CHI HA RUBATO CHE COSA A CHI?!
Lettera aperta a S.S. Papa Francesco.
di RAR *
*************************************
Papa Francesco: "I comunisti ci hanno rubato la bandiera".
Si tratta della bandiera spirituale della Chiesa dei poveri, ma una affermazione che, con tutto il rispetto per Papa Francesco, non mi sento di condividere né di sforzarmi a capire.
Nella bandiera comunista, quella che sventola nelle feste dell’Unità, c’è il rosso porpora della battaglia, ma non c’è Cristo, per una scelta laica che in troppi hanno interpretato in senso anticlericale.
Le lotte comuniste, che proponevano maggiore uguaglianza tra le classi, furono inquinate, fin dall’inizio, da una dichiarata “lotta di classe” e non certo di concertazione tra le classi; ciò produsse solo ulteriori danni, spingendo avanti il liberismo in difesa di interessi corporativi, contro i quali le classi più deboli nulla avevano da contrastare per chiedere maggiori diritti. Ebbe il sopravvento la legge del più forte, specialmente dopo il 9 novembre del 1989 con la caduta del muro di Berlino che segnò la vittoria del capitalismo sul materialismo sociale.
Il comunismo ortodosso ha fatto il suo tempo, scandito di occasioni mancate o perdute, diventando socialdemocrazia, tesa a rivalutare la presenza storica delle classi operaie nel teatro della politica nazionale e internazionale, esaltando la centralità sociale dell’uomo e di tutti gli uomini.
Le parole di Papa Francesco non chiariscono nulla, anzi peggiorano la situazione proprio nelle contraddizioni che vediamo annunciarsi dall’altra parte del Tevere.
La bandiera del Cristo dei poveri, Santità, è saldamente in mano a quei sacerdoti che combattono giorno dopo giorno negli angusti anfratti del “mondo dei vinti” e garrisce alta sospinta dal vento della santità di Mons. Oscar Romero, per il quale Ella, Santo Padre, ha sbloccato il processo di beatificazione, dopo che il suo predecessore, oggi emerito, ne aveva bloccato l’iter.
La Teologia della Liberazione rappresenta, oggi, ciò che in tempi passati rappresentarono il monachesimo e i giganti della santità, in quel periodo buio della Chiesa impegnata nelle lotte per le investiture, nella crociate, nel potere temporale e, infine, nell’Inquisizione, paradossalmente chiamata “santa”.
Il suo predecessore confermò la condanna della Teologia della Liberazione, mentre, contestualmente, tornava ad abbracciare i negazionisti di Lefebvre, togliendo la scomunica che era stata comminata da Giovanni Paolo II; quella condanna, che ancora persiste insieme alla generica accusa di “comunismo”, rappresenta un gigantesco passo indietro nella storia, cancellando oltre un secolo del Magistero sociale della Chiesa.
Anche Paolo VI venne accusato di essere un “Papa comunista” dai rappresentanti delle lobby americane dello sfruttamento, delle armi, delle guerre, mentre meriterebbe di essere il primo a ricoprire una nuova onorificenza “Dottore sociale della Chiesa”, avendo sviluppato il Magistero della Chiesa con l’enciclica Populorum Progressio.
Nella bandiera issata dalla TdL, Cristo è presente, anche se si tratta di una immagine di Cristo lontana dalle icone dell’opulenza, mostrando un Cristo povero, mendico, straccione, affamato, assetato, negletto, sfruttato, umiliato nella persona e nell’anima, come sono i fedeli per i quali pregano i sacerdoti dell’America Latina, ispirati dal loro protettore Oscar Romero, ma un Cristo pronto a perdonare, ad amare, forte di quel “manifesto” dell’uguaglianza rappresentato dal Discorso della Montagna con le Beatitudini che rappresentarono la più grande rivoluzione sociale che mai il pianeta Terra abbia visto.
Si tratta di valori che nessuno potrebbe mai rubare, perché messi a disposizione di tutti gli uomini di buona volontà.
*
Rosario Amico Roxas (02.07.2014)
Papa Francesco in Messico, a Cuba storico incontro con il patriarca Kirill
parlato come fratelli, io felice E rivela un retroscena,"ne parlai a Raul Castro già a settembre"
di Fausto Gasparroni *
"Con Kirill è stata una conversazione di fratelli. Abbiamo parlato con tutta franchezza. Sono rimasto felice". Sentir raccontare lo storico colloquio col patriarca di Mosca e di tutte le Russie direttamente dalla voce del Papa: tale la gioia e l’entusiasmo di Francesco per l’avvenuto incontro, che il Pontefice ne ha voluto fare partecipi i giornalisti subito dopo, durante il volo che dall’Avana lo ha portato a Città del Messico.
"Voglio dirvi i miei sentimenti - ha esordito Bergoglio -. Prima di tutto i sentimenti di accoglienza e disponibilità del presidente Raul Castro". Il Papa ha rivelato anche un retroscena della preparazione dell’incontro con Kirill. "Io avevo parlato col presidente Castro di questo incontro l’altra volta (nella sua visita dello scorso settembre, ndr) ed era disposto a fare tutto - ha raccontato -. E lo abbiamo visto: ha preparato tutto per bene. Per questo vorrei ringraziarlo".
"Secondo, col patriarca Kirill, è stata una conversazione di fratelli - ha proseguito -. Punti chiari, che ci preoccupano tutti e due. Ne abbiamo parlato con tutta franchezza. Io mi sono sentito davanti a un fratello. E anche lui mi ha detto lo stesso". "Due vescovi - ha spiegato il Pontefice - che parlano delle situazioni delle loro chiese. Poi della situazione del mondo, delle guerre, guerre che adesso si rischia non essere più tanto ’a pezzi’, ma che coinvolgono il mondo". Poi "della situazione dell’ortodossia, del prossimo sinodo pan-ortodosso".
L’ABBRACCIO TRA FRANCESCO E KIRILL
"Ma io vi dico davvero - ha ribadito il Papa -, io sentivo una gioia interiore, una gioia del Signore. Lui parlava liberamente e anche io parlavo liberamente. Si sentiva la gioia, i traduttori erano bravi, tutti e due". Bergoglio ha confermato che "è stato un colloquio a sei occhi: il patriarca Kirill e io, sua eminenza il metropolita Hilarion e il cardinal Koch, e i due traduttori. Ma con tutta libertà: parlavamo noi due, gli altri facevano qualche battuta". Terzo punto. "Si è fatto un programma di possibili attività in comune - ha annunciato Francesco - perché l’unità si fa camminando. Una volta io ho detto che l’unità si fa nello studio, nella teologia, ma verrà il Signore e noi saremo ancora lì a costruire l’unità". "L’unità si fa camminando - ha ripetuto -, che almeno il Signore ci trovi che stiamo camminando". Dopo le due ore di colloquio, "noi abbiamo fatto questa dichiarazione che avete in mano", ha quindi aggiunto il Papa. "Ci saranno tante interpretazioni, tante", ha pronosticato, "se c’è qualche dubbio padre Lombardi potrà dire il significato della cosa". "Non è una dichiarazione politica - ha rimarcato Francesco -, non è una dichiarazione sociologica, è una dichiarazione pastorale. Anche quando si pala di secolarismo, di cose chiare, la manipolazione biogenetica, è pastorale, di due vescovi che si sono incontrati con preoccupazione pastorale. Io sono rimasto felice". E adesso, ha concluso con un sorriso pensando all’arrivo a Città del Messico, "mi aspettano 23 chilometri di ’papamobile’ aperta".
* ANSA, 13 febbraio 2016 (ripresa parziale).
La rivoluzione cristiana a Cuba
Il Papa e il Patriarca. Il capo della Chiesa cattolica romana e quello della Chiesa ortodossa russa in uno storico incontro oggi all’Avana, luogo "neutro" scelto non certo a caso. Saranno loro due a salvare il mondo da fondamentalismi e turbocapitalismi?
di Franco Cardini (il manifesto, 12.02.2016)
Diciamola tutta: non è un annunzio di quelli che possono lasciare indifferenti. Nel novembre 2014, conversando con i giornalisti in aereo durante il viaggio di ritorno dalla Turchia, papa Francesco aveva risposto a un giornalista che gli aveva domandato qualcosa a proposito di un probabile incontro con il patriarca moscovita Kirill: «Gli ho detto: - Io vengo dove tu vuoi. Tu mi chiami e io vengo -; e anche lui ha la stessa volontà».
Ora, il capo della Chiesa cattolica romana e quello della Chiesa ortodossa russa stanno per incontrarsi, oggi 12 febbraio, molto lontano dalle loro rispettive sedi: all’aeroporto dell’Avana, in Cuba, un luogo che papa Bergoglio già conosce per esservi stato trionfalmente accolto pochissimo tempo fa; un’isola caraibica abitata da discendenti di coloni spagnoli e di schiavi africani, un popolo che parla il medesimo idioma della “sua” Argentina, nella “sua” diletta America latina. Una periferia tra le periferie, di quelle che secondo il pontefice sono particolarmente adatte a comprendere e a farci comprendere il mondo nel quale viviamo.
Cuba ha conosciuto mezzo millennio di dominazione spagnola e più di mezzo secolo di “libertà” dominata in modo quasi coloniale dagli Stati Uniti, un triste periodo di brutali dittature e di pesante corruzione che l’avevano trasformata nella bisca e nel bordello dei Caraibi; quindi, l’oltre mezzo secolo di austero e sotto molti aspetti eroico regime socialista insidiato da un embargo disumano che non lasciava passare nemmeno le merci destinate a scopi umanitari ma durante il quale - nonostante la limitazione di certe libertà, la religiosa inclusa - l’isola è riuscita a porsi ad avanguardia e ad esempio di sviluppo civile, culturale e sanitario.
Cuba è povera: ha le sue piantagioni di canna da zucchero e il suo pregiato rum, quelle di tabacco e i suoi celeberrimi sigari, un po’ di buon caffè e un po’ di rame; e vuole restare sobriamente povera, autolimita lo sviluppo industriale, ha espresso una saggissima legge che impedisce l’inquinamento dei suoi fiumi dove la navigazione a motore è vietata e che sono quindi dei veri e propri paradisi naturali. Ma produce una ricchezza straordinaria, che in questi decenni ha esportato in tutta l’America latina procurandosi in cambio il petrolio e altre merci indispensabili: le sue università, di eccellente livello (è uno dei paesi al mondo con la più forte densità di laureati) sfornano medici e insegnanti che poi lavorano, stimati e apprezzati, nell’intero continente. Un articolo di esportazione pregiatissimo.
Cuba è un paese di gente onesta e ordinata, dignitosissima anche nei suoi pur numerosi mendicanti che lo stato si sforza di reprimere con metodo e rigore, ma senza usare violenza.
La migliore cucina russa
D’altra parte, oltre mezzo secolo dopo la famosa crisi che per un pelo non fece scoppiare la terza guerra mondiale, i cubani non hanno dimenticato l’appoggio sovietico che per molto tempo ha consentito loro di far fronte all’embargo. Forse non rimpiangono il sogno sinistro della “cittadella” nucleare che avrebbe dovuto sorgere nell’estremo ovest dell’isola, e il profilo degli scheletri delle cui spettrali cupole abbandonate si nota ancora da lontano, circondato da un deserto di abitazioni in cemento armato degno della periferia staliniana di Mosca.
Però ricordano con simpatìa, quasi con affetto, i loro vecchi alleati: non è raro incontrare gente di mezza età che parla ancora un discreto russo; e sul Malecón, il Lungomare che collega il centro della città alla fortezza spagnola dominante il porto e che ora comincia a rifiorire dopo il forzato abbandono di tanti begli edifici che l’embargo rendeva impossibile restaurare, una grande bandiera rossa con tanto di falce e martello svetta sul palazzo che ospita il «Restaurante sovietico» nel quale si servono ancora i tipici piatti della migliore cucina russa.
A Cuba, come in molte altre regioni latinoamericane, esiste una fiorente comunità russo-ortodossa (non crediate che cose del genere siano esclusive degli Stati Uniti, come abbiamo imparato dal Cacciatore di Michael Cimino): proprio nel centro della città, accanto a una celebre rivendita di rum, una chiesa ortodossa nuova di zecca con le mura immacolate di calce e la cupola dorata reca ben in vista, sul frontone, una lucente targa di rame nella quale si ringrazia il presidente Vladimir Putin per un generoso finanziamento.
Si sa per certo che nel maggio scorso Raúl Castro, incontrando Putin e il patriarca Kirill a Mosca, aveva esternato a entrambi - su richiesta di papa Francesco - il desiderio del vescovo di Roma, cui egli deve tanto per il “disgelo” con gli Usa, d’incontrarsi con il capo degli ortodossi russi; e che in seguito, ospite del papa a Santa Marta, gliene aveva riferito.
Queste prospettive diplomatiche, mentre a Cuba nel rinnovato clima di collaborazione con il governo le autorità ecclesiastiche acquistano sempre più peso, appaiono di speciale importanza alla vigilia delle elezioni statunitensi del prossimo novembre.
Ted Cruz e Marco Rubio
Per quanto ne appaia poco importante la vittoria, si profila una qualche ipotesi che la Casa bianca - anziché dai due principali contendenti, Trump e la Clinton - possa venir occupata da un cattolico d’origine cubana figlio di rifugiati politici anticastristi. Se Ted Cruz o Marco Rubio diventassero presidenti, che cosa prevarrebbe in loro, l’affetto per la madrepatria d’origine oppure l’anticastrismo, probabilmente forsennato, succhiato con il latte materno?
Tutto ciò potrebbe influire in modo determinante sul carattere del “disgelo” tra Washington e L’Avana: un disgelo che a Cuba è atteso con speranza e apprensione poiché si teme che, insieme con l’acqua sporca del bagnetto, cioè quel che resta del regime monopartitico, il «ritorno della libertà» faccia sì, come accadde nell’Unione sovietica di un quarto di secolo fa, che si getti via anche il bambino delle garanzie sociali di base come l’istruzione e l’assistenza medica gratuite; e che si assista allo squallido spettacolo dell’assalto liberista e delle privatizzazioni selvagge con la conseguenza di un deciso ed esteso peggioramento delle condizioni della popolazione e dell’avvìo di un processo di crescente ingiustizia sociale. Grazie a Dio, i «Chicago Boys» sono oggi solo un triste ricordo: e tuttavia...
L’isola di Castro e «della libertà»
È comunque significativo che un influente personaggio del patriarcato moscovita, il metropolita Hilarion Alfeyev, conversando con i giornalisti russi, abbia detto a proposito dell’incontro fra i due capi delle Chiese: «Abbiamo scelto l’isola della libertà». Una tale definizione, che qualcuno ha trovato scandalosa e qualcun altro straordinariamente significativa, ha un carattere fondamentale. Non è facile credere casuale la scelta del territorio cubano - per definizione “neutro” - come luogo dell’incontro. È vero: Kirill sarà già nell’isola per la sua visita ufficiale a quel paese, Francesco anticiperà di alcune ore la partenza per la sua visita pastorale in Messico e potrà quindi rivedere, pochi mesi dopo gli incontri di Roma e dell’Avana, il suo ormai «vecchio amico» Raúl Castro, il quale in queste ore è comprensibilmente al settimo cielo per l’accresciuto prestigio internazionale che l’evento gli sta procurando.
Ma Cuba non è ancora uscita dal socialismo e rischia di diventar terreno di razzìa per il turbocapitalismo. Questo è il punto. Il presente, lo conosciamo. E il futuro?
Di che cosa dunque, parleranno, Francesco e Kirill? Si è fortemente sottolineato che entrambi lanceranno un forte appello ai popoli e ai governi affinché venga arrestata l’onda delle persecuzioni e degli assassinii di cui sono vittime i membri delle comunità cristiane ospiti di molti paesi musulmani dell’Asia e dell’Africa.
Intanto, a Mosca si ripubblicano i testi di Soloviev e circola con insistenza la sua profezia: l’alleanza tra il papa di Roma e la santa Russia salverà il mondo. Da che cosa? Dal fondamentalismo islamico che brucia le chiese e uccide i cristiani, commentano alcuni. Dall’arroganza turbocapitalista che ha imposto quel sistema della «inequità» denunziato dall’enciclica Laudato si’, replicano altri.
Dopo l’Internazionale dei lavoratori di tutto il mondo uniti che non si è mia avverata e quella dei capitalisti delle lobbies che si è avverata fin troppo con aberranti e allarmanti risultati, quella dei cristiani uniti nel segno della giustizia e della misericordia potrebbe sul serio essere la Rivoluzione del XXI secolo.
Francescano, ma non comunista
di Roberto Toscano (La Stampa, 11.07.2015)
E’ dal momento della sua elezione al pontificato che Papa Bergoglio non lascia praticamente passare un giorno senza ribadire con schietta essenzialità richiami morali che mettono in gioco la natura stessa del nostro mondo globalizzato, il suo potere di esclusione, lo scandalo crescente della disuguaglianza. Messo piede nella sua terra latino-americana, il suo messaggio si è fatto ancora più esplicito e radicale.
La novità non è certo la preoccupazione della Chiesa per i poveri e le vittime dell’ingiustizia, e nemmeno l’autocritica nei confronti delle troppe connivenze con le violenze della colonizzazione dell’America Latina e dei troppi compromessi con poteri oligarchici - un’autocritica che aveva ispirato sia Giovanni Paolo II nel suo forte discorso del 1992 a Santo Domingo sia Benedetto XVI, che nel maggio del 2007 parlò delle «ombre» che accompagnarono l’evangelizzazione dell’America Latina.
Ma il messaggio latino-americano di Papa Francesco va ben oltre, nella misura in cui non si limita a denunciare la malvagità umana e il sordo egoismo che ispira i potenti e i privilegiati, non si limita a riprendere il discorso della Chiesa sui diritti umani, ma attacca esplicitamente le strutture, il sistema. E lo fa sottoponendo l’economia globale a un vaglio morale senza sconti e senza eufemismi.
Addirittura - e immaginiamo lo sconcerto che questo sta producendo negli ambienti del cattolicesimo conservatore - Bergoglio sembra echeggiare il radicalismo francescano quando denuncia il culto al denaro, che definisce, citando la famosa condanna di Basilio di Cesarea, padre della Chiesa, «sterco del diavolo»: «Quando il capitale si converte in un idolo, quando l’avidità per il denaro subordina tutto il sistema socioeconomico, rovina la società, rende l’uomo schiavo, distrugge la fraternità fra gli esseri umani».
Si conferma qui il senso profondo (per i credenti, provvidenziale) dell’elezione al soglio pontificio di un cardinale proveniente dall’America Latina, per la Chiesa serbatoio di fedeli - il 40 per cento dei cattolici nel mondo - fondamentale ma negli ultimi decenni minacciato da una forte offensiva protestante, resa possibile non solo dalle grandi risorse economiche dei missionari evangelici statunitensi, ma anche dalla diffusa percezione di una Chiesa conservatrice e non sufficientemente solidale con i poveri.
Anche per quanto riguarda la rivisitazione critica della conquista ed evangelizzazione cristiana dell’America Latina le parole del Papa si muovono su un terreno d’inequivoca radicalità. Sono parole in cui sembra di sentire un eco del drammatico scontro, rappresentato nel famoso film «Mission», fra la Chiesa del gesuita Padre Gabriel, schierato fino all’estremo sacrificio dalla parte degli indios contro il potere coloniale e gli schiavisti, e quella del Cardinale Altamirano, intelligente e in fin dei conti anche sensibile, ma che finisce per piegarsi alle esigenze della realpolitik, autorizzando la violenza del potere contro la ribellione degli indios. Oggi Bergoglio esalta la Chiesa di Padre Gabriel, quella dei sacerdoti «che si opposero alla logica della spada con la logica della croce».
Il rischio a questo punto è quello di semplificare e appiattire, ripercorrendo i polverosi sentieri delle ideologie del XX secolo, una svolta che è significativa nella misura in cui è nuova, e descrivere il messaggio di Papa Bergoglio come un trionfo tardivo dei movimenti rivoluzionari cui la Chiesa, nella sua maggioranza e soprattutto nelle sue gerarchie, si era sistematicamente opposta a patto di indecenti connivenze con poteri non democratici e antipopolari.
Teologia della Liberazione
No, Papa Francesco non si è convertito alla Teologia della liberazione, ma si rende conto del prezzo pagato dalla Chiesa nel rigetto conservatore delle istanze di cui quei movimenti erano generosi anche se spesso confusi portatori. E senz’altro ricorda come la Chiesa riuscì a riassorbire, non con la condanna ma con la cooptazione, la spinta potenzialmente eversiva del primo francescanesimo.
Quello che è certo è che non siamo di fronte a un «Papa comunista», come alcuni inguaribili nostalgici della Guerra Fredda cominciano anche da noi a mormorare. Il bizzarro dono del crocifisso/falce e martello del Presidente boliviano Morales ha suscitato nel Papa un’evidente perplessità, ma certo non un «vade retro» scandalizzato. Il fatto è che per Bergoglio il comunismo è morto e sepolto, anche se rimangono aperti i grandi quesiti sociali da esso sollevati, ai quali non ha saputo rispondere per le sue contraddizioni, il suo dogmatismo ideologico e la sua deriva autoritaria e violenta. Quesiti che, contrariamente a quanto sostenuto dall’ideologia neoliberale, non si possono ignorare, ma ai quali il messaggio cristiano dovrebbe avere l’ambizione di rispondere in modo diverso, autentico, sostenibile e basato sulla fede. Si tratta di un pontefice, inoltre, che non sembra certo intenzionato a essere indulgente nei confronti di chi «vuole cancellare Cristo dalla società», e che anche in Bolivia ha detto parole forti contro «la persecuzione genocida» dei cristiani in Medio Oriente.
Nel momento in cui il comunismo è davvero morto, e in cui anche la socialdemocrazia non sta molto bene di salute, il disegno di Bergoglio risulta quindi evidente. È quello di rendere il messaggio della Chiesa egemonico sotto il profilo dei valori che dovrebbero ispirare una società più umana. Un disegno ambizioso, che dovrà fare i conti con le infinite contraddizioni esistenti all’interno stesso di una Chiesa certo tutt’altro che compatta, oltre che marcata da secoli dai troppi prezzi pagati al realismo, nonchè con le prevedibili controspinte che, in America Latina ma non solo, verranno messe in atto da chi ritiene che si tratti di un messaggio puramente retorico o addirittura destabilizzante, soprattutto in un momento in cui sempre più inquietante è la sfida di un Islam militante che si colloca agli antipodi dell’umanesimo cristiano di cui Bergoglio è il coraggioso paladino.
Credenti o non credenti, entusiasti o critici - ma in ogni caso tutti disorientati dopo la scomparsa dei solidi, anche se spesso micidiali, riferimenti del XX secolo -, faremmo bene comunque a prendere sul serio la non superficiale sfida di Papa Francesco, il primo Papa del XXI secolo.
Cambio al vertice
Boko Haram e Califfato
L’Europa ha un solo leader che può arginare il nuovo terrore: Francesco
di Furio Colombo (il Fatto, 11.01.2015)
Molti sono stati colpiti dalla coincidenza di due fatti di sangue orrendi e lontani: la strage a Parigi nella redazione di un giornale giudicato blasfemo (dodici morti in una stanza, e l’altro evento di sangue francese). E il massacro di almeno duemila persone portato a termine in poche ore, fra villaggi e campagne, al confine con la Nigeria, da due diverse unità militari addestrate e armate di un nuovo fondamentalismo islamico, nel primo caso un commando, nel secondo un esercito. Emergono due capi, Al Baghdadi e Boko Haram, che proclamano due Califfati. Vuol dire dominio assoluto, l’uno dal Medio Oriente verso l’Europa, l’altro dal centro dell’Africa verso il mondo.
NON SAPPIAMO NULLA dei rapporti fra i due potentati al momento, ma sappiamo che i due potentati esistono e che la loro minaccia non è di parole. Al Baghdadi domina una parte dell’Iraq e della Siria, con capitale Mosul. Boko Haram (che, ricorderete ha esordito con il reclutamento forzato di bambini per il suo esercito, e poi con il rapimento di duecento giovanissime studentesse da “convertire” all’islamismo) è il padrone di villaggi, città e campagne in tutta la parte nord della Nigeria su cui impone e mantiene un potere di sangue. Se rileggete le righe di riassunto della situazione che precedono, noterete che, a prima vista, niente è nuovo o diverso dalle storie di violenza a cui la storia contemporanea ci ha abituato ai margini dell’impero.
Anche la grande minaccia, ormai varie volte realizzata, a partire dall’11 settembre, di colpire dentro l’impero, è causa di una continua paura, ma non è più un fatto nuovo. Ciò che è nuovo è l’emergere in posizioni di comando assoluto di nuovi personaggi che sono totalmente liberi di annunciare e poi di realizzare iniziative di una folle violenza, perché non appartengono ad alcuna classe dirigente del passato, rappresentano in modo arbitrario e autodefinito, valori ambigui che non devono giustificare ma solo proclamare. E così nasce un presunto Islam fondamentalista che è un’ottima trovata per disorientare i credenti di quella fede, e una buona mossa per chiamare alla guerra credenti altrettanto finti di un presunto mondo cristiano.
Ma è avvenuto qualcosa di nuovo persino rispetto ai tempi finiti da poco con una irruzione di “teste di cuoio” e l’uccisione di Osama bin Laden. È avvenuto un cambio di classe dirigente che improvvisamente si è autoassegnata la guida degli insorti di un mondo di autoproclamato fondamentalismo islamico, e che in realtà raccoglie tutte le ribellioni estreme lungo la linea non negoziabile di “rivincita” e “riconquista”, dopo la guerra in Iraq e le sue moltissime vittime, ma anche di “diverstà” inventata e sostenuta come tale dal pregiudizio europeo.
CHE COSA INTENDO per “nuova classe dirigente”? e come mai lo stesso fenomeno si manifesta con la stessa forza distruttiva e apparentemente cieca, dal Medio Oriente al cuore dell’Africa? Forse la spiegazione è questa. Fino a un momento fa occupanti e resistenti, invasori e ribelli, dominatori e dominati, erano guidati, allo stesso modo, dalle classi colte e dall’apparato dirigente, dai gruppi sociali delle parti in causa. Questo fatto non ha mai evitato durezza, crudeltà e violenza anche estrema. Ma disponeva di strumenti di comunicazione e di intesa reciproca, in caso di necessità. E le due parti avverse cercavano, ciascuna in modo diverso, compressione e sostegno in altre culture e altri Paesi del mondo.
Al Baghdadi e Boko Haram rappresentano un nuovo tipo di dirigente rivoluzionario che, tra le classi dirigenti del proprio ambito, o del mondo, non cercano e non chiedono niente. Non vogliono comprensione e non offrono giustificazione. Le loro radici sono altrove, nel tempo (che è evidentemente un mitico passato) ; nei luoghi, che sono vissuti come del tutto privi della struttura civile e organizzativa iniziata col colonialismo e poi divenute abituali; nei rapporti umani, che cercano in basso, e nella appartenenza concepita come ubbidienza e sottomissione; nelle regole, che sono libere da ogni codice e dettate solo da opportunismo spettacolare e da efficacia emotiva, dando e ricevendo il senso di un potere che non deve trattare condizioni o sottostare a doveri.
Ma un altro cambiamento drammatico segna questo ultimo periodo di vita politica internazionale. Dal punto cruciale dell’equilibrio mondiale escono gli Stati Uniti, che avevano e hanno pur sempre un potere sproporzionatamente grande. Ed entra la debole e divisa Europa, che non ha una politica e non ha una guida, ma appare come unico guardiano e garante delle regole del gioco.
IL CAMBIO DELLA GUARDIA non è stato pianificato o voluto. Accade perché gli Usa hanno ritirato le loro opzioni di guerra. Accade perché lo sconvolgimento e il cambiamento di classe dirigente del Medio Oriente e dell’Africa ricadono fatalmente sull’Europa e sugli europei, come ha dimostrato la vicenda francese. In ogni caso le ragioni del cambio della guardia contano poco. Conta che sia avvenuta. E colpisce l’inadeguatezza dell’Europa unita e delle sue istituzioni di fronte al compito di reggere l’equilibrio del mondo libero, e di tenere a bada le pulsioni violentemente aggressive. È questa situazione che ha dettato le pagine, controverse e apparentemente solo provocatorie del libro Soumission di Houellebecq: una Francia che si arrende, diventa islamica ed elegge un presidente islamico. Houellebecq non ha tenuto conto di Papa Francesco.
Non è un difensore, è un testimone. Con un compito più difficile del suo predecessore. Infatti la follia, come un incendio pericoloso, sembra venire da una parte e dall’altra, dalla “nuova classe dirigente” islamica disposta a tutto, e dal gruppo Le Pen-Salvini, altrettanto privo di scrupoli pur di esibirsi. Il compito di Francesco è grande e impossibile. Ma in Europa Francesco, al momento, è l’unico leader.
Una teoria complessa, facile da raccontare
di ANDREA COMENCINI (il manifesto, 15 Luglio 2014)
«I bambini capitalisti quando nascono sono dei bambini uguali a tutti gli altri. Non sono ancora dei bambini capitalisti. E non lo sono nemmeno nei primissimi anni della loro vita. Poi a un certo punto succede qualcosa nella loro testa e invece di continuare ad essere bambini uguali a tutti gli altri diventano dei bambini capitalisti».
L’incipit del fortunatissimo libro, uscito per le edizioni Clichy, di Gérard Thomas -Il comunismo spiegato ai bambini capitalisti (e a tutti quelli che lo vogliono conoscere) - già autore di culto in Francia, annuncia subito al lettore la domanda principale del racconto: perché, ad un certo punto delle nostre vite di bambini, accade qualcosa che ci trasforma in capitalisti, segnandoci per sempre. Il racconto è il terzo lavoro di questo eccentrico scrittore, dopo Come si diventa presidente (2002) e L’anarchia è una cosa semplice (2007); da anni vive nelle Isole Marchesi, dove si dedica alla passione per l’apicultura, accomunata dal desiderio di rendere accessibili alcuni concetti politici, spesso molto complessi. Non si tratta ovviamente di una summa generalizzante o superficiale, né di una stringata sintesi di fatti e cronache. Il sottotitolo, «e a tutti quelli che lo vogliono conoscere», spiega che non è solo lettura per adolescenti, ma investigazione storica adatta anche ad un pubblico adulto. Aspettarsi una lezione fin troppo semplice, od una esposizione fiabesca dell’idea di comunismo, sarebbe quindi un errore madornale, vista la perizia con cui si riporta la storia delle idee socialiste e le vicende correlate. Il racconto, un vero e proprio viaggio, parte dall’incontro con gli uomini primitivi, poi via per le città di Ur e Nazareth, fino a Parigi, Londra, la Cina, e spiega l’illuminismo, la Rivoluzione francese e russa, l’incredibile storia della Comune, il Sessantotto ecc.
Alcuni personaggi e fatti sono raccontati con più intensità rispetto ad altri, perché possono insegnare ancora molto a proposito di quanto accade nelle nostre vite. Quando si parla dell’«esercito di riserva» dei disoccupati, per esempio, Thomas, analizzando le idee di Marx, assolve perfettamente il suo compito di divulgatore: «Per risolvere questo problema dei capitalisti (l’accumulo di plusvalore) diventa essenziale la presenza di un gran numero di disoccupati, che alimentano la concorrenza fra gli operai garantendo un basso livello dei salari e una insita debolezza della classe operaia, che avendo accanto a sé persone talmente povere e disperate da accettare qualsiasi lavoro e qualsiasi salario, sono costrette a moderare le loro richieste e le loro rivendicazioni per non perdere il loro lavoro». Una storia non negata
Apprezzato in patria, Thomas ha anche ricevuto delle critiche. L’accusa più pesante è stata voler omettere gli orrori e gli eccessi che il socialismo reale ha prodotto in alcuni casi della sua storia. Tesi curiosa, perché l’autore non rinuncia mai a biasimare i crimini commessi da Pol Pot in Cambogia, o l’accentramento burocratico e autoritario avvenuto in differenti periodi della storia sovietica. Ciò che non gli si perdona, presumibilmente, è l’aver tracciato con estrema correttezza e onestà la linea divisoria tra responsabilità individuali e teoria politica, fra aspirazione alla giustizia e sua realizzazione terrena. È in questa distinzione che si coglie la forza persuasiva del libro, e si arriva alla risposta del quesito iniziale.
Comunismo è certamente storia e racconto di quella stessa storia, ma soprattutto la tensione costante di una umanità, fin dai primordi, intenta a cancellare la prevaricazione dell’uomo sull’uomo, assente quando si è bambini, e poi schiacciante quanto si entra nella società dei consumi e del denaro. Il comunismo, per Thomas, così ci confida nelle pagine finali del testo, oltre a essere un evento epocale, è soprattutto l’esigenza eterna di affermare che «tutti gli esseri umani sono uguali, tutti gli esseri umani hanno gli stessi diritti, nessun essere umano può sfruttare altri essere umani, tutti gli esseri umani devono avere le stesse possibilità. E soprattutto, tutti gli esseri umani hanno il diritto di essere felici». Quella felicità, per l’appunto, che ci accompagna da bambini, e che un giorno ci abbandona, lasciando un persistente sentimento di melanconia.
Dal binomio Ratzinger/Berlusconi, a binomio Bergoglio/Renzi.
di RAR *
Nel suo intervento in occasione dell’insediamento del semestre italiano, Renzi ha dimostrato di avere preso le distanze da Berlusconi, berlusconismo e centrodestra, ragion per cui ha raccolto commenti favorevoli. Ma in Italia la musica cambia e tornano i tromboni a infastidire l’intera orchestra che cerca di suonare all’unisono.
Si capisce immediatamente che Renzi sente sul collo il fiato grosso, ansimante, tipico di chi si trova nella fase terminale del percorso politico. Si tratta di una contraddizione che rischia di inficiare i progetti di riforme e l’attuazione del programma di ripresa economica. Il pregiudicato Berlusconi è la palla al piede della buona volontà di Renzi, mentre lo stesso Matteo dimostra, ancora, di non sapersi liberare dell’ombra malefica che lo circonda.
Mi duole proporre un parallelo che non vuole essere blasfemo, ma semplicemente realistico.
Questo fiato sul collo che ridimensiona l’operato di Renzi, somiglia tanto al medesimo fiato sul collo che incombe su Papa Francesco: è il fiatone di Ratzinger, che, pur non apparendo ufficialmente, condiziona l’opera rinnovatrice di Francesco. Se non sentisse il fiatone del predecessore emerito, non avrebbe mai sostenuto che "...il comunismo ci ha rubato la bandiera".
Si tratta della bandiera spirituale della Chiesa dei poveri, ma una affermazione che, con tutto il rispetto per Papa Francesco, non mi sento di condividere né di sforzarmi a capire.
Nella bandiera comunista, quella che sventola nelle feste dell’Unità, c’è il rosso porpora della battaglia, ma non c’è Cristo, per una scelta laica che in troppi hanno interpretato in senso anticlericale.
Le parole di Papa Francesco non chiariscono nulla, anzi peggiorano la situazione proprio nelle contraddizioni che vediamo annunciarsi dall’altra parte del Tevere.
La bandiera del Cristo dei poveri è saldamente in mano a quei sacerdoti che combattono giorno dopo giorno negli angusti anfratti del “mondo dei vinti” e garrisce alta sospinta dal vento della santità di Mons. Oscar Romero, per il quale Ella, Santo Padre, ha sbloccato il processo di beatificazione, dopo che il suo predecessore, oggi emerito, ne aveva bloccato l’iter.
La Teologia della Liberazione rappresenta, oggi, ciò che in tempi passati rappresentarono il monachesimo e i giganti della santità, in quel periodo buio della Chiesa impegnata nelle lotte per le investiture, nella crociate, nel potere temporale e, infine, nell’Inquisizione, paradossalmente chiamata “santa”.
Nella bandiera issata dalla TdL, Cristo è presente, anche se si tratta di una immagine di Cristo lontana dalle icone dell’opulenza, mostrando un Cristo povero, mendico, straccione, affamato, assetato, negletto, sfruttato, umiliato nella persona e nell’anima, come sono i fedeli ai quali si rivolgono i sacerdoti dell’America Latina, ispirati dal loro protettore Oscar Romero, ma è un Cristo pronto a perdonare, ad amare, forte di quel “manifesto” dell’uguaglianza rappresentato dal Discorso della Montagna con le Beatitudini che rappresentarono la più grande rivoluzione sociale che mai il pianeta Terra abbia visto.
Si tratta di valori che nessuno potrebbe mai rubare, perché messi a disposizione di tutti gli uomini di buona volontà.
Ora tocca a Renzi, che non ha, ancora, capito che l’epoca del duetto Ratzinger/Berlusconi, dopo aver fatto tanti danni, è finita, e sarà la Storia ad esprimere le sue valutazioni di rigorosa condanna.
Ora c’è il duetto Begoglio/Renzi sui quali è riposta la speranza della stragrande maggioranza della popolazione, quella che vive di lavoro, fatica, sudore, e che non riceve l’uso dei propri diritti, perché soverchiati dai doveri, mentre una sparuta minoranza, che dall’accoppiata Ratzinger/Berlusconi, ha ricevuto battesimi formali in mondo visione, sostegno, appoggi, condoni, sanatorie, scudi fiscali, con lo IOR sempre pronto a coprire le truffe.
Se nel campo ecclesiale c’è la “Teologia della Liberazione” che sosterrà, come sostiene, i diritti dei più deboli, nel campo laico e civile comincia ad emergere la “Politica della Liberazione”, che sta già dando i suoi frutti, con arresti e carcerazioni che mirano alla “Liberazione” del palcoscenico sociale dei profittatori che hanno devastato la nazione, l’economia, il lavoro, l’etica, la morale, pilotando lo sviluppo verso la competizione, rinnegando la cooperazione, per poter vincere “facile” disponendo della forza del denaro che non genera lavoro.
*
Rosario Amico Roxas (03.07.2014)
PAPA FRANCESCO NON E’ NE’ CRISTIANO NE’ COMUNISTA, E’ UN PAPA DELLA CHIESA CATTOLICO-COSTANTINIANA! Note
"Cristo non abita più quì" (don Paolo Farinella). Sul Vaticano, dal 2006, sventola il "Logo" del Grande Mercante: "Deus caritas est" (Benedetto XVI, 2006)! Il papa teologo, ha gettato via la "pietra" (la "charitas")!!!
LA STAGIONE DELLA GRANDE MENZOGNA: "RITO E MENZOGNA". Un breve testo di don Angelo Casati, segnalato da don Aldo Antonelli
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI.
Federico La Sala