Alexandre Kojève un ateo alla corte di dio
A quarant’anni dalla morte escono una biografia e un suo libro
Morì nel giugno del 1968 a Bruxelles. Aveva visto e vissuto la rivoluzione bolscevica, e la rivolta studentesca gli parve un gioco da ragazzi
Decretò la fine della storia
È stato una delle grandi menti del ’900. Per Bataille e Queneau fu una guida spirituale
"Il filosofo della domenica" e "L’ateismo" saranno presentati questa sera a Roma
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 16.06.2008)
Durante una delle rare conferenze, che con piglio snobistico amava ancora tenere, malgrado gli impegni da alto funzionario dello Stato francese, Alexandre Kojève fu colto da una crisi cardiaca. Era il 1968. Morì nel pieno della contestazione studentesca, alla quale aveva guardato con somma ironia. Morì a Bruxelles, ai primi di giugno. Morì, come muore un enigma. Alcuni infatti si chiesero chi fosse stato veramente quell’uomo ricco di sottigliezze e di humour, refrattario alle luci della ribalta e da qualcuno rimpianto come una delle grandi teste filosofiche del Novecento.
Pochi allora seppero fornire una risposta decente o semplicemente adeguata. In vita non aveva pubblicato quasi nulla e su quel leggendario seminario tenuto all’ École pratique des Haute Études tra il 1933 e il 1939, da tempo era sceso il silenzio. Chi ricordava più quel russo dall’aria dolcemente tagliente mentre affilava il pensiero sul metallo della Fenomenologia di Hegel? Certo Georges Bataille e Raymond Queneau conservavano di lui l’idea che fosse la loro guida spirituale.
Indiscutibilmente Aron lo considerava un genio della parola. Leo Strauss si divertiva a spedire i suoi allievi americani a far conoscenza a Parigi di questo strano intellettuale, che andando via da Mosca, dove era nato nel 1902, aveva scelto la Francia come patria di elezione. Ma per il resto, solo l’alta burocrazia francese, nella quale era entrato dal 1945, poteva delibare la versatilità e l’acribia spirituale di questo insolito dotto. Altrove, negli ambienti dell’esistenzialismo e dell’impegno, c’era stata la rimozione. Quasi che la statura del personaggio fosse troppo ingombrante e, in definitiva, provocatoria per essere assimilata a qualche docile parrocchia, magari dall’odore sartriano.
Da quei quarant’anni dalla sua scomparsa il fantasma Kojève ha preso forma e colore sorprendenti. Si pubblicano i suoi libri (molti dei quali postumi), l’ultimo in ordine di apparizione è dedicato all’ateismo e su di lui escono saggi, e ricostruzioni a metà strada tra il profilo intellettuale e biografico. Bella e documentatissima quella che Marco Filoni gli ha dedicato (Il filosofo della domenica, edito da Bollati Boringhieri, pagg. 259, euro 19). Sia de L’ateismo (curato da Elettra Stimilli e Marco Filoni, tradotto dal russo da Claudia Zonghetti, edizioni Quodilibet, pagg 182, Euro 22) che de Il filosofo della domenica, ne parleranno stasera alle 18 nella libreria romana di Bibli Roberto Esposito, Giacomo Marramao, insieme ai curatori.
Per tutta la vita quest’uomo raffinato e oziosamente determinato a convincere i suoi uditori che davanti avevano semplicemente la reincarnazione dell’ultimo grande hegeliano, cercò nella paradossalità la forma più efficace del suo pensiero. Qualunque gesto, ipotesi, scelta, ossessione, risultato marciava sotto le insegne del paradosso. Paradossale, infatti, che si paragonasse a Dio, che considerava, come ci ricorda Filoni, un collega. Paradossale che da quel grande incantatore filosofico di serpenti che si era dimostrato, avesse chiuso con le Università, le Écoles, i Collèges, le Accademie e si fosse dato alla grigia arte del funzionariato statale. Paradossale che egli fosse uno stalinista al servizio della democrazia. Paradossale che avesse scritto di fisica quantistica per parlare di religione. Paradossale che avesse sentenziato che la storia (quell’impasto di violenza e politica, di nazione e impero) era finita. Paradossale che un uomo mondanamente raffinato - come poteva esserlo un russo della buona borghesia postzarista - avesse preferito vivere nel sobborgo di Vanves piuttosto che nella scintillante Parigi. Ma questo era Kojève: uno che se ne infischiava delle conclusioni comuni. Un sofista allenatissimo a smontare le ovvietà del pensiero.
C’è una foto che risale alla metà degli anni Venti e che lo ritrae come parte di un singolare e affascinante terzetto. Kojève è seduto a una tavola imbandita insieme all’amante, Cecile Leonidovda Soutak e allo zio, il pittore Vasilij Kandinskij. Sopra alla tovaglia bianca si vedono tra l’altro bicchieri, piatti, una bottiglia di Champagne. Cecile è protesa verso l’aristocratica figura di Kandinskij che sembra intenzionato ad accogliere le confidenze della donna, la quale trattiene un braccio sulle spalle di Kojève che, leggermente chino, sta bevendo, forse della birra. La mano che gli sfiora la nuca è in quel momento il solo serio legame tra il filosofo e gli altri due. Per il resto, concentrato com’è sulla coppa, appare estraneo alla conversazione e agli sguardi incrociati della donna e dello zio. Non è solo una scena colma di artificio cinematografico. Nella quale ci si poteva imbattere nella Berlino del 1925. Non è solo un perfetto fotogramma di un possibile Harold Lloyd mentre prepara la gag dello Champagne versandoselo sulla camicia. È che quella foto ci mostra esattamente il modo di Kojève di stare contemporaneamente dentro e fuori dalla piena vita. Ne è ai margini per meglio conoscerne i segreti del centro. E anche questo in fondo era uno dei tanti paradossi che amava interpretare: essere invisibile, come del resto era Dio.
Per questo russo cresciuto con il pane dell’apocalisse (assai efficace la ricostruzione che ne fa Filoni), Dio diventò un’ossessione talmente forte da rovesciarsi paradossalmente nel suo contrario, cioè in una forma di radicale ateismo. Al tema in questione Kojève dedicò un testo del 1931. La posizione del giovane filosofo, che da qualche anno si era trasferito a Parigi, è netta: «Per l’ateo non esiste nulla al di fuori del mondo». Per il teista, figura che si contrappone in un certo senso all’ateo, «Dio è solamente un qualcosa, ma è un qualcosa "d’altro" dall’"uomo nel mondo"». Il guaio, osserva Kojève, è che il teista non riesce a dimostrare che cosa sia questo "altro" senza in qualche modo riportarlo alla datità del nostro mondo. L’ateo, insomma, avrebbe la meglio se non fosse che anche nel suo ragionamento si nasconde il paradosso. Se non esiste nulla al di fuori del mondo è in quel "nulla" che si dovrebbe collocare Dio. «E il nulla non può essere dato, ma noi ne parliamo, foss’anche solo per dire che non se ne può parlare». Questo paradosso non è specifico del ragionamento dell’ateo. Tanto è vero, che in un testo del 1929 di Heidegger, Che cos’è la metafisica, che Kojève ha letto e apprezzato, viene posta la questione filosofica fondamentale (come rileva opportunamente Elettra Stimilli nella postfazione) del problema del negativo, ovvero della creazione del nulla.
Non è il caso qui di addentrarci in sottigliezze concettuali. Il testo sull’ateismo precede di due anni il corso sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, dove verrà riaffermata con forza l’idea che l’intero sistema filosofico messo in piedi da Hegel è ateo. Sono molti i punti di contatto fra lo scritto del 1931 e l’Introduction à la lecture de Hegel, che vedrà la luce grazie alla cura di Queneau nel 1947. Basti pensare alla ripresa dei temi dell’angoscia e della paura della morte per coglierne la continuità di pensiero. Ma è soprattutto nella declinazione del concetto di "desiderio" non già o non semplicemente come desiderio di qualcosa ma soprattutto come "desiderio del desiderio" che si individua lo stretto nesso tra il desiderio come assenza e il nulla da cui esso ha origine.
Kojève immaginò che l’ateismo non fosse la pura e semplice banalizzazione della questione divina, ma la sua più complessa realizzazione filosofica. Non parlava da laico, ma da teologo senza Dio. E tuttavia ossessionato dal suo fantasma. Ma se fosse stata solo l’ossessione a guidarne il pensiero ci troveremmo davanti a un caso di rilevanza psichiatrica. La verità è che nella testa di questo filosofo, che finì col preferire le geishe alle signore parigine, c’era l’ambizione di ricollocare l’uomo nel mondo senza più quelle scissioni, tragedie, lacerazioni che l’idea stessa di Dio provoca. Ambiva a una "vita piena", che oggi, con qualche azzardo, chiameremmo "post-umana", dove il dolore e la pesantezza sono soppiantati dall’ironia e dalla saggezza.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
ALEXANDRE KOJÈVE (Scheda).
Una metafisica troppo ‘nobile’ del desiderio: A. Kojève e J. Lacan (Roberto Finelli).
IL DESIDERIO DEL DESIDERIO."Il desiderio antropògeno differisce dunque dal desiderio animale per il fatto che si dirige non verso un oggetto reale, ‘positivo’, dato, ma verso un altro desiderio. Così per esempio, nel rapporto tra l’uomo e la donna, il desiderio è umano unicamente se l’uno non desidera il corpo bensì il desiderio dell’altro, se vuole ‘possedere’ o ‘assimilare’ il desiderio assunto come tale, se cioè vuole essere ‘desiderato’, ‘amato’, o, meglio ancora, ‘riconosciuto’ nel suo valore umano, nella sua realtà di individuo umano" (Kojeve).
Federico La Sala
Filosofia / Libri
Kojève: tra diritto e giustizia
di Francesco Valagussa (Doppiozero, 9 Agosto 2024)
Prendete il primo foglio dell’opera, datato 8 giugno 1942, e troverete scritto La notion du Droit (Exposé provisoire). Se invece prendete il foglio del 12 giugno 1943, lì potrete leggere finalmente Fenomenologia del Diritto. Chi volesse verificare di persona, non ha che da recarsi alla Biblioteca nazionale di Francia, a Parigi, e chiedere di consultare il Fonds Alexandre Kojève. Il testo era rimasto inedito sino al 1981, quando era stato pubblicato per i tipi di Gallimard.
Finalmente oggi - verrebbe da dire: ahimè, solo oggi - esce la traduzione italiana. Stiamo parlando dei Lineamenti di una fenomenologia del diritto. Esposizione provvisoria, tradotto da Alberto Folin e curato da Marco Filoni e Luigi Garofalo, recentemente apparso per Marsilio nella collana Firmamenti.
Noi non staremo qui a fare l’elenco degli intellettuali francesi che assistevano alle lezioni di Kojève: ormai basta pronunciare i primi nomi della formazione tipo - quella che comincia con Lacan, Queneau e Bataille - per dare un’idea dell’influenza esercitata dal filosofo russo nella Francia degli anni Trenta, prima che la guerra costringesse a sospendere quel laboratorio di analisi del pensiero hegeliano. Pochi testi hanno raggiunto una simile intensità ermeneutica ed esercitato un influsso tanto vasto nel corso del Novecento: se oggi qualcuno volesse studiare la dialettica del riconoscimento, dovrebbe ammettere che è praticamente impossibile affrontare la lettura della Fenomenologia dello spirito senza contrarre un debito anche con Kojève.
Insomma, se l’Introduzione alla lettura di Hegel si è rivelata nel tempo uno strumento ormai insostituibile per l’analisi e la comprensione della dialettica hegeliana, questa esposizione dei lineamenti di una fenomenologia del diritto offre certamente nuovi raggi di luce che illuminano il pensiero politico e giuridico di Hegel.
Elaborato e articolato in parallelo a un altro contributo preziosissimo, che reca il titolo La nozione di autorità, l’Esquisse si presenta sottoforma di un testo colmo di tensioni - o come sottolinea uno dei curatori, Marco Filoni, sin dal titolo del suo saggio, capace di mettere in scena una efficace ambiguità, su vari fronti. Efficace perché produttiva, in pieno stile hegeliano: la contraddizione non indica debolezza, ma è piuttosto l’anima e anzi rivela la vitalità stessa della cosa. La cosa vive, e si sviluppa, e procede se internamente mossa dalla contraddizione. Questa profonda convinzione hegeliana, ma diremmo caratteristica di tutta la grande filosofia in generale, è stata trasmessa da Hegel a questo suo grande interprete novecentesco al punto che tale inquietudine traspare dal suo stile, dal suo modo di pensare e di impostare pressoché ogni argomento. Facciamo un esempio. Come abbiamo detto, il testo venne scritto tra il 1942 e il 1943: della guerra che imperversava per l’Europa - una guerra immane, il cui esito risultava all’epoca ancora totalmente in bilico - non si trova il minimo accenno. Eppure, a nostro avviso, la guerra risuona in ogni pagina.
Il numero tre, infatti, costituisce il simbolo per eccellenza del diritto. L’arbitro - sulla cui trasformazione da mero spettatore a giudice ha speso pagine di rara bellezza Émile Benveniste nel suo vocabolario delle istituzioni indoeuropee - è colui che dirime, è il “terzo imparziale” che è in grado di porre termine alla disputa, proprio in quanto si colloca su un altro piano rispetto ai contendenti.
Questo elemento “C” chiamato a intervenire nella controversia tra A e B, non soltanto racchiude in sé sia la figura del Legislatore che crea la norma del diritto, sia il Giudice che la applica a un caso determinato (cfr. ivi, p. 58), ma addirittura, presentandosi come onnipotente, assume una veste quasi divina. Sono temi su cui si erano già soffermati, alcuni decenni prima di Kojève, autori come Simmel, nella sua Sociologia, dove parlava del tertium gaudens, e per altri versi lo stesso Weber nel suo capolavoro incompiuto Economia e società. È vero, infatti, che spesso il Diritto viene concepito come derivante o addirittura come qualcosa di garantito da Dio, ma - osserva Kojéve - qui accade anche una curiosa inversione, nella quale Dio stesso viene presentato nelle vesti di Legislatore, Giudice e Giustiziere.
La torsione, dal sapore tipicamente hegeliano, consiste nella capacità di scorgere all’interno del diritto per un verso qualcosa che sorge - e che può sorgere - soltanto all’interno di una società, fatta di usi e costumi storicamente connotati, ma per altro verso come uno dei veicoli tramite cui la società stessa viene in qualche senso “integrata dallo Stato”: in tal senso il Diritto tende così a trasformarsi un Diritto dello Stato e solo a questo livello trova la propria ragione e il proprio compiuto dispiegamento. Stupenda è la formula di Kojève, mediante cui si può apprezzare ulteriormente lo strettissimo nesso che lega il pensiero hegeliano a quello aristotelico: «l’integrazione di una Società autonoma in uno Stato non distrugge completamente il Diritto di questa Società. Lo fa solo passare dall’atto alla potenza. Ora, ogni potenza tende ad attuarsi» (ivi, p. 179).
A questo proposito, l’altro curatore del volume, Luigi Garofalo, ha posto l’attenzione giustamente sul carattere di autonomia del diritto - da intendere, agli occhi di Kojève, come fattore e come vera e propria “espressione della civiltà e della cultura”, irriducibile alla sfera dell’economico, del lavoro, dello scambio, così come risulterebbe vano tentare strane derivazioni a partire dal contesto biologico: «è fin troppo evidente che il Diritto è un fenomeno specificamente umano che non si trova nella natura non umana» (ivi, p. 249). Tipico del Diritto, potremmo dire, è il profondo interesse alla composizione degli interessi delle parti, ma in questo senso appare palese appunto il “disinteresse” come caratura propria del Diritto (cfr. ivi, pp. 277-280): questa precisazione è anche il grimaldello tramite cui l’autore riesce a residuare per il Diritto medesimo uno spazio di autonomia, di irriducibilità, e in particolare di non sudditanza tanto rispetto al campo della morale quanto nei confronti della dimensione sacrale e religiosa.
Tutto questo giro di discorsi riguarda il numero tre, e la sua importanza nella costituzione del diritto come luogo dell’imparzialità che sorge dalla società e che però si rivela capace di integrarne ogni processo e ogni sviluppo. Nella seconda parte dell’opera, tuttavia, ci si concentra sull’origine e l’evoluzione del diritto, quasi a volerlo presentare non soltanto nel suo funzionamento logico-concettuale, bensì anche nella sua intrinseca dinamica storico-congiunturale. Qui emerge il problema dell’autorità mediante cui il Diritto si articola, a partire da un desiderio umano - tutto umano - di riconoscimento: se si decide di affrontare tale dinamica, è inevitabile focalizzarsi sul nesso problematico che lega tra Diritto e Giustizia.
Non sono divagazioni quelle relative alla “giustizia dell’eguaglianza” come modello del Diritto aristocratico e alla “giustizia dell’equivalenza” intesa come modello del Diritto borghese. Qui Kojève riscopre un vero e proprio tarlo della riflessione giuridica occidentale: nessun sistema del diritto può essere ridotto a un’accozzaglia di decisioni arbitrarie o a un novero di ponderazioni elaborate in chiave meramente convenzionale alla luce di compromessi raggiunti di volta in volta in maniera casuale. Se il diritto pretende di assumere una dimensione sistematica, alle sue spalle dovrà risultare operante un’idea di giustizia. Direbbe Vico che alle spalle del corso delle varie nazioni c’è una storia ideale eterna, o meglio - come scriveva nell’edizione del 1725 - «un diritto eterno che corre in tempo».
La questione della fonte del diritto, tuttavia, non può che aprire - in una chiave che segue pedissequamente l’articolazione del Lineamenti hegeliani - al problema del rapporto tra Stati, dove non vi è diritto vigente: all’interno di un singolo Stato vige un certo diritto, ma gli Stati si confrontano tra loro in una perenne lotta che coincide con il corso e l’andamento della storia mondiale. Al posto del numero tre, qui pare dominare appunto il due, secondo la nozione di “differenza etica”, mediante cui Hegel fissava l’autentica incompatibilità tra i diversi Stati europei - o, per usare termini novecenteschi, secondo il binomio amico-nemico, sviluppato da Carl Schmitt: anche in questo caso, la figura e il pensiero del giurista tedesco non vengono mai citati in maniera esplicita, eppure in diversi passaggi di Kojève traspare il confronto-scontro con l’opzione schmittiana.
In particolare, le ultime sezioni dell’Esquisse si concentrano su quelle che potremmo chiamare le “questioni ultime” cui il diritto inevitabilmente accenna già nel corso della propria storia e del proprio sviluppo: impossibile non porre, come tema intrinseco alla prospettiva giuridica, il problema-limite della formazione di uno Stato mondiale, di un diritto internazionale capace effettivamente di collocarsi come un terzo tra le parti. E con quale autorità potremo costruire tale “Stato”, o per lo meno una simile “auctoritas”? Il terzo, il terzo concepito nella sua effettiva imparzialità, nel suo autentico disinteresse si configura insieme come esigenza e come compito.
Come sarà possibile lavorare a costruire questo terzo? Sarà inevitabilmente un terzo in mala fede, sospetterà qualcuno. O forse un terzo che crede di essere tale, in buona fede, senza esserlo davvero. Si potrebbe pensare al terzo come mero garante dell’esecuzione di un’obbligazione. Se così fosse, tuttavia, sarebbe riconducibile al puro e semplice Diritto della Società economica (cfr. ivi, p. 679): un Diritto che sarebbe visto e inteso come l’esito di una mera convenzione sociale. Ma nell’idea di equità, nell’ideale di Giustizia, non risuona forse qualcos’altro, irriducibile alla logica del contratto?
Forse, da questo punto di vista, il Kojève che dopo la guerra smette apparentemente i panni del teorico per trasformarsi in un alto funzionario del Ministero dell’Economia francese, dando un forte impulso alla pianificazione della Comunità europea, non stava facendo altro se non testimoniare l’inscindibilità tipicamente europea di teoria e prassi.
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ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA) E ARTE: UNA NOTA DI ANTROPOGENESI CHIASMATICA (NEXOLOGIA) E DI STORICHE COSTRUZIONI NELL’ ANALISI (S. FREUD, 1937).
I VEGGENTI E L’ IPOTESI DELLA NASCITA DELL’ESSERE UMANO (E DELLA SUA COSCIENZA) DI MICHELANGELO BUONARROTI.
IL "MESSAGGIO" DEI SETTE PROFETI E DELLE CINQUE SIBILLE NELLA VOLTA DELLA CAPPELLA SISTINA E DEI "DUE PROFETI" E DELLE "DUE SIBILLE" DELLA SACRA FAMIGLIA DEL "TONDO DONI".
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CON HEGEL (E PAOLO DI TARSO), OLTRE: UN PROBLEMA DI RICONOSCIMENTO, ALL’ORDINE DEL GIORNO DEL PIANETA TERRA.
DOPO IL FORMIDABILE PUNTO FERMO SUL TEMA DELL’#AUTOCOSCIENZA E DEL RICONOSCIMENTO MESSO DA HEGEL NELLA "#FENOMENOLOGIA DELLO #SPIRITO" (1807), una rimemorazione "storiografica" epocale (da #Delfi a #Jena, e da Socrate e Platone allo stesso Hegel), arrivati a #Paris2024, c’è ancora da riflettere ancora e ancora proprio sul "ri-conoscere" ("an_erkennen"), e, possibilmente e urgentemente, fare un passo oltre lo storico "#compromesso olimpico" della #cosmoteandria della #tragedia! Come mai dopo millenni (e, dopo Napoleone, dopo Auschwitz, e dopo Hiroshima e Nagasaki), si continua a "cantare" il #ritornello dell’ «aner», dell’«uomo» di Paolo di Tarso, e dell’universale #paolinismo:
#Achegiocogiochiamo? A quali "Giochi" si vuole continuare ad aggiogare l’intero Pianeta, la "nave" Terra, nell’oceano celeste (#Keplero)?! Non è ora di cambiare rotta?! E, con #DanteAlighieri, uscire dall’#inferno?!
NOTE:
ANTROPOLOGIA #CRITICA (#KANT) E #VITAEFILOSOFIA (#NIETZSCHE, "#ECCEHOMO", 1888): "LA SOCIETA’ APERTA" (KARL #POPPER) O LA SOCIETA’ CHIUSA?!
RICORDANDO la frase di #Hugo: "Io sono parigino di nascita e «parrisiano» nel parlare, dal momento che «parrhisia» in greco significa libertà" ("Notre Dame de #Paris", L. I, cap. III), OGGI, NON POSSIAMO NON DIRCI "POPPERIANI" E, AL CONTEMPO, NON DIRCI "CRISTIANI" (CON #BENEDETTOCROCE): SI TRATTA DI CAMBIARE ROTTA E ANDARE #OLTRE "L’UOMO" , OLTRE L’#ANDROCENTRISMO E LA #COSMOTEANDRIA DELL’ANTICA #ALLEANZA DELL’ORIZZONTE DELLA "CADUTA", DELLA TRAGEDIA (#PLATONE ED #HEGEL), E DEL #PAOLINISMO COSTANTINIANO (#NICEA, 325-2025).
RICONOSCIMENTO (ANERKENNUNG): RICONOSCER-SI. Tra "Parresia" (parlare chiaro e liberamente) e - #Parousia ("Parusia", #presenza del "divino" nel mondo, nell’ottica teologico-politica socratico-platonica e paolino-hegeliana), corre un rapporto "metafisico" strettissimo che dice proprio se si sta parlando con lo #spirito critico ed evangelico (di libertà uguaglianza fratellanza e sorellanza, nel rispetto della differenza e delle differenze), all’aria aperta e alla luce del Sole ("#Logos"), o nel recinto ("#Logo") dell’ombra del "dio" di turno (quale #AlessandroMagno di fronte a #Diogene di Sinope) di una "preistoria" di lunga durata.
SORGERE DELLA TERRA (#EARTHRISE): CONSIDERAZIONI IN-ATTUALI (2001). "Intorno a noi, la Terra, c’è il "cielo puro" e il "libero mare" - come scriveva Nietzsche, non ci sono gli extra-terrestri, che ci verranno a salvare o a distruggere. Gli extra-terrestri siamo noi! Cosa vogliamo fare? Forse ci conviene deporre le armi e cominciare a dialogare in spirito di verità" (Cfr. Federico La Sala, "L’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, Karol Wojtyla e, p. c., a Nelson Mandela)", Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, p. 48).
FILOLOGIA, ARCHEOLOGIA E ANTROPOLOGIA.
UN VIADOTTO NON E’ UNA PORTA: A VOLER ESSERE, "SEVERI-NO", BISOGNEREBBE "RITORNARE A ELEA".
Una nota a margine del seguente intervento del prof. Francesco Fistetti (apparso su Fbook):
"Schmitt e Kojève, la politica a chiare lettere" ... chiarissimo Francesco Fistetti, condivido: siamo di fronte alla punta di un #iceberg epocale, di una #storia di #lungadurata di #doppiogiochismo e di una "coerenza filosofica" che riposa sulla incomprensione storica della lezione di #Kant e sul principio di contraddizione e sulla #dialettica hegeliana. #MichelFoucault ha risollecitato e riprendere la via del "#sàpereaude!" kantiano (1984), ma l’#Europa, oggi, pensa ancora prima di #Koenigsberg (1784) e, ancora, nell’epoca di #Kaliningrad (2023): un #letargo di secoli (#DanteAlighieri, Pd. XXXIII, 94), che investe tutta la cultura atea e devota. Sul tema, se non sbaglio, Gramsci scriveva: "Il Cristianesimo potrebbe chiamarsi, storicamente, cristianesimo-paolinismo e sarebbe l’espressione più esatta". O no?
Il «cane morto» e la «civetta». Effetto Hegel, a 250 anni dalla nascita
Alla destra del Cane. Alexandre Kojève, hegeliano di destra
Le sue lezioni sulla “Fenomenologia dello spirito”, tenute dal 1933 al 1939 all’École Pratique des Hautes Études e pubblicate nel 1947, segnarono un’intera generazione di intellettuali francesi, da Lacan a Sartre, da Merleau-Ponty a Bataille
di Massimo Palma (DINAMO, 28 dicembre 2020)
Verrà un giorno in cui, parlando di Kojève, ci liberemo dell’elenco.
Da quando è morto a Bruxelles nell’anno di grazia 1968, a qualche giorno dal Maggio, chiunque lo nomini, studiosi serissimi o parvenu affascinati dal mito, chiunque ne parli si tutela dalle perplessità dell’uditorio facendo un elenco. Come a dire che, benché ignoto, Kojève è notissimo. Basta pensare all’elenco. Di cosa, di chi? Di tutti gli intellettuali francesi o francofoni che lo conoscono a lezione, che ne sono influenzati finché morte non li separa. Di storie e storielle di cui è protagonista, narratore, falsario. Come quella di Lacan che corre a rubargli il concetto-chiave della psicoanalisi a venire. O di Jacob Taubes che lo mette sul piedistallo: «il più grande filosofo vivente!». Di Allan Bloom che ci va a cena al Quartier Latin. Di Kandinsky che è lo zio Vassja. E avanti ancora.
Finiti i riti di auto-legittimazione, occorre dirlo, Aleksandr Kožévnikov, russo fino all’Ottobre poi esule in Germania e infine in Francia, per tutti Kojève (1902-1968), fu filosofo hegeliano. Poi sì, fu anche mandarino di livello nella IV e V repubblica francese, commerciante di formaggi nella III, sospetto di spionaggio all life long, partigiano con grandi entrature a Vichy, caffeinomane a Weimar, globetrotter affamato nel dopoguerra. Ed è un altro elenco, in effetti.
E allora concentriamoci sul suo Hegel. Kojève ha scritto tanto anche di Kant e di Platone, ma solo grazie al suo Hegel possiamo stilare elenchi. Perché solo Kojève ha capito Hegel. Lo afferma nelle considerazioni preliminari di quel prodigioso inedito chiamato La nozione di autorità (datato «Marsiglia, 16 maggio 1942», riesumato nel 2004 e uscito da noi con Adelphi come quasi tutto il resto): «bisogna dire che la teoria di Hegel non è mai stata capita davvero e venne dimenticata molto rapidamente». Quale fosse la teoria di Hegel Kojève l’aveva detto qualche riga prima: è quella «che riduce il rapporto dell’Autorità a quello del Signore e del Servo (del Vincitore e del Vinto), dove il primo è stato disposto a rischiare la vita per farsi “riconoscere”, mentre il secondo ha preferito la sottomissione alla morte».
Brutale “macellaio” filosofico, Kojève aveva propagandato questa “polpa” del corpo morto hegeliano in un mirabile seminario - 1933-1939, what a time to be alive - tenuto di fronte a frotte di artisti, immigrati promettenti e normalisti. Quando nel 1947 un editor di nome Raymond Queneau si mise a trascriverli, apparve l’Introduzione alla lettura di Hegel. Per esergo aveva una citazione dei Manoscritti marxiani: «Hegel intende il lavoro come essenza, l’essenza dell’essere umano che si comprova». Sì, quell’Introduzione voleva mettere il lavoro al centro della dialettica - il lavoro come opera dell’essere umano quale agente negativo. Fondando uno Stato sul lavoro, come usava, Kojève aggiornava Hegel a Marx - così pareva - con un lessico tutto antropologico, tutto filosofia dell’esistenza, e in alcune appendici, alcune note proponeva uno «Stato» finale dove i lavoratori diventano cittadini fatti e finiti, che si riconoscono e lavorano il meno possibile, perché la natura è tutta «domata» o quasi. Quasi non sono più uomini.
Erano tempi interessanti, e convulsi: Leo Strauss, finito a New York dopo la persecuzione, ne parlò come «libro completo e intelligente al tempo stesso», ma poi aggiunse che non era vero che nello Stato finale ci sarebbe stato il riconoscimento reciproco universale. Né tantomeno ci sarebbe stata la soddisfazione (l’unica soddisfazione, caso mai, la darebbe la saggezza. Caso mai). E non è che quel «cane morto» (© Karl Marx) di Hegel aveva mai detto cose simili: fine dell’uomo, fine della storia. Proprio no.
A dire il vero, prima del 1933 Kojève non si era mai occupato di Hegel. Poi quell’anno si trova a sostituire Alexandre Koyré e, con un piccolo aiuto dagli amici (Koyré ed Eric Weil), attacca con ferocia il suo tema. Sceglie un solo libro: la Fenomenologia dello spirito. Al suo interno un solo capitolo da cui far scaturire la sua lettura: lo sdoppiamento dell’autocoscienza. Hobbes, la paura della morte violenta, la lotta tutti contro tutti, è sullo sfondo. Ma soprattutto bisogna riunire Marx (lavoro & rivoluzione) e Heidegger (finitezza & temporalità) nelle pagine della lotta servo-signore. Heidegger in Francia è pressoché sconosciuto (salvo Corbin, Bespaloff). Pochissimi sanno che intanto fa il rettore nazista a Friburgo.
Kojève ne tira fuori un’epopea. Pensa alla lotta e al lavoro come princìpi-chiave che Hegel avrebbe estratto dalla vita per far nascere l’essere umano. La lotta e annessa vittoria del Signore la chiama antropogenesi. È l’inizio, il vero inizio della storia. Il resto è noto: il servo lavora, il signore comanda. Il servo prende confidenza con la realtà, il signore la perde. Il servo si appropria dei mezzi di produzione, impara infine a lottare e fa la rivoluzione. Stravince e fa lo Stato finale - Kojève lo chiama «universale e omogeneo», pensa a Napoleone e alla Rivoluzione Francese quando commenta Hegel, pensa a Stalin quando proietta sul contemporaneo. Pazienza per le purghe. L’obiettivo è lì, a portata di mano: cittadini tutti uguali, che si riconoscono e agiscono in base a un principio di equità. Fine della storia.
Ma conta anche quel che è stato in mezzo. Conta, prima e dopo il lavoro, la lotta. E qui Kojève vede Hegel sotto una lente strana, mai vista prima. Punta tutto sul Desiderio - mette sempre la maiuscola, un profluvio di maiuscole. Il desiderio del desiderio dell’altro: ecco il segreto, il motore della dialettica e della storia. Perché chi perde dimostra angoscia, dimostra mera animalità, attaccamento alla vita, non vi istituisce un rapporto negativo - vi aderisce e basta. Invece chi vince - chi ha l’Autorità, dirà in quel testo rimasto in un cassetto - è colui che ha dimostrato di non temere (non avere angoscia) la morte in battaglia, ma di volere impiantarsi nella mente altrui come un «valore» a sé: volere essere riconosciuti come valore autonomo. A generare l’autonomia, a generare l’uomo è una «lotta a morte di puro prestigio».
Kojève vede Hegel sotto lenti speciali, d’impianto recente: Marcel Mauss col suo Saggio sul dono, dove aveva fissato lo spreco come costante antropologica nella rivalità tra capi-tribù. E Carl Schmitt, col suo amico-nemico - la «possibilità reale» di uccidere come fattore determinante del “politico”. Se Mauss era lì e teneva corsi, preoccupato delle derive di certi suoi ascoltatori (Caillois, Bataille), Schmitt invece - con le sue infatuazioni naziste - era pressoché sconosciuto oltre il Reno. Ma Kojève ha più d’una notizia del suo scritto più importante, Il concetto di “politico” (forse da Strauss, che a Schmitt doveva molto nel bene e nel malissimo). Tanto che in un enorme trattato giuridico - il Saggio di una fenomenologia del diritto scritto nel 1943 e lasciato inedito - lo cita due volte: «suppongo note queste due categorie fondamentali, specificamente politiche», dice. Le due categorie sono l’amico e il nemico. Il commilitone, il brother-in-arms, precisa, è l’amico. Il nemico è invece il «nemico militare, che deve cedere o morire; e se non cede e non è ucciso, fa morire». Quella scena complessa della Fenomenologia dello spirito appare ridotta a un crudo confronto bellico, dove sono in gioco dominio e obbedienza, minaccia e sottomissione. E questo, proprio questo, sarebbe specificamente politico. Questa sarebbe la politica.
Che poi per Hegel non sia così, che vi sia un universo di relazioni concrete sociali e statuali, che il “riconoscimento civico” hegeliano sia composito (giuridico, economico, etico) e soddisfacente, Kojève lo sa bene - e lo mima pure nel saggio giuridico. Ma per l’eco suscitata contano i fatti, gli scritti noti.
Anche di fronte al plauso dello stesso Carl Schmitt che ne legge il commento hegeliano e gli scrive ammirato, Kojève lascia tutto il suo versante politico - il diritto, l’autorità, i piani geopolitici dipinti a fine guerra - nel silenzio, nell’inedito. Al pubblico, ai contemporanei, preferisce tracciare di sé un’immagine para-esistenzialista e insieme ironica. Predicare l’imminenza o addirittura la “realtà” della «fine della storia». Sovietica, americana, cinese, nipponica, a seconda dei casi, delle provocazioni, delle note aggiunte fuori tempo massimo, comunque intesa la «fine della storia» sarà una macchina mitologica efficacissima - un dispositivo di neutralizzazione politica. Allan Bloom lo adorerà. Il micidiale Fukuyama ne farà un cocktail post-nietzscheano servito con olive escatologiche. Schmittismo e liberismo si abbracceranno invaghiti sotto un ombrello di maiuscole.
Strano a dirsi, per entrambi la politica sarà affermare di essere un valore per altri, come un Achille, un Aiace, per poi gestire la lunghissima fine di ogni conflitto con l’annoiata sapienza del negoziatore di trattati commerciali, mentre il desiderio va in giro a cercare negazioni e il riconoscimento della propria realtà umana è sancito «ragione ultima di ogni emulazione tra gli uomini e di ogni lotta politica». Davvero tanto di ciò che Kojève ha licenziato per la stampa corteggia una nuova definizione di aristocrazia, all’altezza del trionfo di una borghesia inedita, globalmente spalmata. Lasciando agli oppressi molto consumo e il solo olezzo della lotta passata.
Un giorno, quando ci libereremo dell’elenco di coloro che ha influenzato, plagiato, rimato, nel firmamento hegeliano vedremo Kojève per ciò che è stato nel pensiero del Novecento. Costellazione del Cane - vivo, morto -, in alto a destra.
Festival di Filosofia
AMORE. Perché quando batte il cuore ci sentiamo veramente più umani
Un romanzo, "L’ imperatore del Portogallo", è un esempio di cosa significa amare. Ma c’è una risposta diversa al modo di diventare umani e l’ha fornita Kojève
di TZVETAN TODOROV *
Uno dei più bei romanzi del ventesimo secolo, L’ empereur du Portugal di Selma Lagerlof, inizia con l’episodio nel quale si descrive la nascita di una bambina così come viene percepita dall’ anima di suo padre Jan. Costui è un povero agricoltore, che non possiede nulla, non ha combinato nulla di rilevante. Si è sposato avanti con gli anni ed ecco che la gravidanza della moglie giunge ora al termine. Jan ha trascorso l’ intera giornata attendendo fuori dalla porta, ha freddo, è stanco, pensa a tutte le piccole seccature che la presenza della neonata comporterà per la sua casa. Tuttavia, alla fine entra nella stanza dove la moglie ha partorito e gli mettono tra le braccia un fagotto, dal quale spuntano un visino un po’ sgualcito e delle esili manine.
All’ improvviso sente il cuore battergli così forte in petto da essere quasi impaurito, e subito chiede aiuto alle altre donne lì presenti. Queste afferrano in un batter d’ occhio la situazione, e scoppiano a ridere. «Non avete mai amato abbastanza qualcuno in precedenza, da provare batticuore soltanto adesso?», gli chiede la levatrice. Jan deve ammettere di no, ma comprende che cosa ha appena vissuto. E Selma Lagerlof commenta: «Colui che non sente il proprio cuore battere, né nella tristezza né nella gioia, non può considerarsi un vero essere umano» (pag. 13).
L’ imperatore del Portogallo è la storia di un amore folle, quello di un padre per sua figlia. Ci si accorge immediatamente che la posta in gioco non è insignificante - né per il protagonista, né per l’ autore: si tratta, né più né meno, di identificare che cosa renda gli uomini davvero umani. L’ interrogativo sull’ identità umana può essere formulato nei contesti più disparati, e ricevere di conseguenza risposte quanto mai diverse. La risposta di Lagerlof si colloca su un piano che potremmo definire antropomorfo, che si estrinseca in una sola parola: l’ amore. Ciò che rende questo essere specificatamente umano è la sua capacità di amare. è facile dire di una simile affermazione che è bella o che è nobile, ma ci si potrebbe spingere ad affermare che è vera? Prima di pronunciarmi a questo proposito, vorrei ricordare un altro tentativo di spiegare la specificità umana, che si situa sul medesimo piano antropologico.
Negli anni Trenta del nostro ventesimo secolo, un giovane filosofo russo emigrato a Parigi, Alexandre Kojève, spiega a qualche attento ascoltatore il senso della celebre «dialettica del padrone e del servitore» nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Dopo la guerra, uno degli ascoltatori presenti nel pubblico, Raymond Queneau, pubblicherà quelle conferenze con il titolo Introduzione alla lettura di Hegel, un’ opera che eserciterà una profonda influenza su numerosi autori contemporanei.
La risposta di Hegel alla specificità umana (così come fu interpretata da Kojève) è molto diversa da quella di Lagerlof. In che cosa consiste la differenza tra l’ animale e l’ uomo? Il primo agisce sempre e soltanto in ragione del proprio istinto di conservazione, e a questo fine si appropria di tutto ciò che gli è necessario (per esempio il cibo), eliminando gli ostacoli (i rivali). Il secondo fa altrettanto, ma non si accontenta di questo, ricerca qualcosa di più della sua semplice soddisfazione fisiologica: aspira a far sì che il suo valore sia apprezzato, e questo non può venirgli se non da altri. Dunque l’umanità ha inizio là dove «il desiderio biologico della conservazione della vita» si asservisce «all’ umano desiderio di approvazione» (pag. 170). Ne consegue che essere umani significa essere pronti a rischiare la propria vita per qualcosa che va al di là di essa. Essere umani significa smettere di considerare la propria vita un valore assoluto. Questa situazione estrema agli occhi di Kojève rivela la verità insita nella ricerca di approvazione: poiché tutti desiderano ottenerla e poiché per ottenere ciò che si auspica di ottenere dagli altri è necessario prima di tutto conquistarli, la vita umana non è altro che una spietata lotta finalizzata ad averla vinta, che sfocia con la comparsa di un padrone - il vincitore - e di un servo - il vinto. La storia dell’ umanità è la storia della loro lotta e delle sue ripercussioni (della lotta di classe, dirà Marx).
Kojève può dunque concludere: «L’ esistenza umana, storica, cosciente di se stessa, non è pertanto possibile se non laddove vi sono - o per lo meno vi sono state - delle guerre sanguinarie, delle guerre per il prestigio». Ciò che è specificatamente umano non è più l’ amore, ma la guerra.
La risposta di Kojève è sicuramente meno attraente di quella di Lagerlof, ma è forse meno vera? Molti contemporanei paiono averla prescelta, temendo senza dubbio che li si possa accusare, in caso contrario, di sdolcinatezza (la verità deve essere sempre amara, questo è uno dei sorprendenti postulati della filosofia occidentale moderna).
Rivolgiamoci allora, per cercare di vederci più chiaro, non tanto alla problematica comparsa della specie umana all’ alba della storia, quanto a quella infinitamente più facile da osservare dell’ individuo umano (che ben descrive il primo capitolo de L’ empereur du Portugal). Alla sua nascita il piccolo d’ uomo non si distingue radicalmente da quelli delle altre specie animali, per esempio le scimmie superiori: il bambino aspira a essere confortato, scaldato e nutrito - ma i piccoli delle scimmie fanno altrettanto. Le differenze tuttavia vi sono, e una tra esse acquisisce un significato del tutto particolare. A un’ età che possiamo collocare approssimativamente intorno alla settima o l’ ottava settimana di vita, il lattante fa un gesto che non ha uguali nel mondo animale: non si accontenta più di guardare la madre (questo lo fa dal momento stesso della sua nascita), ma cerca di catturare il suo sguardo, per esserne guardato. Ricerca e contempla lo sguardo che lo contempla: questo è l’ avvenimento grazie al quale il bambino entra in un mondo inequivocabilmente umano.
Vediamo allora che la tesi di Kojève è accettabile soltanto in parte: in una prospettiva antropologica è corretto affermare che l’ esistenza specificatamente umana inizia con il riconoscimento di noi stessi che riceviamo dall’ esterno, da un altro essere umano. è la stessa cosa che aveva già affermato Rousseau, probabile ispiratore di Hegel a questo proposito: all’ alba dell’ umanità «ciascuno iniziò a guardare gli altri e a volerne essere guardato» (Inégalité, pag. 169).
Ma qualsiasi riconoscimento - e qui occorre voltare le spalle a Kojève - non implica necessariamente una lotta mortale. L’ esistenza dell’ individuo, in quanto specificatamente umana, non inizia su un campo di battaglia, bensì con il neonato che attira su di sé lo sguardo della madre - una situazione, ammettiamolo, che pochi uomini hanno avuto l’ occasione di osservare fino a un passato recente. Grazie a quello sguardo inizia a esistere.
Senza riconoscimento, senza intersoggettività, senza società non vi è umanità. E senza amore? Non sappiamo ciò che la sua assenza determinerebbe a livello di specie, ma sappiamo tutti che alcuni individui arrivano, ahimè, ad attraversare l’ intera vita senza mai conoscere l’ amore. «Signor Hamil, si può vivere senza amore?», domanda il piccolo Momo nel capolavoro di Romain Gary La vie devant soi. «Sì, rispose abbassando la testa, come se provasse vergogna. E si mise a piangere» (pag. 12). Coloro che vivono senza amore sono esseri sfortunati, certo, ma indiscutibilmente sono esseri umani.
L’ amore non è invero necessario né alla conservazione della vita né a quella dell’ esistenza, che nasce dal riconoscimento e non dall’ amore. Selma Lagerlof sarebbe forse in disaccordo con questa conclusione? Non credo, infatti l’ autrice non intendeva suggerire che prima della nascita della sua bambina Jan non fosse, sinceramente parlando, un essere umano. Lei ha inteso dire che grazie all’ amore che Jan prova per la figlia egli ha realizzato la propria potenziale identità, ciò che vi è di più elevato nella condizione umana.
Si deve dunque intendere che un «vero essere umano» non è una constatazione di fatto, bensì un giudizio di valore. La migliore vita umana (non la vita umana in sé e per sé, dunque) è quella che vive nell’ amore, pare dirci Lagerlof. E così dicendo anche lei condividerebbe una delle idee costitutive alla base dell’ amor cortese medievale - «nessun uomo ha virtù senza amore» scriveva Bernard de Ventadour - che avrebbe lasciato delle tracce profonde nel concetto europeo di amore.
Traduzione di Anna Bissanti
FESTIVAL DELLA MENTE ...
Anticipazione.
Siamo giunti alla fine della fine della storia?
Il presidente del Censis al Festival di Sarzana si interroga sull’evoluzione del processo storico contemporaneo a quasi trent’anni dalla pubblicazione del saggio best-seller di Fukuyama
di Massimiliano Valerii (Avvenire, venerdì 30 agosto 2019)
Quest’anno ricorre il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino. Con ottimismo e ingenuità, su quelle macerie celebrammo la “fine della storia”, giunta a compimento con il trionfo delle democrazie liberali e del capitalismo, con il crollo rovinoso dei regimi comunisti e l’armistizio della guerra fredda, secondo un progresso che credevamo essere lineare e senza contraddizioni. Ma adesso ci sembra di sporgerci su una nuova frattura della storia. Siamo davvero proiettati in un salto d’epoca? Siamo alla fine della “fine della storia”?
Il libro di Francis Fukuyama sulla “fine della storia” è del 1992 (ma era stato anticipato da un articolo che il politologo americano aveva pubblicato sulla rivista National Interest proprio nel 1989). Divenne rapidamente un best-seller internazionale, tradotto in dozzine di paesi in tutto il mondo. Ebbe un grande successo perché coglieva appieno lo spirito del tempo. Fu osannato da destra come un’apologia del liberismo, che si affermava incontrastato a livello planetario. E suscitò indignazione e infinite polemiche tra gli intellettuali di sinistra, alle prese con la difficile metabolizzazione del lutto per il fallimento dell’ideologia socialista.
Poi, nel 2005, è la volta del saggio di Thomas Friedman sul “mondo piatto”. Lo leggemmo convinti che internet e la rivoluzione tecnologica avrebbero infranto per sempre le pareti spaziali, temporali e culturali che dividevano i paesi del pianeta, che mai più sarebbero stati distanti tra loro come in passato. Il destino appariva segnato, il cammino predefinito secondo necessità. Infine, la copertina dell’Economist nel gennaio di quest’anno titola: «Slowbalisation».
Il riferimento è alla fase di crisi della globalizzazione che stiamo vivendo e al raffreddamento della congiuntura internazionale, con il rallentamento del commercio mondiale e gli investimenti esteri in calo, la «guerra dei dazi», il ritorno del sovranismo, dei confini sigillati degli Stati nazionali, delle frontiere impermeabili in luogo di quelle porose della globalizzazione. Nell’arco di questi trent’anni (1989-2019), dopo la grande crisi e le sue conseguenze, si è consumato il falò delle vanità.
Comincia una nuova storia dopo la fine della storia? Non era un’idea originale di Fukuyama, quella della fine della storia. L’aveva ripresa dal filosofo russo di nascita, naturalizzato francese, Alexandre Kojève. Il quale, tra il 1933 e il 1939, aveva tenuto un leggendario seminario sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel all’École Pratique des Hautes Études di Parigi di fronte a un uditorio d’eccezione. C’erano André Breton, Georges Bataille, Raymond Queneau, Maurice Merleau-Ponty, Jacques Lacan, Raymond Aron, Éric Weil. Secondo Kojève il desiderio umano è l’innesco del processo di autocoscienza e dà origine alla storia. Desiderare significa avvertire la «presenza di un’assenza».
«Il desiderio rende l’uomo inquieto e lo spinge all’azione ». E la storia è lotta, violenza, rivoli di sangue ? «un banco di macellaio», aveva detto Hegel. La storia termina con la Rivoluzione francese (quando si afferma il principio politico universale della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli individui) e con Napoleone (che diffonde il codice civile).
Per Kojève la sfilata delle truppe di Bonaparte sotto le finestre di Hegel al termine della battaglia di Jena del 1806, quando la Grande Armata sconfigge l’esercito della vecchia Prussia, segna il compimento della ragione filosofica e la fine della storia. Scompare cioè l’uomo inteso come soggetto storico in lotta per il riconoscimento. E ora l’umanità si dirige verso la formazione di quello che Kojève chiamò «Stato universale e omogeneo», necessariamente transnazionale, organizzato in una società senza classi, formata da individui post-storici sottratti alla logica del desiderio. Gli avvenimenti successivi (persino le due guerre mondiali, la rivoluzione russa e quella cinese) non saranno altro che la propagazione della fine della storia nel resto del mondo: l’«allineamento delle province».
Kojève aveva in qualche modo previsto la globalizzazione. Oggi però abbiamo la sensazione di trovarci di fronte a un arresto di quel processo. Ma se la storia riparte, riecheggiano le urla della battaglia, il clangore delle armi, il passo assordante dei cortei cruenti dei rivoluzionari, quando una nuova epoca inghiotte l’epoca precedente. La lezione che possiamo trarre è che le moderne democrazie liberali (pienamente compiute alla “fine della storia”) hanno bisogno dello sviluppo economico, perché i fattori fondamentali su cui si sorreggono «accesso di massa ai consumi, istruzione universale, uguaglianza delle opportunità, superamento delle rigide distinzioni di classe attraverso i processi di mobilità sociale, stratificazione del ceto medio» dipendono dalla crescita. Che crea una uguaglianza di fatto, prima ancora che se ne stabilisca una formale attraverso l’estensione dei diritti sociali e civili a chi ne è privo. Se la crescita si ferma, le democrazie liberali vacillano. E a quel punto la storia si rimette in moto con tutto il suo significato tragico. È un monito da tenere a mente nell’Italia inquieta imprigionata nel limbo della crescita da “zero virgola”.
Bataille, le lacrime e la farsa del sovranismo
di Maurizio Morini*
Quello di sovranità è uno di quei termini del linguaggio politico che, negli ultimi tempi, sono stati maggiormente utilizzati e allo stesso tempo fatti oggetto di vero e proprio abuso. Per molti, la sovranità ha acquistato un fascino che va al di là del suo significato storico, tanto da diventare parola mitica per risolvere l’attuale crisi della politica. Georges Bataille, scrittore e filosofo francese vissuto nella prima metà del XX secolo, ne ha fatto invece oggetto di uno studio originale quanto eccentrico, tracciandone genesi e significato.
Attraverso un’analisi che comprende non solo la filosofia ma anche l’antropologia, lo studio delle religioni e la politica, Bataille giunge alla conclusione che la sovranità si definisce come ciò che va al di là dell’utile. Centro della sua speculazione è la nozione di dépense, traducibile dal francese con l’idea di spreco o consumo non necessario: tesi del saggio, che raccoglie una serie di testi scritti in un lungo arco temporale, è che la sovranità consiste in un residuo di libertà personale irriducibile a qualsiasi forma di manipolazione.
Tra Hegel e Nietzsche, passando per Kojève e la scuola etnologica francese
La riflessione di Bataille si sviluppa attorno a diverse costellazioni di pensiero ma finisce per oscillare (senza mai posarsi stabilmente) su due grandi poli della tradizione filosofica recente. Da una parte Hegel il quale, con la figura del servo, ha avuto il merito storico di riscrivere la teoria di Hobbes, che aveva postulato la paura della morte violenta come origine della politica: da ciò deriva l’idea secondo la quale detenere il potere significa coscienza del proprio essere mortali.
Questa rilettura di Hegel come interprete radicale di Hobbes è fatta da Bataille insieme a Kojève il quale, con la visione della dialettica servo padrone dalla parte del servo che libera l’umanità in chiave ateo-comunista, feconda tutta una stirpe di intellettuali. Dall’altra parte Nietzsche, rappresentante del polo del signore, il quale (nonostante le letture denazificanti di Löwith e Jaspers) rimane il teorico della disuguaglianza, in quanto «ogni elevazione del tipo uomo è stata fino ad oggi opera di una società aristocratica, una società cioè che crede in una lunga scala dell’ordine gerarchico e in una difformità di valore tra gli uomini e che ha bisogno della schiavitù».
Tra questi due poli Bataille non prende partito, in quanto egli crede che il senso della storia non è costituito dalla lotta servo padrone ma da un’opposizione radicalmente diversa: quella tra sacro e profano. Più precisamente, lo sviluppo storico dell’umanità si svolge tra tabù e non tabù, secondo la lettura di quel filone di pensiero che coinvolge pensatori come Durkheim e Mauss per i quali la sovranità si scopre legata al fasto e al dispendio, potlach nella lingua e nel cerimoniale delle tribù dei nativi americani, nel quale vengono distrutti beni di particolare prestigio sociale.
La sovranità, perché non di solo pane vive l’uomo
Se queste sono le premesse, che cosa intende Bataille per sovranità? Il suo esordio è quello di non voler considerare la sovranità degli Stati: «La sovranità di cui parlo ha poco a che vedere con quella degli stati, definita dal diritto internazionale» e tuttavia l’assicurazione non convince nel momento in cui ci si accorge che oltre metà della sua analisi riguarda le forme con cui la sovranità si è manifestata (o meglio non si è manifestata) con l’avvento dell’Unione sovietica. Sovrano è ciò che si produce nell’istante e non è mai asservito ad un fine, da cui consegue che come non è sovrano l’utile, così non è sovrana la conoscenza: il che significa che la sovranità non è da ricercarsi né nell’economia né nel possesso delle informazioni.
Solo l’uomo non alienato gode della sovranità, quell’uomo cioè in cui la rappresentazione della morte è scomparsa, perché il senso della storia risiede in quell’unico e vero sviluppo umano costituito dalla liberazione dalla paura della morte. Espressione più autentica della sovranità sono per Bataille le lacrime, perché esse sono frutto del miracolo, cortocircuito di ogni conoscenza. Nel miracolo e nel non sapere, viene negato l’asservimento e l’alienazione a cui è stato ridotto il pensiero («definisco la sovranità pura: il regno miracoloso del non sapere»).
Per Bataille la sovranità è qualcosa che si pone agli antipodi dell’uomo moderno, costruito hobbesianamente sulla paura della morte, ed è invece espressione dell’uomo arcaico, tutto preso dalla meraviglia e dallo stupore, in cui domina la coscienza della festa arcaica.
Come scrive il grande antropologo delle religioni Karl Kerényi, la festa «rivela il senso dell’esistenza quotidiana, l’essenza delle cose che circondano l’uomo e delle forze che agiscono nella sua vita»: essa è la realtà psichica più significativa perché, sospendendo il corso della vita ordinaria, ne rivela il senso. Il manuale della sovranità scrive Bataille è il vangelo con il suo principio aureo secondo cui l’uomo non vive di solo pane ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio. Per questo motivo la sovranità non è qualcosa di oggettivo ma di soggettivo che si comunica a coloro che dispongono già dell’atteggiamento sovrano, che consiste precisamente nella capacità di rinunciare. Il riferimento ai fermi rifiuti del Salvatore alle offerte del diavolo nel deserto, non ha nemmeno bisogno di essere enunciato come esempio tipico.
Il comunismo, ovvero il potere al posto della sovranità
Se questo è vero, allora la negazione più evidente della sovranità è il comunismo in quanto negazione del sacro ed esaltazione dell’essenza del servo, cioè del lavoro. Il lavoro è attesa procrastinata, rinvio del soddisfacimento immediato del desiderio ma anche progetto del servo che vuole abbattere le stratificazioni sociali. Si capisce allora perché tutte le grandi rivoluzioni del mondo moderno sono state contro la sovranità, cioè contro il mondo diviso in classi. In questo senso la storia politica è storia del populismo inteso come continua rivolta contro la sovranità. Anche qui si mostra l’opposizione tra comunismo e vangelo: il primo che subordina l’uomo alla produzione, l’altro che rinuncia a qualsiasi utilità.
L’avvento del comunismo è la radicalizzazione della rivoluzione borghese, ovvero la vittoria del principio del lavoro sopra quello del godimento. A differenza di quanto si crede, gli uomini non vanno verso la sovranità ma verso la servitù determinata dal principio dello scambio indifferenziato. Il potere prende il posto della sovranità con il regno dell’oggettività che si sostituisce a quello della soggettività. «Il potere, in quanto è umano, è il rifiuto della sovranità» allo stesso modo, spiega Bataille, in cui un uomo che decide di non accendere la lampada oppone un rifiuto alla luce. Il potere è privo degli attributi tipici della sovranità, ed è ben rappresentato non solo dalla grigia nomenclatura dei dirigenti sovietici, ma anche dagli esponenti della borghesia i quali, a differenza dei loro cugini comunisti, sono anche comici perché pretendono di imitare quelle vestigia sovrane che non potranno mai indossare per natura. Stesso discorso per coloro, intellettuali e politici, che oggi si schierano a favore del ritorno delle sovranità nazionali, atteggiamento che nasconde una semplice quanto malcelata operazione di potere.
Il niente della sovranità come negazione dell’asservimento
Come detto in precedenza, al concetto di utile si contrappone quello di istante, momento pericoloso in cui il passato e il futuro vengono subordinati al presente. Al lavoro si contrappone il gioco, esaltazione del niente dove anche la guerra perde il suo carattere drammatico. Nietzsche, che costruisce la sua dottrina sul rifiuto di servire, è il grande avversario del comunismo e Bataille scrive di essere il solo pensatore a presentarsi non come suo glossatore ma come identico a lui. Il mondo dell’accumulazione (sia quello borghese che quello comunista) è un mondo che, privo dei valori della sovranità tradizionale, genera una profondissima ipocrisia. Se infatti, sostiene Bataille, l’accumulazione condanna moralmente il rango (perché contrario al lavoro) e la guerra (perché distrugge quanto prodotto), essa non può esaurire la sua ricchezza senza il ricorso al rango e alla guerra: entrambe infatti diventano a loro volta necessarie, sicché «la ricerca del rango è l’ultima umiliazione di una moltitudine comica, mentre la guerra è la bancarotta fraudolenta del genere umano».
Nelle ultime righe del saggio il pensiero va a Kafka, perché negare quell’asservimento a cui conduce il potere, significa ristabilire l’idea che la vera sovranità rimane invariata: «io non sono niente è l’ultima parola della soggettività sovrana liberata dal dominio che esso volle o dovette esercitare sulle cose». Non si tratta evidentemente del nulla metafisico a cui si riferisce l’ontologia, ricorda Bataille, ma di quel niente che, negando l’accumulazione, afferma l’unico diritto autenticamente sovrano: quello su se stessi.
Riferimenti bibliografici
Georges Bataille, La sovranità, SE, Milano, 2009
* "Ritiri Filosofici", 31 marzo 2019 (ripresa parziale - senza immagini).
Claudia Cimmarusti, Dalla relazione. Il desiderio e la legge. Uno studio su Alexandre Kojève
Tesi di dottorato discussa presso l’Università Cattolica di Milano (a.a. 2015/2016)
“Questo studio intende sondare la potenzialità speculativa di una filosofia squisitamente kojèviana che nasca dalla relazione originaria e originante tra il Desiderio e la Legge. Il privilegio ermeneutico accordato a questo plesso per un’indagine monografica dell’opera di Kojève si deve all’intuizione di un’unità fondamentale del suo pensiero.
Si tratta di iniziare una ricerca sulla relazione analizzata alla luce della nuova ontologia che Kojève cercava di pensare. Noi sappiamo che Kojève è passato alla storia come l’«interprete di Hegel», come il doctor subtilis dei leggendari Seminari sulla Fenomenologia dello Spirito. L’Introduction à la lecture de Hegel è stato il Libro-Evento che ha lasciato il segno nel clima della Parigi del bagliore intellettuale degli anni Trenta e dei suoi insigni protagonisti, ma non fu che la punta dell’iceberg della produzione scientifica del nostro autore.
La ricostruzione dell’opera omnia di Kojève, pertanto, è stata la base a partire dalla quale è divenuto possibile questo lavoro. A partire dagli scritti giovanili viene svelata la matrice scientifica e, allo stesso tempo, speculativa della riflessione kojèviana mediante la rilettura del Journal d’un philosophe (1920-1923) e dell’Idée du déterminisme dans la physique classique et dans la physique moderne (1932).
La domanda sottesa, formulata in parte dallo stesso Kojève, è la seguente : è possibile associare la rivoluzione quantistica in fisica alla rivoluzione freudiana considerando che la determinazione relativa della realtà fisica implica e presuppone l’esistenza dell’inconscio psichico ?
Le osservazioni preliminari sulla scienza sono state funzionali a fornire una risposta affermativa a tale questione e a presentare la genealogia della tesi principale di questo lavoro : il soggetto kojèviano non è solamente, à la Butler, un soggetto di desiderio ; ma, piuttosto, un soggetto di desiderio e legge.”
ANTROPOLOGIA E ANTROPOLOGIA RELIGIOSA.
LA POTENZA DEL DE-SIDER-IO. NOI SIAMO I FIGLI E LE FIGLIE DEL SOLE, I FIGLI E LE FIGLIE DELLE STELLE. ... *
ANTICHI RITORNI
Stelle cadenti? ’Lacrime’ sì... ma non del genere che credete
Perché agli astri è connesso il ’desiderium’. A ben guardare la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’.
di Alba Subrizio *
Mi perdoneranno i nostri lettori se ho deciso di riproporvi un articolo del nostro blog di qualche anno fa, ma la data (il 12 agosto) ’obbliga’ a parlarne. Sono queste, infatti, le sere in cui siamo tutti con il naso all’insù per vedere di cogliere qualche stella cadente; innamorati, scaramantici, speranzosi o scettici che siano semplicemente desiderosi di osservare il fenomeno astrale, tutti sperano di carpire almeno una delle scie luminose che attraversano la volta celeste in queste calde notti estive.
Non è un caso che alla ‘caduta’ di una stella sia connesso l’esprimere un desiderio, se è vero - come è vero - che il concetto di ‘desiderio’, in quanto brama di qualcosa, è intrinsecamente ed etimologicamente connesso agli astri, dal momento che la parola latina “desiderium” deriva dalla preposizione de (indicante movimento dall’alto verso il basso) + sidus, sideris (ossia “stella”, “astro”), ossia il desiderio è propriamente “ciò che viene dalle stelle”.
Si è soliti pertanto, nella cultura odierna, confessare i propri sogni alla volta celeste, sperando che questi presto o tardi possano avverarsi. Si tratta del fenomeno delle Perseidi, lo sciame meteoritico, così chiamato perché gravitante nella costellazione di Perseo, che ogni anno, orbitando intorno al sole dal 10 al 20 agosto (con picco il 12), è visibile dalla Terra. Nella cultura cristiana e popolare tale ‘sciame’ è noto anche come lacrime di San Lorenzo, dal nome del santo martirizzato sulla graticola, che si festeggia in tale data.
A ben guardare però la tradizione cristiana ha soppiantato una credenza pagana, molto più antica ma meno ‘romantica’. Ebbene, è da premettere che il mese di Augustus, dedicato appunto all’imperatore Ottaviano Augusto, è uno dei mesi dove si celebravano la maggior parte delle feste legate al mondo agricolo, alla coltivazione dei campi, alle fertilità dunque; feste che spesso erano accompagnate da processioni durante le quali aveva luogo la cosiddetta “fescennina iocatio”, ovvero la ‘facezia fescennina’. I fescennini erano, difatti, dei versi mordaci a sapore volgare ed erotico che alludevano al “fascinum”, termine che nella lingua latina aveva una certa ambivalenza, poiché significava sia “malocchio” (da cui il nostro ‘fascinatura’) sia “membro virile”; non è un caso che ad essere portato in processione era l’enorme fallo del dio Priapo.
Orbene, i nostri antenati romani associavano il fenomeno astrale del passaggio delle Perseidi a ben altro genere di ‘lacrime’, o per meglio dire ‘gocce’: quelle dovute alla eiaculazione del seme del dio della fertilità. E voi, ce l’avete un desiderio irrealizzabile? Provate magari a pregare Priapo e a sperare di vederne il seme.
Alba Subrizio
Biografia: «E quel giorno che ha potere solo sul mio corpo e su null’altro, ponga pure fine, quando vorrà, alla mia vita. Con la miglior parte di me volerò eterno al di sopra degli astri e il mio nome non si potrà cancellare, fin dove arriva il potere di Roma sui popoli soggiogati, là gli uomini mi leggeranno, e per tutti i secoli vivrò della mia fama...». Così Publio Ovidio Nasone conclude il suo capolavoro “Le Metamorfosi”; sulla scia del grande Sulmonese. E, allora, eccomi qui a raccontarvi di miti, eziologie e pratiche del mondo antico... che fanno bene anche oggi.
* Il Mattino di Foggia, 12/08/2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’algoritmo di Kojève
Gli studi sulla fisica del grande interprete di Hegel
Ciò che lo colpiva era l’uso diverso del determinismo e del principio di casualità
Con conseguenze molto importanti
Nella fisica moderna viene meno l’accostamento tra mondo divino e mondo matematico
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 06.08.2018)
Credo abbia ancora qualche interesse domandarsi quale sia stata la vita intellettuale prima e dopo l’avvento dell’homo sovieticus. Quali tensioni e incertezze covassero nel cuore di certi russi che vissero in maniera traumatica il passaggio da un mondo contadino a un altro avvolto da efferatezze e utopie.
Ebbene, un certo tratto in comune lo ebbero coloro che, pur sorretti da acute forze spirituali e religiose, provarono ad avvicinarsi alla scienza e in particolare alla matematica. Gli esempi più vistosi, su piani che solo in parte sembrano avvicinabili, ci vengono offerti da due straordinari protagonisti di questa storia: Pavel Florenskij e Alexander Kojève.
Non mi sognerei di accostarli se non per il modo in cui, in certa parte delle loro vite, hanno affrontato le scienze esatte.
Florenskij fu considerato un purissimo talento delle matematiche, allievo di Bugaev si avvicinò al pensiero scientifico di Georg Cantor e in particolare agli sviluppi della relazione finito-infinito. Ma cosa c’entra Kojève, il cui nome è soprattutto associato a un seminario tenuto a Parigi sulla Fenomenologia dello Spirito?
Poco prima di occuparsi di Hegel, questo russo trapiantato in Francia aveva manifestato grande curiosità per la fisica. È probabile che un tale interesse gli derivasse dall’assidua frequentazione di Alexandre Koyrè, anche lui russo, emigrato a Parigi e strepitoso storico della scienza. Fu Koyrè a proporre a Kojève di sostituirlo all’Ecole des Hautes Etudes. Ma nel 1931, cioè due anni prima che iniziasse le sue lezioni, Kojève scrisse L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (Adelphi, trad. di Sofia Moreno, a cura di Mauro Sellitto). Il libro resterà a lungo inedito contribuendo alla leggenda di quest’uomo che divorava mentalmente il mondo.
Quale motivo spinse Kojève a occuparsi delle scienze esatte e sperimentali? Il monito heideggeriano che la tecnica aveva soppiantato la metafisica si potrebbe qui intendere non già come una condanna ma come un’opportunità per leggere più a fondo il rapporto certo non semplice tra la filosofia e la scienza. A Kojève interessa cogliere e spiegare il diverso atteggiamento del mondo antico (si legga fisica classica) rispetto a quello contemporaneo in cui la fisica attraverso Planck, Bohr e Einstein rivoluziona le proprie basi.
Che un signore molto ironico ma anche addentro alle questioni religiose e filosofiche potesse approdare alle vertiginose letture dei testi dei grandi fisici del primo novecento può apparire bizzarro.
Che cos’è che lo attrae al punto da farsi coinvolgere così seriamente su una materia che non è la propria? Come altri contemporanei, è colpito dalla radicale differenza tra fisica classica e moderna. Dall’uso diverso del determinismo. Dal fatto che nella fisica classica - il cui punto più alto si tocca con Galilei e Newton - le leggi causali consentono una prevedibilità attendibile dei fenomeni fisici, per cui le stesse cause hanno dovunque gli stessi effetti.
Adottando, in tal modo, il postulato della continuità. Ed è abbastanza ovvio, come egli stesso riconosce, che il quadro teorico cambia radicalmente dopo la celebre conferenza che Max Planck terrà nel 1900 "sulla radiazione del corpo nero", con la quale introduce il concetto di discontinuità in fisica. Concetto che verrà ripreso e approfondito da Bohr e Heisenberg, i due fisici che porranno fine alla spiegazione causale del mondo fisico.
Che non ci fosse o che si potesse dubitare di una relazione necessaria tra la causa e l’effetto già David Hume, in omaggio al proprio scetticismo, lo aveva dichiarato. Ma Kojève fa un passo ulteriore: rigetta il lavoro di quei fisici che tendono a identificare l’universo fisico con l’universo matematico. Per quanto si possa geometrizzare lo spazio fisico non lo si potrà esaurire, dal momento che il mondo fisico resterà pur sempre il solo spazio reale.
Negli anni Sessanta, tornando a riflettere su questi temi, Kojève scrisse un fondamentale articolo su Le origini cristiane della scienza moderna. Qui "moderna" non va intesa come quantistica, ma galileiana. Perciò: se Dio è all’origine di tutte le cose, la scienza, nell’adottare il principio di causalità, ne è per così dire la prosecuzione nel mondo fisico.
Non c’è alcuna differenza, precisa Kojève, tra il cielo divino e quello matematico o matematizzabile. Fu nei primi anni del Novecento che l’accostamento tra mondo divino e mondo ipotetico-deduttivo venne meno. La rivoluzione quantistica lasciò cadere il principio di causalità.
"Causa", nota a questo proposito Mauro Sellitto nella postfazione, in greco voleva dire "colpa", il termine era prevalentemente usato nell’ambito giuridico e religioso. La sua estensione nell’ambito della scienza trattiene il ricordo di un trauma (un urto che trasforma) e al tempo stesso richiama un sacrificio che è all’origine della capacità dell’uomo di creare similitudini, cioè di ristabilire un ordine precedentemente turbato.
È questo sfondo in cui le leggi divine e quelle fisiche per un attimo sembrano toccarsi che si appanna nel passaggio dalla fisica classica a quella quantistica. Dio non è più una risorsa. Ma non è neanche un problema dal momento che la realtà è ormai solo un fatto statistico.
È significativo che due russi geniali con storie alle spalle molto diverse abbiano alla fine scelto soluzioni differenti. Florenskij scoprì gli immensi tesori della ortodossia religiosa bizantina; Kojève, come pochi ossessionato da Dio, preferì crearsi un universo in cui proprio Dio non avrebbe potuto metter piede e proclamò, con qualche baldanza, la fine della storia. Entrambi non potevano allora scorgere le conseguenze di tutto questo. Sapevano che non c’era più un Dio a dettare le tavole della legge. Non potevano sapere che un semplice algoritmo avrebbe preso il suo posto.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. La Fenomenologia dello Spirito di Alexandre Kojève ... *
Ai tempi della fisica quantistica che bisogno c’è di un Assoluto?
Per la prima volta in italiano il testo sul “determinismo” che Kojève scrisse negli Anni 30 un geniale tuffo ermeneutico nell’universo paradossale teorizzato dalla scienza moderna
di Marco Filoni (La Stampa, TuttoLibri, 16.06.2018)
Il destino dei filosofi è spesso segnato: studio, libri, una pensosa solitudine. Vite di un’umile classicità conferita dal tempo. E poi ci sono le illustri eccezioni: esistenze svolazzanti e sinuose, sottratte dal dominio del normale. Come nel caso di Alexandre Kojève.
La sua fu una vita in quattro atti. Il primo, a Mosca, dove era nato nel 1902 da una ricca famiglia di commercianti (era nipote del pittore Kandinskji), e da dove fuggì dopo la Rivoluzione bolscevica perché altrimenti sarebbe stato fucilato almeno tre volte - e ci andò vicino, a soli quindici anni, sorpreso a vendere bigiotteria al mercato nero: rischiava il plotone d’esecuzione, ma fu liberato dopo una notte in cella soltanto perché lo zio era il medico personale di Lenin.
Secondo atto: la Germania, dove studiò a Berlino e a Heidelberg, addottorandosi con Karl Jaspers.
Poi Parigi, il terzo atto: qui negli anni Trenta diede una lettura vertiginosamente faziosa - e altrettanto geniale - di Hegel, salendo sul trono di «maestro» per un’intera generazione di intellettuali (da Queneau a Bataille, da Lacan a Raymond Aron, e poi Merleau-Ponty, Roger Caillois, Henry Corbin, Hannah Arendt e molti altri ancora).
Infine l’atto finale: dopo la guerra, quando tutti si aspettavano di vederlo tornare in cattedra, lui con nonchalance andò a fare l’alto funzionario del Ministero per gli Affari Esteri francese, dove passò felicemente gli ultimi vent’anni della sua vita fra l’élite della diplomazia mondiale e dell’alta finanza - che, secondo lui, avevano sostituito la vecchia aristocrazia.
Eppure non abbandonò mai lo studio e scrisse un’impressionante quantità di opere rimaste perlopiù inedite. Fra queste ve ne è una, scritta in Francia nel 1932, che vede finalmente la luce in italiano grazie all’editore Adelphi. Si intitola L’idea di determinismo nella fisica classica e nella fisica moderna (traduzione di Sofia Moreno), ed è curata da Mauro Sellitto che firma un’interessante e precisa postfazione. Il tema è decisamente insolito per un filosofo «classico», ma quando si tratta di Kojève non ci si dovrebbe stupire di nulla.
Chissà se Einstein quando affermava che «l’intera scienza non è che un affinamento del pensiero quotidiano» aveva coscienza che, all’epoca, fosse vero anche il contrario. Ecco infatti Kojève, nell’aprile del ’29, assistere alla conferenza di Enrico Fermi dedicata alla teoria dei quanti, e poi annotare nei suoi quaderni di appunti: il mio tema.
Da qui nascono queste pagine: Kojève si confronta con la questione del determinismo - banalizzando: l’idea sottesa che l’accadere degli eventi non sia semplicemente accidentale - tornata vigorosamente al centro della discussione con la teoria dei quanti. Ha ragione Sellitto quando scrive che il libro ci offre l’opportunità di vedere all’opera una delle menti più brillanti del Novecento alle prese con la meccanica quantistica - considerando, inoltre, che molte delle interpretazioni di oggi traggono origine proprio da quel dibattito e che, nonostante sia passato circa un secolo, i problemi sono rimasti fondamentalmente immutati.
Prendiamo ancora Einstein: per lui la meccanica quantistica era filosoficamente inaccettabile. Pur avendo contribuito alla sua nascita, la criticò dal punto di vista concettuale: era inconcepibile che una teoria fisica potesse essere valida e completa pur descrivendo una realtà in cui esistono mere probabilità di osservazione. Seguendo l’autorevole dichiarazione di Henri Poincaré, insomma, la scienza «era determinista o non era affatto».
Kojève non è d’accordo. Il filosofo intravede una nuova idea di determinismo nata con le scoperte della teoria dei quanti, e cerca di dimostrare che non vi sono «ragioni filosofiche a priori che possano obbligarci a rigettare o accettare queste nuove teorie». Per questo critica l’idea classica di determinismo, poiché l’ipotesi dei quanti dimostra l’inaccettabilità del postulato di universalità e di verificabilità sperimentale della causalità classica, che fino ad allora permetteva previsioni esatte sempre più numerose rispetto ai fenomeni reali e fisici.
Kojève è fra i primi pensatori a comprendere la portata delle mutazioni che le scoperte di allora implicavano sulle nozioni di fenomeno, oggetto, esperienza, conoscenza. E lo fa con una radicale messa in questione del determinismo causale esatto, riassunto nel celebre passaggio di Laplace nel quale è evocata l’idea di un osservatore universale onnisciente.
Secondo il filosofo, la teoria dei quanti conduce necessariamente a una concezione indeterminista del reale: viene quindi a cadere l’esigenza di un Assoluto che abbia una funzione nel mondo reale. E aggiunge, quasi a margine, che la nuova fisica moderna implica un ateismo di fondo. Come a dire: se c’è chi cercava la fisica di Dio, io Kojève con questo testo ho scovato la fisica dell’ateismo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA VIA DI KANT: USCIRE DALLA CAVERNA, E NON RICADERE NELL’ILLUSIONE DI “DIO” CONCEPITO COME “UOMO SUPREMO”. Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”
ETICA DELL’ATEISMO?! AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), IL CATTOLICISMO ("DEUS CARITAS EST"), LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA FILOSOFIA HEGELIANA (MARX), E LA POSTERITA’ SPIRITUALE DI GIOACCHINO DA FIORE .... *
Filosofi? Solo nel weekend
Relazioni. Il rapporto dialettico tra servo e signore, evocato da Hegel e analizzato da Kojève, chiama gli intellettuali all’impegno fuori dai loro circoli chiusi. Ma forse i pensieri più originali sono invece frutto dell’ozio, dei momenti in cui ci si distacca dalle preoccupazioni mondane
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 25.03.2018)
«È stato terribile. Alla conferenza si sono presentati più di 300 giovani, si è dovuto cambiare sala, e ciò nonostante la gente era seduta per terra. Se si pensa che una cosa del genere capita solo per le conferenze di Sartre!». Gli inizi erano stati ben diversi. «E sì che quando ho iniziato a parlare all’École (l’École Pratique des Hautes Études, una delle grandi istituzioni francesi, ndr ) erano presenti a malapena una dozzina di persone!». Ma che dozzina: in quell’auletta si confondevano, tra occhiali rotondi, odore di lacca e colletti inamidati, con tutto il loro bagaglio di piccole perfidie e grandi idee, Jacques Lacan e Hannah Arendt, Raymond Queneau e Raymond Aron, Maurice Merleau-Ponty ed Eric Weil, George Bataille e Roger Caillois, e forse anche André Breton e Leo Strauss. Figure eccentriche, in quel momento, quasi tutti giovani, in fuga da qualcosa o da sé stessi, ma destinati a ben altro futuro. Le lezioni erano estenuanti - «il corso mi ha sfinito, annientato, ucciso dieci volte», scriveva Bataille - un commento pressoché infinito di alcune pagine di uno dei testi in assoluto più difficili mai scritti, la Fenomenologia dello Spirito di Hegel.
A officiare, in un rito che si sarebbe rinnovato ogni settimana per sei anni (dal 1933 al 1939), era Alexandre Kojève, un giovane emigrato russo nato nel 1902, esule in fuga dalla rivoluzione bolscevica, ma forse una spia dei servizi segreti sovietici, nipote di Vasilij Kandinskij, seduttore implacabile - di lui si è detto tutto e il contrario di tutto -, senza dubbio il signore assoluto della scena filosofica parigina.
A questo gruppo, davvero inimitabile, è dedicato il bel saggio di Massimo Palma, appena pubblicato da Castelvecchi, Foto di gruppo con servo e signore.
Più precisamente, tutto girava intorno a poche pagine. Pagine oscure, astruse, a volte incomprensibili; ridicole e tragiche allo stesso tempo: così come ridicola e tragica allo stesso tempo è la vita degli esseri umani, che era poi il tema di fondo di quelle lezioni e di quel libro. Si raccontava il viaggio della coscienza (che poi saremmo noi) in cerca del significato della propria esistenza, di un posto nell’universo, e del bisogno di essere riconosciuti: perché in un mondo senza più Dio, senza più un Dio che ci osserva, è solo così, vale a dire nel riconoscimento reciproco, che potremo dire di essere vissuti realmente.
Diversamente è la natura che si ripete eternamente identica a sé stessa, bellissima ma silenziosa, indifferente, estranea: «Senza alcun dubbio la singola mosca muore, ma queste mosche qui sono le stesse dell’anno passato. Quelle dell’anno passato sono forse morte? Può essere, ma nulla è scomparso. Le mosche restano uguali a sé stesse come le onde del mare» (Bataille). Non basta, non può bastare. La storia nasce come negazione di questa unità indistinta della natura, quando questi esseri inquieti che sono gli uomini iniziano la loro battaglia contro l’angoscia del nulla, alla ricerca di sé stessi, per dimostrare che non siamo qui per caso, come mosche o foglie.
Per questo cerchiamo gli altri, ne abbiamo bisogno, come di uno specchio che rifletta e ci riveli nella nostra inimitabile specificità, nel nostro valore. «La realtà umana è sempre sociale», scrive Kojève, l’uomo è l’animale politico: solo gli dèi e le bestie vivono da soli; «l’uomo reale e vero è il risultato della sua interazione con altri». Il problema, però, è che questo desiderio di riconoscimento è sempre foriero di conflitti e tensioni: la mia affermazione, il riconoscimento della mia importanza, passa per la negazione dell’altro. È la dialettica tra servo e padrone, il cuore della Fenomenologia: solo chi osa, chi è pronto a mettere tutto in discussione, potrà affermarsi. «Conflitto è padre di tutte le cose, e alcuni li fa liberi altri schiavi»: persino l’oscuro Eraclito diventava chiaro grazie a Hegel e Kojève. Con una sorpresa finale, un’inversione paradossale dei ruoli: il padrone, affidando tutto al suo sottoposto, finisce per dipendere da lui, che in questo modo scoprirà la sua forza, prendendo il sopravvento. E via di seguito, di rovesciamento in rovesciamento: così procede la storia, quando i vinti rialzano la testa.
Teorie astruse? Forse, ma non prive di una loro attualità. Perché in fondo trasmettevano un insegnamento molto semplice: che non esistono anime belle, che quello che siamo dipende dal rapporto che costruiremo con gli altri, dalla determinazione con cui affronteremo le sfide della vita. Solo agendo, esponendosi al rischio dell’insuccesso (della morte, scriveva Hegel), si può sperare di realizzare qualcosa.
Era anche una critica sferzante agli intellettuali, chiusi nei loro giardini e nelle loro parrocchie, sempre intenti a discutere tra loro: schiavi dunque dei loro pregiudizi così come la tanto vituperata folla dei non iniziati lo è dei propri; e per questo incapaci di comprendere la realtà che li circonda; destinati a essere superati dal corso degli eventi. Niente male come lezione, mentre le truppe naziste si apprestavano a marciare su Parigi.
Poi tutto era cambiato. Sempre funambolico, ma in fondo coerente con le sue idee, dopo la guerra Kojève aveva repentinamente abbandonato il mondo accademico, entrando nell’amministrazione, al ministero degli Affari economici, dove divenne in breve tempo un’eminenza grigia della politica commerciale francese, invincibile nelle negoziazioni internazionali («quando le altre delegazioni vedevano arrivare Kojève, e in special modo se lo vedevano arrivare solo, era il panico», ricordò dopo la sua morte un funzionario che gli era stato collega per anni). Sembrava il Talete di cui aveva parlato Platone, quello che cade nel pozzo perché assorto nella contemplazione del cielo. Si era rivelato come il Talete di Aristotele, che, grazie alla conoscenza del cielo e dei fenomeni atmosferici, aveva preso il controllo di tutti i frantoi, «dimostrando che per i filosofi avere successo è veramente facile - se solo lo vogliono». Per la filosofia non restava ormai che il fine settimana: e «filosofo della domenica» Kojève sarebbe diventato per tutti, secondo la folgorante definizione di Raymond Queneau.
Del resto - e questo è l’ultimo paradosso di un pensatore che viveva di paradossi - è in fondo proprio la domenica il giorno decisivo, quando finalmente ci si ferma e la cosa più importante forse si rivela. La saggezza, la serenità raggiunta. L’avevano inseguita tutti, la trovò forse il solo Queneau, tra tutti l’allievo più imprevedibile, lo scrittore capace di esprimere la filosofia del maestro in forma di romanzi (ed è a lui che si deve tra l’altro la trascrizione e pubblicazione dei corsi all’École Pratique - e dunque la creazione del mito di Kojève). E se tutto questo affannarsi nelle azioni e questo correre dietro alle parole non portasse da nessuna parte? E se la saggezza non fosse altro che la capacità di sorridere dello spettacolo d’arte varia (questo è Paolo Conte) e strampalata che sono gli uomini e le loro vite? Né servi né padroni, senza bisogno di essere riconosciuti o di riconoscere?
Lo aveva ammesso persino il grande Hegel, in un momento di rara lucidità: «In questa sfrenatezza priva di preoccupazioni è implicito il momento ideale: è la domenica della vita, che tutto uguaglia e che allontana ogni cattiveria; persone che sono così cordialmente di buon umore non possono essere del tutto cattive o basse». Anche Kojève alla fine gli aveva dato ragione: «Queneau ha riassunto la Fenomenologia dello Spirito scrivendo Zazie nel metro. Zazie era venuta a Parigi per vedere la metropolitana. Ma la sola volta in cui ci andò, s’addormentò e non vide nulla. Ecco il romanzo della saggezza». Se fosse proprio così, e tutto qui? I pensieri più impertinenti vengono quando si ozia - di domenica, insomma - e forse sono i migliori.
O forse non è così, e neppure questa soddisfazione - una «negatività senza impiego», diceva Bataille - riuscirà a placare l’ansia tutta umana di agire, combattere, costruire? La mosca non smette di ronzare, disturbando il pensiero; la storia continua...
La rivoluzione fuma l’oppio
di Antonio Carioti (Corriere della Sera, La Lettura, 25.03.2018)
Se si guarda in faccia la crisi del pensiero rivoluzionario senza cercare scuse consolatorie, l’unica alternativa alla rassegnazione è la riscoperta della dimensione religiosa. Semplificando al massimo, si può riassumere così la densa riflessione che Romano Màdera, filosofo e psicoanalista, ha premesso alla riedizione del suo saggio Identità e feticismo del 1977, riposto ora con altri scritti dalle edizioni Mimesis con il titolo Sconfitta e utopia (pp. 236, e 20). La prospettiva millenaristica indicata da Karl Marx, nota Màdera, non discende affatto dalla sua pur lucida descrizione del capitalismo. Può quindi ritrovare un senso solo se reinnestata nel solco della tradizione giudaico-cristiana e indirizzata verso una «riforma della spiritualità mondiale». Che rivincita, per l’«oppio del popolo».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
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PER LA CRITICA DEL CAPITALISMO E DELLA SUA TEOLOGIA "MAMMONICA" (Benedetto XVI, "Deus caritas est", 2006).
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA. CON MARX, OLTRE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
E’ MEZZOGIORNO... L’ ORA DEI VAMPIRI
di PAOLO MAURI (la Repubblica, 14 ottobre 1988)
SE AI TEMPI di Cenerentola non ci fosse stato l’orologio, un orologio in grado di battere le ore, di renderle esplicite per tutti, a mezzanotte non sarebbe successo proprio nulla. Perché il prodigio si compia, infatti, è necessario che scocchi l’ora fatidica, cioè che un segnale particolare la renda reale e sia pure relativamente ad un luogo e ad una comunità universale. L’ora fatidica dei fantasmi e dei vampiri non viene dunque, come comunemente si crede, da molto lontano: è un effetto speciale legato alla misurazione del tempo, una certezza tutto sommato abbastanza moderna.
Anticamente, cioè prima dell’ orologio, la scansione del giorno riguardava soprattutto le ore di luce, con un momento privilegiato: il mezzogiorno. Per quanto oggi possa apparire incredibile, fu proprio il mezzogiorno l’ ora fatidica dei prodigi e dei fantasmi, dei vampiri e dei demoni, delle apparizioni misteriose e del manifestarsi della follia. Il parallelo mezzanotte-mezzogiorno ci dice intanto una cosa fondamentale: che l’uomo ha bisogno di segnare nettamente i confini tra il regno della normalità e quello soprannaturale; colonne d’Ercole mentali, le ore fatidiche segnano il punto di passaggio tra ciò che si conosce e ciò che si teme, perché ignoto e quindi insieme terrifico e fascinoso.
E’ facile intuire perché l’uomo antico scegliesse il mezzogiorno come ora fatidica: intanto era un’ora riconoscibile anche a occhio e determinabile con una certa precisione, badando ad alcuni fenomeni alla portata di tutti. Il sole raggiunge il punto massimo nel cielo e le ombre sulla terra si accorciano fino a scomparire: una sorta di orologio rudimentale, lo gnomone, consiste proprio di un’asta che proiettando un’ombra consente di verificare l’ ora meridiana.
Proprio a I demoni meridiani dedicò uno studio, poco oltre la metà degli anni Trenta, Roger Caillois, ancora oggi ben noto e presente per i suoi lavori sul sacro e sul mito, nonché per le sue teorie sul gioco.
Era un momento delicato, in Europa, per dare spazio all’ irrazionale; e giustamente Carlo Ossola, che ha provveduto oggi a trasformare quello studio disperso in un libretto che esce tra pochi giorni (I demoni meridiani, Bollati Boringhieri, pagg. 128, lire 20.000) si sofferma nell’ introduzione sul clima culturale del tempo e sulle intenzioni del Collège de Sociologie dove Roger Caillois si trovava ad operare.
Il programma di Caillois (e naturalmente del Collège de Sociologie) è assai complesso: si tratta di illuminare i comportamenti degli uomini (anzi dell’ intero regno animale) attraverso i miti, che ne sono una rappresentazione. Devo qui, necessariamente, prendere una scorciatoia, non potendo (come fa Ossola nella sua introduzione) ricapitolare i principali passaggi di un’operazione culturale fascinosa e rischiosa insieme. Non appena il mito tocca il contemporaneo, l’analisi cede il posto alla volontà di fare. La passione di fare diventa bruciante.
Quando, dopo essersi occupato dei demoni meridiani, Caillois si mise a studiare il moderno mito di Parigi, con tutti i suoi corollari di superamento della mediocrità borghese verso una divina (o diabolica) volontà di potenza, il reale (in questo caso il nazismo) ha già fatto largo uso dell’irrazionale per porre le basi del suo progetto di dominio.
Sarà Marcel Mauss ad avvertire gli studiosi del Collège che stanno rischiando grosso: credo che siate tutti in questo momento sbandati, probabilmente sotto l’influsso di Heidegger, bergsoniano attardato nell’ hitlerismo, che legittima l’hitlerismo invasato d’ irrazionalismo....
Di fronte all’hitlerismo, inaccettabile perché razzista, Caillois fa marcia indietro, ed è probabilmente questo uno dei motivi per cui il suo studio sui demoni meridiani non venne da lui più tardi recuperato. Non tanto perché in esso trattasse questioni immediatamente pericolose: in fondo si tratta di una eruditissima ricognizione rivolta al recupero di una dimensione trascurata eppure anticamente assai attiva, ma soprattutto perché in esso stavano due chiavi comportamentali che potevano tranquillamente essere resuscitate anche nell’Europa moderna.
Da un lato, infatti, l’ora meridiana è l’ora dell’acedia, una forma di depressione, di taedium vitae, di spaesamento, che colpisce si tramanda i monaci e gli anacoreti del deserto portandoli a ripudiare il proprio essere monaci, a non capire più, o addirittura a non sopportare più, la propria condizione. L’acedia è la perdita del sacro.
D’ altra parte, a far da contraltare alla passività indotta dall’acedia, c’è la volontà di potenza e di immortalità favorita dall’ allucinazione che il calore meridiano provoca. Nella sua ambiguità la potenza del sole distrugge e feconda, sconfigge i deboli ed esalta, in senso proprio, i forti. C’ è dunque un messaggio di morte e contemporaneamente un accredito vitale nell’ ora fatidica.
Caillois ripercorre passo passo le situazioni topiche dell’ora meridiana: ora centrale del giorno che divideva in due zone ben distinte le cose lecite (o favorevoli) da quelle illecite. Racconta Plutarco, per esempio, che nessun condottiero romano avrebbe mai firmato un trattato o un atto importante dopo mezzogiorno. Sotto altri cieli (in Messico, presso gli aztechi) il mezzogiorno era un’ ora privilegiata per i sacrifici ed è sempre a mezzogiorno che le divinità si manifestano. Caillois ricorda che Pan, il più importante dio dell’Arcadia, era solito comparire appunto a mezzogiorno.
LA LETTURA del lavoro di Caillois mi ha fatto venire in mente un’ altra remota lettura, il libretto di Franz Altheim dedicato al cristianesimo e ai culti solari: si intitolava Il dio invitto e in Italia lo tradusse nel 1960 Feltrinelli. Anche il cristianesimo, che pure ha molto contribuito ad attribuire la luce al bene e le tenebre al male, ha le sue implicazioni con il sole e con i culti solari.
Risfogliandolo dopo tanto tempo ho letto che Costantino ebbe la visione della croce all’ ora meridiana del sole e che alla stessa ora la sua anima salì al cielo. Dunque il mezzogiorno è anche (o meglio soprattutto) l’ora dei morti, non fosse altro che per il fatto dell’ accorciamento e scomparsa dell’ ombra, che presso alcuni rappresentava l’ anima. (L’avventura di Peter Schlemihl ha dunque radici assai remote). L’ora dei morti (seguo sempre Caillois) era riservata alle libagioni in onore dei morti: anche in Sofocle è mezzogiorno quando Antigone viene ad offrire il sacrificio per il fratello. Di qui la credenza, abbastanza diffusa, che si trattasse di un’ora sacra e quindi pericolosa: nei templi si tiravano le tende a quell’ ora fatale, bambini e donne erano invitati a non uscire di casa e i morti senza pace ne approfittavano per manifestarsi. Particolarmente nutrita quest’ultima categoria, come attestano numerose fonti: la guardia forestale con la testa sotto il braccio, il cavaliere senza testa che è stato impiccato, l’uomo senza testa attorniato dai cani... Anche il cadavere che non ha ricevuto gli onori funebri appare a mezzogiorno: lo ricorda anche Stazio nella Tebaide.
Ancora: mezzogiorno è l’ ora della malia incantatrice. L’autore si rifà qui alla leggenda delle sirene, già nell’antichità messe in relazione con Sirio, la stella più brillante del Cane, foriera di spossatezza, di lascivia e quindi di mortale abbandono. Si mescolano qui due temi di lunga durata: il piacere e la morte, sicché s’introduce l’elemento sessuale, nella doppia accezione della fecondazione e dell’ abbandono ai sensi.
MA IL VIAGGIO non è finito: ancora molte sorprese attendono il lettore, che verrà condotto, nell’ora accidiosa della calura, a spiare i pastori emuli di Pan (o Pan ricalcato sulle abitudini lascive dei pastori); sfinito dal canto delle cicale, già immortalate da Platone; sbarcato nella pericolosa terra dei lotofagi, dove le sirene, che reggono un loto, ritornano, quasi a chiudere il cerchio dell’ incantesimo. Si toccheranno, ancora, le spiagge del sonno pericoloso e popolato (in senso classico) di incubi, si toccheranno le soglie della furia allucinata, con l’ apparire delle Ninfe, anch’esse meridiane, protettrici del sacro.
Nella catastrofe finale l’ora fatidica e terrifica sarà ulteriormente gravida di eventi eccezionali: è il terremoto di mezzogiorno, l’oscuramento del sole. Non c’ è bisogno, per questo, di allontanarsi troppo da testi assai noti anche oggi: non è forse il sacrificio di Cristo, consumato tra mezzogiorno e le tre, annunciato da un oscuramento e da un terremoto? A mezzogiorno appaiono gli angeli ad Abramo per annunciargli la nascita di Isacco; a mezzogiorno Giovanna d’ Arco sente le voci; la tradizione ebraica racconta il demone di mezzogiorno come un mostro fatto di scaglie e di capelli, con un occhio solo situato a livello del cuore.
Che il fascino un po’ morboso e misterioso delle ore della massima calura non sia finito con gli antichi, lo testimonia molta letteratura a noi vicina. Caillois aveva sottomano, allora, un romanzo di Paul Bourget, Le démon de midi, ma ben prima di lui Montale s’ era cimentato col sole che abbaglia, nell’ accidia del meriggiare che lo induce a riflettere con triste meraviglia sul significato del vivere; e come non ricordare, pescando un esempio a caso tra quanti vengono alla mente, l’ora della calura, con i suoi corollari di sonno, sesso e indolenza propiziata dal frinire delle cicale, nel film di Tavernier, Una domenica in campagna? Per dire, in buona sostanza, che il viaggio nel sole non è certo finito, ma anche che certi miti bisogna guardarli di traverso e non cedere, supini, al loro culto. La storia ha già dimostrato, meglio della medicina, come siano nefasti certi colpi di sole.
Archivio "la Repubblica", 14 ottobre 1988.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
MITO E STORIA, POLITICA E TEOLOGIA: "LUCIFERO!" E LA STELLA DEL DESTINO. Storiografia in crisi d’identità
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE!" (I. Kant). AL DI LA’ DELLA LOGICA E DELLA DIALETTICA "SERVO-PADRONE"...
La parabola dei talenti
di ENZO BIANCHI (Monastero di Bose, 19 novembre 2017)
La parabola dei talenti proposta dalla liturgia odierna è una parabola che, secondo il mio povero parere, oggi è pericolosa: pericolosa, perché più volte l’ho sentita commentare in un modo che, anziché spingere i cristiani a conversione, pare confermarli nel loro attuale comportamento tra gli altri uomini e donne, nel mondo e nella chiesa. Dunque forse sarebbe meglio non leggere questo testo, piuttosto che leggerlo male...
In verità questa parabola non è un’esaltazione, un applauso all’efficienza, non è un’apologia di chi sa guadagnare profitti, non è un inno alla meritocrazia, ma è una vera e propria contestazione verso il cristiano che sovente è tiepido, senza iniziativa, contento di quello che fa e opera, pauroso di fronte al cambiamento richiesto da nuove sfide o dalle mutate condizioni culturali della società. La parabola non conferma neppure “l’attivismo pastorale” di cui sono preda molte comunità cristiane, molti “operatori pastorali” che non sanno leggere la sterilità di tutto il loro darsi da fare, ma chiede alla comunità cristiana consapevolezza, responsabilità, laboriosità, audacia e soprattutto creatività. Non la quantità del fare, delle opere, né il guadagnare proseliti rendono cristiana una comunità, ma la sua obbedienza alla parola del Signore che la spinge verso nuove frontiere, verso nuovi lidi, su strade non percorse, lungo le quali la bussola che orienta il cammino è solo il Vangelo, unito al grido degli uomini e delle donne di oggi quando balbettano: “Vogliamo vedere Gesù!” (Gv 12,21).
Leggiamo allora con intelligenza questa parabola la cui prospettiva - lo ripeto - non è economica né finanziaria; essa non è un invito all’attivismo ma alla vigilanza che resta in attesa, non contenta del presente ma tutta protesa verso la venuta del Signore. Egli non è più tra di noi, sulla terra, è come partito per un viaggio e ha affidato ai suoi servi, ai suoi discepoli un compito: moltiplicare i doni da lui fatti a ciascuno. Nella parabola, a due servi il Signore ha lasciato molto, una somma cospicua - cinque lingotti di argento a uno, due a un altro -, affinché la facciano fruttificare; a un terzo servo ha lasciato un solo lingotto, che comunque non è poco. In tutti egli ha messo la sua fiducia senza limiti, confidando loro i suoi beni. Spetta dunque ai servi non tradire la grande fiducia del padrone e operare una sapiente gestione dei beni, non di loro proprietà ma del padrone, il quale al suo ritorno darà loro la ricompensa. A ciascuno il padrone da in funzione della sua capacità, e il suo dono è anche un compito: custodire e far fruttificare.
Al di là dell’immagine dei talenti, che cos’è questo dono, in definitiva? Secondo Ireneo di Lione è la vita accordata da Dio a ogni persona. La vita è un dono che non va assolutamente sprecato, ignorato o dissipato. Purtroppo - dobbiamo constatarlo - per alcuni la vita non ha alcun valore: non la vivono, anzi la sprecano e la sciupano “fino a farne una stucchevole estranea” (Konstantinos Kavafis), e così si lasciano vivere. Eppure si vive una volta sola e il farlo con consapevolezza e responsabilità è decisivo al fine di salvare una vita o perderla! Secondo altri padri orientali, i talenti sono le parole del Signore affidate ai discepoli perché le custodiscano, certo, ma soprattutto le rendano fruttuose nella loro vita, le mettano in pratica fino a seminarle copiosamente nella terra che è il mondo. Di nuovo, è questione di vita, di “scegliere la vita” (cf. Dt 30,19).
“Dopo molto tempo” - allusione al ritardo della parusia, della venuta gloriosa del Signore (cf. Mt 24,48; 25,5) - il padrone ritorna e chiede conto della fiducia da lui riposta nei suoi servi, i quali devono mostrare la loro capacità di essere responsabili, in grado cioè di rispondere della fiducia ricevuta. Eccoli dunque presentarsi tutti davanti a lui. Colui che aveva ricevuto cinque talenti si è mostrato operoso, intraprendente, capace di rischiare, si è impegnato affinché i doni ricevuti non fossero diminuiti, sprecati o inutilizzati; per questo, all’atto di consegnare al padrone dieci talenti, riceve da lui l’elogio: “Bene, servo buono e fedele, ... entra nella gioia del tuo Signore”. Lo stesso avviene per il secondo servo, anche lui in grado di raddoppiare i talenti ricevuti. Per questi due servi la ricompensa è proporzionalmente uguale, anche se le somme affidate erano diverse, perché entrambi hanno agito secondo le loro capacità.
Viene infine colui che aveva ricevuto un solo talento, il quale mette subito le mani avanti, manifestando il pensiero che lo ha paralizzato: “Da quando mi hai dato il talento, io sapevo che sei un uomo duro, esigente, arbitrario, che fa ciò che vuole, raccogliendo anche dove non ha seminato”. Con queste sue parole (“dalle tue parole ti giudico”, si legge nel testo parallelo di Lc 19,22) il servo confessa di essersi fabbricato un’immagine distorta del Signore, un’immagine plasmata dalla sua paura e dalla sua incapacità di avere fiducia nell’altro: egli considera il padrone come qualcuno che gli fa paura, che chiede una scrupolosa osservanza di ciò che ordina, che agisce in modo arbitrario. Avendo questa immagine in sé, ha scelto di non correre rischi: ha messo al sicuro, sotto terra, il denaro ricevuto, e ora lo restituisce tale e quale. Così rende al padrone ciò che è suo e non ruba, non fa peccato... Ma ecco che il Signore va in collera e gli risponde: “Sei un servo malvagio (ponerós) e pigro (oknerós). Malvagio perché hai obbedito all’immagine perversa del Signore che ti sei fatta, e così hai vissuto un rapporto di amore servile, di amore ‘costretto’. Per questo sei stato pigro, inaffidabile, non hai avuto né il cuore né la capacità di operare secondo la fiducia che ti avevo accordato. Non hai fatto neanche lo sforzo di mettere il talento in banca, dove sarebbe stato fruttuoso, dandomi interessi. Non hai avuto cura del mio bene affidato a te”.
Sì, lo sappiamo: è più facile seppellire i doni che Dio ci ha dato, piuttosto che condividerli; è più facile conservare le posizioni, i tesori del passato, che andarne a scoprire di nuovi; è più facile diffidare dell’altro che ci ha fatto del bene, piuttosto che rispondere consapevolmente, nella libertà e per amore. Ecco dunque la lode per chi rischia e il biasimo per chi si accontenta di ciò che ha, rinchiudendosi nel suo “io minimo”. Questo servo non ha fatto il male; peggio ancora, non ha fatto niente! Dunque davanti a Dio nel giorno del giudizio compariranno due tipi di persone:
chi ha ricevuto e ha fatto fruttificare il dono,
chi lo ha ricevuto e non ha fatto niente.
I servi fedeli entreranno nella gioia del Signore; chi invece è stato “buono a nulla” (achreîos) sarà spogliato anche dei meriti che pensava di poter vantare!
Ma a me piacerebbe che la parabola si concludesse altrimenti: così sarebbe più chiaro il cuore del padrone, mentre il cuore del discepolo sarebbe quello che il padrone desidera. Oso dunque proporre questa conclusione “apocrifa”:
Venne il terzo servo, al quale il padrone aveva confidato un solo talento, e gli disse: “Signore, io ho guadagnato un solo talento, raddoppiando ciò che mi hai consegnato, ma durante il viaggio ho perso tutto il denaro. So però che tu sei buono e comprendi la mia disgrazia. Non ti porto nulla, ma so che sei misericordioso”. E il padrone, al quale più del denaro importava che quel servo avesse una vera immagine di lui, gli disse: “Bene, servo buono e fedele, anche se non hai niente, entra pure tu nella gioia del tuo padrone, perché hai avuto fiducia in me”.
Anche così la parabola sarebbe buona notizia!
*
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza" (I. Kant).
LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Una riflessione di Angelo Casati
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
La condizione animale del desiderio
Saggi. L’ultimo saggio di Roberto Marchesini «Etologia filosofica», uscito per Mimesis
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 05.07.2016)
L’intento dell’ultimo saggio di Roberto Marchesini è certamente filosofico. Per sua stessa ammissione infatti l’atto deliberato con cui ha pensato di costruire Etologia filosofica (Mimesis, pp. 121, euro 12) è quello di indagare «l’ontologia animale» partendo dal congedo dell’ipotesi meccanicistica e quella basata sulla inconoscibilità animale da parte di un eterospecifico. In relazione alla soggettività animale, su cui ruota questa breve ma tagliente dissertazione, Marchesini sostiene l’inconcludenza dell’algoritmo meccanicistico. D’altra parte, sporge e propone un’etologia filosofica capace di riflettere sulla «condizione di animalità come meta-componente che va oltre l’appartenere a una particolare specie».
Con questo, Marchesini considera anche di riportare il termine cognitivo al suo precipuo significato-valore etimologico di «mappa della conoscenza» che si rende disponibile a più utilizzi. Per farlo si devono assumere almeno due presupposti; il primo è che non può esserci analogia con la macchina agognata da Descartes per definire la condizione animale; il secondo punto è che bisogna trovare un paradigma all’altezza dello scardinamento del dualismo cartesiano. Ciò che preme all’autore non è tuttavia soffermarsi sulla giustapposizione di una res cogitans alla res extensa, bensì soffermarsi su quest’ultima - chiaramente rinominandola.
Pensiamo perché desideriamo e non il contrario, ed è su questa constatazione che Marchesini chiama il primo movimento della cognizione. «Essere animale - prosegue Marchesini - significa desiderare: pensare, sognare, agire, comunicare perché si desidera».
Fronteggiare questi elementi sotto il profilo filosofico significa allora ordinare un’etologia che faccia ritorno a Lorenz, senza per questo cedere a presupposti descrittivi. Nei tre secchi capitoli che compongono il volume, Marchesini va dunque a interrogare numerosi luoghi concettuali anzitutto filosofici. Dal fantasma della macchina alla titolarità dell’esistenza animale non più legata a un principio tradizionalmente trascendente e ordinatore. Si schiude quindi una condizione dell’essere-animale come meta-predicativa e la centralità di riappropriarsi di una sovranità del soggetto, lambirne almeno lo statuto, dichiararsene partecipi.
La postfazione di Felice Cimatti a Etologia filosofica è in forma di elogio. Un elogio, anche qui, dotto di riferimenti che tuttavia distillano i passaggi della filosofia classica intorno all’animalità e all’animismo. Se è quindi plausibile oltre che veritiero rendere conto della soggettività animale come vivente desiderante, Cimatti radicalizza il quesito spostandolo anche alle cose, sostenendo che «la distinzione, a cui siamo così tenacemente attaccati, fra vivente e non vivente, fra chi sente e ciò che non sente, forse non è che l’ultimo baluardo dell’antropocentrismo».
La dialettica impossibile di George Bataille
Saggi. «Piccole ricapitolazioni comiche», una raccolta di scritti di Georges Bataille per Aragno. Anche se presenza costante nei suoi scritti e più volte letto con attenzione, Hegel costituirà l’oggetto polemico del filosofo francese
di Alessandra Pigliaru (il manifesto, 05.01.2016)
«Di lui non restò che un manico di badile, un uomo moderno. Ma, prima di mutilarsi, ha senza dubbio toccato l’estremo». Ecco una breve ed efficace immagine che si ritrova nella Piccola ricapitolazione comica, passaggio che Georges Bataille dedica a Hegel nella seconda parte del suo L’esperienza interiore. Più avanti nello stesso volume, pagine generose sono dedicate al filosofo tedesco, così veniamo a conoscenza di «un dente dolente nella bocca di Hegel», poi in Sovranità e ancora in articoli sparsi, da Tel Quel e altre riviste tra le tante che Bataille frequentava.
Non sfuggirà allora la consonanza con il titolo scelto per una nuova raccolta di scritti editi di Bataille tra il 1929 e il 1956, che raccontano il corpo a corpo con il pensiero di Hegel. La curatela e la scelta dei testi di Piccole ricapitolazioni comiche (Aragno, pp. 218, euro 15) è di Massimo Palma, ricercatore di filosofia politica e morale che ha già all’attivo pubblicazioni su Walter Benjamin, Eric Weil e il progetto della nuova edizione italiana di Economia e società di Max Weber.
Una mosca sul naso di chi si è creduto «il primo venuto», ecco l’istantanea che sceglie Palma per raffigurare la relazione tra Bataille e Hegel. Una mosca singolare che pungola, al pari del tafano platonico, e che declinata al plurale non molla la presa quando pretende giustizia e furore di sé, anche Jean-Paul Sartre ne era convinto quando le scelse per raffigurare le Erinni del dramma Le mosche.
Un inquieto contrappunto
La presenza di Hegel si evince in alcune opere, articoli, recensioni e aneddoti di Bataille che testimoniano un’implicazione di fondo nel rapporto intrattenuto con il filosofo fin dal 1925, anno in cui verosimilmente comincia la lettura delle prime traduzioni francesi. È quindi interessante aver pensato un intero volume che si soffermi su alcuni temi hegeliani che dagli scritti giovanili di Bataille in avanti ne hanno stretto, modificato e dilaniato il segno. Dapprima simile a una forma di allusione polemica e dissacrante che carsicamente si è mossa in interventi comparsi nella rivista Documents e in articoli come Figura umana - che inaugura l’antologia delle Piccole ricapitolazioni comiche; poi la riflessione del 1932 insieme a Queneau dal titolo Critica dei fondamenti della dialettica hegeliana; e solo un anno dopo e fino al 1939, la decisiva frequenza di alcuni seminari parigini tenuti da Alexandre Kojève sulla Fenomenologia dello Spirito all’École Pratique des Hautes Études. Sarà appena il caso di ricordare che a seguire Kojève, insieme a Bataille e Queneau vi saranno Lacan, Aron, Merleau-Ponty, Klossowski e altri. Da quel momento il pensiero hegeliano diviene contrappunto inquieto e più che esplicito in Bataille.
I nuclei centrali su cui ruota il suo coinvolgimento sono da rintracciare all’altezza della filosofia della natura, per poi spostarsi alle figure del signore e del servo, quindi alla complessità che porta al riconoscimento. Intorno alla ricezione di Nietzsche, di cui molto si è scritto, e alla lettura di Freud, Bataille intrattiene una significativa interlocuzione anche con i testi del filosofo tedesco: il non-sapere che scompagina il sapere assoluto, l’esperienza interiore e sovrana che mette in crisi il sistema, il conflitto che racconta un esito dialettico difficile da soddisfare, la libertà della dissipazione contro il servilismo ipocrita del sistema dell’utilità - che baratta la radicalità con una più mediata neutralizzazione.
Eppure, in tenace e appassionata discordia, il guadagno di Bataille nella lettura di Hegel resta innegabile. Comprende per esempio che nella lotta per la sopravvivenza che si ribalta nel suo contrario esiste una ridda semantica e politica da interrogare e sezionare, non solo grazie a Marx ma anche in relazione all’orizzonte politico-culturale degli anni Trenta a Parigi, quelli che si aprono dopo la collaborazione con «Critique sociale», e proseguono nel «Cercle Communiste Démocratique» fino a «Contre-Attaque» e più tardi «Acèphale». È proprio negli anni Trenta che fa una delle conoscenze più importanti, di quelle che stravolgono sensi e pensieri: Colette Peignot, meglio conosciuta come Laure, che scelse una vita libera e in piena rivolta, raffinata scrittrice considerata più che una semplice musa; esistenze speculari ma dissonanti che hanno abbracciato avanguardia artistica e sentimento rivoluzionario.
L’esperienza dell’assurdo
Come fosse uno Stavrogin o un Ivan Karamazov dopo un incontro con Breton, secondo una bizzarra ipotesi proposta da Sartre, Bataille fa una particolare esperienza dell’assurdo, quella del conflitto insolubile. Affine per certi versi a Albert Camus, il soggetto è un’insostituibile contraddizione, una lacerazione che tuttavia non lo ascrive così facilmente neppure al posizionamento esistenzialista.
L’avvicinamento al surrealismo, il tumulto verso l’erotismo e la morte, il riso e le lacrime, la rilettura di sacrificio e desiderio, costituiscono invece ulteriori distopie.
L’avventura della scrittura di Bataille, letto a tratti ingenerosamente proprio da Sartre come da altri suoi contemporanei che vi scorgono inconsistenza e fastidio per via di una lingua spesso franta, crudele e amante dell’abiezione, è forse davvero «un piccolo olocausto di termini filosofici».
Ed è proprio a partire dalla faglia sdegnosa, di sé e dello strumentario teorico posseduto, che ha potuto restituire tra le pagine più belle e impertinenti dedicate alla poesia e alla letteratura, scritte con tormento ma anche «come si ride», lasciando a chi legge una preziosa eredità: «senza l’intensità della passione, la vita è senza dubbio una lusinga il cui limite è il conforto, la cui verità è la paura all’idea di andar troppo lontano». Anche quando il limite si chiama Hegel, un fardello spesso difficile da sopportare e oltrepassare.
Bataille, il dente che duole nella bocca di Hegel
di Antonio Lucci *
A Parigi, negli anni convulsi a cavallo tra le due guerre mondiali, e in particolare negli anni tra il 1933 e il 1939, si venne a creare una congiuntura storica unica per la filosofia del secolo scorso. Sotto la guida di uno dei più carismatici ed enigmatici filosofi del Novecento, il russo-francese Alexandre Kojève, in un ormai leggendario seminario all’Ecole pratique des hautes études si incontrarono, tra gli altri, Raymond Queneau e Maurice Merleau-Ponty, Eric Weil e André Breton, Jean Hyppolite e - soprattutto - Jacques Lacan e Georges Bataille.
Malgrado i pochi testi pubblicati, Kojève fu un personaggio straordinario: per livello intellettuale, ironia personale ed effetti sulla storia filosofica europea. Si deve alla sua penna (e al lavoro del «trascrittore» d’eccezione dei suoi corsi, che fu Raymond Queneau) una delle più importanti, trasgressive e controverse interpretazioni della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, apparsa sotto il titolo - ironicamente modesto - di Introduzione alla lettura di Hegel. Quest’opera, trascrizione degli anni di seminario, è la cartina di tornasole filosofica con la quale si può leggere in controluce l’importanza che ha giocato la figura di Hegel - o meglio di un Hegel, appunto l’Hegel di Kojève - nella storia del pensiero francese.
Con quella che Antonio Gnoli ha definito un’operazione di «macelleria filosofica», Kojève opera un cut teorico nella filosofia hegeliana, isolando la figura della dialettica signore-servo (che in francese prende la connotazione, diversa a causa di una traduzione scorretta ma filosoficamente feconda, di signore-schiavo) e facendone il cardine di tutta la sua interpretazione di Hegel. Il funzionamento di questa figura è noto: Hegel descrive il momento in cui il soggetto diventa tale nei termini di una contrapposizione violenta tra due tipi di soggettività.
La scena originaria è quella in cui due uomini, per diventare davvero tali, devono scontrarsi, mettendo in gioco la loro vita. Solo quello che non tremerà di fronte alla possibilità concreta della morte, che terrà in massimo conto il prestigio, e non la vita biologica, verrà riconosciuto come essere umano dall’altro, e diventerà il signore. Lo sconfitto, che avrà tremato di fronte alla morte e avrà preferito la sicurezza della conservazione della propria vita biologica al riconoscimento del proprio valore come essere umano, verrà sottomesso, e sarà il servo.
Ironia della sorte, sia per Hegel che per Kojève, la Storia - quella con la «S» maiuscola, che per entrambi consiste nel dispiegamento dell’idea di libertà - la faranno i servi: saranno loro a imparare a trasformare la natura con il proprio lavoro, e si renderanno così man mano indipendenti dai signori, vero e proprio motore produttivo dell’agire storico.
È su questo sfondo teorico che Georges Bataille costruisce l’insieme di testi che Massimo Palma ha ben raccolto e curato (con grande padronanza dei materiali editi ed inediti, e conoscenza dei loro contesti storici e filosofici) in Piccole ricapitolazioni comiche. Testi che consentono una rassegna completa del pensiero bataillano su Hegel: dagli esordi, quindi prima del folgorante incontro con Kojève, ai suoi risultati più tardi, che invece dell’interpretazione kojèviana portano il marchio profondo. Dopo quell’incontro decisivo, infatti, Bataille metterà al centro della sua poliedrica intelligenza e attività produttiva (che spazia dal romanzo pornografico alla numismatica, dall’esegesi di Nietzsche all’analisi delle strutture psicologiche del fascismo, per arrivare agli interessi di etnologia ed economia) proprio la dialettica signore-schiavo alla quale tanto Kojève aveva dato.
Proprio questo si rivela il grimaldello col quale il genio letterario di Bataille legge e al contempo scardina - aprendole a ulteriori interpretazioni - le opere del proprio tempo e la realtà stessa: vengono così letti, con e attraverso Hegel, autori tanto distanti quanto eterogenei, come Hemingway e Morin ad esempio, recensiti da Bataille in due saggi che rappresentano anche due squisite prove di «un’arte del recensire». Ma, a fianco della letteratura, anche la Storia viene letta da Bataille alla luce (e all’ombra) di Hegel: negli ultimi saggi raccolti nel volume Bataille cerca di analizzare il funzionamento delle società arcaiche ancora una volta alla luce della dialettica signore-schiavo e della sua impasse, facendo però ricorso anche agli elementi dell’analisi etno-antropologica a lui cari, in particolare alla funzione del «sacro» e del «sacrificio», a suo parere sottovalutati e inindagati nella prospettiva hegeliana.
È in questi due saggi che si dà anche la cifra stilistica e filosofica specifica di Bataille, rispetto a Kojève: i due fuochi concettuali della morte e della sovranità, che per Kojève nell’interpretazione di Hegel hanno un peso minore, hanno viceversa, per lui, valore esemplare e paradigmatico. Sarà proprio questa la cifra del miglior Bataille, che si concentrerà in gran parte della sua produzione su temi - come la morte, il riso, il gioco, l’erotismo e il dispendio - che non sono riconducibili al movimento sintetico della dialettica di matrice hegelo-marxiana.
Questo scarto - rispetto alla dialettica e all’idea di Storia indicata da Hegel e Kojève - segnerà in maniera indelebile anche la vita personale di Bataille, il quale visse sulla sua stessa carne i paradossi e le aporie - l’«impossibile» - che segnano i suoi testi teorici e narrativi. Il volume curato da Massimo Palma ha il merito di mostrarcelo riportando anche alcune lettere e testimonianze (auto)biografiche, sul rapporto di Bataille con Hegel. In una di esse si legge: «Se l’azione (il «fare») è - come dice Hegel - la negatività, si pone allora la questione di sapere se la negatività di chi non ha “più nulla da fare” svanisca o sussista allo stato di “negatività senza impiego”: [...] immagino che la mia vita - o il suo aborto, la ferita aperta che è la mia vita - da sola costituisca la confutazione del sistema chiuso di Hegel».
*
Georges Bataille
Piccole ricapitolazioni comiche. Scritti su Hegel 1929-1956
a cura di Massimo Palma
Aragno, 2015, LVIII-218 pp., € 15
Potere e tirannide. La lezione di Kojève
di Marco Filoni (la Repubblica, 15.09.2013)
Esistono filosofie che si perdono, che vivono “altrove” e, per questo, devono tradursi in altre lingue e in altre culture. Sono pensieri in esilio, come pure quello di Alexandre Kojève. Eppure il suo, come recita il sottotitolo di questo volume, è un «esilio sulla via maestra». Superata la cortina di fumo data dalla complessità del suo filosofare, si scopre una solida architettura giuridico-politica a cui è stata dedicata poca attenzione.
Lo studio di Palma, uno dei filosofi più promettenti del nostro panorama, colma ampiamente la lacuna. La riflessione kojèviana sul diritto, sull’autorità, sulla tirannide e sul potere politico è, difatti, molto più attuale di quanto si pensi (e ricca di spunti con i quali fare ancora i conti: basti ricordare che recentemente Giorgio Agamben è stato additato dalla stampa tedesca come “filosofo di corte” di Berlusconi solo perché avrebbe preso in considerazione l’idea kojèviana di un impero latino in chiave antitedesca). Kojève ha saputo sviscerare, chirurgo raffinato e temerario, i meandri del politico ancora oggi da solcare. A sua volta Palma ha avuto la grazia di tradurre quelle esplorazioni per renderle percorribili con le sue pagine, che diradano la cortina di fumo.
CI SALVERA’ LA DIALETTICA?! NON PENSO. E’ MEGLIO RIPRENDERE IL FILO DELLA "PROVVIDENZA" DI VICO E DELL’ "ANTITETICA DELLA RAGION PURA" DI KANT PER MEGLIO CAPIRE KOJEVE HEGEL E IL NOSTRO STESSO PRESENTE STORICO:
di Corrado Ocone (Corriere La Lettura, 24.02.2013)
Esiste una specificità del pensiero filosofico? Quali sono il metodo e la logica di questa disciplina sui generis, che non ha, al contrario delle altre scienze, un ambito di pertinenza ben definito, né è volta a utilità o fini pratici? Per rispondere è forse opportuno considerare un tema che tuttora divide gli storici (e non solo loro): il giudizio sul fascismo.
Che la nostra immagine attuale dei vent’anni di regime sia molto più articolata di un tempo, lo si deve a vari studi, a cominciare da quelli di Renzo De Felice. La storiografia ritiene oggi che il fascismo sia stato senza dubbio un regime liberticida, ma certamente non monolitico. In più ha avuto una sua cultura, legata a quella che l’ha preceduta e a quella che l’ha seguita. Per arrivare a questa consapevolezza è stato però necessario passare per un periodo di revisionismo anche eccessivo: a un certo punto sembrava quasi che i fascisti fossero dei mezzi liberali. E ancora oggi c’è chi vorrebbe che il giudizio non fosse articolato, ma netto, in un senso o nell’altro.
Ora, la nuova consapevolezza storiografica non è forse maturata con un tipico movimento di affermazione di una tesi, di contraddizione della stessa e di «inveramento» o «superamento» finale al livello di una sintesi «superiore»? Ciò si chiama, in filosofia, dialettica. E significa considerare le azioni umane e gli eventi inseriti in una rete di relazioni, e quindi interdipendenti. Significa vedere anche quella unità del tutto che aveva portato Hegel a dire, in un celebre passo, che «il vero è l’intero». E anche ad aggiungere, opportunamente, che questo intero è da concepirsi come «processo» e «risultato», cioè come storia.
Ora, sia chiaro, per agire e anche solo per pensare bisogna giudicare, quindi servirsi in primo luogo del principio di non contraddizione. Ma bisogna tenere sempre ben chiaro che il giudizio indica separazione, divisione, distinzione. Questo senso del termine è del tutto evidente nel lemma tedesco Urteil-s-kraft, ove c’è l’idea della «forza che taglia». D’altronde, già gli scolastici esprimevano la stessa idea dicendo che «ogni determinazione è una negazione».
Perciò, se è vero che senza distinguere non si vive, è pur vero che irrigidire le definizioni, non adeguare il concetto al nuovo e imprevedibile che la storia e la vita ci presentano in ogni momento è pericoloso. Significa non solo precludersi una più profonda comprensione del reale, ma anche operare in esso con la volontà di imporre idee astratte e non contestualizzate.
Che la dialettica sia pensiero in movimento, perché storia e non stasi è la vita stessa, è evidente in molti teorici, ad esempio in quella straordinaria figura di filosofo, scienziato e mistico russo che è stato Pavel Florenskij (il suo Dialettica e stupore è appena stato ripubblicato in una nuova edizione da Quodlibet, pp. 112, € 10). Lo è soprattutto però in un autore che può essere considerato il più profondo interprete di Hegel del nostro tempo: Alexandre Kojève.
Anch’egli russo, di famiglia agiata, nipote del pittore Kandinskij, aveva cominciato a redigere sin dal 1916 un Diario di riflessioni filosofiche che vede ora la luce in italiano per Aragno, a cura di Marco Filoni, in anteprima mondiale (pp. 126, 15). Fuggito dall’Unione Sovietica poco dopo la rivoluzione, Kojève approda a Parigi nel 1926. Qui, prima di entrare nell’alta diplomazia francese, tiene, dal 1933 al 1939, un leggendario seminario sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel, che vede la partecipazione di molti dei protagonisti della più recente filosofia francese (Aron, Bataille, Bréton, Caillois, Queneau, Lacan, Merleau Ponty, Leo Strauss).
La Fenomenologia è l’opera più «liberale» di Hegel, in cui teorizza la dialettica al di fuori della costruzione del «sistema». In quelle lezioni, ma anche in alcune pagine del Diario, Kojève mette in chiaro come per il pensare dialettico, il momento negativo, cioè della contraddizione, sia in qualche modo più importante di quello positivo. Esso svolge una doppia funzione: permette, da un lato, di far essere, per contrasto, ciò che si ritiene il vero (che non sarebbe tale se non si opponesse a un falso): ma, dall’altro, fa anche in modo che io possa convincermi, se del caso, che ciò che prima ritenevo falso era in tutto o in parte vero.
Ciò significa che le tesi che si affermano appaiono in un primo momento paradossi e provocazioni, ma è un rischio che Kojève amava correre. Come scrive Filoni in un volume che esce in contemporanea con il Diario sempre per Aragno, Kojève mon ami (pp. 88, 15), egli «era un dialettico, e alla maniera platonica si esprimeva e conduceva i suoi dialoghi». A cominciare dai lunghi negoziati condotti per conto della Francia. Qui Kojève amava spiazzare chi seguiva rigide e codificate regole di trattativa. «Una delle ragioni dell’irritazione degli americani nei suoi confronti - riferisce Grey, un suo amico diplomatico - era il loro doversi attenere a istruzioni dettagliate, che non lasciavano libertà di rispondere alla varietà, e soprattutto all’originalità, delle argomentazioni di Kojève. Egli esponeva le sue osservazioni in una maniera spesso imprevedibile, cosa che esasperava i rappresentanti stracarichi di istruzioni degli altri Paesi».
Kojève amava spiazzare perché era fedele a quello che è forse il più grande insegnamento della dialettica, cioè che la verità si afferma contraddicendosi, quindi l’anticonformismo e persino l’eccentricità sono la garanzia del suo progresso e in ultima analisi della stessa libertà umana.
di Guido Rossi (Il Sole-24 ore, 24 febbraio 2013)
In una giornata di straordinaria importanza per le elezioni nazionali, l’ultimo Angelus di Papa Ratzinger porta a ulteriori e ampie meditazioni, che riguardano non solo l’influenza del Vaticano sulla politica italiana, ma anche il futuro della stessa Chiesa cattolica. Sulle dimissioni di Papa Ratzinger e sulla futura convivenza di Sua Santità dimissionaria con il nuovo Papa che sarà eletto, molto è già stato scritto, forse senza tener conto della straordinaria figura di teologo e filosofo di Joseph Ratzinger. Già a partire dalla metà degli anni 80, e successivamente nel dibattito con l’altro filosofo tedesco, Jürgen Habermas, Ratzinger teorizzava il ruolo pubblico della religione nelle società secolarizzate e nelle democrazie pluraliste.
Tuttavia dalla sua nomina a Vescovo di Roma la situazione mondiale è radicalmente cambiata, poiché i centri del potere sono passati dai ristretti confini degli Stati al dominio globalizzato del capitalismo tecnocratico finanziario.
La filosofia socratica di Platone e Aristotele che aveva influenzato il grande condottiero Alessandro Magno, riuscì a fargli superare la stretta e chiusa visione della città - stato antica, per proiettarsi verso una nuova idea, cioè l’idea dell’Impero, vale a dire di uno Stato universale, senza limiti né geografici, né etnici, né di altro genere. Questa idea dell’impero universale ebbe altre imitazioni, che avevano come base non l’espressione politica di un popolo, o di una casta, o di una razza, bensì l’espressione politica di un’unica civiltà universale, con un solo logos, dove le differenze rimanevano ma si negavano in un’unica identità.
Il progetto dell’impero universale di Alessandro Magno fallì, per essere poi ripreso su una base unitaria religiosa e trascendente, adottata sia da San Paolo e dalla Cristianità, sia dall’Islam. Ciò che è rimasto, fino ai nostri giorni, non è però il Sacro Romano Impero, o il potere secolare del Papa, ma la Chiesa universale. È l’impero di coloro che sono sostenuti da una fondamentale identità nella fede in un solo Dio, sicché questa trascendente uguaglianza sovrasta, accogliendole in unica sintesi e mescolanza tutte le etnie, le razze e le disuguaglianze, senza riuscire a creare uno Stato imperiale effettivo, ma un "corpo mistico" della Chiesa universale, rappresentato in terra dal Papa, Vescovo di Roma.
Dalla elezione del 2005 di Papa Ratzinger, si è imperiosamente consolidato il dominio del mondo da parte del globalismo economico, finanziario, fino a diventare padrone effettivo della politica dei singoli Stati. È così che, aiutato da uno straordinario sviluppo tecnologico, tale globalismo ha riproposto un nuovo unico impero finanziario mondiale, senza valori fondamentali, il quale sta distruggendo via via le basi del sottofondo filosofico degli ultimi secoli, e si è violentemente contratto in modo ancora non del tutto trasparente con l’altro impero, cioè quello del trascendente della Chiesa. Quest’ultimo è rimasto a sua volta inquinato dal potere esclusivo della finanza e delle sue lobbies, come hanno di recente dimostrato sia gli scandali bancari, sia le lotte di potere all’interno della gerarchia ecclesiastica.
L’impero del trascendente, difficilmente può contrastare un impero universale che lo minaccia per la prima volta nella storia, basato sul tecnocratico e globalizzato capitalismo finanziario. Già Papa Ratzinger, annunciando le sue dimissioni, faceva riferimento all’universalismo della velocità, che corrisponde appunto al nuovo impero mondano, del tutto indifferente ai valori del trascendente da lui guidato, il quale non si è rivelato in grado né di combatterlo, né di evitarlo, né di assorbirlo. Questo e non altra, pare ad un laico l’umana sofferenza di un Papa, che nell’impossibilità di continuare la sua funzione, si è dimesso. Le parole odierne dell’ultimo Angelus potranno ancora fornire qualche chiarimento, ma dirà la storia quale dei due imperi è destinato a sopravvivere.
Alexandre Kojève
L’esperienza vissuta della libertà nell’assenza di Dio di Roberto Ciccarelli *
«Questo libro è solo l’abbozzo di una mia fantasia, non è definitivo e per questo non va pubblicato». Posizionata in una nota alla fine di un’opera che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di un’opera mai più sviluppata, questa avvertenza di Alexandre Kojève a L’Ateismo avrebbe potuto scoraggiare ogni operazione editoriale. Così non è stato, come accade per i lasciti ingenti di filosofi, spesso e volentieri più ampi delle opere pubblicate in vita. Pensatore di ambizioni sistematiche, al punto da aspirare al sogno impossibile di un «sistema del sapere» sul modello delle grandi filosofie da Platone a Hegel, Kojève ha affidato a questo testo giovanile, scritto a ventinove anni nel 1931, e già pubblicato in Francia una decina d’anni fa, molti dei temi di quella che diventerà, nel corso degli anni successivi, la sua proposta di «religione atea». A ragione, Marco Filoni e Elettra Stimilli, i curatori di questa edizione italiana, hanno riproposto il flusso magmatico del testo così come è stato redatto dal suo autore, senza capitoli né paragrafi, per sottolinearne la duplice importanza.
Da un lato, l’ateismo pone le basi dell’antropologia kojèviana: l’uomo è cosciente che dopo la sua morte non ci sarà più niente e quindi è libero di vivere la propria vita. Dall’altro lato, questa posizione rivela un paradosso: se al di là del mondo c’è il «nulla», allora questo «nulla» esiste, in altre parole è un «fatto»: insomma l’uomo fa esperienza di quel «nulla» che è pur sempre il Dio che vuole negare. Non è dunque un caso che il giovane Kojève abbia abbozzato una «religione atea», essendo partito dall’idea che tutti gli uomini fanno esperienza della religione, anche se non tutti identificano tale esperienza nel culto di una divinità. È piuttosto la certezza di un’assenza, quella di Dio, a permettere loro di essere «uomini», e vivere di conseguenza, liberamente.
L’ateismo diventa così l’esperienza antropologica fondamentale a partire dalla quale l’uomo si distingue dall’animale. Letta così, questa prova kojèviana è paragonabile alle più mature riflessioni sul tema che Martin Heidegger aveva sviluppato nel 1929 nella sua celebre conferenza Che cos’è metafisica? La formula, suggestiva, di una «antropologia atea» verrà in seguito applicata da Kojève anche alla sua interpretazione della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, a partire dalla quale, tra il 1933 e il 1939, ha tenuto una serie di seminari che hanno influenzato un’intera generazione intellettuale, da Sartre a Lacan. Al termine di questo grande affresco, c’è da chiedersi se L’ateismo non ponga questioni anche a chi non condivide i dettami della teologia secolarizzata di Hegel, della quale Kojève è l’araldo.
Oggi, infatti, il problema di Dio non è più filosoficamente rilevante, se affrontato a partire dalla domanda sulla sua esistenza. In questo, non c’è dubbio che Kojève abbia incarnato lo spirito filosofico contemporaneo. Solo che la sua idea «paradossale» di ateismo, che associa l’esercizio della libertà alla meditazione sulla mortalità dell’uomo, altro non fa che depotenziare la libertà che tuttavia invoca, vincolandola ad un destino che sancisce la neutralizzazione della vita umana nei dispositivi di uno stato globalizzato, inquietante e totalitario.
Perorando la «fattualità» del nulla, questo ateismo sancisce anche l’insuperabile nullità dell’esistenza. Piuttosto che annichilire la vita con questa cieca, quanto forse inconsapevole, determinazione, al pensiero toccherebbe invece potenziarla. Il Novecento non è stato solo il secolo di aspiranti teologi. Forse sarebbe il caso di ricordarlo.
L’ATEISMO,
DI ALEXANDRE KOJÈVE,
QUODLIBET,
pp. 182,
euro 22
* il manifesto, 03.08.08