Si chiude oggi a Santa Flavia l’incontro dei rappresentanti delle diciotto diocesi dell’isola Dal documento di sintesi emerge il bisogno di superare individualismi e sfiducia per tornare a incidere sul territorio Fra i segnali positivi le iniziative contro la diffusione della malavita
Sicilia, la forza profetica della comunione
Arriva dal Sud l’invito rivolto ai laici a vivere nel mondo, ritornando ad animare gli spazi di vita pubblica in ascolto continuo della Parola e senza cadere in compromessi
Da Palermo Alessandra Turrisi (Avvenire, 23.09.2006)
Accettare con speranza la sfida della comunione, contro la tentazione dell’individualismo e della sfiducia. Sembrano volerlo gridare forte le diciotto diocesi siciliane in cammino verso il Convegno ecclesiale di Verona, manifestando una lettura chiara delle luci e delle ombre di una Chiesa che si confronta con i tumultuosi cambiamenti culturali e chiede un nuovo slancio missionario. Una riflessione complessa e sofferta che è contenuta nella sintesi regionale presentata e discussa a Santa Flavia, alle porte di Palermo, in un incontro con i 150 delegati delle diocesi dell’isola che si conclude oggi.
Un documento che tenta di riassumere il lavoro svolto dalle singole diocesi, seguendo spesso «uno stile sinodale, basato sull’ascolto dei fedeli, attraverso assemblee parrocchiali e di vicariato» spiega monsignor Carmelo Cuttitta, che fa parte del gruppo di coordinamento regionale insieme col vescovo delegato monsignor Mario Russotto (pastore della diocesi di Caltanissetta), con Rosa Maria Scuderi e Giuseppe Di Fazio.
Da ogni parte è emerso il bisogno di rafforzamento degli organismi di partecipazione alla vita ecclesiale, oltre che di una pastorale unitaria e di una vera spiritualità di comunione. Di fronte alle sfide del nostro tempo e ai rapidi e profondi cambiamenti culturali, è necessario un atteggiamento aperto al dialogo e alla pazienza, alla fiducia e alla condivisione. «È necessario - si legge del documento - promuovere una lettura sapienziale della storia, illuminati dalla luce della fede. La speranza deve aiutare ad avere sempre uno sguardo positivo sulla storia presente e guardare con fiducia verso il futuro. Si tratta di assumere un atteggiamento contemplativo che rende capaci di amare il mondo, così come Dio lo ama, e di sapere leggere gli eventi della storia con la stessa ottica di Dio».
Eventi che in Sicilia spesso assumono le caratteristiche di gravissimi problemi sociali ed economici: dove ci sono «disoccupazione, sottoccupazione, disfunzioni nei servizi sociali e sanitari, infiltrazione in tutti gli ambiti dei poteri mafiosi, l’annuncio e la testimonianza evangelica non possono avvenire in astratto, ma, rivolgendosi all’uomo nel suo vissuto quotidiano, devono aiutarlo a relativizzare le sue autosufficienze e risanare le sue ferite, favorendo ogni impegno per il bene, ravvivando la speranza». Ma per guardare il mondo con gli occhi della fede è necessario «l’incontro con il Risorto, che si realizza nella Parola ascoltata, celebrata e vissuta, alla luce della quale leggere la storia. Ci è chiesto di abitare il mondo professando la Parola. Sono necessari per questo cammini di iniziazione e di formazione permanente. In un’epoca - continua il documento - in cui prevale l’ansia di prendere la parola, bisognerebbe ricominciare ad ascoltare. Sarebbe il primo segnale culturale forte, non solo dal punto di vista metodologico, ma anche politico ed ecclesiale».
Di fronte al dilagare di forme di paganesimo, indifferenza, cultura della rassegnazione, analfabetismo della fede, le diocesi siciliane chiedono un impegno maggiore nella formazione del laicato per favorire la crescita di una fede adulta, ma anche la valorizzazione di quei laici preparati teologicamente per vivere un’effettiva corresponsabilità nella missione della Chiesa.
Analizzando poi gli ambiti della testimonianza, le diocesi sottolineano che, al di là dei problemi quotidiani vissuti dalle famiglie, «la testimonianza di Cristo Risorto è portata ad incidere nello stesso tessuto sociale in modo forte e dirompente».
Nell’ambito della «vita affettiva», oggi minata da ogni parte, per esempio, brillano quali «segni positivi di speranza» numerose esperienze di adozione e di affido familiare di minori in difficoltà o di accoglienza nei confronti di portatori di handicap. Ma accorato arriva l’appello a investire molto nel campo della pastorale familiare. Particolarmente sentito il rapporto fra «lavoro e festa», in una Regione con picchi di disoccupazione tripli rispetto al Nord, dove il lavoro precario, lo sfruttamento e il sommerso sono dilaganti, ma dove non c’è più legame fra festa e giorno del Signore. Anche qui vengono segnalate esperienze positive: «imprese lavorative non profit sorte nei luoghi vessati dalla mafia, cooperative sociali che hanno favorito il recupero di ex carcerati, attuazione del progetto Policoro». Molteplici le urgenze racchiuse sotto la definizione di «fragilità umana», davanti alle quali la Chiesa si trova in una situazione di frontiera: immigrati, tossicodipendenti, soggetti svantaggiati, detenuti.
Per quanto riguarda la «tradizione», si richiede un maggiore coinvolgimento delle famiglie e dei mezzi di comunicazione nella trasmissione della fede, ma si denuncia, nell’ambito della «cittadinanza» una sostanziale «disaffezione degli ambienti ecclesiali siciliani verso la cosa pubblica». Emergono, dunque, «il bisogno di un’esemplare testimonianza dei laici in politica», di «un impegno per superare la logica della demagogia politica», e di «uno sforzo sociale e collettivo per eliminare la tentazione del compromesso mafioso e della complicità con i luoghi e le figure di potere».
I DELEGATI
In 150 per far sentire la voce di una terra «coraggiosa»
Da Palermo (A. Tur.)
Dicono no all’autocelebrazione e sperano che l’appuntamento di Verona possa reimpostare in senso missionario la vita della Chiesa italiana. Ci sono professionisti, insegnanti, impiegati, religiosi, sacerdoti fra i 150 delegati che rappresenteranno le diciotto diocesi della Sicilia al IV Convegno ecclesiale nazionale. Un compito di grande responsabilità, a giudicare anche dai numeri che l’isola rappresenta con i suoi 5 milioni e 200 mila abitanti, le sue 1797 parrocchie, i suoi 2203 sacerdoti diocesani, i 1124 sacerdoti regolari e i 253 diaconi permanenti. A capitanare la spedizione i venti vescovi in carica (18 titolari e due ausiliari), che partiranno con 75 laici, 20 religiosi, 4 diaconi e 31 sacerdoti. Una nutrita rappresentanza del popolo di Dio in Sicilia, che manifesta molte attese nei confronti di un tema, quello della speranza, che quotidianamente si scontra col senso del limite umano e con la tentazione della rassegnazione. «L’esistenza umana è tensione continua, fra l’andare avanti e il senso di finitudine. Ma - afferma monsignor Mario Russotto, vescovo delegato e pastore della diocesi di Caltanissetta, citando sant’Agostino - la fede non può venir meno se c’è la speranza, ed è assurdo sperare ciò che non si ama». I siciliani desiderano speranza per la propria Regione, malgrado i mille problemi sociali ed economici che la danneggiano. «Confido che questo convegno possa riportare la speranza in un territorio che l’ha perduta - commenta don Carmelo Petrone di Agrigento -. In questo senso la scelta di Livatino come testimone è emblematica». «C’è bisogno di speranza - aggiunge Salvatore Pezzino, vicedirettore di Telepace ad Agrigento - in un contesto dominato dal secolarismo, dall’individualismo, in città prive di coesione sociale, pervase dalla paura dell’altro. È una grande sfida. Un esempio possiamo averlo dagli immigrati che ogni giorno sbarcano sulle nostre coste. Loro arrivano qui e pensano che in Sicilia sia possibile coltivare la speranza per un futuro migliore». Don Raffaele Mangano, rettore del seminario di Palermo, punta sulle molteplici fragilità che vive questa terra: «La Chiesa deve sentirsi unita attorno ai grandi valori, attorno a Cristo risorto. È importante che ci sia un impulso decisivo per una coscienza del laicato in Italia. In un contesto di grandi disagi, di fragilità, di mancanza di punti di riferimento, è bene che si proponga Cristo Risorto. Non si deve più scegliere una religione, ma sposare Cristo».
Rosario Livatino volto della legge fatta per l’uomo
Da Palermo Alessandra Turrisi(Avvenire, 23 settembre 2006)
«La giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità, che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio». Rosario Livatino cercava di guardare tutti, mafiosi e criminali compresi, con gli occhi di Dio. Fede e diritto, nella storia di questo giovane magistrato agrigentino ucciso dalla mafia nel 1990, sono due realtà interdipendenti e indispensabili. E anche per il suo modo cristiano di interpretare il ruolo di giudice, Papa Giovanni Paolo II, dopo avere incontrato i suoi genitori, disse dei morti per mano della mafia: «Sono martiri della giustizia e indirettamente della fede».
E, infatti, Livatino è stato scelto come testimone della Chiesa siciliana al prossimo Convegno di Verona. Basta guardare la sua biografia e consultare gli archivi dei tribunali dove prestò servizio per comprendere quanto intensa e difficile fu la sua attività professionale.
Il «giudice ragazzino» Rosario Livatino nasce a Canicattì, in provincia di Agrigento, il 3 ottobre 1952. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo il 9 luglio 1975, a 22 anni, col massimo dei voti e la lode. Nel 1978 vince il concorso in magistratura e lavora a Caltanissetta come uditore giudiziario passando poi al Tribunale di Agrigento, dove per oltre un decennio, dal 29 settembre ’79 al 20 agosto ’89, come sostituto procuratore della Repubblica, si occupa delle più delicate indagini antimafia, di criminalità comune ma anche di quella che poi negli anni ’90 sarebbe scoppiata come la «Tangentopoli siciliana».
Molto rari gli interventi pubblici così come le immagini. Livatino non volle mai far parte di club o associazioni di qualsiasi genere. Rosario Livatino viene ucciso, in un agguato mafioso, la mattina del 21 settembre ’90 sul viadotto Gasena lungo la Statale 640 Agrigento-Caltanissetta, mentre, senza scorta e con la sua Ford Fiesta amaranto, si reca in Tribunale.
Per la sua morte sono stati individuati, grazie al supertestimone Pietro Ivano Nava, i componenti del commando omicida e i mandanti, che sono stati tutti condannati, in tre diversi processi nei vari gradi di giudizio, all’ergastolo con pene ridotte per i collaboratori di giustizia. Rimane ancora oscuro il contesto in cui è maturata la decisione di eliminare un giudice ininfluenzabile e corretto. Il 29 settembre del 1999 quattro boss mafiosi, Antonio Gallea, Salvatore Calafato, Salvatore Parla e Giuseppe Montanti, sono stati condannati all’ergastolo dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta per l’omicidio del giudice Livatino. Condannati a 13 anni i collaboratori Giovanni Calafato e Giuseppe Croce Benvenuto.
Secondo i collaboratori, Livatino venne ucciso dagli «stiddari», mafiosi delle province interne siciliane, «per lanciare un segnale di potenza militare verso Cosa nostra» e per punire un magistrato severo e imparziale. Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro sono stati condannati all’ergastolo perché ritenuti gli esecutori dell’omicidio.
Il pensiero di Livatino, però, per la sua formazione ed educazione familiare, si rifà spesso al Vangelo. «La legge - dice, per esempio -, pur nella sua oggettiva identità e della sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali». E ancora: «Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
«La mafie non sopportano il Vangelo»
di Emiliano Morrone*
Come oggi moriva Peppino Impastato, nello stesso giorno di Aldo Moro. Sono quattro decenni dai due omicidi: l’uno di mafia, l’altro ancora discusso. Due figure diverse e assieme simili, dalla missione comune: la lotta politica, ideologica e reale alle diseguaglianze.
Ieri il Corriere della Calabria ha pubblicato una feconda riflessione di monsignor Vincenzo Bertolone, presidente della Conferenza episcopale calabra, sul venticinquesimo dalla visita di Giovanni Paolo II ad Agrigento, la mia seconda città. Lì, dopo le stragi di Capaci e Palermo, strade e spiagge, specie l’ambita San Leone nel “feudo” di Giovanni Brusca, erano presidiate dai militari, che sostavano con mitra affusolati in angoli e slarghi, bramando cenni d’ombra per gli umori della fronte. Giovani e fieri, rare volte distratti dalle nostre grida adolescenti. Allora i social erano nella vita quotidiana. Ad esempio nell’incontro spontaneo della sera davanti al «mare africano», di pirandelliana memoria: madri e figli coi compagni di avventure mitizzate alla luce infinita della Valle dei Templi. E, ancora: una funzione sociale aveva l’uscita dalla messa della festa: capannelli spontanei del vecchio Mezzogiorno.
Ho memoria nitida di quei giorni del ’93; l’anno prima la drammatica sequenza del Trattato di Maastricht, di Tangentopoli, delle bombe senza verità e della crisi della lira. Avevo 17 anni, mi trovavo in Sicilia. La voce polacca del papa risuonava per le vie agrigentine. Perfino nel silenzio estivo dei 36 gradi e passa che segnava il termometro nella stanza in cui dormivo da zia Pina, sorella di nonna Lia. In dialetto orgoglioso, calcato, identitario, gli amici ragazzini rammentavano il discorso del pontefice nello stadio Esseneto. A modo loro dicevano dell’evento dei mesi precedenti, proprio «ca», ma non collegavano Wojtyla alla caduta del Muro di Berlino, troppo lontano dal sud del Sud. Ne parlavano come di una benedizione perpetua. Le mamme li assecondavano, prima di cena. Una, la signora Rosetta, raccontava d’aver toccato la mano di quell’uomo tutto bianco. Poi si dispiaceva di non averla potuta baciare. «Nu santu», rimarcava enfatica e ferita dal martirio di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le vittime consorti.
Colsi una speranza forte e contagiosa: papa Giovanni il miracolo l’aveva compiuto per davvero, esortando i siciliani ad alzarsi. Fu, credo, il simbolo della pedagogia antimafiosa della Chiesa nell’estremo meridiano, che poi avrebbe visto, a Casal di Principe, in Campania, il sacrificio di don Peppe Diana, coraggioso e attivo come monsignor Óscar Romero, ammazzato a San Salvador per la testimonianza evangelica.
Ecco, nel suo scritto l’arcivescovo Bertolone ha centrato il primo punto per l’emancipazione collettiva. Le mafie non sopportano la pratica del Vangelo, cioè la carità contro l’ingiustizia suprema: l’arricchimento di pochi col sangue del popolo, derubato con violenza. A partire dalla Calabria, va amplificata e vissuta la lezione di Moro, di Impastato e dei morti per la loro stessa causa.
Grazie, monsignor Bertolone, per la direzione che ci ha indicato.
*giornalista
* Corriere della Calabria, 9 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
I preti e i boss
di Roberto Saviano (la Repubblica, 22 marzo 2014)
Le parole pronunciate dal Papa sono parole definitive. Tuonano forti non a San Pietro dove saranno risultate naturali, persino ovvie. Tuonano epocali a Locri, Casal di Principe, Natile di Careri, San Luca, Secondigliano, Gela.
E in quelle terre dove l’azione mafiosa si è sempre accompagnata ad atteggiamenti religiosi ostentati in pubblico. Chi non conosce i rapporti tra cosche e Chiesa potrà credere che sia evidente la contraddizione tra la parola di Cristo e il potere mafioso. Non è così. Per i capi delle organizzazioni criminali il loro comportamento è cristiano e cristiana è l’azione degli affiliati. In nome di Cristo e della Madonna si svolge la loro vita e la Santa Romana Chiesa è il riferimento dell’organizzazione.
Per quanto assurdo possa apparire il boss - come mi è capitato di scrivere già diverse volte - considera la propria azione paragonabile al calvario di Cristo, perché assume sulla propria coscienza il dolore e la colpa del peccato per il benessere degli uomini su cui comanda. Il “bene” è ottenuto quando le decisioni del boss sono a vantaggio di tutti gli affiliati del territorio su cui comanda. Il potere è espressione di un ordine provvidenziale: anche uccidere diventa un atto giusto e necessario, che Dio perdonerà, se la vittima metteva a rischio la tranquillità, la pace, la sicurezza della “famiglia”.
C’è tutta una ritualità distorta di provenienza religiosa che regola la cultura delle cosche. L’affiliazione alla ‘ndrangheta avviene attraverso la “santina”, l’effigie di un santo su carta, con una preghiera. San Michele Arcangelo è il santo che protegge le ‘ndrine: sulla sua figura si fa colare il sangue dell’affiliato nel rito dell’iniziazione. Padre Pio è il santo la cui icona è in ogni cella di camorrista, in ogni casa di camorrista, in ogni portafoglio di affiliato.
Nicola, ex appartenente al clan Cesarano ha raccontato: “Mi sono salvato una volta, quando ero giovane, perché un proiettile è stato deviato. I medici mi hanno detto che è stata una costola a evitare che il colpo fosse mortale. Ma io non ci credo. Quello che mi ha sparato mi ha sparato al cuore, non è stata la costola, è stata la Madonna”.
La Madonna, oggetto di preghiere: è a lei che ci si rivolge per sovrintendere gli omicidi. In quanto donna e madre di Cristo sopporta il dolore del sangue e perdona. Rosetta Cutolo veniva trovata in chiesa nelle ore delle mattanze ordinate da don Raffaele: pregava la Madonna di intercedere presso Cristo per far comprendere che la condanna a morte e la violenza era necessaria.
A Pignataro Maggiore esiste “la madonna della camorra” che il defunto boss Raffaele Lubrano ucciso in un agguato nel 2002, fece restaurare a sue spese, nella sala Moscati attigua alla chiesa madre. Anche Giovanni Paolo II aveva pronunciato - il 9 maggio del 1993 ad Agrigento - un attacco durissimo alla mafia: “convertitevi una volta verrà il giudizio di Dio”. Due mesi dopo i corleonesi misero una bomba a San Giovanni in Laterano.
Ma Francesco I non parla solo a chi spara: ha abbracciato i parenti delle vittime della mafia, ha abbracciato don Luigi Ciotti, un sacerdote che non era mai stato accolto da un pontefice in Vaticano e con Libera è diventato l’emblema di una chiesa di strada, che si impegna contro il potere criminale. La chiesa di don Diana, che fu lasciato solo a combattere la sua battaglia.
Oggi Francesco invita a stare a fianco dei don Diana. Le sue parole rompono l’ambiguità in cui vivono quelle parti di chiesa che da sempre fanno finta di non vedere, che sono accondiscendenti verso le mafie, e che si giustificano in nome di una “vicinanza alle anime perdute”.
Gli affiliati non temono l’inferno promesso dal Papa: lo conoscono in vita. Temono invece una chiesa che diventa prassi antimafiosa. Le parole di Francesco I potranno cambiare qualcosa davvero se la borghesia mafiosa sarà messa in crisi da questa presa di posizione, se l’opera pastorale della chiesa davvero inizierà a isolare il danaro criminale, il potere politico condizionato dai loro voti. Insomma se tutta la chiesa - e non solo pochi coraggiosi sacerdoti - sarà davvero parte attiva nella lotta ai capitali criminali. Dopo queste parole o sarà così o non sarà più Chiesa.
Il Papa ai mafiosi: «Convertitevi subito o per voi l’inferno»
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 22 marzo 2014)
I bagliori sinistri delle fiamme dell’inferno, luogo ultraterreno di tormenti e supplizi, lambiranno mafiosi e camorristi. Il giudizio di Dio per loro è segnato se non si convertiranno in tempo. L’anatema di Bergoglio quasi sussurrato dall’ambone della grande chiesa situata all’imbocco di via Gregorio VII, davanti ad un migliaio di famigliari di vittime di mafia, a don Luigi Ciotti fondatore dell’associazione Libera, a Giancarlo Caselli, a Pietro Grasso, a Rosy Bindi e a diversi magistrati dell’Antimafia, ha ricordato subito la condanna risuonata nella Valle dei Templi di Agrigento, agli inizi degli anni Novanta, quando Papa Wojtyla dopo le stragi di Capaci e di Via d’Amelio, urlò: «Mafiosi, verrà per voi il Giudizio di Dio».
A variare stavolta sono stati certamente i toni ma non i contenuti - durissimi, pesanti, senz’appello -, non più gridati con l’intensità sanguigna del pontefice polacco, ma esposti con la pacatezza del confessore che tenta di riportare sulla retta via individui avidi e spietati. «Per favore, cambiate vita. Convertitevi, fermatevi di fare il male. Ve lo chiedo in ginocchio, è per il vostro bene. La vita che vivete adesso non vi darà piacere, non vi darà gioia, non vi darà felicità. Il potere, il denaro che voi avete adesso da tanti affari sporchi, da tanti crimini, denaro insanguinato e potere insanguinato, non potrà essere portato all’altra vita. Convertitevi, c’è ancora tempo per non finire nell’inferno, quello che vi aspetta se continuate su questa strada. Avete avuto un papà una mamma pensate a loro, piangete un po’ e convertitevi».
SIMBOLI
All’interno della chiesa si è levato un applauso che sembrava non finire più e sui molti volti si scorgevano lacrime liberatorie. C’erano i fratelli di Pino Puglisi, il prete di Palermo ammazzato da un killer, quelli di Antonio Landieri, freddato dalla camorra, la sorella di Falcone, Maria, mescolati a persone accomunate dallo stesso destino terribile, avere pianto un fratello, un marito, un padre uccisi da killer di Cosa Nostra. Un elenco di vittime lunghissimo, quasi monotono, che include persino 80 bambini, l’ultimo dei quali assassinato alcuni giorni fa. Un computo agghiacciante che è stato letto davanti al Papa per un’ora intera. I nomi delle vittime rimbombavano: Peppino Impastato, Boris Giuliano, Piersanti Mattarella, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno. Stefania Grasso figlia di un imprenditore calabro assassinato, punto di riferimento per le 15 mila persone toccate dal lutto, ha chiesto allo Stato di fare rispettare la legalità. Don Ciotti ha chiesto inasprimenti alle norme sul voto di scambio. Poi ha denunciato silenzi, omertà, resistenze da parte della Chiesa nel Sud.
OMERTÀ
Troppi vescovi e cardinali hanno preferito rifugiarsi in eccessi di prudenza o in parole di circostanza. L’ultimo clamoroso episodio risale a due anni fa quando sono stati celebrati i funerali di Stato per Placido Rizzotto, il sindacalista ucciso nel 1948 da Cosa Nostra. Il rito avvenuto alla presenza del Presidente della Repubblica è stato affidato al vescovo di Monreale, Di Gristina che durante l’omelia non solo ha sbagliato per due volte il nome della vittima, ma ha pure evitato di pronunciare apertamente la parola «mafia», suscitando un vespaio di polemiche e alimentando l’immagine di una Chiesa non ancora consapevole di quanto sia importante martellare sull’incompatibilità tra mafiosità e Vangelo. Papa Bergoglio, tenendo per mano don Ciotti, ha indicato la direzione giusta. Perché è tempo di voltare pagina.
Agrigento, il presepe è senza i Magi
"Li hanno bloccati alla frontiera"
di Fabio Russello *
"Si avvisa che quest’anno Gesù Bambino resterà senza regali: i Magi non arriveranno perché sono stati respinti alla frontiera insieme agli altri immigrati". C’è scritto questo su un cartello posto all’interno del presepe della Cattedrale di Agrigento alla vigilia dell’Epifania.
GUARDA Il presepe "bloccato alla frontiera
L’iniziativa è del direttore della Caritas di Valerio Landri con l’imprimatur dell’arcivescovo Francesco Montenegro che è stato presidente nazionale della Caritas. "E’ stata un’iniziativa concordata con l’arcivescovo Francesco Montenegro - ha spiegato Valerio Landri - perché abbiamo ritenuto che si dovesse dare un segnale per far riflettere la comunità ecclesiale e civile. Pensiamoci bene: oggi Gesù Bambino, se volesse venire da noi, probabilmente sarebbe respinto alla frontiera. Non abbiamo inteso fare polemica politica, siamo consapevoli che è necessaria una regolamentazione del fenomeno, ma siamo convinti che bisogna anche comprendere il perché questa gente fugge dal suo paese e bisogna dunque pensare all’accoglienza".
Landri ha raccontato anche delle diverse reazioni da parte della gente: "C’è chi ha plaudito alla nostra iniziativa ma anche chi si è lamentato sostenendo che abbiamo voluto sacrificare la tradizione alla problematica legata all’immigrazione. Noi pensiamo che la tradizione non possa essere anteposta ai diritti delle persone".
* la Repubblica, 05 gennaio 2010
Pappalardo, quel grido in cattedrale
di Nando Dalla Chiesa *
Un merito ebbe sopra ogni altro, Salvatore Pappalardo vescovo di Palermo. Di avere dato dignità alla chiesa siciliana. Perché certo nessuna dignità poteva riconoscersi a chi, incaricato di predicare il vangelo in una terra di ingiustizie e di violenze, chiudeva gli occhi con complice prudenza di fronte alla prepotenza mafiosa. Era andata avanti, quella prudenza complice, per decenni. Fino a diventare un classico del giornalismo d’inchiesta e della letteratura sulla mafia: la foto di gruppo - tra sepolcro imbiancato e abbraccio sudaticcio - di uomo d’onore, onorevole e uomo di chiesa.
na leggenda vera i funerali solenni assicurati ai boss, con processione compunta e salmodiante di tanti timorati di Dio dimentichi di ammazzamenti e ruberie. Una leggenda vera le chiese tirate su con i soldi del crimine, un’offerta volontaria del nostro fratello che ha dato lustro e tanto bene ha fatto a questo paese, moderna simonia che infestava le relazioni civili nelle comunità siciliane.
E il massimo esponente della chiesa palermitana, il cardinale Ruffini, che giurava che mai potesse esistere qualcosa chiamato mafia. E che se pur esisteva qualcosa di così impropriamente chiamato, esso era comunque benefico presidio di democrazia, rigorosamente attestato sulla trincea dell’anticomunismo. La funzione più cristiana dell’uomo di chiesa consisté di massima, per tutto quel tempo, nel celebrare la messa di commiato per la vittima di turno e nel consolarne i familiari, purché non pensassero insanamente di chiedere giustizia.
Ci furono delle eccezioni, naturalmente. E anche la prudenza si vestì di mille sfumature secondo l’umanità di chi portava la tonaca, quant’è vero che si può essere don Abbondio in tanti modi. Negli anni settanta il mondo ecclesiastico iniziò però a mostrare le sue prime impazienze. Tra Concilio e Sessantotto si aprirono spazi nuovi, nuovi modi di essere uomini di chiesa nell’isola di Salvo Lima e di Giovanni Gioia. A quegli anni risalgono anche i primi sforzi di elaborazione intellettuale condotti dai religiosi siciliani (di allora un intervento su sottosviluppo e mafia di un gesuita che anni dopo sarebbe stato conosciuto in tutta Italia, Ennio Pintacuda). Parroci più giovani iniziarono a porsi interrogativi scomodi su quale dovesse essere il loro ruolo in una terra di sangue e di diritti negati. Davvero dovevano limitarsi a «curare le anime», come reclamavano i perbenisti, o dovevano impegnarsi in un pubblico apostolato in difesa della dignità e dei diritti della persona?
Quei parroci trovarono un punto di riferimento in Salvatore Pappalardo vescovo di Palermo. Uomo prudente nel cambiamento, attento a non generare rotture, ma tutt’altro che complice. Anzi, assai deciso nello schierarsi accanto a chi, dall’interno delle istituzioni, cercava faticosamente di costruire in Sicilia il senso delle leggi e delle istituzioni. La sua azione, e l’idea che aveva della funzione della chiesa in Sicilia, divennero però un giorno dirompenti al di là della sua volontà. Sulla pura spinta dei fatti.
Accadde quando il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa venne mandato a Palermo con l’incarico di coordinare la lotta alla mafia. Era l’aprile del 1982. Il Prefetto e il Cardinale si erano conosciuti circa dieci anni prima, quando l’allora colonnello dalla Chiesa guidava la Legione Carabinieri di Palermo. Ne era nato un rapporto di stima e di fiducia reciproca. Quando tornò a Palermo il nuovo prefetto capì subito che dalle autorità politiche locali non poteva aspettarsi un grande aiuto. Il sindaco, Nello Martellucci, e il presidente della Regione, Mario D’Acquisto, erano entrambi di stretta osservanza andreottiana, appartenenti a quella che egli stesso aveva indicato per iscritto al presidente del Consiglio Spadolini come la «famiglia politica più inquinata del luogo».
Il prefetto si guardò intorno per cercare i suoi alleati. E guardò, tra gli altri, alla cattedrale, ai parroci, alla chiesa di base, ai gesuiti del liceo Gonzaga (quello in cui tenne il suo primo incontro con gli studenti), a padre Michele Stabile, ambasciatore del cardinale sui territori delle periferie. Per cento giorni infuriò un pubblico dibattito sull’opportunità di tenersi a Palermo il prefetto antimafia o disfarsene. La sera del 3 settembre il dibattito ebbe fine. Tali erano la colpa e la fretta di liberarsi dell’incomoda presenza che i funerali si tennero a San Domenico nemmeno diciotto ore dopo il delitto. E lì, mentre la gente di Palermo urlava la sua rabbia contro i politici e la sua disperazione per i destini della città, la voce del cardinale si levò forte e netta a rappresentarla tutta, quasi sostituendo lo Stato in ritirata. Vale la pena riascoltare oggi quelle parole che cambiarono il ruolo della chiesa in Sicilia e ne riscattarono in parte il passato: «Si sta sviluppando - e ne siamo tutti costernati spettatori - una catena di violenza e di vendette tanto più impressionanti perché, mentre così lente ed incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti, siano privati cittadini che funzionari ed autorità dello Stato medesimo, quanto mai decise invece, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti per colpire». La gente ristette muta a quelle parole, mentre i filmati di allora testimoniano lo stupore infastidito che si andava imprimendo sui volti delle prime file governative. «Sovviene e si può applicare», continuò Pappalardo recitando il passo più celebre di quell’omelia, «una nota frase della letteratura latina, di Sallustio mi pare, nel De Bello Jugurtino: ’Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur’; mentre a Roma si pensa sul da fare la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! Povera la nostra Palermo! Come difenderla?». I filmati mostrano a questo punto il senso di liberazione esplosivo della folla. Un applauso salvifico, un urlo di giustizia. Nulla poteva cambiare quel che era accaduto. Ma fu come se, grazie a quelle parole, i cittadini palermitani avessero finalmente trovato una guida morale, il senso di sé e del coraggio civile nel buio delle istituzioni, simboleggiato mezz’ora dopo dalla fuga di Spadolini verso le auto blu sotto una pioggia di monetine.
Da lì trasse slancio un apostolato diverso, che irritò diverse parrocchie palermitane, alcune delle quali giunsero a disdire l’abbonamento a Famiglia Cristiana, troppo schierata su posizioni antimafiose. Da lì l’appoggio alla lista civica di una «Città per l’uomo», agli uomini del rinnovamento democristiano come Leoluca Orlando, la moltiplicazione di esperienze cattoliche di base, tra cui sarebbe poi giunta al sacrificio finale quella di padre Pino Puglisi nel quartiere del Brancaccio.
Né quello dei funerali a San Domenico fu l’unico momento cruciale in cui Pappalardo fu capace, nella sua prudenza, di parole e di gesti simbolici. Si ripeté, ad esempio, il 3 settembre dell’85, alla fiaccolata per il terzo anniversario del prefetto, che cadeva poche settimane dopo gli omicidi dei commissari Montana e Cassarà e dell’agente Antiochia e le infuocate polemiche che avevano coinvolto la polizia palermitana. Quando il corteo dei trentamila passò davanti alla cattedrale egli ne uscì e si mise alla testa dei «suoi» palermitani verso la questura ancora in lutto. Con lui se ne va un uomo che, pur nella sua veste religiosa, pur rappresentando la fede e non le leggi, ha contribuito a costruire la cultura civile degli italiani, a dare forza alle loro istituzioni.
* l’Unità, Pubblicato il: 11.12.06 Modificato il: 11.12.06 alle ore 10.00
CARD. PAPPALARDO, UNA VITA IN TRINCEA
PALERMO - Accanto a Papa Giovanni Paolo II nella valle dei templi quando il pontefice lanciò l’anatema ai mafiosi, "Convertitevi, convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio!", chino sulla salma del parroco padre Pino Puglisi ucciso con un colpo di pistola alla testa dai mafiosi di Brancaccio, promotore dell’evento che vide nel capoluogo i delegati di tutte le chiese italiane, nel ’95.
Sempre in prima linea il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo dal ’70 al ’96 (3 anni dopo la scadenza naturale per anzianita’) morto nella casa diocesana di Baida, afflitto, a 88 anni, da un male incurabile, e scomparso in silenzio com’ era suo stile. Il card. Pappalardo ha lavorato per tutta la sua vita per la chiesa, per migliorarla a Palermo e in Sicilia, per avvicinarla di più alla gente.
Sarà comunque ricordato per quel dito alzato il 9 settembre 1982, nel pantheon di San Domenico davanti alle bare del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie, quando rivolto alla classe politica condannò un "sistema" che della mafia parlava tanto, ma nulla riusciva a fare per estirparla: così "mentre Roma discute... Sagunto è espugnata", disse citando Tito Livio ma attribuendo la frase a Sallustio, sbagliando come lui stesso poi disse sorridendo.
A Palermo, proveniente dalla direzione della Pontificia Accademia Ecclesiastica di Roma, Pappalardo era giunto come arcivescovo il 17 ottobre 1970. Siciliano dell’ agrigentino orientò la sua attività pastorale al riscatto di Palermo e della Sicilia.
E’ stato a volte accusato di non denunciare tutto ciò che non andava per il bene della gente ma non si può non ricordare che in realtà ha sempre sferzato, con toni pacati, sfuggendo ai riflettori, la classe politica come ogni 4 settembre, ricorrenza della patrona di Palermo, Santa Rosalia. L’ arcivescovo di Palermo ha invitato a superare "contrapposizioni e divisioni" spronando gli amministratori pubblici a dare risposte coerenti ai mali della Sicilia.
Anche durante il "riposo" dalla sua attività il card. Pappalardo è sempre stato presente sui fatti di attualità, sia che si trattasse dell’ arresto di Provenzano che dell’ occupazione della cattedrale da parte di cento ex detenuti che chiedevano lavoro, ha sempre espresso il suo parere lucido e forte di esperienza. E oggi la classe politica, da Destra a Sinistra, riconosce il possente lavoro pastorale da lui svolto tributandogli il giusto riconoscimento e abbracciandolo un’ ultima volta come la marea di palermitani che già in serata, appresa la triste notizia, è andata nella sala Filangieri del palazzo arcivescovile dov’é stata allestita la camera ardente.
E tra la gente in fila per un ultimo sguardo alla salma non è stato dimenticato il saluto di congedo del cardinale siciliano quando in Cattedrale disse rivolto ai suoi fedeli: "Mi rendo conto che di più e meglio avrei potuto fare per voi e spero che delle mie deficienze, così come mi avete sopportato, ora mi perdonerete".
ANSA » 2006-12-10 13:59
Aveva 88 anni. Fece scalpore la sua omelia al funerale di Dalla Chiesa. Leoluca Orlando: "Un esempio umano ed etico per tutti"
Palermo, è morto il cardinale Pappalardo simbolo della lotta contro la mafia *
PALERMO - Il cardinale Salvatore Pappalardo, 88 anni, arcivescovo emerito di Palermo, è morto oggi nell’oasi di Baida, dove risiedeva. Da sempre era impegnato in prima linea nella lotta alla mafia, contro la quale aveva scagliato più volte le proprie omelie. I suoi funerali saranno celebrati nella Cattedrale di Palermo dal cardinale De Giorgi. L’arcivescovo emerito di Palermo, nato a Villafranca Sicula, diocesi di Agrigento, il 23 settembre 1918, per le sue benemerenze nell’impegno sociale e nella lotta alla criminalità mafiosa, era stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana. Fece scalpore pronunciando, durante l’omelia al funerale di Carlo Alberto Dalla Chiesa, la frase di Tito Livio "mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata".
Fu ordinato sacerdote il 12 aprile 1941 è incardinato alla diocesi di Catania. Nel 1947 fu chiamato in Segreteria di Stato dove fu Addetto alla sezione degli affari ecclesiastici straordinari, nella quale rimase fino al 1965. Negli stessi anni Pappalardo fu professore di diplomazia ecclesiastica nella Pontificia Accademia Ecclesiastica e di diritto nella Facoltà Lateranense, esercitando contemporaneamente il ministero sacerdotale nelle parrocchie romane di San Giovanni Battista dè Rossi e di Santa Lucia, dove si occupò in particolare modo delle organizzazioni giovanili cattoliche. Paolo VI lo nominò Pro-Nunzio apostolico in Indonesia il 7 dicembre 1965, assegnandogli la Chiesa titolare Arcivescovile di Mileto dove rimase per quattro anni. Il 17 ottobre 1970 fu nominato arcivescovo di Palermo, il 4 aprile ’96 divenne Arcivescovo emerito di Palermo.
"Il Cardinale Salvatore Pappalardo è stato per tanti un esempio umano ed etico. E’ stato, nel suo essere uomo di Chiesa e pastore di fede, un esempio di laicità, di attento rispetto per le istituzioni e di grande sensibilità ed attenzione nei rapporti fra Chiesa e Stato". Leoluca Orlando commenta con queste parole la morte dell’Arcivescovo emerito di Palermo, che da anni era anche componente dell’Istituto per il rinascimento siciliano, la fondazione nata dopo la fine dell’esperienza di Sindaco di Orlando.
"Il Cardinale Pappalardo - prosegue Orlando - è stato soprattutto il protagonista ed il motore di una stagione di grandi cambiamenti in Sicilia, avendo chiaramente indicato come un cammino di fede sia del tutto incompatibile con un comportamento di incertezza, di silenzio o peggio di connivenza con il sistema di potere mafioso e la sua cultura. Oggi - conclude - la Sicilia ha perso un uomo che fino all’ultimo è stato un punto di riferimento per tantissime cittadine e cittadini, per tanti credenti e non credenti".
Condoglianze anche da parte del capogruppo del Prc al Senato Giovanni Russo Spena: "Esprimo a nome di tutto il gruppo di Rifondazione al Senato profondo cordoglio per la morte di Salvatore Pappalardo, un uomo di chiesa che ha significato molto per tutti i siciliani impegnati a combattere la mafia".
* la Repubblica, 10 dicembre 2006.
Il cordoglio del Papa per la morte del Cardinale Salvatore Pappalardo
Il Cardinale Salvatore Pappalardo, Arcivescovo emerito di Palermo, è morto domenica 10 dicembre. Aveva 88 anni. Appresa la notizia, Benedetto XVI si è raccolto in preghiera. Ha quindi inviato i seguenti telegrammi al Cardinale Salvatore De Giorgi, Arcivescovo di Palermo, e alla Sorella del compianto Porporato, Signora Maria Pappalardo. Ecco i testi:
Ho appreso con dolore la mesta notizia della scomparsa del Signor Cardinale Salvatore Pappalardo Arcivescovo emerito di Palermo e nell’elevare fervide preghiere a Dio perché conceda il riposo eterno a questo zelante e generoso pastore mi unisco spiritualmente al cordoglio di codesta comunità diocesana dove egli esercitò con sollecitudine il ministero episcopale. Ricordo con ammirazione la sua feconda e molteplice attività apostolica animata dal desiderio di annunciare Cristo e di accompagnare con il suo illuminato magistero il cammino di crescita morale e culturale della società palermitana. Nell’esprimere le mie sentite condoglianze ai familiari del compianto Porporato a Lei al presbiterio alle comunità religiose ed a tutti i fedeli di codesta cara Arcidiocesi di cuore imparto la confortatrice Benedizione Apostolica quale segno di fede e di speranza cristiana nel Signore risorto.
BENEDICTUS PP. XVI
Appresa con tristezza la notizia della morte del suo amato fratello il Cardinale Salvatore Pappalardo desidero esprimere a Lei e ai familiari la mia profonda partecipazione al loro dolore pensando con stima e affetto a questo benemerito Porporato che ha saputo servire generosamente e sapientemente la Chiesa. Ricordando con gratitudine al Signore l’ampia messe di bene da lui raccolta mediante una intensa e paziente opera pastorale elevo fervide preghiere al Signore perché gli conceda il premio eterno promesso ai giusti e di cuore imparto a Lei ai congiunti e a quanti ne piangono la scomparsa la confortatrice Benedizione Apostolica
BENEDICTUS PP. XVI
Analoghi telegrammi sono stati inviati dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato.
(©L’Osservatore Romano - 11-12 Dicembre 2006)
TESTIMONI DI CRISTO
Palermo dà l’addio al cardinale Pappalardo
La sua bussola: il Vaticano II. Si è spento domenica il pastore che fu tra i primi a dire «no» alla mafia nel nome del Vangelo
Da Palermo Alessandra Turrisi (Avvenire, 12.12.2006)
Tre suore sono raccolte in preghiera. Una giovane donna singhiozza come se avesse perso suo padre. Un sacerdote attraversa velocemente il salone proprio come quando era segretario di quel vescovo al quale migliaia di persone da due giorni vengono a rendere l’ultimo omaggio.
Ognuno sceglie il suo modo per essere vicino per l’ultima volta al cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo emerito di Palermo, morto domenica mattina all’età di 88 anni nella casa diocesana di Baida, la frazione palermitana divenuta la sua residenza dopo essere andato in pensione. La sera dell’Immacolata aveva voluto raggiungere la sorella a Catania, ma sabato aveva cominciato ad avere la febbre alta. Così domenica il medico ha deciso di trasportarlo in ambulanza a Baida.
Il cardinale Pappalardo era un uomo che, nei suoi 26 anni di episcopato a Palermo, aveva saputo portare il vento di rinnovamento del Concilio in Sicilia, promuovere il laicato, affrontare la sfida di una società in grande trasformazione, drammaticamente colpita dalla stagione delle stragi di mafia. «Ci ha lasciato più soli - dichiara commosso il cardinale Salvatore De Giorgi, arcivescovo di Palermo - ma, come ci ha insegnato lui che ha predicato la speranza cristiana della Resurrezione, il cardinale Pappalardo lavora per Palermo in modo ancora più intenso di prima. Continueremo il nostro cammino senza dimenticare il messaggio che ci ha rivolto in 26 anni, ricordando il coraggio della fede che ha sempre manifestato contro ogni forma di prepotenza». E alla camera ardente allestita nel palazzo arcivescovile sono decine i ricordi e gli aneddoti che affiorano nella mente di chi ha lavorato con lui, dai quali emerge la figura di un pastore lungimirante, capace di dare fiducia e autonomia ai suoi collaboratori.
«Teneva conto dei contributi che ciascuno poteva dare - racconta don Carmelo Cuttitta, segretario negli ultimi sei anni di episcopato -. Era un vescovo infaticabile, senza orari, attento all e parrocchie. La gente amava stargli vicino, perché aveva una capacità di relazione improntata alla semplicità. Era uno che, se arrivavamo in ritardo in arcivescovado, scendeva dalla macchina e apriva lui il portone con le chiavi. Amava scherzare, sdrammatizzare e imparare, fino alla fine. Lo ha dimostrato diventando bravissimo ad usare il computer».
E credeva nel ruolo dei laici. «Pappalardo è stato un uomo che ha avuto una visione globale dell’uomo e della società - afferma Ina Siviglia Sammartino, docente di antropologia teologica alla Facoltà teologica di Sicilia -, capace di progettualità graduale e prudente. Ha dato responsabilità ai laici, ha inserito i religiosi nella rete diocesana, ha puntato sulla formazione dei giovani sacerdoti. Ma ha capito anche che bisognava lavorare sul piano culturale. Da questa consapevolezza nasce la Facoltà teologica San Giovanni Evangelista». E una scelta controcorrente fu mandare un giovanissimo don Salvatore Lo Bue a studiare scienze sociali all’Angelicum negli anni ’70: «Non era facile trovare allora nella Chiesa un’apertura alla sociologia. Pappalardo lo fece. Da lì nacque poi il mio impegno per realizzare le strutture di accoglienza per tossicodipendenti, sieropositivi, donne vittime della tratta, che il cardinale Pappalardo ha sempre seguito personalmente e sostenuto fino all’ultimo».
Un impegno nel rinnovamento delle parrocchie, nella promozione culturale, nell’attenzione agli ambienti più disagiati con la Missione Palermo, nell’evangelizzazione casa per casa con le Missioni popolari, che camminò parallelamente alla denuncia della violenza mafiosa che si colloca in contrasto col Vangelo. «Non fu mai un cardinale antimafia - ricorda Maria Saccone, che ha sempre curato il suo archivio di omelie e discorsi - perché, diceva, un sacerdote non può essere anti, ma per l’uomo. "Io sono un pastore", diceva. Ma ebbe il merito riconosciuto da tutti, anche dal procuratore Caselli, di essere stato la prima istituzione ad aver pronunciato pubblicamente la parola mafia». «Il cardinale Pappalardo era cittadino della storia - aggiunge Ina Siviglia -, si è occupato della società perché la Chiesa è per il mondo. La denuncia era conseguenza dell’essere pastore, non era ingerenza».
Suo fedele collaboratore, come vicario generale e vescovo ausiliare, fu monsignor Rosario Mazzola, oggi vescovo emerito di Cefalù: «Ha saputo creare la comunione delle Chiese e dei vescovi, ha promosso una pastorale unitaria a livello regionale». Un episcopato costellato da grandi segni di rinnovamento e da grandi dolori e amarezze. «Soffriva per i tristi eventi degli anni di fuoco - ricorda don Pippo Oliveri, segretario dal 1983 al 1991 -. Le sue omelie hanno segnato una svolta, prima di tutto nella consapevolezza all’interno della Chiesa». «E soffrì come un padre per aver perso un figlio, quando giunse la notizia che avevano sparato a don Puglisi - aggiunge don Cuttitta -. Andammo subito in ospedale, lo accarezzava con dolcezza. Prima del trigesimo si sedette e scrisse personalmente le frasi da mettere nell’immaginetta-ricordo. Perché il cardinale Pappalardo conosceva bene in suoi preti, li conosceva come un amico, come un padre».
IL PROFILO
Già nunzio in Indonesia,ha guidato la Chiesa del capoluogo siciliano dal 1970 al maggio 1996
Voce coraggiosa nell’ora più difficile
Da Palermo Alessandra Turrisi (Avvenire, 12.12.2006)
Siciliano di nascita, il cardinale Salvatore Pappalardo seppe interpretare la voglia di riscatto di una regione che si è trovata a subire per decenni la violenza mafiosa, con decine di vittime eccellenti, fra cui il sacerdote don Giuseppe Puglisi.
Il cardinale Pappalardo nacque a Villafranca Sicula, in provincia di Agrigento, il 23 settembre 1918, figlio di un maresciallo dei carabinieri. Dopo la maturità classica, l’arcivescovo di Catania lo inviò nel Seminario romano maggiore. A Roma seguì i corsi di filosofia e teologia dell’Università Lateranense; qui fu ordinato sacerdote il 12 aprile 1941 da Luigi Traglia e incardinato nella diocesi di Catania. Giovane sacerdote entrò nella Pontificia Accademia ecclesiastica, seguendo contemporaneamente i corsi della facoltà Utriusque iuris della Lateranense, presso la quale si laureò in teologia. Nel 1947 fu chiamato in Segreteria di Stato, dove fu addetto alla sezione degli affari ecclesiastici straordinari, nella quale rimase fino al 1965.
Paolo VI lo nominò pro-nunzio apostolico in Indonesia il 7 dicembre 1965; venne consacrato vescovo il 16 gennaio 1966 dal cardinale Amleto Giovanni Cicognani. A Giacarta, dove rimase per quattro anni, visitò e sostenne l’opera dei missionari operanti nell’arcipelago indonesiano. Al suo rientro a Roma, nel 1969, fu incaricato della direzione della Pontificia accademia ecclesiastica.
Il 17 ottobre 1970 la nomina ad arcivescovo di Palermo, dove entrò solennemente il 6 dicembre successivo. Paolo VI lo creò cardinale il 5 marzo 1973. Da allora a oggi la sua storia è anche quella di Palermo. In questa terra «dedicò speciale attenzione alle innovazioni post conciliari e, particolarmente, al rinnovamento liturgico, alla promozione del laicato, alla pastorale degli emigranti, dando nuovo impulso alle organizzazioni sorte dalla base per il servizio e la pastorale fra gli emarginati» si legge nel rogito che verrà inserito all’interno della sua tomba.
Un’opera pastorale che si è intrecciata costantemente con la condanna della cultura e della violenza mafiose. Il cardinale Pappalardo provava un moto di ribellione quando i cronisti sintetizzavano il suo lungo episcopato solo con i suoi discorsi contro la mafia. Ma ammetteva che nei suoi 26 anni di episcopato alla guida della complessa diocesi di Palermo si trovò ad affrontare la sfida di una società colpita dalla stagione delle stragi.
Faceva molto caldo quel giorno di settembre del 1982, quando il cardinale Salvatore Pappalardo, durante l’ultimo saluto al prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e alla moglie Emanuela Setti Carraro, appena assassinati da Cosa Nostra, pronunciò l’omelia che divenne celebre: «Mentre a Roma si discute, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici». Era una denuncia forte contro l’assenza dello Stato in una Palermo insanguinata. Vennero altre morti: il cardinale Pappalardo fu costretto a seppellire uno dei suoi sacerdoti, don Giuseppe Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso da Cosa Nostra nel settembre del 1993. «Coloro che uccidono i propri fratelli sono cristiani ma traditori, sono cristiani ma disonorati in se stessi. La città di Palermo, la Chiesa di Palermo non si fermeranno, ma dal sangue sparso da altri cittadini e funzionari dello Stato, e ora da questo ministro della Chiesa, sapranno assumere nuova determinazione e nuovo vigore - disse nell’accorata omelia dei funerali -. Non si può combattere e sradicare la mafia se non è il popolo tutto che reagisce alla sua presenza e prepotenza».
Il cardinale Pappalardo non ha mai temuto di farsi voce dello smarrimento e dell’indignazione dei cittadini. In una recente intervista ad InformaCaritas (la rivista della Caritas palermitana), in occasione dei 40 anni di episcopato, chiariva: «Toccò alla Chiesa interpretare il risentimento, la paura, lo sdegno, l’appello ad una maggiore consapevolezza tanto della Chiesa quanto pure della società civile». Cercando, però, anche di non far passare l’equazione Palermo uguale mafia: «In occasione del maxiprocesso ho voluto, ad ogni costo, difendere Palermo dal rischio che venisse processata dinanzi all’opinione pubblica». In quel periodo, però, si prese coscienza che per la Chiesa «le azioni mafiose non sono solo crimini, ma peccati. E che la mafia costituisce un problema per la pastorale, che deve interessarsi della formazione dei fedeli. Bisogna parlarne nel senso che, se la gente capisce appieno il messaggio evangelico, capisce anche che la mafia è antievangelica».
Nell’83 il presidente Sandro Pertini lo nominò Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana per l’impegno profuso nell’azione sociale, soprattutto nella sollecitazione delle coscienze contro la criminalità mafiosa. Ricoprì la carica di presidente della Conferenza episcopale siciliana e di vicepresidente della Conferenza episcopale italiana. Fu il padrone di casa del Convegno delle Chiese d’Italia del 1995, che si tenne a Palermo. Pappalardo lasciò la guida della diocesi il 24 maggio 1996, ritirandosi nell’oasi di pace della casa diocesana di Baida.
Arcivescovo preveggente e illuminato
Pappalardo, una pastorale più ampia dell’antimafia
di Giuseppe Savagnone (Avvenire, 12.12.2006)
Un vescovo e il suo popolo: questa l’immagine che si impone, davanti all’ininterrotto flusso di gente che da ieri pomeriggio sfila per rendere il suo muto omaggio alla salma del cardinale Pappalardo. Un legame che sopravvive anche alla morte e che sarà custodito nella memoria non solo della comunità cristiana, ma dell’intera città di Palermo. Perché Salvatore Pappalardo non è stato soltanto la guida spirituale della sua diocesi: nell’immaginario collettivo dei palermitani ha costituito, in tempi difficili, il simbolo di una Chiesa capace di parlare il linguaggio degli uomini, per farsi portavoce di sentimenti e di esigenze condivisi non soltanto dalla comunità ecclesiale, ma da quella civile. È in questa luce che bisogna leggere anche le prese di posizione nei confronti della criminalità mafiosa. Si deve in larga misura al cardinale Pappalardo se la Chiesa palermitana ha preso definitivamente coscienza della gravità del fenomeno e ne ha messo in luce con tutta la chiarezza e la fermezza necessarie il carattere fondamentalmente antievangelico. Questo non significa che l’opera del cardinale si possa ridurre alla "lotta contro la mafia", come sbrigativamente è stato fatto dai mass media. Si guardi, per esempio, al documento con cui la Conferenza episcopale siciliana, sotto la guida del cardinale, prendeva spunto dal cinquantesimo anniversario dello Statuto speciale della Sicilia (1946-1996) per denunziare non solo le offese subite dal bene comune ad opera dei mafiosi, ma anche e soprattutto quelle dovute alle gravissime carenze e responsabilità dell’intera classe politica isolana.
In realtà, il cardinale Pappalardo teneva molto a sottolineare che il suo non era tanto un "combattere contro" qualcuno, quanto piuttosto lo sforzo di promuovere una cultura e una società diverse. Questa positività emerge chiaramente dalla sua attenzione alla cultura e alla dimensione missionaria. Quindici anni prima che il terzo convegno delle Chiese d’Italia lanciasse il Progetto culturale, il cardinale aveva già colto che proprio sul terreno della cultura si sarebbero giocate le sorti dell’evangelizzazione e aveva costituito un apposito Centro pastorale. Si deve a lui anche il sorgere, a livello regionale, della Facoltà teologica "S. Giovanni Evangelista" e, all’interno della diocesi palermitana, delle scuole teologiche di base, volte alla formazione intellettuale dei semplici fedeli.
Come si deve a lui l’iniziativa delle "missioni popolari", per cui il vangelo veniva portato al di fuori delle mura delle parrocchie, nelle case, nei condomini, ad opera di laici che testimoniavano la loro fede ad altri laici, anticipando di fatto quella "conversione missionaria della parrocchia" di cui si sarebbe parlato (e molte volte purtroppo solo parlato) molti anni dopo. Dove è evidente la piena fiducia che il cardinale Pappalardo ha sempre dato al laicato, valorizzandone le qualità e promuovendone effettivamente - e non solo a parole - la responsabilità. Un ultimo cenno merita il coordinamento regionale della pastorale, garantito, per suo impulso, da un’apposita Segreteria della Conferenza episcopale siciliana, che - senza intaccare l’autonomia delle singole diocesi - le ha aiutate a coordinare il loro impegno nei diversi settori della pastorale, promuovendo anche la celebrazione di quattro grandi convegni regionali. Limiti, errori, problemi irrisolti, in questa intensa attività, non sono evidentemente mancati. Le intuizioni e le iniziative precorritrici non sempre sono state seguite da una coerente attuazione. Alcuni progetti sono rimasti sulla carta. Critiche e polemiche hanno accompagnato alcune scelte. Su tutto questo la storia avrà modo di fare chiarezza, distinguendo le luci dalle ombre. Ma a noi rimane l’immagine di un vescovo che il suo popolo - al di là della distinzione tra credenti e non credenti - non dimenticherà.
L’INCHIESTA.
Tornano in Sicilia i figli dei boss scappati negli Usa per sfuggire ai Corleonesi. E si riprendono il potere perduto
La riscoperta dell’America
nuovo fronte di Cosa Nostra
di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D’AVANZO *
PALERMO - Chi è Frank Calì, e perché tutti lo cercano? Quel nome - il nome di un siculo-americano - ritorna ossessivamente nelle "parlate" degli uomini di Cosa Nostra. Lo fanno a Palermo, lo ripetono nel New Jersey, lo bisbigliano a Corleone. Di Frank sentiremo ancora parlare, giurateci. Eppure, al Dipartimento di Giustizia, Calì non appare mai nei report sulle cinque "grandi famiglie" di New York, i Gambino, i Bonanno, i Lucchese, i Genovese e i Colombo. Soltanto poche, quasi distratte, righe in un dossier dell’Fbi. Più o meno un "signor nessuno" che deve avere però un potere invisibile o ancora sconosciuto, se negli ultimi tre anni per lo meno una mezza dozzina di "delegazioni" di mafiosi siciliani lo hanno raggiunto dall’altra parte dell’Oceano per discutere di "affari". Ma di quali affari? E, soprattutto, di quale portata e per quali progetti?
Questa è la storia, o meglio il primo paragrafo di una storia che soltanto il tempo potrà scrivere. Vi si rintracciano indizi di un prepotente risveglio di Cosa Nostra dopo un muto decennio di ibernazione. La mafia sembra volersi liberare dall’arcaicità violenta dei Corleonesi per ritrovare dalla Sicilia - come in un passato glorioso - ruolo e protagonismo sulla scena internazionale. Nelle loro casseforti ci vogliono mettere soldi, molti soldi. Non vogliono più cadaveri per le strade o "picciotti" nelle galere. A che cosa sono serviti il sangue, le bombe contro lo Stato, gli ergastoli che hanno umiliato le famiglie? A niente. Ecco perché adesso tutti cercano Frank Calì.
Del "signor nessuno" si può dire subito - per quel pochissimo che se ne sa - che è un uomo di rispetto della Famiglia Gambino designato per trattare, con i Siciliani, la nuova avventura. Se sono buone le intuizioni degli investigatori, i mafiosi vogliono ritornare ad essere brokers nel mercato illegale/legale mondiale. Frank Calì serve a tutto questo. È "l’ambasciatore" americano.
Frank Calì ufficialmente è un imprenditore della Italian Food Distribution a New York. Da almeno tre anni, gli agenti dell’Fbi lo vedono intrattenersi con vecchi trafficanti della "Pizza Connection".
E con giovani rampolli delle Famiglie palermitane, nati però negli Stati Uniti. E con gli emissari di Bernardo Provenzano e Totò Riina, i Corleonesi. Un’agenda di incontri che mette insieme amici e nemici di antiche guerre e di mai dimenticati stermini, tutti a far la fila da Frank Calì. L’elenco è lungo. Da lui vanno in più occasioni Nicola Mandalà e Nicola Notaro della Famiglia di Villabate, Gianni Nicchi della Famiglia di Pagliarelli, Vincenzo Brusca della Famiglia di Torretta. Ma forse la traccia più rilevante per capire che cosa sta accadendo è nelle triangolazioni telefoniche tra le utenze di Calì e i cellulari degli uomini di Salvatore Lo Piccolo, ricercato da 27 anni, oggi al primo posto della lista dei latitanti dopo la cattura di Bernardo Provenzano.
Il suo "scacchiere diplomatico" non è stretto alla Sicilia. Un rapporto congiunto dell’Fbi e della Royal Canadian Mounted Police svela "i legami tra Frank Calì, Pietro Inzerillo e i membri del cartello criminale "Siderno" della ’ndrangheta". Alla sua corte ci sono proprio tutti, dunque. È la circostanza che spinge Fbi e Polizia criminale italiana a lavorare insieme, a scambiarsi informazioni e analisi come negli Anni Ottanta, quando Giovanni Falcone faceva squadra con il procuratore distrettuale Rudolph Giuliani. Si preparano a fronteggiare il nuovo piano di Cosa Nostra: la riscoperta dell’America. Con inaspettati protagonisti. Con nomi che, soltanto fino a qualche anno fa, a Palermo non si potevano nemmeno pronunciare.
***
Sono tornati gli Inzerillo. Erano stati massacrati dall’aprile del 1981 all’ottobre del 1983 dai Corleonesi. "Di questi qua - disse Totò Riina - non deve rimanere sulla faccia della terra nemmeno il seme". Morì Totuccio, il rispettato capo di Passo Rigano, e poi morì suo figlio Giuseppe. Morirono in ventuno. Fratelli e zii e nipoti e cugini. Molti scomparvero afferrati dalla "lupara bianca", un impero di 27 società di riciclaggio rimase senza padroni. La scia di sangue si interruppe soltanto con l’intercessione dei parenti di Cherry Hill. Uomini potenti. Allora i più potenti d’America come Charles Gambino. Trattarono una resa senza onore. La Commissione siciliana pretese che gli Inzerillo avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più nell’Isola. Mai più. E’ la regola che dettò la Cosa Nostra di Totò Riina. Allora fu nominato, e lo è ancora oggi, un "responsabile" del rispetto di quel patto. Si chiama Saruzzo Naimo. Ma le regole, in Cosa Nostra, esistono per essere violate e interpretate per gli amici e applicate per i nemici. Così alla spicciolata gli Inzerillo sono rientrati a Palermo. Abitano tutti nella loro borgata di nascita, a Passo di Rigano.
E’ tornato Francesco Inzerillo, figlio di quel Pietro che l’Fbi e la polizia canadese "vedono" sempre con Frank Calì. E poi Tommaso Inzerillo, cugino di Totuccio e cognato di John Gambino, il figlio del vecchio Charles. E un altro Francesco, fratello di Totuccio. Espulso come "indesiderato" dagli Stati Uniti è tornato Rosario, un altro fratello di Totuccio. E’ rientrato Giuseppe, figlio di Santo, ucciso e dissolto nell’acido solforico. Soprattutto è tornato l’unico figlio ancora vivo di Totuccio, Giovanni, nato a New York nel 1972, cittadino americano. A lui è toccato riaprire dopo venticinque anni la casa di via Castellana 346. Insieme a loro, sono riapparsi in città gli Spatola dell’Uditore, i Di Maggio di Torretta, i Bosco, i Di Maio, qualche Gambino. Insomma, quell’aristocrazia mafiosa che i contadini di Corleone avevano spazzato via con "tragedie", tradimenti, agguati. A Palermo gli Inzerillo hanno ricostituito la loro Famiglia. Con quale "autorizzazione"? Con quali appoggi? Con quali garanzie e impegni?
Se la questione è un enigma per gli investigatori, impensierisce ancora di più alcuni alleati palermitani dei Corleonesi che erano stati in prima fila, nella strage degli Inzerillo. La preoccupazione diventa apprensione quando, nei viaggi in America, scoprono che accanto a Frank Calì c’è sempre un Inzerillo. A New York come a Palermo, per uscire dall’isolamento e pensare finalmente alla grande, bisogna fare necessariamente i conti con "quelli là" e le loro influenti parentele d’Oltreoceano.
***
Nelle ultime intercettazioni ambientali - una vera miniera di inaspettate informazioni - "il discorso dell’America" è un tormentone tra i mafiosi. Riserva un punto di vista inedito su Cosa Nostra. Liquida ogni lettura convenzionale. Cosa Nostra non è il quieto monolite governato con i "pizzini" dalla furbizia contadina del vecchio Provenzano né è attraversata, come pure si è sostenuto, da una frattura territoriale e culturale. Da un lato, i contadini e i paesi di campagna. Dall’altra, i cittadini, la grande città, le borgate. E’ invece un mondo smarrito e, al tempo stesso, eccitato dalle nuove opportunità. Ora, come per un riflesso condizionato, tentato di mettere mano alla pistola per eliminare ogni irritante contraddizione; ora convinto di dover cercare, senza sparare un colpo, compromessi per far valere la sola ragione che tutti può entusiasmare: fare i piccioli. Fare i soldi. Gli esiti della contesa sono del tutto imprevedibili. Nei prossimi mesi, la guerra ha la stessa possibilità di scoppiare quanto la pace. Chi lavora, con ostinazione paranoide, a una nuova contrapposizione si chiama Antonino Rotolo. E’ il capomandamento di Pagliarelli. Basta ascoltare quali erano i suoi argomenti qualche giorno prima di finire in galera.
"Questi Inzerillo - dice Rotolo ai suoi - erano bambini e poi sono cresciuti, questi ora hanno trent’anni. Come possiamo, noi, stare sereni... Se ne devono andare. E poi uno, e poi l’altro e poi l’altro ancora... Devono starsene in America. Si devono rivolgere a Saruzzo (Naimo) e se vengono in Italia li ammazziamo tutti. Come possiamo stare, noi, sereni quando io per esempio - l’ho detto e lo ripeto - so di un tizio che dice a uno dei figli di Inzerillo: "Non ti preoccupare tempo e buon tempo non dura sempre un tempo"... Noialtri non è che possiamo dormire a sonno pieno perché nel momento che noi ci addormentiamo a sonno pieno, può essere pure che non ci risvegliamo più. Alzando la testa questi, le prime revolverate sono per noi. Vero è... Picciotti, non è finito niente. Gli Inzerillo, i morti, li hanno sempre davanti. Ci sono sempre le ricorrenze. Si siedono a tavola e manca questo e manca quello. Queste cose non le possiamo scordare. Questi se ne devono andare, punto e basta, non c’è Dio che li può aiutare... Ce ne dobbiamo liberare e così ci leviamo il pensiero... Per il bene di tutti, noi questo dobbiamo fare. L’avete capito o no che quello, Lo Piccolo, li utilizza già gli Inzerillo? Questa storia non finisce, non finirà mai...". Antonino Rotolo affronta con Alessandro Mannino, nipote prediletto di Totuccio Inzerillo, "il discorso dell’America". Senza giri di parole, in modo brusco.
Gli dice: "Tu sei il nipote di Totuccio Inzerillo il quale, con altri, senza ragione alcuna sono venuti a cercarci per ammazzarci, ma a loro nessuno gli aveva fatto niente. Ci hanno cercato e ci hanno trovato. Peggio per loro. Non siamo stati noi a cercarli. Così si è creata questa situazione di lutti e di carceri. La responsabilità è di tuo zio e compagni, se ci sono morti e se ci sono carcerati. Quindi io ti dico che non c’è differenza tra voi, che avete i morti, e le famiglie che hanno la gente in galera per sempre, perché sono morti vivi. Quindi, i tuoi parenti devono rimanere all’America, devono rimanere sempre reperibili. Ai tuoi parenti garanzie non ne può dare nessuno. I tuoi parenti se ne devono andare e ci devono fare solo sapere dove vanno perché noi li dobbiamo tenere sempre sotto controllo".
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Anche Antonino Rotolo ha spedito a New York il suo fidato "messaggero", Gianni Nicchi, giovane e "sperto". Al rientro dalla missione, si fa raccontare e quel che ascolta non gli piace. Rotolo, se sono sincere le sue parole, non si fida delle promesse di Frank Calì. Crede che siano soltanto "chiacchiere" per restituire Palermo agli Inzerillo. I suoi sospetti lo isolano dentro Cosa Nostra. Salvatore Lo Piccolo - il suo competitore nelle borgate - ha già chiuso l’accordo con gli Americani. L’ago della bilancia è Provenzano. Però anche a Provenzano fa gola riallacciare i rapporti con i suoi antichi nemici e ritrovarseli dopo un quarto di secolo al suo fianco. Negli ultimi mesi della sua latitanza, finita l’11 aprile del 2006, mette in moto tutta la sua sapienza ambigua. In un rosario di "pizzini" inviati ai suoi, finge di non sapere che gli Inzerillo sono già tutti a Palermo. Minimizza la rilevanza di quel ritorno. Quando gli capita, consiglia di accoglierli "se vogliono passare il Natale con i loro parenti" o se devono scontare scampoli di pena in Italia, una volta espulsi dagli Stati Uniti. E’ l’abituale inganno "corleonese". In realtà, il lavorio di mediazione con gli Americani è l’ultima grande fatica del Padrino di Corleone.
Da due anni, "il vecchio" si adopera per il recupero totale alle fortune di Cosa Nostra degli Inzerillo, soprattutto dei loro legami con la mafia americana. Nicola Mandalà è l’uomo più fidato dell’inner circle di Bernardo Provenzano. Lo aiuta a farsi operare alla prostata in una clinica di Marsiglia. Fa due viaggi a New York per incontrare Frank Calì e Pietro Inzerillo. E’ possibile che Mandalà, generosamente finanziato con 40 mila dollari a trasferta, abbia fatto tutto questo senza un mandato di Provenzano? Un altro "contadino" di Corleone va in America. E’ quel Bernardo Riina che sarà poi arrestato come "ultimo anello" che conduce i poliziotti nel rifugio di Montagna dei Cavalli. Bernardo Riina costituisce una società a New York insieme a suo figlio nel gennaio del 2006. Appena cento giorni prima della cattura del suo Padrino. E’ il ponte lanciato dalla Sicilia all’America. E’ un capovolgimento di schemi e di logiche dove i Corleonesi - dati per spacciati dopo l’arresto dei suoi rappresentanti più famosi - non solo non stanno abbandonando i posti di comando di Cosa Nostra ma, al contrario, provano a penetrare un altro mondo: gli Stati Uniti. Il personaggio chiave è, dunque, il nostro misteriosissimo Frank Calì che distribuisce Italian Food su tutta la costa atlantica. Ancora più misteriose, al momento, sono le occasioni economiche e finanziarie che le due mafie prevedono di cogliere insieme. Tempo e buon tempo non dura sempre un tempo. Cosa Nostra si prepara alla sua nuova stagione.
* la Repubblica, 12 luglio 2007
LIBRI
I sacrilegi delle mafie
Padrini e picciotti ostentano la loro devozione, che in realtà più che fede è superstizione. E quando i preti oppongono alla cultura omertosa la vera religione, sparano: da don Peppino Diana a don Puglisi
Il saggio di Alessandra Dino evidenzia il processo di maturazione della Chiesa nei confronti della mentalità mafiosa, verso un sempre maggior impegno nell’educazione dei giovani
DI GOFFREDO FOFI (Avvenire, 15.11.2008)
La mafia devota di Alessandra Dino, antropologa palermitana, è uno dei testi più significativi usciti sulla questione mafiosa ( intendendo con mafia anche le associazioni criminali di altre regioni come camorra, ’ ndrangheta, Sacra corona unita). Affrontando l’argomento da un punto di vista trascurato, procedendo a molte interviste con magistrati, preti, pentiti, vedendo della questione gli aspetti più specificamente religiosi ma anche collocandoli sullo sfondo di una più generale questione civile, la Dino aiuta a comprendere un ambiente, una cultura, distinguendo nettamente tra gli aspetti esteriori - quelli, diciamo, di una ritualità di facciata, che serve al mafioso per affermare il suo potere all’interno di una comunità, o quelli di una devozione deviata - e quelli più intimi del dilemma morale che può investire, come è ben noto o come si vorrebbe che fosse, anche il criminale più incallito.
Hanno sconcertato molti, le professioni e le espressioni di fede di alcuni noti mafiosi ( per esempio Provenzano), e la “ lettura” dei comportamenti religiosi di altri - o di un pentitismo sulle cui motivazioni alcuni sacerdoti hanno espresso dei dubbi, perché spesso causato soltanto dall’interesse alla riduzione della pena e dunque moralmente inautentico. Tra i preti che la Dino ha accostato ci sono quelli che sembrano partecipare ( ma più ieri che oggi) di una cultura ambientale coinvolgente, quelli che molto più seriamente distinguono tra il ruolo della Chiesa e il ruolo dello Stato e rivendicano la netta differenza dello sguardo, della posizione, dei doveri nei confronti di chi pecca ( e delinque), e quelli infine che insistono sulla “questione morale” vedendone gli aspetti più latamente etici, civili, sociali. Se di cultura-ambiente si tratta, è su questa che essi pensano di dover intervenire, e lo hanno fatto a volte (don Peppino Diana a Casal di Principe, don Puglisi a Palermo) lasciandoci la vita.
Oggi che molti libri ( non ultimo Gomorra) hanno messo in rilievo la profondità dei legami e degli interessi mafiosi in settori molto importanti dell’economia e della finanza e ben oltre i territori tradizionali, in tutto il Paese e altrove, in Europa come in America; oggi che le classi dirigenti di molti Paesi ( la stessa grande Russia) trattano con le mafie e se le fanno alleate, ovviamente a caro prezzo; oggi che il disordine morale della post- modernità abbassa enormemente il livello di difesa della morale dei singoli, occorrerebbe affrontare anche la questione mafiosa da presupposti assai vasti, che mettano in discussione l’intero assetto di società la cui prosperità deriva in parte dal crimine. Se è vero che, secondo le stime, il Pil italiano è prodotto per il dieci-dodici per cento dall’economia criminale ( e non vengono considerati in questi calcoli, per esempio, la produzione e lo smercio di armi) ne deriva che le risposte alle attività mafiose dovrebbero essere ben più radicali che quelle esclusivamente giudiziarie. E, di fatto, come si sconfiggono le mafie? Non credo, personalmente, che i “professionisti dell’antimafia” riescano sempre a incidere in profondità nel concreto delle culture mafiose, né che la denuncia sia di per sé sufficiente ( in un Paese come il nostro dove la denuncia sembra spesso un’arte e un mestiere, una retorica e un alibi: milioni di denunce giornalistiche, cinematografiche, letterarie, ma anche di buona propaganda sul territorio, hanno cambiato relativamente poco, anche se hanno costretto le mafie a inventare nuovi modi di agire).
La risposta viene da molte delle interviste e delle considerazioni che ne ricava la Dino, e sintetizzando si può dire che sono tre i modi necessari: l’intervento nell’economia, che è il fondamentale perché se non cambia l’economia non scema il potere che le organizzazioni mafiose possono avere su un ambiente sociale, l’attrazione che possono esercitare sui più deboli - per esempio i giovani, i precari, i disoccupati; quello giudiziario, del rispetto delle leggi, il cui vero limite consiste nella constatazione che le leggi non tutti le rispettano, nelle nostre classi dirigenti; e infine l’educazione, l’intervento assiduo e radicato in un territorio soprattutto nei confronti dei più giovani, per allargare la loro visione e dar loro solide fondamenta etiche. È in questo settore, dice la Dino, che la Chiesa può intervenire con efficacia, oltre che sul terreno che le è proprio della cura delle anime.