FILOSOFIA. Il desiderio del desiderio, il desiderio antropògeno di riconoscimento, l’antropologia e la FENOMENOLOGIA ....

DELLO SPIRITO DI ALEXANDRE KOJÈVE (Mosca 1902 - Parigi 1968). Una nota di Antonio Gnoli - a cura di Federico La Sala

PORTARE LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DI "DUE IO" AL DI LA’ DELLE MAGLIE DELLA DIALETTICA SERVO-PADRONE.
lunedì 16 giugno 2008.
 


Alexandre Kojève un ateo alla corte di dio

A quarant’anni dalla morte escono una biografia e un suo libro

-  Morì nel giugno del 1968 a Bruxelles. Aveva visto e vissuto la rivoluzione bolscevica, e la rivolta studentesca gli parve un gioco da ragazzi
-  Decretò la fine della storia

-  È stato una delle grandi menti del ’900. Per Bataille e Queneau fu una guida spirituale

-  "Il filosofo della domenica" e "L’ateismo" saranno presentati questa sera a Roma

di Antonio Gnoli (la Repubblica, 16.06.2008)

Durante una delle rare conferenze, che con piglio snobistico amava ancora tenere, malgrado gli impegni da alto funzionario dello Stato francese, Alexandre Kojève fu colto da una crisi cardiaca. Era il 1968. Morì nel pieno della contestazione studentesca, alla quale aveva guardato con somma ironia. Morì a Bruxelles, ai primi di giugno. Morì, come muore un enigma. Alcuni infatti si chiesero chi fosse stato veramente quell’uomo ricco di sottigliezze e di humour, refrattario alle luci della ribalta e da qualcuno rimpianto come una delle grandi teste filosofiche del Novecento.

Pochi allora seppero fornire una risposta decente o semplicemente adeguata. In vita non aveva pubblicato quasi nulla e su quel leggendario seminario tenuto all’ École pratique des Haute Études tra il 1933 e il 1939, da tempo era sceso il silenzio. Chi ricordava più quel russo dall’aria dolcemente tagliente mentre affilava il pensiero sul metallo della Fenomenologia di Hegel? Certo Georges Bataille e Raymond Queneau conservavano di lui l’idea che fosse la loro guida spirituale.

Indiscutibilmente Aron lo considerava un genio della parola. Leo Strauss si divertiva a spedire i suoi allievi americani a far conoscenza a Parigi di questo strano intellettuale, che andando via da Mosca, dove era nato nel 1902, aveva scelto la Francia come patria di elezione. Ma per il resto, solo l’alta burocrazia francese, nella quale era entrato dal 1945, poteva delibare la versatilità e l’acribia spirituale di questo insolito dotto. Altrove, negli ambienti dell’esistenzialismo e dell’impegno, c’era stata la rimozione. Quasi che la statura del personaggio fosse troppo ingombrante e, in definitiva, provocatoria per essere assimilata a qualche docile parrocchia, magari dall’odore sartriano.

Da quei quarant’anni dalla sua scomparsa il fantasma Kojève ha preso forma e colore sorprendenti. Si pubblicano i suoi libri (molti dei quali postumi), l’ultimo in ordine di apparizione è dedicato all’ateismo e su di lui escono saggi, e ricostruzioni a metà strada tra il profilo intellettuale e biografico. Bella e documentatissima quella che Marco Filoni gli ha dedicato (Il filosofo della domenica, edito da Bollati Boringhieri, pagg. 259, euro 19). Sia de L’ateismo (curato da Elettra Stimilli e Marco Filoni, tradotto dal russo da Claudia Zonghetti, edizioni Quodilibet, pagg 182, Euro 22) che de Il filosofo della domenica, ne parleranno stasera alle 18 nella libreria romana di Bibli Roberto Esposito, Giacomo Marramao, insieme ai curatori.

Per tutta la vita quest’uomo raffinato e oziosamente determinato a convincere i suoi uditori che davanti avevano semplicemente la reincarnazione dell’ultimo grande hegeliano, cercò nella paradossalità la forma più efficace del suo pensiero. Qualunque gesto, ipotesi, scelta, ossessione, risultato marciava sotto le insegne del paradosso. Paradossale, infatti, che si paragonasse a Dio, che considerava, come ci ricorda Filoni, un collega. Paradossale che da quel grande incantatore filosofico di serpenti che si era dimostrato, avesse chiuso con le Università, le Écoles, i Collèges, le Accademie e si fosse dato alla grigia arte del funzionariato statale. Paradossale che egli fosse uno stalinista al servizio della democrazia. Paradossale che avesse scritto di fisica quantistica per parlare di religione. Paradossale che avesse sentenziato che la storia (quell’impasto di violenza e politica, di nazione e impero) era finita. Paradossale che un uomo mondanamente raffinato - come poteva esserlo un russo della buona borghesia postzarista - avesse preferito vivere nel sobborgo di Vanves piuttosto che nella scintillante Parigi. Ma questo era Kojève: uno che se ne infischiava delle conclusioni comuni. Un sofista allenatissimo a smontare le ovvietà del pensiero.

C’è una foto che risale alla metà degli anni Venti e che lo ritrae come parte di un singolare e affascinante terzetto. Kojève è seduto a una tavola imbandita insieme all’amante, Cecile Leonidovda Soutak e allo zio, il pittore Vasilij Kandinskij. Sopra alla tovaglia bianca si vedono tra l’altro bicchieri, piatti, una bottiglia di Champagne. Cecile è protesa verso l’aristocratica figura di Kandinskij che sembra intenzionato ad accogliere le confidenze della donna, la quale trattiene un braccio sulle spalle di Kojève che, leggermente chino, sta bevendo, forse della birra. La mano che gli sfiora la nuca è in quel momento il solo serio legame tra il filosofo e gli altri due. Per il resto, concentrato com’è sulla coppa, appare estraneo alla conversazione e agli sguardi incrociati della donna e dello zio. Non è solo una scena colma di artificio cinematografico. Nella quale ci si poteva imbattere nella Berlino del 1925. Non è solo un perfetto fotogramma di un possibile Harold Lloyd mentre prepara la gag dello Champagne versandoselo sulla camicia. È che quella foto ci mostra esattamente il modo di Kojève di stare contemporaneamente dentro e fuori dalla piena vita. Ne è ai margini per meglio conoscerne i segreti del centro. E anche questo in fondo era uno dei tanti paradossi che amava interpretare: essere invisibile, come del resto era Dio.

Per questo russo cresciuto con il pane dell’apocalisse (assai efficace la ricostruzione che ne fa Filoni), Dio diventò un’ossessione talmente forte da rovesciarsi paradossalmente nel suo contrario, cioè in una forma di radicale ateismo. Al tema in questione Kojève dedicò un testo del 1931. La posizione del giovane filosofo, che da qualche anno si era trasferito a Parigi, è netta: «Per l’ateo non esiste nulla al di fuori del mondo». Per il teista, figura che si contrappone in un certo senso all’ateo, «Dio è solamente un qualcosa, ma è un qualcosa "d’altro" dall’"uomo nel mondo"». Il guaio, osserva Kojève, è che il teista non riesce a dimostrare che cosa sia questo "altro" senza in qualche modo riportarlo alla datità del nostro mondo. L’ateo, insomma, avrebbe la meglio se non fosse che anche nel suo ragionamento si nasconde il paradosso. Se non esiste nulla al di fuori del mondo è in quel "nulla" che si dovrebbe collocare Dio. «E il nulla non può essere dato, ma noi ne parliamo, foss’anche solo per dire che non se ne può parlare». Questo paradosso non è specifico del ragionamento dell’ateo. Tanto è vero, che in un testo del 1929 di Heidegger, Che cos’è la metafisica, che Kojève ha letto e apprezzato, viene posta la questione filosofica fondamentale (come rileva opportunamente Elettra Stimilli nella postfazione) del problema del negativo, ovvero della creazione del nulla.

Non è il caso qui di addentrarci in sottigliezze concettuali. Il testo sull’ateismo precede di due anni il corso sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, dove verrà riaffermata con forza l’idea che l’intero sistema filosofico messo in piedi da Hegel è ateo. Sono molti i punti di contatto fra lo scritto del 1931 e l’Introduction à la lecture de Hegel, che vedrà la luce grazie alla cura di Queneau nel 1947. Basti pensare alla ripresa dei temi dell’angoscia e della paura della morte per coglierne la continuità di pensiero. Ma è soprattutto nella declinazione del concetto di "desiderio" non già o non semplicemente come desiderio di qualcosa ma soprattutto come "desiderio del desiderio" che si individua lo stretto nesso tra il desiderio come assenza e il nulla da cui esso ha origine.

Kojève immaginò che l’ateismo non fosse la pura e semplice banalizzazione della questione divina, ma la sua più complessa realizzazione filosofica. Non parlava da laico, ma da teologo senza Dio. E tuttavia ossessionato dal suo fantasma. Ma se fosse stata solo l’ossessione a guidarne il pensiero ci troveremmo davanti a un caso di rilevanza psichiatrica. La verità è che nella testa di questo filosofo, che finì col preferire le geishe alle signore parigine, c’era l’ambizione di ricollocare l’uomo nel mondo senza più quelle scissioni, tragedie, lacerazioni che l’idea stessa di Dio provoca. Ambiva a una "vita piena", che oggi, con qualche azzardo, chiameremmo "post-umana", dove il dolore e la pesantezza sono soppiantati dall’ironia e dalla saggezza.


Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:

ALEXANDRE KOJÈVE (Scheda).

Una metafisica troppo ‘nobile’ del desiderio: A. Kojève e J. Lacan (Roberto Finelli).

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.

Federico La Sala


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