Mafia e politica: allarme della Cei
"Il legame paralizza il Sud"
Necessari interventi educativi:" Il mafioso non deve essere visto come modello da imitare"
I giovani non siano condannati alla precarietà: "Per crescere il Meridione ha bisogno di loro" *
ROMA - Per risolvere la questione meridionale, è necessario "superare le inadeguatezze presenti nelle classi dirigenti" e sconfiggere una volta per tutte le mafie, colpevoli di "avvelenare la vita sociale, pervertire la mente e il cuore di tanti giovani, soffocare l’economia e deformare il volto autentico del Sud’’. E’ quanto afferma il nuovo documento dei vescovi italiani "Per un Paese solidale. Chiesa e Mezzogiorno".
In tutta Italia - denunciano i vescovi - è cresciuto "l’egoismo, individuale e corporativo, con il rischio di tagliare fuori il Mezzogiorno dai canali della ridistribuzione delle risorse, trasformandolo in un collettore di voti per disegni politico-economici estranei al suo sviluppo". Durissimo l’attacco alla criminalità organizzata, che "negli ultimi vent’anni ha messo le radici in tutto il territorio nazionale", condannando in primo luogo i giovani del Sud. "Non è possibile mobilitare il Mezzogiorno senza che esso si liberi da quelle catene che non gli permettono di sprigionare le proprie energie", scrivono i vescovi nel testo presentato oggi.
Condanna della criminalità organizzata. La Conferenza Episcopale Italiana condanna duramente il perdurare del fenomeno della criminalità organizzata nel Mezzogiorno, definito l’autentico "cancro" del Sud. "La criminalità organizzata non può e non deve dettare i tempi e i ritmi dell’economia e della politica meridionali, diventando il luogo privilegiato di ogni tipo di intermediazione e mettendo in crisi il sistema democratico del Paese, perché il controllo malavitoso del territorio porta di fatto a una forte limitazione, se non addirittura all’esautoramento, dell’autorità dello Stato e degli enti pubblici, favorendo l’incremento della corruzione, della collusione e della concussione, alterando il mercato del lavoro, manipolando gli appalti, interferendo nelle scelte urbanistiche e nel sistema delle autorizzazioni e concessioni, contaminando così l’intero territorio nazionale’’.
Il testo cita una recente presa di posizione dei vescovi calabresi: "La mafia sta prepotentemente rialzando la testa. Di fronte a questo pericolo, si sta purtroppo abbassando l’attenzione. Il male viene ingoiato. Non si reagisce. La società civile fa fatica a scuotersi. Chiaro per tutti il giogo che ci opprime. Le analisi sono lucide ma non efficaci. Si è consapevoli ma non protagonisti".
Per i vescovi, "in questi ultimi vent’anni le organizzazioni mafiose, che hanno messo radici in tutto il territorio italiano, hanno sviluppato attività economiche, mutuando tecniche e metodi del capitalismo più avanzato, mantenendo al contempo ben collaudate forme arcaiche e violente di controllo sul territorio e sulla società". "Purtroppo - aggiungono - non va ignorato che è ancora presente una cultura che consente loro di rigenerarsi anche dopo le sconfitte inflitte dallo Stato attraverso l’azione delle forze dell’ordine e della magistratura. C’è bisogno di un preciso intervento educativo, sin dai primi anni di età, per evitare che il mafioso sia visto come un modello da imitare".
Carenza di senso civico. La Cei sottolinea però che l’economia illegale "non si identifica totalmente con il fenomeno mafioso, essendo purtroppo diffuse attività illecite non sempre collegate alle organizzazioni criminali, ma ugualmente deleterie", come usura, estorsione, evasione fiscale e lavoro nero. "Ciò - sottolinea la Conferenza Episcopale Italiana - rivela una carenza di senso civico, che compromette sia la qualità della convivenza sociale sia quella della vita politica e istituzionale, arrecando anche in questo caso un grave pregiudizio allo sviluppo economico, sociale e culturale". Per questo - concludono i vescovi - la Chiesa "è giunta a pronunciare, nei confronti della malavita organizzata, parole propriamente cristiane e tipicamente evangeliche, come ’peccato’, ’conversione’, ’pentimento’, ’diritto e giudizio di Dio’, ’martirio’, le sole che le permettono di offrire un contributo specifico alla formazione di una rinnovata coscienza cristiana e civile".
Lavoro per i giovani: il Mezzogiorno ha bisogno di loro. Un pensiero particolare è rivolto ai giovani del Mezzogiorno, coloro che più di tutti gli altri rischiano di pagare il prezzo dell’ "inadeguatezza delle classi dirigenti" e della loro incapacità di respingere la criminalità organizzata. "La disoccupazione - scrivono i vescovi - tocca in modo preoccupante i giovani e si riflette pesantemente sulla famiglia, cellula fondamentale della società". Anche se "non è facile individuare quali possano essere le migliori politiche del lavoro da realizzare nel Mezzogiorno", la Cei ricorda che "si deve onorare il principio di sussidiarietà e puntare sulla formazione professionale. I giovani del Meridione non devono sentirsi condannati a una perenne precarietà che ne penalizza la crescita umana e lavorativa".
"La disoccupazione - sottolineano - non è frenata o alleggerita dal lavoro sommerso, che non è certo un sano ammortizzatore sociale e sconta talune palesi ingiustizie intrinseche (assenza di obblighi contrattuali e di contribuzioni assicurative, sfruttamento, controllo da parte della criminalità, ecc.)". "Il problema del lavoro - aggiungono - è attraversato da una ’zona grigia’ che si dibatte tra il non lavoro, il ’lavoro nero’ e quello precario; ciò causa delusione e frustrazione e allontana ancora di più il mercato del lavoro del Sud dagli standard delle altre aree europee". Di qui il "flusso migratorio dei giovani, soprattutto fra i venti e i trentacinque anni, verso il Centro-Nord e l’estero": un fenomeno che "cambia i connotati della società meridionale, privandola delle risorse più importanti e provocando un generale depauperamento di professionalità e competenze, soprattutto nei campi della sanità, della scuola, dell’impresa e dell’impegno politico".
* la Repubblica, 24 febbraio 2010
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SCOMUNICA PER LA ’NDRANGHETA. IL VESCOVO DI LOCRI: "CONDANNO CHI FA ABORTIRE LA VITA DEI GIOVANI"
Dieci punti per il Piano di Rilancio
Ricostruire l’Italia, con il Sud
Se si vuole davvero avviare la ricostruzione del Paese, il Piano di Rilancio deve coniugare sviluppo e coesione sociale, riducendo le disparità e valorizzando il Mezzogiorno.
di AA.VV. (Il Mulino, 09-03.2021) *
L’Italia si trova di fronte all’occasione irripetibile di avviare la sua «ricostruzione» coniugando sviluppo e coesione sociale, per giocare un ruolo di primo piano nell’Europa del prossimo decennio.
Per tale ragione, a nostro avviso, l’obiettivo di ridurre le disparità di genere, generazionali e territoriali - per molti aspetti strettamente collegate nelle aree più deboli del Paese - dev’essere al centro del Piano di Rilancio e di tutti i suoi interventi, coerentemente con la complessiva impostazione comunitaria del programma Next Generation EU.
Dunque, lo sviluppo del Mezzogiorno dev’essere un grande obiettivo del Piano: per la rilevanza dei divari interni al Paese, che in base ai criteri di riparto comunitari hanno determinato la dimensione del finanziamento destinato all’Italia; per motivi di uguaglianza fra i cittadini e di rispetto del dettato costituzionale; per motivi di efficienza economica: gli investimenti nel Mezzogiorno hanno un moltiplicatore più elevato e determinano impatti sull’attività produttiva dell’intero sistema nazionale.
Il recupero del ritardo accumulato dall’Italia in Europa si supera tenendo insieme le parti del Paese in una strategia di sviluppo comune. Come nella logica del Next Generation EU, il Piano deve valorizzare le complementarità e le interdipendenze produttive e sociali tra i Nord e i Sud, riconoscendo che i risultati economici e il progresso sociale dei Nord dipendono dal destino dei Sud e viceversa. Nella sua attuale formulazione il Piano non dà garanzia che le sue risorse saranno investite con questo indirizzo, e ancor meno che ci saranno effetti sulla riduzione delle disparità e sulla crescita del Mezzogiorno e quindi dell’intero Paese. Per questo, a nostro avviso, il Piano dovrebbe essere riformulato:
La semplice allocazione di risorse non garantisce tuttavia il cambiamento del Sud e del Paese. Pertanto, a nostro avviso, il Piano dovrebbe anche:
Senza una migliore capacità amministrativa e coerenti politiche ordinarie i risultati conseguiti con il Piano non potranno essere mantenuti nel tempo, l’Italia non sarà davvero «ricostruita» e non potrà contare in Europa.
*
Laura Azzolina, Università di Palermo / Luca Bianchi, economista / Carlo Borgomeo, Fondazione con il Sud / Luciano Brancaccio, Università Federico II Napoli / Luigi Burroni, Università di Firenze / Domenico Cersosimo, Università della Calabria / Leandra D’Antone, storica / Paola De Vivo, Università Federico II Napoli / Carmine Donzelli, editore / Maurizio Franzini, Università La Sapienza Roma / Lidia Greco, Università di Bari / Alessandro Laterza, editore / Flavia Martinelli, Università Mediterranea Reggio Calabria / Alfio Mastropaolo, Università di Torino / Vittorio Mete, Università di Firenze / Enrica Morlicchio, Università Federico II Napoli / Rosanna Nisticò, Università della Calabria / Emmanuele Pavolini, Università di Macerata / Francesco Prota, Università di Bari / Francesco Raniolo, Università della Calabria / Marco Rossi-Doria, maestro / Isaia Sales, Università S. Orsola Benincasa Napoli / Rocco Sciarrone, Università di Torino / Carlo Trigilia, Università di Firenze / Gianfranco Viesti, Università di Bari
"Niente feste religiose nei comuni di mafia"
di Alessandra Ziniti (la Repubblica”, 10 marzo 2010)
Basta con la timidezza della Chiesa, basta con il sostegno ai politici che scendono a patti con la criminalità, basta con la falsa religiosità dei mafiosi. Dopo il documento della Cei sul Mezzogiorno, scendono in campo i presuli di trincea con due proposte forti: uno "sciopero elettorale" che sottolinei l’inadeguatezza della classe politica e l’abolizione delle feste religiose nei paesi in cui regna la criminalità mafiosa.
Da Locri ad Acerra, da Mazara del Vallo ad Agrigento: i vescovi di frontiera parlano dalle colonne di Famiglia cristiana e fanno autocritica per le timidezze del clero. Così Domenico Mogavero, vescovo di Mazara del Vallo e presidente del Consiglio per gli affari giuridici della Conferenza episcopale italiana, teme una Chiesa "icona dell’antimafia", che sollevi i singoli dalle proprie responsabilità e lancia il guanto di sfida per non lasciare lettera morta il recente documento della Cei sul Mezzogiorno. «Se dopo Pasqua nessuno ne parlerà, avremo fallito. Anche nelle nostre comunità - dice - occorre riflettere sul senso della parola terribile citata nel documento: collusione».
Monsignor Mogavero, che nei giorni scorsi era intervenuto con durezza sul decreto per la riammissione delle liste del Pdl per le Regionali e sulle leggi "ad personam", ora invita i fedeli ad azioni dimostrative: «Ogni comunità - propone - scelga un argomento in relazione alla situazione del proprio territorio e agisca: pizzo, usura, corruzione della politica, mafia devota che offre soldi per le feste popolari».
Invita invece ad uno sciopero elettorale don Riboldi. «Adesso tocca a noi - dice il vescovo di Acerra
. Ai politici bisogna dire: o ascoltate la nostra voce, o non vi votiamo più. I cristiani al Sud devono
svegliarsi. Oggi sono continuamente assistiti. Il Mezzogiorno non è l’Italia, oggi si può dire che è
una zona annessa. Sarà brutto, ma è così. In 50 anni al Sud ho visto solo parole ed errori: fabbriche
nate e morte, terreni agricoli devastati, turismo in abbandono. Le mafie hanno avuto terreno fertile,
arato dallo Stato e da un sistema di corruzione e di collusione impostato con straordinaria efficacia.
E la gente ha subìto e si è rassegnata».
Don Riboldi non risparmia dure critiche ai rappresentanti delle istituzioni: «La cultura dell’illegalità è stata diffusa dallo Stato. E non mi consola vedere che proprio chi ha contribuito alla logica della corruzione propone una legge contro di essa. La camorra domina i cuori e le menti. Impedisce ai ragazzini di andare a scuola, perché è lei che li vuole educare. Eppure tagliamo i fondi alla scuola. Bisogna tagliare i ponti, anche quelli tra le nostre chiese e la cultura mafiosa, che spesso dimostra di essere devota».
Un concetto che sta molto a cuore al vescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, quello che a Natale tolse i Re Magi dal presepe lasciando la scritta: "respinti alla frontiera" come immigrati clandestini. Oggi dice: «Aboliamo ogni festa religiosa nei paesi dove si contano gli omicidi. Il sacro non basta per ritenersi a posto se poi nessuno denuncia e la cultura mafiosa è l’unica ammessa». E Giuseppe Morosini, vescovo di Locri, ammette le responsabilità: «Bisognava essere più chiari, anche nelle responsabilità di una Chiesa a volte troppo timida».
Da Bregantini a Crociata, la nuova strategia della Cei nella lotta ai clan mafiosi
"Denunciamo i mafiosi per nome"
La Chiesa italiana,di fronte alla «globalizzazione» della mafia, deve avere il coraggio di denunciare «nomi, cognomi e fatti precisi", afferma Radio Vaticana
di GIACOMO GALEAZZI *
«La solidarietà insieme alla sussidarietà sono principi della dottrina sociale della Chiesa da cui non si può prescindere nella vita civile», spiega il segretario generale della Cei, mons. Mariano Crociata, a Milano per le celebrazioni del 54/o anniversario della morte del beato Don Carlo Gnocchi, tornando a riflettere sul documento ’Chiesa e mezzogiornò, pubblicato mercoledì scorso. «In questo senso - ha affermato Crociata conversando con i giornalisti poco priferma dell’inizio della cerimonia eucaristica al centro Don Gnocchi - è opportuno alimentare e coltivare di più lo scambio tra chiese delle varie parti del Paese», soprattutto tra nord e sud, e «far accrescere di più l’interazione civile e sociale insieme». Nel corso dell’omelia il segretario generale della Cei ha ricordato la figura di Don Gnocchi, beatificato lo scorso 25 ottobre, capace - ha detto - di «porre al centro la dignità della persona umana e, là dove essa è ferita, la sua più piena restaurazione possibile». Al termine della cerimonia, reliquie del Beato sono state presentate alle delegazioni dei 28 centri della Fondazione Don Gnocchi che in diverse regioni italiane si occupano della riabilitazione e della cura di anziani e disabili.
La Chiesa, di fronte alla «globalizzazione» della mafia, deve avere il coraggio di denunciare «nomi, cognomi e fatti precisi», mentre lo Stato deve rendersi conto che il fenomeno non è ormai più ristretto al sud d’Italia, e se vincerà nel Meridione, vincerà anche al nord, evidenzia il vescovo di Campobasso-Bojano, Giancarlo Bregantini, in una intervista alla Radio Vaticana. Il recente documento della Cei su Chiesa e Mezzogiorno ha messo in luce una situazione nuova, che chiama anche la Chiesa -ha osservato mons.Bregantini - a fare di più. Dire che «la mafia è un cancro, che va estirpato e quindi che va combattuto», come affermato nel documento . «E’ già stata - ha osservato il presule - una cosa molto chiara. Non c’è nessuna giustificazione né autogiustificazione».
Poi il vescovo ha ribadito che la mafia non è più un problema solo del Sud, ma dell’Italia intera. «Se il mondo culturale, spirituale e politico non coglie che la mafia è un problema di tutti e lo relega alle regioni del Sud - ha concluso mons.Bregantini - la mafia sarà ancora una volta vincente, perché non è più relegata o chiusa dentro schemi localistici. Ormai è purtroppo e tristemente globalizzata. Con tale ottica va, quindi, letta e se l’Italia intera aiuta il Sud a vincere la mafia, la vincerà anche al Nord; altrimenti il Nord se lo ritroverà tristemente accresciuto sotto casa».
Il documento della Conferenza episcopale - spiega il presule a Radio vaticana- si pone in linea perfetta con tutto il cammino magisteriale di questi vent`anni.La cosa che,oggi nel documento appare è che la mafia non è più un problema solo del Sud. E forse questa è la chiave di lettura e alla parola intitolazione per un Paese solidale, può essere aggiunto "reciprocamente solidale": La parola reciprocità appare nettissima nel capitolo terzo. Questa è la lettura nuova rispetto a vent`anni fa».
* La Stampa, 28/2/2010
NUOVO DOCUMENTO CEI:
“Per un Paese solidale. Chiesa italiana e mezzogiorno”
PRIMA CHE VENGA ARCHIVIATO
di Alberto Simoni
Prime considerazioni di Alberto Simoni *
Porta la data del 21 febbraio - I domenica di Quaresima - il nuovo documento della CEI “Per un Paese solidale. Chiesa italiana e mezzogiorno”, che intende “riprendere la riflessione sul cammino della solidarietà nel nostro Paese, con particolare attenzione al Meridione d’Italia e ai suoi problemi irrisolti”, a vent’anni dalla pubblicazione del documento “Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno”, che a sua volta si rifà all’altro del 1981 “La Chiesa italiana e le prospettive del Paese”.
Sarebbe utile poterne fare una lettura parallela, ma per il momento forse è più urgente segnalare almeno l’ultimo in ordine di tempo, dopo che la stampa nazionale lo ha preso a suo modo in considerazione e prima che venga archiviato nella ricca biblioteca della CEI, senza che passi attraverso quella “fatica del pensare” a cui invece sembrerebbe invitare tutti.
Su due piedi si potrebbe dire che in questo documento c’è tutto e il contrario di tutto e che alla fine di diagnosi anche realistiche della situazione del Paese si arriva a prescrivere i soliti placebo, senza dire cosa una chiesa abbia fatto o lasciato fare in questi anni per quel “cammino di solidarietà”, che non può aspettare d’essere celebrato con un altro documento nei prossimi 20 anni.
Sì, si fa appello ai martiri (don Puglisi, don Diana, il giudice Rosario Livatino), ma ci si guarda bene dal dare sostegno a quanti lottano sulle stesse frontiere oggi e soprattutto non si spinge la chiesa intera - salvo retorici inviti e appelli finali - a portarsi su queste linee di frattura. Si può dire che per questa causa vengano spese le stesse parole e investite le stesse energie che sono all’ordine del giorno per la “difesa della vita”? Non si tratta della stessa cosa?
In questo senso, una chiara chiave di lettura la si trova alla fine, al n.19, dove si legge: “Contro ogni tentazione di torpore e di inerzia, abbiamo il dovere di annunciare che i cambiamenti sono possibili. Non si tratta di ipotizzare scenari politici diversi, quanto, piuttosto, di sostituire alla logica del potere e del benessere la pratica della condivisione radicata nella sobrietà e nella solidarietà”. E allora saremmo tentati di leggere questo testo come un tentativo più o meno riuscito di quadratura del cerchio, nel senso di registrare cambiamenti in atto, possibili e anche necessari, ma esorcizzando “scenari politici diversi”.
E tutto questo nella consapevolezza di “una trasformazione politico-istituzionale, che ha nel federalismo un punto nevralgico, e con un’evoluzione socio-culturale, in cui si combinano il crescente pluralismo delle opzioni ideali ed etiche e l’inserimento di nuove presenze etnico-religiose per effetto dei fenomeni migratori” (n.1). Ma mentre riguardo al federalismo si spende l’intero n.8, riguardo alla trasformazione politico-istituzionale sembra che non esistano problemi, e ogni cosa può rimanere apparentemente come era, anche se c’è uno strisciante attentato alla Costituzione e la convivenza civile è sempre più compromessa alla radice.
Ma forse ci è lecito leggere tra le righe, quando si dice che “si tratta, infatti, non soltanto del fare a cui sono abituati i governanti delle nazioni, ma del consegnare a Dio − nello spazio orante del discernimento spirituale e pastorale − tutto ciò che si condivide con la gente, cioè i pochi pani e i pochi pesci. In questa condivisione riuscita l’Eucaristia si rivela veramente come la fonte e il compimento della vita della Chiesa” (n.3). E ancora: “Per i discepoli di Cristo la scelta preferenziale per i poveri significa aprirsi con generosità alla forza di libertà e di liberazione che lo Spirito continuamente ci dona, nella Parola e nell’Eucaristia”. E se fosse un involontario rilancio della “Chiesa dei poveri” e di una “Teologia della liberazione”?
Questo primo approccio al documento CEI ha il solo scopo di richiamare l’attenzione e sollecitare la riflessione di tutti. Almeno di quanti hanno a cuore le sorti del Paese, ma anche il destino di una fede evangelica che perde il suo sapore. (ABS)
2 - Dal documento Cei “Per un Paese solidale”
I GIOVANI IN PRIMA FILA NELLA PAROLA DEI VESCOVI
10 - Il flusso migratorio dei giovani, soprattutto fra i venti e i trentacinque anni, verso il Centro-Nord e l’estero, è la risultante delle emergenze sopra accennate. Oggi sono anzitutto figure professionali di livello medio-alto a costituire la principale categoria dei nuovi emigranti. Questo cambia i connotati della società meridionale, privandola delle risorse più importanti e provocando un generale depauperamento di professionalità e competenze, soprattutto nei campi della sanità, della scuola, dell’impresa e dell’impegno politico. Anche le comunità ecclesiali subiscono gli effetti negativi di tale fenomeno, sperimentando al loro interno inedite difficoltà pastorali che pregiudicano considerevolmente la trasmissione della fede alle nuove generazioni.
11 - Il decennio successivo al 1989 è stato caratterizzato nelle regioni meridionali da un tasso di crescita che ha fatto sperare, anche se per poco, in una riduzione del divario con il resto dell’Italia. Tale tendenza positiva è stata parallela a una crescita della società civile, maggiormente consapevole di poter cambiare gradualmente una mentalità e una situazione da troppo tempo consolidate. Le coscienze dei giovani, che rappresentano una porzione significativa della popolazione del Mezzogiorno, possono muoversi con più slancio, perché meno disilluse, più coraggiose nel contrastare la criminalità e l’ingiustizia diffusa, più aperte a un futuro diverso. Sono soprattutto i giovani, infatti, ad aver ritrovato il gusto dell’associazionismo - tuttora particolarmente vivace in queste regioni -, dando vita a esperienze di volontariato e a reti di solidarietà, non volendo più sentirsi vittime della rassegnazione, della violenza e dello sfruttamento. Per questo sono scesi in piazza per gridare che il Mezzogiorno non è tutto mafia o un luogo senza speranza. I loro sono volti nuovi di uomini e donne che si espongono in prima persona, lavorano con rinnovata forza morale al riscatto della propria terra, lottano per vincere l’amarezza dell’emigrazione, per debellare il degrado di tanti quartieri delle periferie cittadine e sconfiggere la sfiducia che induce a rinviare nel tempo la formazione di una nuova famiglia. Sono volti non rassegnati, ma coraggiosi e forti, determinati a resistere e ad andare avanti.
14 - Nelle comunità cristiane si sperimentano relazioni significative e fraterne, caratterizzate dall’attenzione all’altro, da un impegno educativo condiviso, dall’ascolto della Parola e dalla frequenza ai sacramenti. Sono luoghi «dove le giovani generazioni possono imparare la speranza, non come utopia, ma come fiducia tenace nella forza del bene. Il bene vince e, se a volte può apparire sconfitto dalla sopraffazione e dalla furbizia, in realtà continua ad operare nel silenzio e nella discrezione portando frutti nel lungo periodo» . Questo è il rinnovamento sociale cristiano, «basato sulla trasformazione delle coscienze, sulla formazione morale, sulla preghiera; sì, perché la preghiera dà la forza di credere e lottare per il bene anche quando umanamente si sarebbe tentati di scoraggiarsi e di tirarsi indietro» . Il cristiano non si rassegna mai alle dinamiche negative della storia: nutrendo la virtù della speranza, da sempre coltiva la consapevolezza che il cambiamento è possibile e che, perciò, anche la storia può e deve convertirsi e progredire.
15 - D’altra parte, se non saranno per prime le nostre comunità a sentire il desiderio dello scambio e del mutuo aiuto, come potremo aspettarci che le disuguaglianze e le distanze siano superate negli altri ambiti della convivenza nazionale? Al contrario, proprio la forza di questo intreccio di volontà di condivisione e di arricchimento reciproco sul piano spirituale e pastorale diventa fermento, motivazione e incoraggiamento perché tutta la vita sociale, anche nelle sue dimensioni economiche e politiche, sia spinta verso traguardi sempre più alti di giustizia e di solidarietà.
16 - In una prospettiva di impegno per il cambiamento, soprattutto i giovani sono chiamati a parlare e testimoniare la libertà nel e del Mezzogiorno. Non sembri un paradosso evocare il bisogno di riappropriarsi della libertà e della parola in una società democratica, ma i giovani del Sud sanno bene che cosa significhino omertà, favori illegali consolidati, gruppi di pressione criminale, territori controllati, paure diffuse, itinerari privilegiati e protetti. Ma sanno anche che le idee, quando sono forti e vengono accompagnate da un cambiamento di mentalità e di cultura, possono vincere i fantasmi della paura e della rassegnazione e favorire una maturazione collettiva. Essi possono contribuire ad abbattere i tanti condizionamenti presenti nella società civile. L’esigenza di investire in legalità e fiducia sollecita un’azione pastorale che miri a cancellare la divaricazione tra pratica religiosa e vita civile e spinga a una conoscenza più approfondita dell’insegnamento sociale della Chiesa, che aiuti a coniugare l’annuncio del Vangelo con la testimonianza delle opere di giustizia e di solidarietà.
17 - A maggior ragione ci sentiamo provocati dalla sfida educativa sul versante intraecclesiale della catechesi. Questa pure, nelle parrocchie e in ogni realtà associativa, va ripensata e rinnovata. Essa dev’essere dotata il più possibile di una efficacia performativa: non può, cioè, limitarsi a essere scuola di dottrina, ma deve diventare occasione d’incontro con la persona di Cristo e laboratorio in cui si fa esperienza del mistero ecclesiale, dove Dio trasforma le nostre relazioni e ci forma alla testimonianza evangelica di fronte e in mezzo al mondo. Da essa dipende non soltanto la corretta ed efficace trasmissione della fede alle nuove generazioni, ma anche lo stimolo a curare e maturare una qualità alta della vita credente negli adolescenti e nei giovani.
19 - Per le comunità cristiane e per i singoli fedeli un atteggiamento costruttivo rappresenta lo spazio spirituale entro cui progettare e attivare ogni iniziativa pastorale per crescere nella speranza. Svelare la verità di un disordine abilmente celato e saturo di complicità, far conoscere la sofferenza degli emarginati e degli indifesi, annunciando ai poveri, in nome di Dio e della sua giustizia, che un mutamento è possibile, è uno stile profetico che educa a sperare. Occorre però che il senso cristiano della vita diventi fermento e anima di una società riscattata da ritardi e ingiustizie, capace di stare al passo del cammino economico, sociale e culturale del Paese intero.
20 - Scriviamo a voi giovani, perché sappiate che in voi Cristo vuole operare cose grandi: rivestitevi perciò di speranza e costruite la casa comune nel vincolo dell’amore fraterno e nella fede salda. Se la parola di Dio dimora in voi, potete vincere il maligno in tutti i suoi volti (cfr 1Gv 2,14) e dare un futuro alla nostra terra.
3 - Dal documento CEI del 1981
“La Chiesa italiana e le prospettive del paese” (n.29)
Dobbiamo chiederci perché la proposta cristiana, per sua natura destinata a dare pieno senso all’esistenza, è stata inadeguata alla richiesta dei giovani e degli uomini del nostro tempo, e quali responsabilità ora ci attendono. Troveremo di certo una carenza grave del nostro esplicito annuncio di Cristo e della nostra testimonianza di fede. Ma impareremo anche a delineare un’organica pastorale della cultura, che sappia sì giudicare e discernere ciò che c’è di valido nei sistemi culturali e nelle ideologie, ma più ancora sappia puntare su tutto ciò che affina l’uomo ed esplica le molteplici sue capacità di far uso dei beni, di lavorare, di fare progetti, di formare costumi, di praticare la religione, di esprimersi, di sviluppare scienze e arte: in una parola, di dare valore alla propria esistenza (cf. GS 53). È evidente che la elaborazione di una cultura intesa in questi termini è compito primario di tutta la comunità cristiana, che lo realizza con chiare proposte di valori e con lo specifico impegno dei laici - degli intellettuali ma anche dei laici più umili - nel terreno della vita quotidiana, dove occorre capacità di dialogo, di confronto, di fondato giudizio, di fattiva promozione umana. Articolo tratto da:
FORUM (191 26 febbraio 2010) Koinonia
http://www.koinonia-online.it
Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046
* Il Dialogo, Domenica 28 Febbraio,2010 Ore: 15:35
Il vecchio che ritorna
di Barbara Spinelli (La Stampa, 28 febbraio 2010)
E’ scritto nel Qohélet, poema biblico di massima saggezza, che «ciò che è, già è stato. Ciò che sarà, già è». Si applica atrocemente all’Italia, e manda in rovina le parole che da 17 anni ci accompagnano, sempre più insipide: Transizione, Seconda Repubblica, Nuovo, Miracolo, Riforma. Oppure: politica del fare, dell’efficienza.
Nell’intervista a Fabio Martini, Rino Formica, ex uomo di Craxi, constata un «collasso dello Stato. Snervato nei suoi gangli vitali. Con un’aggravante: nell’opinione pubblica cresce un disgusto senza reazione, si attendono fatalisticamente nuovi eventi ancora più squalificanti, il perpetuarsi di un’Italia regno degli amici, delle spintarelle, delle percentuali».
L’avvento del Nuovo, promesso dopo lo svelamento di Tangentopoli nei primi Anni 90, era dunque un pasticciaccio, un maledetto imbroglio. Non: «Ecco, faccio nuove tutte le cose», ma: «Faccio tutte le cose vecchie». Non siamo in mezzo al guado, il viaggio non è mai iniziato. Come nell’Angelo sterminatore di Buñuel, per uscire dalla stanza-prigione bisogna ripercorrere gli esordi, capire come si è entrati nell’imbroglio e ci si è rimasti.
Mani Pulite nacque e crebbe come evento davvero inedito, per l’Italia, in simultanea con la battaglia condotta a Palermo contro i patti della politica con mafia e camorra: una pantera la mafia, una volpe la camorra, disse Falcone a Giovanni Marino di Repubblica, quattro giorni prima di essere ucciso. Figlie, l’una e l’altra, di «un’omertà che si è trasformata in memoria storica di uno Stato che non ti garantisce». È significativo che l’unico commento di Silvio Berlusconi sul marciume che torna a galla sia: «Il male principale della democrazia in Italia è la giustizia politicizzata». Non è il marciume, ma il dito che lo indica. Non è il fare che si svela malaffare, il predominio dell’opaco sul trasparente, il familismo amorale che torna, la ’ndrangheta che non fidandosi più di nessun mediatore entra in Parlamento. Il capo del governo è un avatar della Prima Repubblica: pur travestendosi, pur conquistando folle e voti, «fa vecchie tutte le cose». La sua rivoluzione, come accade nelle rivoluzioni giacobine, ha raccattato il potere a terra per salvarlo. Il presidente della Consulta Francesco Amirante ha detto in pratica questo, giovedì: sono i giacobini e non i democratici a idealizzare la sovranità assoluta dell’elettore. Le costituzioni esistono perché del popolo non ci si fida del tutto, e la Consulta rappresenta un «popolo trascendente» che guardando lontano frena se stesso.
Quando nacquero le due battaglie - Mani Pulite a Milano, l’antimafia a Palermo - si capì che tutto in Italia si teneva: l’intreccio tra politica e affari a Nord, tra politica e mafia a Sud. Le due città divennero simbolo dell’Italia peggiore e migliore, ambedue sperarono molto prima di disperare, ambedue scoprirono di portare dentro di sé la «memoria storica di uno Stato che non ti garantisce».
Dicono che Tangentopoli oggi è diversa, anche se il cittadino non vede grandi differenze. Per alcuni è peggio («Noi non abbiamo mai scardinato lo Stato», assicura Formica), visto che allora si rubava per i partiti e ora si ruba per sé. Come se rubare per la politica fosse un’attenuante, e non l’obbrobrio che ha distrutto il senso delle istituzioni e dello Stato, aprendo strade ancor più larghe alle ruberie del tempo presente.
Dicono anche che l’Italia è congenitamente votata alla corruzione. Anche questo è falso, perché l’Italia con Mani Pulite cominciò a sperare veramente in una rigenerazione. Enorme fu la partecipazione ai funerali di Falcone, il 25 maggio ’92. Ci fu il movimento dei lenzuoli, speculare a Mani Pulite. Nel suo bel libro L’Italia del tempo presente, Paul Ginsborg cita un documento stilato in una veglia di preghiera nella chiesa palermitana di San Giuseppe ai Teatini, il 13 giugno 1992, dopo l’eccidio di Falcone. Il documento s’intitolava «L’Impegno», e oggi dovrebbero leggerlo e rileggerlo gli studenti, gli imprenditori, i servitori dello Stato, i politici, per mostrare che l’Italia ha qualcos’altro nelle ossa, oltre alla melma. Se torna a corrompersi, è anche perché ai vertici manca l’esempio. «Entri nella mafia se ti senti, e sei, nessuno mischiato con niente», dice il linguaggio malavitoso.
Vale la pena ricordare alcuni brani, dell’Impegno palermitano: «Ci impegniamo a educare i nostri figli nel rispetto degli altri, al senso del dovere e al senso di giustizia. Ci impegniamo a non adeguarci al malcostume corrente, prestandovi tacito consenso perché “così fan tutti”. Ci impegniamo a rinunziare ai privilegi che possano derivare da conoscenze e aiuti “qualificati”. Ci impegniamo a non vendere il nostro voto elettorale per nessun compenso. Ci impegniamo a resistere, nel diritto, alle sopraffazioni mafiose...». Questo fu, ed è, il Nuovo. Anche Milano, atavicamente maldisposta verso lo Stato, sentì sorgere in sé un ricominciamento. Corrado Stajano la descrive non più piegata sui propri affari privati ma «infiammata di un entusiasmo liberatorio», nel febbraio ’92, grata ai magistrati che ne scoperchiavano il malaffare. Da allora «si è indurita, non ha saputo discutere le cause vicine e lontane di una corruzione che ha macchiato tutti i partiti politici e tutti gli strati sociali (...), non ha saputo fare i conti con se stessa. Ha cancellato quel che è successo. O meglio, ha preferito dirsi che nulla è successo» (Stajano, La città degli untori, Garzanti 2009).
Fu da quel vuoto che balzò fuori la figura di Berlusconi, agguerritissimo addomesticatore di istinti, creatore di mondi e show consolanti. Lui sapeva la forza di certi gusti, aveva addirittura forgiato nuovi stili di vita a Milano-2, lontano dalla pazza folla cittadina, aveva creato addirittura una televisione per le new town e da lì partì, promettendo nel ’94 un «nuovo miracolo italiano». Un miracolo non per fermare i comunisti, ma quel popolo dei lenzuoli e dell’entusiasmo liberatorio che minacciava mafie e vecchi-nuovi padroni del vapore. Si continuò a rubare, senza neanche più fingere passioni politiche. La Lega smise gli osanna a Mani Pulite perché rivalutare le istituzioni voleva dire contribuire di tasca propria al bene comune, e solo gli imbecilli lo fanno.
Non si aprì l’era della trasparenza, della riforma dello Stato. Se ne parla di continuo ma il verbo è performativo, come dicono i linguisti: basta dire e il fare già c’è. Paradossalmente, nell’era di Berlusconi tutto si decide nelle aule di giustizia: non è da escludere che proprio questo egli voglia, per avere un nemico esistenziale.
Forse il Nuovo non è venuto perché debellare la corruzione è «impresa titanica», come sostiene Luca di Montezemolo: perché coinvolge non solo i politici ma un’intera classe dirigente. Forse per questo siamo immobili non in mezzo al guado, ma penzolanti nel vuoto come nel ’92, sfiduciati e però assetati di ricominciare. Difficile credere che non esista anche questa sete, accanto al disgusto fatalista. La sete rispuntata dopo il fascismo, quando Luigi Einaudi disse, il 27 luglio ’47: «Esiste in questo nostro vecchio continente un vuoto ideale spaventoso».
Mi ha colpito una frase, detta all’Aquila domenica scorsa da un manifestante delle chiavi, il direttore dell’Accademia delle Belle Arti Eugenio Carlomagno: «Chiusi nelle case antisismiche, nei moduli abitativi provvisori, abbiamo capito che non sapevamo dove andare: non c’è un teatro, non c’è una biblioteca, non ci sono più i bar del centro. Ci siamo accorti di essere persone che debbono solo comprare cibo al supermercato, mangiare e guardare la televisione. Abbiamo detto basta». Non è ancora L’Impegno della chiesa palermitana, ma si ricomincia anche così: uscendo dal privato delle new town, spegnendo le tv del Truman Show, riprendendosi la pòlis.
Riscoprendo che la politica può fare la differenza, non in peggio ma in meglio, e che a quel punto potremo edificare la memoria di uno Stato che ti garantisca.
PAESE NORMALE
di don Aldo Antonelli
Che schifo”!
“E’ una vergogna”!
“Ma che sta succedendo?”
Questo ed altro. Una serie di esclamativi e di interrogativi che esprimono lo sdegno, la rabbia, lo scandalo, la sorpresa, la vergogna, tutto ciò ed altro ancora.
Ed io sto qui a scandalizzarmi dello scandalo e a vergognarmi della vergogna...!
Sono uscito da casa a piedi, senza giornale, per pensare e riflettere, senza la distrazione della carta stampata e lontano dalle parole gridate, anche se, purtroppo, invaso dai faccioni della propaganda politica che ti occhieggiano da maximanifesti bugiardi e prepotenti: tutti di Destra.
Ma perché meravigliarsi? Mi chiedo.
La volgarità mediatica che da anni ci invade, e che ha fagocitato non solo il commercio ma anche la politica, il costume, la chiesa e quant’altro, cosa vi aspettavate che producesse?
E normale, tremendamente normale!
Hanno cominciato dagli anni ottanta, le sirene del tuttofare e dell’affare, a inneggiare alla caduta delle ideologie, a spalancare le porte e le coscienze al “libero mercato”, a dare il benvenuto agli istrioni del consumismo e a stendere tappeti di accoglienza ai picconatori dello Stato Sociale fino al punto da introneggiare sugli scanni del comando il ladro per antonomasia, il corrottocorruttore, la piovra befaniera. Cosa volete che sortisse una miscela tossica di siffatta specie?
E’ tutto tristemente normale!
E’ da anni che la corruzione viene predicata e praticata, perdonata e condonata, premiata e incoraggiata.
E’ da anni che si è impiantato nell’organismo vivo della società italiana questo litotritore di ogni valore e di ogni regola che impazza dal Grande Fratello alle Grandi Opere e agli Affari tuoi e alle lotterie milionarie e ai Talk Show: distributori a dosi massicce di anestetizzanti sogni evasivi e deresponsabilizzanti che sortiscono una specie di eutanasia di massa: il soldo facile e il colpo di fortuna. Di qui bustarelle e donnine, prestazioni date e ricevute, promozioni e prostituzioni.
Tutto tremendamente e maledettamente normale!
E non vengano a farmi prediche i chierici delle riverenze e dell’adulazione: monsignori o cardinali, Ruini o Bertone, responsabili in primis, anche loro, di questa morte infernale.
Aldo
L’atto di denuncia dei vescovi
"Il crimine minaccia la democrazia"
di Orazio La Rocca (la Repubblica, 25 febbraio 2010)
«Corruzione, concussione, manipolazioni di appalti, collusioni con organizzazioni criminali, interferenze, politici inadeguati». Ecco i mali che - secondo i vescovi italiani - gravano sul nostro Meridione, un’area sempre più oppressa «da un potere mafioso che ancora una volta ha rialzato la testa», condizionando persino «scelte elettorali, voti, crescita sociale». Un potere dell’«abuso e dell’illegalità» che una classe politica finora «incapace» non è stata in grado di sradicare dal nostro orizzonte nazionale e meridionale.
E’ un vero e proprio grido di allarme quello che i vescovi della Conferenza episcopale italiana lanciano nel loro nuovo documento su «Chiesa italiana e Mezzogiorno». Un documento che riprende con forza anche lo storico grido di allarme lanciato il 9 maggio 1993 da Giovanni Paolo II dalla Piana dei Templi di Agrigento quando il papa polacco prossimo beato disse ai mafiosi di «convertirsi perché anche per voi un giorno verrà il giudizio di Dio!».
Punto centrale del testo, una nuova inappellabile condanna di «tutte le attività mafiose e malavitose», mali per i quali i vescovi invitano alla «conversione credenti, non credenti e uomini di buona volontà». Analoghe esortazioni arrivano anche per le stesse istituzioni (governo ed enti locali), invitate a «rinnovarsi» e «non pensare al rilancio del Meridione solo in termini di grandi opere pubbliche» o con politiche federaliste che alla fine «puntano in realtà a dividere il Paese non a unirlo». «La criminalità organizzata - avvertono ancora i vescovi - non può e non deve dettare i tempi e i ritmi dell’economia e della politica meridionali, diventando il luogo privilegiato di ogni tipo di intermediazione e mettendo in crisi il sistema democratico del Paese, perché il controllo malavitoso del territorio porta di fatto a una forte limitazione, se non addirittura all’esautoramento, dell’autorità dello Stato e degli enti pubblici, favorendo l’incremento della corruzione, della collusione e della concussione, alterando il mercato del lavoro, manipolando gli appalti, interferendo nelle scelte urbanistiche e nel sistema delle autorizzazioni e concessioni, contaminando cosi’ l’intero territorio nazionale».
«E’ una presa di posizione giusta ed opportuna che deve farci riflettere», commenta Rosy Bindi, presidente dell’assemblea nazionale del Pd. Dello stesso avviso Rocco Buttiglione (Udc), che assicura che il suo «partito è pronto ad accogliere l’esortazione dei vescovi sul Meridione». Per Niki Vendola, governatore pugliese, «la mafia non è solo un problema del Sud». Per il Pdci «è un chiaro atto di accusa dei vescovi contro il governo».
Monsignor Crociata, mette a punto il significato del documento della Conferenza
Episcopale: "I vescovi hanno a cuore la crescita della coscienza civile"
La Cei preoccupata per la democrazia
"Non solo del Sud, ma dell’intero Paese" *
ROMA - Arriva da monsignor Mariano Crociata, segretario generale della Cei (Conferenza Episcopale Italiana) una precisazione relativa alle denunce dei vescovi italiani, contenute nel documento ’’Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno’’, secondo la quale quei rilievi non riguardano solo il Sud, pur nella coscienza che ’’non sarebbe legittimo guardarlo e considerarlo come un problema a parte, un problema da isolare, di una malattia da tagliare fuori dal circuito’’, ma si tratta di una patologia che riguarda l’intero Paese, oggi sempre più al centro di scandali e corruzione.
In una intervista rilasciata alla Radio Vaticana, il presule ha affermato che le considerazioni contenute nel documento ’’in questo momento, diventano anche un’occasione in più per maturare una riflessione e una risposta alle esigenze e ai problemi che anche la tornata elettorale puo’ porre’’. Per quanto riguarda il nostro Mezzogiorno, secondo Crociata ’’c’e’ l’esigenza che il Sud tutto intero, le popolazioni con le loro classi dirigenti, si facciano carico dell’impegno di rispondere alla chiamata storica di questa stagione di vita del Mezzogiorno, per mettere tutto l’impegno necessario a progredire’’.
Ma lo sguardo dell’episcopato italiano, ha sottolineato Crociata, va ’’all’intero Paese che resta una preoccupazione di primo piano del documento. Voglio però precisare - ha poi aggiunto il segretario generale della Cei - che intendiamo democrazia in senso lato, cioè nel senso dello sviluppo, della crescita, del cammino del Paese, non in sensi riduttivi. A questo proposito - ha aggiunto - voglio dire che non è un caso che i vescovi abbiano voluto mettere nel titolo innanzitutto ’Per un Paese solidale’: cioè, sono tutti i vescovi italiani che guardano all’intero Paese e nel guardare all’intero Paese devono rilevare - con preoccupazione - il ritardo grave, persistente di una parte del Paese".
In conclusione: "Quindi l’attenzione dei vescovi - ha detto ancora Crociata - è proprio intenzionalmente rivolta a questa visione d’insieme, al desiderio che tutto il Paese cresca. La crescita, lo sviluppo, il superamento delle difficoltà, non viene soltanto dalla disponibilità di maggiori risorse, vorrei dire anche non soltatno dall’utilizzazione effettiva, più di quanto non si sia fatto, delle risorse economiche e strutturali disponibili, ma dalla crescita di una coscienza civile". A partire dalla formazione delle giovani generazioni.
* la Repubblica, 25 febbraio 2010
I vescovi: «Sud paralizzato dall’intreccio mafia-politica»
di Alessandro Speciale (Liberazione, 25 febbraio 2010)
Il Mezzogiorno ridotto a «collettore di voti» per una politica che persegue disegni «estranei al suo sviluppo»; una classe dirigente inadeguata che in vent’anni non è stata capace di arginare l’espansione di mafie che ormai «hanno messo radici in tutto il territorio italiano» e agiscono come aziende capitalistiche avanzate, «mantenendo al contempo ben collaudate forme arcaiche e violente di controllo sul territorio e sulla società»: è durissima la requisitoria sullo stato del Sud d’Italia presentata ieri dai vescovi italiani con un documento in preparazione da mesi e intitolato "Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno".
La Cei lo ha diffuso un po’ in sordina, senza farlo precedere dalle conferenze stampa che in genere accompagnano i documenti della Chiesa, ma i contenuti delle 18 pagine parlano da sé. Quella dei vescovi è un’analisi aspra della situazione di arretratezza del Meridione: in vent’anni, scrivono, «in Italia, è cambiata la geografia politica, con la scomparsa di alcuni partiti e la nascita di nuove formazioni», è «mutato il sistema di rappresentanza nel governo dei comuni, delle province e delle regioni, con l’elezione diretta dei rispettivi amministratori», è partito «un processo di privatizzazioni delle imprese pubbliche» con la messa in soffitta «dell’intervento straordinario della Cassa del Mezzogiorno», mentre l’immigrazione «dall’Europa dell’Est, dall’Africa e dall’Asia» ha iniziato a bussare con insistenza alle nostre coste, portando nuove sfide e nuovi problemi.
Eppure, il "cancro" della malavita organizzata continua a «dettare i tempi e i ritmi dell’economia e della politica meridionali, diventando il luogo privilegiato di ogni tipo di intermediazione e mettendo in crisi il sistema democratico del Paese», portando ad una «forte limitazione, se non addirittura all’esautoramento, dell’autorità dello Stato e degli enti pubblici, favorendo l’incremento della corruzione, della collusione e della concussione, alterando il mercato del lavoro, manipolando gli appalti, interferendo nelle scelte urbanistiche e nel sistema delle autorizzazioni e concessioni, contaminando così l’intero territorio nazionale».
Le novità elettorali e politiche degli ultimi due decenni non hanno migliorato la situazione, né «prodotto quei benefici che una democrazia più diretta nella gestione del territorio avrebbe auspicato». Anzi, la riforma federale della fiscalità rischia di accentuare la «distanza tra le diverse parti d’Italia». Il federalismo, per funzionare, deve essere «solidale, realistico e unitario», scrivono i vescovi, e l’impegno dello Stato deve rimanere «intatto nei confronti dei diritti fondamentali delle persone, perequando le risorse, per evitare che si creino di fatto diritti di cittadinanza differenziati a seconda dell’appartenenza regionale». D’altro canto la disoccupazione e la «perenne precarietà» del lavoro giovanile non si possono risolvere con una «politica delle opere pubbliche». C’è bisogno, concludono i vescovi, di una cultura «del bene comune, della cittadinanza, del diritto, della buona amministrazione e della sana impresa nel rifiuto dell’illegalità».