INTERVISTA A PIETRO CITATI
di PAOLO MAURI *
LA CASTELLACCIA (GROSSETO). «Trent’ anni fa volevo scrivere un libro intitolato Il futuro dell’ Odissea. Un libro che narrasse le vicende e la fortuna del poema fino ai nostri giorni. Era un progetto impossibile. Ero terrorizzato dalla ricchezza della bibliografia. Vent’ anni fa feci pubblicare dalla Fondazione Valla una nuova edizione e traduzione dell’ Odissea anche allo scopo di fare il punto circa gli studi dedicati al poema omerico. Pensavo di poter cominciare il mio libro, ma la paura non era passata. La bibliografia, anche solo quella degli ultimi sessant’ anni, restava e resta immensa. Si è scritto molto specie in Inghilterra e negli Stati Uniti. Il paradosso vuole che sia l’ America, un paese senza passato, a curarsi di più del nostro passato. Sei anni fa, quando finalmente mi sono deciso a scrivere La mente colorata, restavano appunto due problemi: l’ immensità della bibliografia di cui parlavo prima e i misteri dell’ Odissea. Perché, pur essendo un poema che piace immensamente ai bambini, l’ Odissea è misteriosa. A cominciare dal suo autore».
Ora il libro è pronto: esce oggi da Mondadori (pagg. 324, euro 17,60), è un racconto rapido e persino leggero a fronte di una materia sconfinata, di una erudizione immensa che si avverte appena in filigrana. Non riapre la «questione omerica», che ha ossessionato per secoli gli studiosi, ma affaccia ipotesi molto interessanti. I capitoli ruotano intorno ai personaggi e ai grandi episodi del poema. Ma non solo.
Per parlarne ho raggiunto Citati nella sua casa di campagna nei dintorni di Grosseto. Stanze ampie, un po’ austere, silenziose. Ci sediamo in un salotto davanti ad un grande camino, ovviamente spento.
«Non abbiamo nessun dato storico, reale, che ci permetta di distinguere l’ autore dell’ Iliade dall’ autore dell’ Odissea. Sappiamo che i poeti omerici nel corso di due o tre secoli scrivono i due poemi e gli Inni omeridi e sappiamo che chi ha scritto l’ Odissea conosceva bene l’ Iliade: tanto che vi allude continuamente e si prende gioco di passi dell’ Iliade. L’ Odissea per alcuni aspetti è il totale rovesciamento dell’ Iliade e propone un mondo che è il contrario di quello: alta, sublime la prima, parodistica e bassa la seconda. Gli antichi pensavano ad uno stesso poeta che avesse scritto l’ Iliade in gioventù e l’ Odissea in vecchiaia. Preferisco immaginare due grandi poeti diversi, ma naturalmente non ho nessuna prova».
«La più famosa opposizione di dei greci, immaginata da Nietzsche, è quella tra Apollo e Dioniso, la forma e la frenesia, che si conciliavano però dividendosi a Delfi il regno della profezia. Omero conosceva senz’ altro Dioniso ma ne parla poco forse perché non era legato alla poesia epica, mentre sia Apollo che Ermes sono legati alla nascita della poesia. Apollo sovrintende alla poesia, è un suo dono. Ermes costruisce la lira e canta due volte, poi Apollo si fa dare la lira: da allora la poesia diventerà una cosa solo apollinea. Ma per tornare alla sua domanda, penso che gli dei antichi non siano mai morti. L’apollineo, il dionisiaco e l’ ermetico sono categorie ancora valide per noi. I miti greci sono ancora vivi per la civiltà occidentale e dunque Apollo è ancora vivo. Il cristianesimo ha creduto di eliminarlo distruggendone i templi, ma le categorie sono sopravvissute. Apollo è ancora qui».
«La poesia può morire, ma non è morta quella dell’ Odissea che ancora oggi ci appare viva e modernissima. L’ Odissea non è più, come l’ Iliade, il canto del mondo epico. L’ Odissea segna proprio l’ inizio del mondo moderno quando tutte le istituzioni del mondo arcaico spariscono. Nell’ Iliade gli dei appaiono come sono e si mescolano agli uomini e agli eroi, nell’ Odissea la divinità è sempre mascherata, salvo che non tratti con popoli antichi come gli Etiopi o i Feaci, residuo di un mondo doppio ancora memore dell’ età dell’ oro che però è irraggiungibile per tutti gli altri uomini. Ulisse, uomo moderno, non vede mai direttamente gli dei».
«Esistono l’una accanto all’ altra l’ età dell’ oro che, secondo Esiodo è ormai tramontata, il mondo dei Feaci, che è a metà strada tra età dell’ oro e mondo moderno, ed esiste il mondo moderno impersonato da Ulisse. Ulisse è un uomo molto complesso che soltanto alla fine si comporta da eroe. E molti sono i suoi attributi: sa parlare, ingannare, lavorare con le mani. è un grande artigiano che, per quei tempi, significa un uomo che conosce le tecniche nuove».
«Sì, ma mi lasci dire subito che Polifemo è stato calunniato dagli studiosi che ne hanno fatto un barbaro. In realtà l’ Odissea ce lo descrive come titolare di un ordine mirabile, di una geometria perfetta. Egli vive ancora nell’ età dell’ oro, che è quella in cui non c’ è fatica umana. Dispone i suoi armenti, i suoi formaggi, secondo un piano molto preciso. Ulisse arriverà a sconvolgerlo. Ma Ulisse è protetto dagli dei ed agisce con astuzia. Usando il legno arroventato si dimostra capace di inventare un’ arma in base alle sue conoscenze tecniche di uomo moderno. Ma per tornare all’ artigianato il capolavoro di Ulisse, che è poi il centro del suo mondo, è il famoso talamo nuziale preparato per Penelope a Itaca. Poi c’ è il cavallo di Troia, la zattera che gli serve per lasciare dopo sette anni l’ isola di Calipso e forse il fermaglio d’ oro che porta sul mantello nel viaggio a Troia. Quello che noi non sappiamo è se il mondo moderno piace al secondo Omero, o se ha dei rimpianti per il mondo antico, in cui uomini e animali vivevano insieme e gli dei si lasciavano vedere. Da questo punto di vista l’ Odissea è impenetrabile. Però dalla conclusione sappiamo che anche nel mondo moderno, cioè fuori dall’età dell’ oro, si può essere felici. I popoli che vivono sotto la guida di Ulisse sono prosperi e felici. Ulisse e suo padre Laerte ne parlano nell’ ultimo canto. La salvezza sta nel ritorno ciclico delle cose, come avviene in natura. Laerte regala ad Ulisse bambino delle piante e dei beni e così farà Ulisse con Telemaco in un ciclo che, appunto, si ripete».
«Pensavano che Omero fosse uno scrittore a un solo piano e che i suoi personaggi - questo è stato scritto anche trenta o quarant’ anni fa - fossero privi di psicologia. è assolutamente incredibile e lo è specialmente per l’ Odissea dove c’è un’ arte psicologica estremamente pronunciata. Il poema è a più piani e, al fondo, si arriva al mistero assoluto. Su Penelope, per esempio, che è uno dei personaggi più misteriosi e studiati ci sono state discussioni infinite che non possono arrivare ad una conclusione certa. è lei la vera eroina del poema, l’ unica che possegga l’ arte dei segni segreti: quelli che legano una persona all’altra esprimendo un rapporto particolare, per esempio tra marito e moglie. Nell’ ultimo libro saranno le Muse a cantare Penelope, mentre la gloria del suo sposo toccherà ai poeti futuri. Ancora: i personaggi cambiano. Ulisse, quando è dai Feaci, cambia continuamente il proprio atteggiamento. Ora piange ed è insicuro, ora è pronto a giurare sulla propria gloria, ora è travolto dalla passione e dal ricordo dei compagni caduti in guerra, ora è dimentico di tutto ciò. C’ è un passaggio continuo».
«Omero non spiega mai quello che accade e omette molti passaggi. Balzac fa molti commenti mentre Kafka non commenta mai e tralascia molti passaggi: Il processo e Il castello sono fondati soprattutto sull’ omissione. Dal punto di vista narrativo Kafka e il secondo Omero raccontano assolutamente allo stesso modo. Siamo di fronte al fatto sconvolgente che le istituzioni stilistiche del romanzo moderno sono già presenti nell’ Odissea. Così come, altro dato da sottolineare, l’ Odissea non è un racconto lineare ma è costituita da una serie di motivi che vengono abbandonati e poi ripresi e intrecciati in modo sinfonico. Su questo hanno insistito molto Goethe nel Wilhelm Meister e Tolstoj in Guerra e pace e Anna Karenina. I temi che ritornano e si intrecciano sono un altro elemento di estrema modernità del poema. Altro elemento tipico dell’ Odissea è il rinvio. Quando ci si avvicina ad una soluzione: per esempio Ulisse deve farsi riconoscere dai Feaci oppure Penelope riconosce Ulisse ecco che si introduce una dilazione, un rinvio continuo».
«Assolutamente. L’ Odissea è un capolavoro della suspense come pochi altri, anche se noi, conoscendo già il contenuto del poema, perdiamo un po’ l’effetto che è tutto interno alla narrazione. Ulisse non si fa riconoscere mai, si maschera sempre. Il motivo del rinvio è legato al nascondere. Un altro tema tipico del romanzo moderno».
«Ulisse non dice il proprio nome: per esempio non lo dice ai Feaci. Ci metterà tre libri prima di rivelarlo. Ma in Omero tutti sembrano partecipare a questa pratica dell’ occultamento e del rinvio. Telemaco non dice il nome del padre, Eumeo non svela il nome del padrone. Si può fare l’ ipotesi che Ulisse, uomo come abbiamo detto multiforme, sapesse in cuor suo di essere anche nessuno. E possiamo pensare, sempre per ipotesi perché altro non possiamo dire, che avesse scoperto questo lato della propria personalità quando era prigioniero di Calipso. Prima di allora Ulisse dice di essere Nessuno a Polifemo ma poi svela il proprio nome e deve affrontare l’ ira del ciclope e di suo padre Poseidone. Ai Feaci tarda a dire il proprio nome perché teme d’essere nessuno. Poi si decide e parla della propria gloria, ma l’ambiguità rimane. Anche alla fine del poema, tornato a Itaca, dovrà fingere di essere un mendicante, un nuovo nessuno».
«Ulisse non è un poeta come Achille, che canta sulla lira le imprese degli eroi. Ulisse invece non conosce la poesia e neanche la capisce perché crede che l’ unica cosa importante nella poesia sia l’ essere presente, la veridicità del testimone, mentre nella poesia epica ciò che conta è l’ ispirazione. Ulisse è invece un maestro nell’ arte del racconto e inventa tutte le forme del racconto moderno. Inventa il racconto fantastico con le sue avventure tra i mostri e inventa il racconto romanzesco nelle storie che narra a Eumeo. Il racconto può essere sia vero sia bugiardo. Quello che fa ad Alcinoo, nell’ isola dei Feaci, è sicuramente vero, l’ Odissea ce lo conferma in altre sue parti. Ma quando incontra Atena senza riconoscerla e quando parla con Eumeo Ulisse fa racconti bugiardi. Ulisse racconta menzogne con un particolare piacere, ama mentire. è quello che odia in lui Achille. Ma Ulisse sa che raccontare menzogne, ingannare il pubblico, è l’arte più difficile che esista, come appunto diceva Manganelli».
«è così. Quando Ulisse racconta la propria vicenda ai Feaci in primo luogo usa la fascinazione. Non c’è nell’ Odissea nessun narratore che sia più affascinante di lui. Ora la fascinazione non è la caratteristica essenziale della poesia ma del racconto. Affascinando Alcinoo e gli altri Feaci, Ulisse impedisce loro di dormire. è quello che noi diciamo ancora oggi parlando di romanzi che ci tengono svegli ed è tipico dell’ Odissea. La poesia invece, secondo Pindaro, dà il sonno, o, secondo Esiodo, fa dimenticare. Ulisse invece non dimentica mai e non fa mai dimenticare e risveglia in tutti il dono dell’ insonnia».
«Itaca è l’ unica isola reale, anzi è il cuore del mondo reale dove si vive, si soffre e si muore. Ma le isole sono anche la chiave del mondo fantastico di Omero, quasi tutti i luoghi in cui Ulisse approda sono isole: quella di Circe, quella di Calipso, quella di Eolo ed stata l’ Odissea a porre l’ isola come luogo principe del fantastico, una tematica ripresa persino dalla tradizione araba nelle Mille e una notte. In più l’ isola è il luogo in cui qualcuno è rinchiuso, segregato. Questi due aspetti, il fantastico e la segregazione, convivono in Omero».
«Quando Ulisse sbarca nell’ isola dei Ciclopi e vi resta un giorno, scopre un luogo selvaggio e fuori dal tempo dove nulla viene coltivato. La descrizione dell’ attracco è stata probabilmente il modello che Stevenson ha usato per l’ attracco di Jim e dei pirati».
«Il modello di Ulisse è un eroe orientale, Gilgamesh. Ma Gilgamesh non vuole morire, mentre Ulisse accetta la morte. Tuttavia resta ai margini del regno dei morti, non scende nel fondo dell’ Ade. Saranno i morti ad andare da lui ed altri ne vedrà da lontano. Quindi l’ esperienza di Ulisse è un’ esperienza dei margini della morte, non della morte in quanto tale. In realtà Ulisse teme Persefone, e la sua incarnazione, la Gorgone, che muta chi la guarda in pietra. Ulisse appartiene alla vita. L’ Ade descritta da Omero è un luogo completamente secco, senza umidità, senza nessun segno di vita. Le anime non hanno conoscenza né memoria: le anime sono pura nebbia. Quando Ulisse tenta di abbracciare la madre per tre volte, le braccia ritornano vuote al petto. Come poi accadrà ad Enea e a Dante: segno che ogni rapporto con il mondo dei morti è impossibile. Ulisse attraversa l’ Oceano, che è il luogo della fecondità per eccellenza, per arrivare al regno del secco, della morte. L’ Ade è il più spaventoso luogo di morte immaginato da un poeta».
«Neppure l’ Iliade aveva una fine, ma solo una fine annunciata. Nell’ Odissea Tiresia dall’ Ade predice il ritorno di Ulisse a Itaca e un suo ultimo viaggio per placare Poseidone e poi la morte dell’ eroe. Ma si tratta di un annuncio, non di una rappresentazione. Tiresia annuncia a Ulisse una dolce morte lontano o, secondo un’ altra lezione, fuori dal mare. La fine di Ulisse resta dunque un mistero».
«è una traduzione sommaria dell’ aggettivo poikilometes, delle caratteristiche che Omero attribuisce sia ad Ermes che ad Ulisse. Rende l’ idea dell’ essere multiforme e capace di assumere sembianze, colori, riflessi e incanti diversi».
* Fonte: la Repubbica,10 settembre 2002
L’Odissea - sta... (P. Citati, La mente colorata) |
FILOLOGIA E LETTERATURA...
"L’INNOMINABILE ATTUALE" (2017): "LE TORRI ERANO DUE - E GEMELLE"
Calasso e la dittatura digitale
di Flavio Cuniberto (insula europea, 26 Agosto 2022)
Ha pensato bene di andarsene, a ottant’anni appena compiuti, nel luglio del 2021: giusto in tempo per non assistere alla fase più furibonda della campagna vaccinale e delle polemiche sulla pandemia. Prolifico fino all’ultimo, ha ancora pubblicato nel 2019 il suo «racconto» della Bibbia (Il libro di tutti i libri, omaggio tardivo alle sue origini), e sempre aggirandosi tra gli arcani medio-orientali, La tavoletta dei destini, sulla sapienza babilonese (2020). Ma a parte molte cose minori, ora in uscita anche postume, non vi è dubbio che il «testamento spirituale» di Roberto Calasso sia L’Innominabile attuale, uscito nel 2017, alla vigilia dei Grandi Eventi più recenti. Nella saggistica di livello dedicata alla lettura dei «segni dei tempi» è difficile trovare qualcosa di più intelligente di questo dittico, un vero «messaggio nella bottiglia». Rapsodico - è un mosaico di riflessioni-aforismi - riesce a toccare tutti i punti nevralgici del presente con una profondità di sguardo che è quasi inutile cercare altrove, e li tocca raccogliendoli intorno a un primo tema o leitmotiv: l’Uomo Secolare, «amputato» della dimensione trascendente (o metafisico-simbolica), campione della tarda modernità e avviato al suo esito «transumano», definito «un immane sconvolgimento psichico».
Figura-tipo dell’Uomo Secolare è il Turista, lanciato alla scoperta della varietà - delle forme, dei paesaggi, dei luoghi - ma a condizione di osservarla dietro la vetrina distanziante del suo occhio moderno, che lo rende «ontologicamente» altro, diverso dal nativo, radicato nel suo villaggio polinesiano o nella sua campagna irlandese. E se l’Uomo Secolare è, in fondo, l’Uomo Estetico, è come dire, commentando, che il Turismo è la variante spaziale del Museo, perché il turista viaggia anzitutto nello spazio mentre il secondo è un viaggio anzitutto nel tempo; il turista è nomade, il visitatore è stanziale, salvo convergere nella fruizione di una varietà illimitata e cangiante di oggetti fuori contesto (il museo li decontestualizza materialmente, il turista li visita in apparenza nel loro contesto, ma di fatto astraendo da quel contesto nella forma del museo en plein air).
Anticipato genialmente dalla coppia flaubertiana di Bouvard et Pécuchet, e portato a perfezione dal Web e dalla sua illimitata multifunzionalità, l’Uomo Secolare si taglia fuori dalla dimensione del Rito, che diventa tutt’al più un rito laico, abolendo ogni riferimento a un Elemento invisibile, esterno e tuttavia reale e presente. Alla dimensione dei significati subentra quella illusoria e onnipervasiva dei programmi di simulazione su base digitale. Al paradigma digitale Calasso contrappone il vecchio paradigma analogico, e al Turista contrappone l’Analogista, che non è il semplice globe-trotter a caccia di varietà ma lo studioso che rintraccia analogie tra le forme più lontane (e qui Calasso fornisce un ritratto diagonale di se stesso). Se mai, ciò che accomuna l’Analogista al Turista è il fatto di non appartenere ad alcuna confessione religiosa: l’Analogista-Calasso è un libero cercatore dello spirito, magneticamente attratto dalle affinità, dalle convergenze. Calasso allo specchio denuncia così il proprio limite di fondo, il rifiuto di uscire da quella prigione moderna che si annuncia come la rottura di tutti i vincoli, a cominciare dai vincoli religiosi e confessionali. (Di questo limite, che non vuole varcare, sembra essere però ironicamente consapevole, al punto da dedicare un ritratto pungente allo «spiritual but not religious» [l’SBNR], categoria in espansione, che raccoglie l’eredità nella vecchia New Age e da cui Calasso prende aristocraticamente le distanze sentendosene, però, in qualche modo contagiato).
Il rifiuto brillante, caustico, del Paradigma Digitale e dei suoi orizzonti di simulazione illusionistica, basterebbe a motivare il libro e a funzionare come «messaggio nella bottiglia». Ma il libro è uno strano dittico, dove al pamphlet anti-digitale viene accostata una incalzante rievocazione del Terzo Reich: una serie di aforismi, testimonianze, riflessioni acuminate sull’ascesa e la luciferina apoteosi e caduta del Reich hitleriano. Anche questa seconda parte, grondante di atrocità novecentesca, basterebbe da sé a motivare il libro, e forse anche il messaggio: come monito contro il pericolo delle tirannidi future, a cui la cosiddetta democrazia potrebbe aprire la strada «per vie legali» (come a Hitler nel 1933). Ma a rendere straordinario il dittico è proprio l’accostamento, che pare incongruo, tra le due parti. Perché Calasso conclude la sua opera saggistica (a parte i grandi «racconti») con una abbagliante riflessione sull’enigma hitleriano? O meglio: perché abbinare l’enigma hitleriano come il cuore di tenebra del ’900 alla rivoluzione digitale come evento capitale del secolo XXI? Tra le due parti scocca un arco voltaico che si potrebbe definire «esoterico», nel senso che non è «nominato», non è messo in forma di parole: è, appunto l’«innominabile» nella sua lancinante «attualità». Raccogliendo il messaggio nella bottiglia, spetta al lettore dare un nome all’Innominabile: e così lo Sterminio e la Razza Pura - i due baricentri satanici del nazionasocialismo - diventano, a una lettura «stereoscopica» del dittico, quanto di più attuale sia possibile immaginare: lo Sterminio è quello del «continuo» (analogico) da parte del «discreto» (digitale), e la Razza Pura è quella chiamata a costruire l’Intelligenza Artificiale sulla base del «discreto», il codice binario e i suoi sofisticatissimi sviluppi nanotecnologici. Quella che uno scrittore visionario di fine ‘800 (non citato da Calasso), Bulwer-Lytton, chiamava «la razza futura» (The Coming Race), e che uno scrittore contemporaneo, ugualmente non citato da Calasso, Yuval Noah Harari, definisce «l’uomo-dio», integralmente tecnologico.
Che il nazismo possa «ritornare» nelle vecchie forme - Capo Carismatico e adunate oceaniche, parate militari e sventolio di stendardi sanguigni - è un’ingenuità che il libro non si permette nemmeno di sfiorare. È l’egemonia tecnologica a tenere in scacco e a riplasmare oggi le coordinate base della vita associata. Gli anni successivi all’89 sono gli anni del graduale imporsi della Rete, e poi via via di tutte le innovazioni connesse alla Rete, in una progressione micidiale resa possibile dalla miniaturizzazione incalzante dei circuiti: dal PC allo smartphone multifunzionale, alle prossime tappe della Simulazione Digitale. È questo l’ambiente, lo «spazio» in cui si installa il nuovo regime autoritario. Non contando più sulla centralità di un Partito, ma su una costellazione di mega-aziende, ormai in grado di «cannibalizzare» il potere politico e di controllare, via marketing, sterminate masse di consumatori. Per non parlare della formidabile funzione di «ammortizzatore» sociale assegnata ai social network, come arena di una «discussione pubblica» virtualizzata e di fatto neutralizzata.
Tutto questo il libro non lo dice apertamente (resta appunto «innominabile»), ed è perciò, in questa forma, una semplice chiosa, un tentativo di commento. Calasso si limita a mettere i due fenomeni (il digitale e il nazismo) in cortocircuito, a farli reagire l’uno sull’altro con un gesto stilisticamente perentorio. E con un un gesto, ancora, di estrema eleganza (Calasso resta alla fine un dandy baudelairiano impenitente), i due quadri giustapposti che formano il dittico sono raccordati nell’ultima pagina dalla visione onirica - ripresa da Baudelaire - di una Torre enorme sul punto di crollare. Le Torri, come sappiamo, in realtà sono due, e sono «gemelle» (non a caso è l’ultima parola del libro). L’enigmatico disastro che apre il XXI secolo, evocato di sponda, attraverso un sogno di Baudelaire, funge così da raccordo temporale tra le due parti del libro, suggerendo che le due parti vanno sovrapposte e fuse. Non potendo essere fino in fondo uomo della Tradizione (da cui si sa modernamente escluso), Calasso ha voluto però suggerire i contorni di quella Contro-Tradizione, come parodia politica e parodia spirituale, di cui aveva compreso acutamente i meccanismi sottili. Nessuno, finora, ha saputo fare di meglio.
NOTA
LE DUE "COLONNE D’ERCOLE" E IL SORGERE DELLA TERRA.
"L’INNOMINABILE ATTUALE" (2017). RobertoCalasso "[...]si limita a mettere i due fenomeni (il digitale e il nazismo) in cortocircuito, a farli reagire l’uno sull’altro con un gesto stilisticamente perentorio. E con un un gesto, ancora, di estrema eleganza (Calasso resta alla fine un dandy baudelairiano impenitente), i due quadri giustapposti che formano il dittico sono raccordati nell’ultima pagina dalla visione onirica - ripresa da Baudelaire - di una Torre enorme sul punto di crollare. Le Torri, come sappiamo, in realtà sono due, e sono «gemelle» (non a caso è l’ultima parola del libro). [...] Non potendo essere fino in fondo uomo della Tradizione (da cui si sa modernamente escluso), Calasso ha voluto però suggerire i contorni di quella Contro-Tradizione, come parodia politica e parodia spirituale, di cui aveva compreso acutamente i meccanismi sottili. Nessuno, finora, ha saputo fare di meglio" (Flavio Piero Cuniberto).
"LA MENTE COLORATA" (2002). Ma è proprio del tutto così? Non si colloca forse il viaggio di Calasso nella stesso orizzonte di Omero, Dante Alighieri, e Pietro Citati, verso una Terra illuminata da "due Soli" (Dante 2021)?
Federico La Sala
VETRO SOFFIATO*
Quando Citati si identifica con Dio
di Eugenio Scalfari *
Lo scrittore, dopo le biografie di Goethe, Tolstoj, Kafka, ora affronta i Vangeli. Ma immedesimarsi in un romanziere è possibile. Diverso farlo con Gesù Cristo
Pietro Citati ha scritto un libro uscito di recente con l’editore Mondadori. È intitolato “I Vangeli” e dice con chiarezza qual è l’argomento. Sono 152 pagine e illustrano i quattro Vangeli sinottici valendosi anche di alcune interpretazioni specialistiche ma soprattutto dell’eccezionale capacità di Citati di raccontare il testo che gli interessa.
Uso la parola “raccontare” perché è così che lavora Citati ed è così che è diventato uno dei più importanti scrittori italiani anzi, almeno secondo me, il più importante. Conosco Citati da molti anni durante i quali abbiamo lavorato insieme per “Repubblica”. Di solito veniva definito un critico letterario e forse lo fu nei suoi primissimi anni, ma non è mai stata questa la sua vocazione. Non era un critico letterario e non è stato neppure un romanziere anche se un paio di romanzi li ha scritti e non erano affatto male, anzi furono giudicati positivamente dai suoi recensori e da lui stesso. Di solito Citati non si autoelogia ma in questo caso lo ha fatto, probabilmente perché essere un romanziere lo tenta molto. Però non lo è. È uno scrittore molto particolare, sceglie un autore e lo racconta, lo fa vivere a suo modo sulle sue pagine, lo interpreta, lo riscrive, si identifica con lui. Addirittura diventa lui stesso. Il testo non è più di quell’autore ma è suo. Così ha fatto con Goethe, con Kafka, con Tolstoj, con Leopardi e con una infinità di altri, alle volte dedicando loro un libro oppure un ampio articolo sul giornale dove da alcuni anni scrive, il “Corriere della Sera”.
Qualche giorno fa è stato intervistato sul “Foglio” da Gloria Piccioni sul tema dei Vangeli. È un’intervista interessante perché Citati racconta in quale modo ha letto le Sacre Scritture, i Vangeli certamente, ma anche i libri dei profeti, di Isaia soprattutto, ma non soltanto. Insomma il suo personaggio è Gesù, anzi Gesù Cristo, Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio; Dio a sua volta non è soltanto il Padre, ma è anche il Figlio prima ancora di incarnarsi. Il libro che Citati ha scritto ha dunque Dio come personaggio. Attenzione però: Citati è cristiano, non è agnostico, non è ateo. Non so fino a che punto sia un cristiano praticante, di quelli che vanno alla Messa tutti i giorni o almeno tutte le domeniche e frequentano regolarmente i Sacramenti. Ma questi sono dettagli, l’importanza è la fede e Citati la fede ce l’ha e non ne fa mistero.
A questo punto la lettura del suo libro mi pone una domanda: può un cristiano scrivere un libro che usa le Scritture e ricostruisce attraverso di esse la vita di Dio? Del suo Dio? Nel libro “I Vangeli” l’autore usa le Sacre Scritture come testi veridici prodotti direttamente da Gesù Cristo: Gesù disse, Gesù fece, Gesù pensò, Gesù era Dio e Dio Gesù, Gesù nato da Maria, Giuseppe avvertito dall’Arcangelo Gabriele, la natività a Betlemme, il Sacro Bambino deposto nella mangiatoia e così via, fino alle parole dette al Getsemani, ma forse non dette, e quelle pronunciate mentre spirava sulla Croce ma forse non dette neppure queste.
Gesù Cristo parla, Citati lo fa parlare, ma lui ha anche la fede con la quale deve irrevocabilmente fare i conti ed ha anche il suo impegno di scrittore ed anche con quello (dovrebbe) fare i conti. E il conto principale è questo: i Vangeli furono scritti da evangelisti che non conobbero Gesù, vissero e scrissero alcuni anni dopo la sua morte, non furono testimoni diretti, salvo forse Giovanni, del quale però molte analisi storiche mettono in dubbio che sia stato l’Apostolo. Marco a un certo punto dice che fu chiamato da Gesù ma lo dice Marco, perché di Gesù di Nazareth non possediamo alcun segno e alcuna parola che non sia riferita e quindi interpretata da chi la riferisce. Citati cita spesso nel suo libro Gesù come se fosse una fonte diretta, ma non lo è affatto.
Per me, che sono miscredente, i Vangeli sono racconti e non possono essere scambiati come fonti della Sacra Parola. Citati scrive a suo modo quattro racconti ma lui, cristiano, ce li presenta come fonti dirette. È accettabile questo metodo da me che non credo?
Io non so se avrà voglia di rispondere a questa domanda, ma quello che a me pare sicuro è che questa volta si è accinto ad un compito affascinante quanto impossibile: ci si può identificare sicuramente con Tolstoj o con Dostoevskij ma può un cristiano identificarsi con Dio?
Certamente lo può, i mistici nei loro momenti più intensi riescono proprio a far questo e lo racconta molto bene Agostino in un punto essenziale delle sue “Confessioni”. Il mistico si identifica con Dio quando riesce a dimenticare il proprio io, la propria memoria, la propria esistenza e fa tutt’uno con la Luce che emana dal Signore. Questi momenti di identificazione mistica durano un attimo perché poi l’io ritorna ad esistere e quando l’io esiste il misticismo non c’è più.
Citati non è certamente un mistico, Citati è uno scrittore e come tale si identifica con gli altri scrittori, prende il loro posto, diventa l’autore della loro opera e ne risponde direttamente. Ma può fare questo con Dio-Cristo essendo cristiano?
* Fonte: L’Espresso, 07 novembre 2014