di diffondere la conoscenza della realtà quasi triennale di Addiopizzo - afferma una nota - e della campagna ’Contro il pizzo cambia i consumi’, volta a sostenere quanti hanno il coraggio di dire no a questa odiosa tassa della mafia".
L’organizzazione non è nuova a iniziative provocatorie. Tre anni fa, in una notte, riempì la città di adesivi listati a lutto in cui si leggeva "Un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Usciti dall’anonimato alcuni mesi dopo le affissioni, i ragazzi di Addiopizzo non sono certo rimasti con le mani in mano. E’ loro la campagna ’Contro il racket cambia consumi’: una sorta di appello interattivo a commercianti e consumatori; gli uni chiamati a dichiarare di non avere ceduto al ricatto dell’estorsione mafiosa, gli altri a comprare solo da chi non paga il pizzo.
"Volevamo dimostrare visivamente alle persone che ci siamo", spiega Antonella Sgrillo, proprietaria, insieme al marito, del ristorante ’Il mirto e la rosa. "Questo calendario - dice - è un segnale forte che a Palermo si può vivere in modo limpido e che questa città non è solo lo stagno immobile che molti pensano". E la paura di esporsi? "Non ci siamo posti neppure il problema - aggiunge - Anzi tra gli scopi c’era proprio quello di stimolare chi ha il timore di venire fuori".
Il calendario, di cui sono già state stampate 5000 copie, sarà disponibile a partire dal 14 dicembre con un contributo minimo di 10 euro. Per il momento sarà disponibile solo a Palermo, presso la Galleria Affiche e i banchetti organizzati dai componenti del Comitato.
* la Repubblica, 7 dicembre 2006.