Convegno Nazionale
Dialogo e Pace
Attualità di Celestino V
Sulmona,
Auditorium Palazzo dell’Annunziata,
sabato 25 novembre 2006
A cura di Casa per la Pace • Sulmona
COMITATO “PACE E DIRITTI UMANI”
REGIONE ABRUZZO
PROGRAMMA
ore 15.30 - Presentazione
Saluto dei Rappresentanti Istituzionali
ore 16.00 - Tavola rotonda:
• DIALOGO INTERPERSONALE
Dott.ssa Angela DOGLIOTTI MARASSO Centro per la Noviolenza di Torino
• DIALOGO INTERRELIGIOSO
Dott.ssa Shahrzad HOUSMAND ZADEH Docente di cultura islamica - Univ. di Roma
• DIALOGO INTERCULTURALE
Dott. Raniero LA VALLE Giornalista e scrittore
Ore 19.00
Dibattito
Papa Celestino V *
Celestino V, nato Pietro Angeleri (o, secondo altre fonti, Angelerio) e più conosciuto come Pietro da Morrone (Molise, 1215 - Fumone, 19 maggio 1296), fu Papa della Chiesa cattolica dal 29 agosto al 13 dicembre 1294.
Indice
1 Natali
2 Il conclave
3 Il papato
4 La rinuncia al pontificato
5 Citazioni letterarie
6 Voci correlate
Natali
Fu il primo Papa che volle pontificare al di fuori dei confini dello Stato Pontificio. Fu incoronato ad Aquila (oggi L’Aquila) il 29 agosto del 1294 nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, dove è sepolto. Di origini contadine, penultimo di dodici figli, nacque nel 1215 nel Molise. La sua nascita è rivendicata da 2 comuni: Isernia e Sant’Angelo Limosano. Recentemente anche Sant’Angelo in Grotte, frazione di Santa Maria del Molise ne ha rivendicato i natali "... in un castello di nome Sancto Angelo". Altre fonti fanno risalire la sua nascita addirittura all’anno 1209.
Da giovane, per un breve periodo, ebbe a soggiornare presso il monastero benedettino di Santa Maria in Faifoli, Chiesa abbaziale che, tra le dodici arcidiocesi di Benevento, era una delle più importanti. Mostrò una straordinaria predisposizione all’ascetismo e alla solitudine, ritirandosi nel 1239 in una caverna isolata sul Monte Morrone, sopra Sulmona, da cui il suo nome.
Qualche anno dopo si trasferì a Roma, presumibilmente presso il Laterano, ove studiò fino a prendere i voti sacerdotali. Lasciata Roma, nel 1241, ritornò sul monte Morrone, in un’altra grotta, presso la piccola chiesa di Santa Maria di Segezzano. Cinque anni dopo abbandonò anche questa grotta per rifugiarsi in un luogo ancora più inaccessibile sui monti della Maiella, negli Abruzzi, dove visse nella maniera più semplice che gli fosse possibile.
Si allontanò temporaneamente dal suo eremitaggio di Morrone nel 1244 per costituire una Congregazione ecclesiastica riconosciuta da papa Gregorio X come ramo dei benedettini, denominata "dei frati di Pietro da Morrone" e che soltanto in seguito avrebbe preso il nome di Celestini.
Ormai anziano, nell’inverno del 1273 si recò a piedi in Francia, a Lione, ove stavano per iniziare i lavori del Secondo concilio di Lione, per impedire che l’ordine monastico da lui stesso fondato fosse soppresso. La missione ebbe successo poiché grande era la fama di santità che accompagnava il monaco eremita.
I successivi vent’anni videro la radicalizzazione della sua vocazione ascetica e il suo distaccarsi sempre più da tutti i contatti con il mondo esterno, fino a quando non fu convinto che stesse sul punto di lasciare la vita terrena per ritornare a Dio. Ma un fatto del tutto inaspettato stava per accadere.
Il conclave
Il 4 aprile del 1292 moriva papa Niccolò IV, al secolo Girolamo Masci. Nello stesso mese si riuniva il Conclave che, in quel momento era composto da soli dodici porporati:
Latino Orsini (o Frangipani Malabranca), vescovo di Ostia e Velletri, Decano del Sacro Collegio.
Matteo d’Acquasparta, vescovo di Porto-Santa Rufina, sub-decano del Sacro Collegio.
Gerardo Bianchi, vescovo di Sabina.
Giovanni Boccamazza (o Boccamiti), vescovo di Frascati.
Hughes Seguin de Billon (o Aycelin), titolare di Santa Sabina.
Jean Cholet, titolare di Santa Cecilia.
Benedetto Caetani, titolare di Santi Silvestro e Martino ai Monti.
Pietro Peregrossi (detto Milanese), titolare di San Marco. Giacomo Colonna, diacono di S. Maria in Via Lata. Matteo Orsini Rosso, diacono di S. Maria in Portico. Napoleone Orsini Frangipani, diacono di S. Adriano. Pietro Colonna, diacono di S. Eustachio.
Numerose furono le riunioni e tenute sempre in sedi diverse: a Santa Maria sopra Minerva, a Santa Maria Maggiore e sull’Aventino. Nonostante ciò, il Sacro Collegio non riusciva a far convergere i voti necessari su alcun candidato.
Sopravvenne un’epidemia di peste che indusse il Conclave allo scioglimento. Nel corso dell’epidemia il cardinal Cholet, francese, fu colpito dal morbo e ne rimase vittima, per cui il Collegio Cardinalizio si ridusse a 11 componenti.
Dovette passare più di un anno prima di riunire nuovamente il Conclave; questa volta nella città di Perugia. Era il 18 ottobre 1293.
I porporati, però, nonostante le laboriose trattative, non riuscivano ad eleggere il nuovo Papa, soprattutto per la frattura che si era creata tra i sostenitori dei Colonna e gli altri cardinali. I mesi si susseguivano inutilmente e il permanere della sede vacante aumentava il malcontento popolare che si manifestava attraverso disordini e proteste, anche negli stessi ambienti ecclesiastici.
Si giunse, così, alla fine del mese di marzo del 1294, allorquando i Cardinali dovettero registrare un evento che, probabilmente, contribuì, forse in maniera determinante, ad avviare a conclusione i lavori del Conclave.
Erano in corso, in quel momento, le trattative tra Carlo II d’Angiò, Re di Napoli e Giacomo II, Re d’Aragona, per sistemare le vicende legate all’occupazione aragonese della Sicilia, avvenuta all’indomani dei cosiddetti "vespri siciliani", il 31 marzo 1282.
Poiché si stava per giungere alla stipula di un trattato, Carlo d’Angiò aveva necessità dell’avallo pontificio. La qual cosa era impossibile, stante la situazione di stallo dei lavori del Conclave.
Spinto da questa esigenza, il re di Napoli si recò, insieme al figlio Carlo Martello, a Perugia ove era riunito il Conclave, con lo scopo di sollecitare l’elezione del nuovo Pontefice. Il suo ingresso nella sala ove era riunito il Sacro Collegio provocò la riprovazione di tutti i cardinali e il re fu cacciato fuori soprattutto per l’intervento del cardinale Benedetto Caetani, del quale si sentirà parlare molto presto.
Questa vicenda, con molta probabilità, indusse i cardinali a prendere coscienza del fatto che si rendeva necessario chiudere al più presto la sede vacante. L’iniziativa fu presa dal Cardinal Decano Latino Malabranca, il quale sottopose all’attenzione degli altri cardinali la persona di un monaco eremita di nome Pietro da Morrone; figura ascetica, mistica e religiosissima, del quale si diceva un gran bene da parte di tutti.
Il Cardinal Decano, però, dovette adoperarsi molto per rimuovere le numerose resistenze che il Sacro Collegio poneva sulla persona di un non porporato. Alla fine, dopo ben 27 mesi, emerse dal Conclave, all’unanimità, il nome di Pietro Angeleri, il frate eremita da Morrone, molisano, nato 79 anni prima. Era il 5 luglio 1294.
Occorre chiedersi le ragioni che avevano indotto il Sacro Collegio ad eleggere Papa un semplice frate eremita, completamente privo di esperienza e totalmente estraneo alle problematiche della Santa Sede. Per di più, vi è da chiedersi le ragioni di una elezione avvenuta a voti unanimi.
L’ipotesi più attendibile che si può avanzare è quella di un tacito accordo fra tutti i prelati al fine di rinviare nel tempo la nomina di un Papa vero e nel contempo tacitare l’opinione pubblica e le monarchie più potenti d’Europa.
Probabilmente, però, i cardinali pervennero a questa soluzione pensando anche di poter gestire, ciascuno a modo suo, la totale inesperienza del frate eremita, al fine di trarne vantaggi più o meno cospicui. Del resto, la presenza nel Collegio di prelati come il Caetani e il Malabranca, molto scaltri, smaliziati ed esperti di intrighi curiali, autorizza a tanto supporre.
Il papato
Statua raffigurante Celestino VLa notizia dell’elezione gli fu recata da tre vescovi, nella grotta sui monti della Maiella, ove il frate risiedeva. Sorpreso dall’inaspettata notizia, il frate, forse anche intimorito dalla potenza della carica, inizialmente oppose un netto rifiuto che, successivamente, si trasformò in un’accettazione alquanto riluttante, avanzata certamente soltanto per dovere di obbedienza.
Appena diffusa la notizia dell’elezione del nuovo Pontefice, Carlo d’Angiò si mosse immediatamente da Napoli e fu il primo a raggiungere il frate. In sella ad un asino tenuto per le briglie dallo stesso Re, Pietro si recò nella città di Aquila (oggi L’Aquila), dove aveva convocato tutto il Sacro Collegio. Qui, nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio, fu incoronato il 29 agosto 1294 con il nome di Celestino V.
Uno dei primi atti ufficiali fu l’emissione della cosiddetta Bolla del Perdono, bolla che elargisce l’indulgenza plenaria a tutti coloro che confessati e pentiti dei propri peccati si rechino nella basilica di Santa Maria di Collemaggio della città di L’Aquila dai vespri del 28 agosto al tramonto del 29. In pratica Celestino V istituì a Collemaggio il primo vero Giubileo, successivamente copiato dal successore (per molti usurpatore) per bloccare l’afflusso di pellegrini verso Aquila. Fu così istituita la Perdonanza, celebrazione religiosa ancora oggi tenuta nel capoluogo abruzzese.
Il nuovo Pontefice si affidò, incondizionatamente, nelle mani di Carlo d’Angiò, nominandolo "maresciallo" del futuro Conclave. Ratificò immediatamente il trattato tra Carlo d’Angiò e Giacomo d’Aragona, mediante il quale fu stabilito che, alla morte di quest’ultimo, la Sicilia sarebbe ritornata agli angioini.
Il 18 settembre 1294 indisse il suo primo e unico Concistoro, nominando ben 13 nuovi Cardinali di cui nessuno romano:
Simon de Beaulieu, francese, Arcivescovo di Bourges, Francia.
Bertrand de Got, francese, Arcivescovo di Lione, Francia.
Tommaso d’Ocrea, italiano dell’Ordine dei Celestini, Abate di S. Giovanni in Piano.
Jean Le Moine, francese, Vescovo di Arras, Francia, Vice Cancelliere di Santa Romana Chiesa.
Pietro d’Aquila, italiano, benedettino, Vescovo di Valva-Sulmona.
Guillaume Ferrier (o de Ferrières), francese.
Nicolas de Nonancour, francese, cancelliere del capitolo della cattedrale di Parigi, Francia.
Robert, francese, Ordine dei Cistercensi, Abbate dei monasteri di Potigny e Citeaux, Superiore Generale del suo Ordine.
Simon, francese, Ordine benedettino cluniacense.
Landolfo Brancaccio, di Napoli.
Guglielmo Longhi, Cancelliere di Carlo II d’Angiò.
Francesco Ronci, di Atri, Abruzzo.
Giovanni Castrocoeli, O.S.B.Cas. (Ordinis Sancti Benedicti, Congregatio Cassinensis), Arcivescovo di Benevento.
Dietro consiglio di Carlo d’Angiò, trasferì la sede della Curia da Aquila a Napoli fissando la sua residenza in Castel Nuovo, ove fu allestita una piccola stanza, arredata in modo molto spartano e dove egli si ritirava spesso a pregare e a meditare.
Probabilmente, nel corso delle sue frequenti meditazioni, dovette pervenire, poco a poco, alla decisione di abbandonare il suo incarico. In ciò sostenuto anche dal parere del cardinal Caetani, esperto di diritto canonico, il quale riteneva pienamente legittima una rinuncia al pontificato.
La rinuncia al pontificato
Circa quattro mesi dopo la sua incoronazione, nonostante i numerosi tentativi di dissuasione avanzati da Carlo d’Angiò, il 13 dicembre 1294, Celestino V, nel corso di un Concistoro, diede lettura di una bolla, appositamente preparata per l’occasione, nella quale si contemplava la possibilità di una abdicazione del Pontefice per gravi motivi. Dopo di che recitò la formula della rinuncia al Soglio Pontificio.
La tomba di Celestino V nella Basilica di Santa Maria di CollemaggioLa storia ha chiarito, poi, che la bolla pontificia contenente tutte le giustificazioni per una abdicazione del Papa, era stata compilata "ad hoc" proprio dal cardinal Caetani, il quale intravedeva in questa vicenda la possibilità di ascendere egli stesso al soglio pontificio con notevole anticipo sui tempi che egli aveva preventivato al momento in cui aveva aderito all’elezione di Pietro da Morrone.
Controversi sono i pareri sulle dimissioni dell’Angeleri. Se si dà credito ad una interpretazione molto popolare, ma contestata dai critici moderni, Dante Alighieri è quello che, forse, si espresse nella maniera più critica contro di lui. Secondo questa ipotesi, infatti, il personaggio nel III Canto dell’Inferno di cui si dice che "fece per viltade il gran rifiuto" sarebbe proprio Celestino V, mentre per Dante il concetto di viltà era riposto in tutt’altra categoria di personaggi. Tuttavia, vi sono diverse interpretazioni della frase dantesca (ad es. Esaù e Ponzio Pilato).
Francesco Petrarca, invece, diede di questo gesto una interpretazione diametralmente opposta, ritenendo che una persona come l’Angeleri, dotata di alta spiritualità, non avrebbe mai potuto attendere ai doveri papali se quei doveri, come succedeva a quei tempi, andavano a prevaricare sui principi morali che dovevano governare la chiesa cristiana. In altri termini, Celestino V, uomo di alti principi morali, non tollerava che i soprusi e le nefandezze di cui si macchiava la chiesa per sostenere il suo potere temporale, prendessero il sopravvento sugli alti principi religiosi che dovevano animare l’operato di un Pontefice.
Ancora oggi, la storiografia ufficiale fornisce pareri controversi sul gesto di Celestino V.
Undici giorni dopo le sue dimissioni, il Conclave, riunito a Napoli in Castel Nuovo, elesse il nuovo Papa nella persona del cardinal Benedetto Caetani, laziale di Anagni. Aveva 59 anni e assunse il nome di Bonifacio VIII.
Il Caetani, che era stato l’artefice delle dimissioni di Celestino V, avendo operato con simonia per la propria elezione, e temendo uno scisma da parte dei cardinali a lui contrari mediante un ripescaggio dell’Angeleri, diede disposizioni affinché il vecchio frate fosse arrestato. Questi, venuto a conoscenza della decisione del nuovo Papa, tentò una fuga verso oriente, ma il 16 maggio 1295 fu catturato da Guglielmo l’Estendard, Connestabile del Regno di Napoli.
Pietro da Morrone fu rinchiuso nella rocca di Fumone, in Ciociaria, ove morì il 19 maggio 1296. Si disse assassinato per ordine del Caetani.
Temporaneamente trovò sepoltura nel monastero di Sant’Antonio a Ferentino. In seguito le sue spoglie furono traslate nella basilica di Santa Maria di Collemaggio, presso L’Aquila; nella chiesa, cioè, ove era stato incoronato Papa. Pochi anni dopo fu canonizzato da papa Clemente V, a seguito di sollecitazione da parte del re di Francia Filippo IV Capeto, detto "il bello".
Citazioni letterarie
Ai segreti di Celestino V è dedicato il libro La Rivelazione dell’Aquila, di L. Ceccarelli e P. Cautilli.
Alla figura ed al messaggio di Pace di Celestino V nonché alla Perdonanza è dedicato il "romanzo storico virtuale" La missione di Celestino, di Angelo De Nicola
Voci correlate
Perdonanza
Bolla del Perdono
* Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
Celestino V: cultura e società Atti della Giornata di studio (Ferentino, 17 maggio 2003) - Editrice La Saèienza, 2007).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FLS
NAPOLI E LA SCIENZA. STORIA E STORIOGRAFIA:
GIAMBATTISTA VICO CON #NEWTON E CON #SHAFTESBURY.
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LA PUNTA DI UN ICEBERG: "[...] #ROYAL SOCIETY, NEWTON, VALLETTA. Se Vico, nel 1725, invia a Newton una copia della sua prima “#ScienzaNuova”, ha le sue buone ragioni: non è il gesto di un isolato dalla cultura europea del suo tempo! Una di queste ragioni è che egli, sin dagli anni degli studi universitari (1689-1693), era in relazione con Giuseppe Valletta.
Ecco quanto #Croce dice di lui nel suo discorso del 1924: a Napoli, “lo Shaftesbury entrò in relazione (...) con Giuseppe Valletta e col suo circolo (...) Valletta, già mercante e avvocato (...) conoscitore com’era, oltre che del latino e del greco, del francese, e dell’inglese, segnatamente verso l’#Inghilterra tenne rivolto lo sguardo, e coi dotti e le società scientifiche inglesi coltivò corrispondenze.
Di libri inglesi, scarsissimi allora in Italia, era assai ben provvista la sua libreria, e dall’inglese egli traduceva in italiano o in latino le notizie scientifiche, in specie quelle che la Società reale di Londra gl’inviava sulle esperienze che essa veniva compiendo. Il segretario di quella società, il Waller, gli richiese tra l’altro, nel 1712, una informazione - continua e precisa Croce - sull’eruzione del #Vesuvio allora accaduta, e poi ancora sull’epidemia del bestiame che impersava in Italia, e le sue memorie su tali argomenti furono lette in quell’adunanza, presente e presidente il Newton. Così stimato era quei dotti - continua ancora Croce - che più volte gli fu offerta (narra un biografo) da milordi e signori inglesi un luogo in quella Regia società: onore che egli, modesto com’era, rifiutò” [...]" (cfr. Federico La Sala, "IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA").
NOTE:
PER UN’ALTRA EUROPA E PER UN’ALTRA ITALIA. Al di là dei "corsi e ricorsi", il filo della tradizione critica. Contro la cecità e la boria dei dotti e delle nazioni. Un invito alla (ri)lettura della "Scienza Nuova": GIAMBATTISTA VICO: OMERO, LE DONNE, E I "NIPOTINI" DI PLATONE).
LA SCIENZA A NAPOLI NEL SETTECENTO: L’UNIVERSITA’ E L’ AZIONE RIFORMATRICE DI #CELESTINO #GALIANI E #ANTONIO #GENOVESI *:
"[...] The principal context of the chapter is the tenure of Celestino Galiani (1681-1753) as the rector (or ‘Cappellano Maggiore’) of the University of Naples and the published work of his protégé Antonio Genovesi (1711-1769). The history of Galiani’s and Genovesi’s curricular reforms is well known among historians of the Settecento Meridione.
However, the place of ‘political science’ - that is, the teaching and study of ‘politics’ - in this history still awaits study. The chapter begins by surveying the institutional background to Galiani’s curricular reforms as Cappellano Maggiore; it then turns to the works of Genovesi and members of the so-called ‘#scuola #genovesiana’. Although the latter published on ‘political’ topics, neither Genovesi nor his students developed a curricular ‘political science’ [...]" (cfr. Felix Waldmann, "Political science in the Settecento University of Naples", in "The Science of Naples", op. cit., p. 61).
*
b) ANTONIO GENOVESI.
#Europa (1624-2024): #Memoria, #storia, e #storiografia dell’#Italia della fine del #Cinquecento e dei primi decenni del #Seicento (ricordare #TommasoCampanella, #GiordanoBruno, Miguel #Cervantes, William #Shakespeare, e i "#PromessiSposi" di #AlessandroManzoni).
Napoli, #18marzo 2024: "Miguel Vaaz. Il conte di Mola" (Nicola Fanizza, Cacucci Editore 2021). Nella Capitale del #RegnodiNapoli, vicereame dell’#impero della #Spagna di Filippo II e Filippo III, la straordinaria vita del mercante e banchiere di origine portoghese, #MiguelVaaz, salvato e protetto dai padri #Celestini della Chiesa dell’Ascensione di Chiaia (ordine fondato da #CelestinoV, san Pietro Celestino), che diventa "Conte di Mola" (cfr. NicolaFanizza).
RIPENSANDO A CELESTINO V E A DANTE ALIGHIERI.
Nota a margine dell’attuale presente storico e del pontificato di papa Bendetto XVI...
A 700 anni (più 1, 701 anni) dalla morte (1321) di #DanteAlighieri, tenendo conto degli "ultimi ritocchi al #Paradiso (1319)" [M. Feo] e della consapevolezza dello stesso #Dante di essere "cive di quella Roma onde Cristo è romano" [Purg. XXXII, 102], si può pensare (come alcuni hanno proposto) che sia #Pilato (e non #CelestinoV) la persona del "gran rifiuto", e che il comportamento di Pilato in campo romano possa essere messo in corrispondenza speculare con il comportamento di #Giuda in campo ebraico.
Se questo è accettabilmente vero, e la cosa appare celestinamente convincente seguendo il percorso di Pietro da Morrone prima e dopo della sua elezione a papa, tutto il castello storiografico costruito in sette secoli crolla e apre a nuovi orizzonti e a inediti punti di vista sia sulla lettura del lavoro di Dante, sia della storia della Chiesa e, al contempo, della stessa storia d’Italia.
Alla luce dello spirito di cittadinanza costituzionale di #Dante (e, su questo, ricordare l’amore del presidente della Repubblica italiana, #Carlo #Azeglio #Ciampi, per il cittadino #Dante), non è possibile non pensare immediatamente al #doppio #tradimento, quello della #monarchia del #Regno d’Italia (#Pilato) e della Chiesa Cattolico-costantiniana (#Giuda), nei confronti della intera popolazione italiana di religione ebraica ("Leggi per la difesa della razza", 1938), e, ancora e subito, riesaminare e rilanciare il programma dei #dueSoli in #terra e dell’unico Sole in #cielo (Giordano Bruno, "Lo spaccio della bestia trionfante") e tentare di portarsi "Fuori dall’Occidente" (Asor Rosa, 1992) e aprire gli occhi (#Freud) su tutta la Terra?
Oggi, nel 2023 (appena iniziato) #Eleusi è una delle capitali europee della #cultura, forse, può essere una buona occasione per riattivare la #memoria della Terra-Madre (#Demetra), riabbracciare la "antica madre" (#Virgilio) e, con #Astrea, ripensare il problema antropologicamente, in spirito di #Giustizia.
VIVA L’ITALIA!!! LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
FLS
L’Aquila. Il Papa apre la porta di Celestino. Petrocchi: riconciliazione e conversione
Per la prima volta un Pontefice presiederà la Messa di avvio della Perdonanza celestiniana. Il cardinale: consolazione per chi ha perso tutto nel terremoto del 2009
di Alessia Guerrieri (Avvenire, sabato 27 agosto 2022)
Il Papa darà “un valore universale” al messaggio di Celestino e ricorderà a tutti che anche dalla sofferenza più acuta possono scaturire pienezze inedite. L’arcivescovo di L’Aquila, il cardinale Giuseppe Petrocchi, alla vigilia della visita pastorale di Francesco sottolinea come il perdono sia strettamente connesso all’«ecologia dell’anima».
Venendo a L’Aquila ho scoperto il tesoro spirituale contenuto nel messaggio della Perdonanza e ho notato i motivi di intensa consonanza tra gli insegnamenti di Celestino V e il magistero di papa Francesco, centrato sul tema della misericordia. Successivamente, il 4 giugno 2021, il Papa mi ha concesso un’udienza; nel corso del colloquio, la conversazione ha toccato anche la situazione aquilana, sia sul versante ecclesiale come nella prospettiva della ricostruzione. Mi è sembrato che la Provvidenza mi spalancasse una porta inaspettata: allora ho messo in campo l’invito, trovando subito un’accoglienza benevola, perché il Papa porta nel cuore le vicende drammatiche della nostra gente.
Faccio una premessa. Siamo stati creati per Amore e chiamati all’Amore. Il verbo amare ha tre declinazioni fondamentali che sono tra di loro connesse da un dinamismo circolare: “essere amati”, “amarsi” e “amare”. Di conseguenza, tutto ciò che promuove questo dinamismo (che apre all’Amore proveniente da Dio e permette di stabilire un rapporto positivo con noi stessi) rende l’uomo più uomo, e lo fa sempre di più a immagine e somiglianza di Dio. Di contro, tutto ciò che indebolisce questo dinamismo produce gravi guasti a livello spirituale, determinando disordini etici e scompensi relazionali: così si perde la pace. L’«ecologia dell’anima» sta nel fatto che diventiamo capaci di avere cura del nostro «ambiente interiore», secondo il progetto di Dio, facendo in modo che gli aspetti di negatività vengano gradualmente neutralizzati e le buone doti siano potenziate e messe a servizio degli altri.
È un evento di straordinaria importanza, innanzitutto perché papa Francesco raccoglie la tradizione della Perdonanza celestiniana, che scorre ininterrotta da 728 anni: la arricchisce con il suo magistero e la proietta a livello universale. La visita del Papa costituisce un forte richiamo ai valori della riconciliazione e della conversione, ma ha pure una valenza esistenziale, perché il Successore di Pietro svolgerà anche un ministero di consolazione. Infatti, il terremoto che ha colpito L’Aquila e il suo territorio il 6 aprile 2009, ha provocato non soltanto devastazioni edilizie e numerosi morti, ma ha causato anche fratture nel cuore, nella mente, nei rapporti interpersonali. C’è un dolore profondo che ha bisogno di essere riconosciuto, di essere abbracciato e di ricevere una parola di speranza, perché consolare non vuol dire pretendere di anestetizzare a tutti i costi sofferenze che, essendo radicate nell’amore, hanno un carattere sacro.
Il dolore di una mamma e di un papà che perdono i figli manifesta un amore che è più forte della morte, perché la morte non può reciderlo, visto che quell’amore porta il sigillo di Dio ed è eterno. La consolazione da parte del Papa aiuta le persone a dare significato a questa sofferenza e a riconoscerla come una fonte di grazia. Infatti, nella Pasqua di Gesù qualunque sofferenza, anche la più acuta ed estrema, viene assunta e trasformata: e Dio, che è onnipotente, attraverso l’effusione del Suo Spirito, la rende una porta che immette nella risurrezione. La partecipazione alla Pasqua del Signore ci consente di accedere a pienezze inedite e spalanca entusiasmanti dimensioni di unità con Lui, dentro di noi e con gli altri.
Il messaggio della Perdonanza - dentro cui viaggia l’esortazione alla misericordia che papa Francesco ha rivolto agli uomini di “buona volontà” - dovrebbe arrivare a tutte le genti, specialmente ai popoli che stanno vivendo conflitti sconvolgenti, come in Ucraina. Il perdono, infatti, è profondamente legato alla pace. Papa Francesco, riprendendo l’insegnamento dei suoi predecessori, ha sottolineato con vigore l’interazione (evangelica e umana) che si stabilisce in un “trinomio” teologico ed etico: pace, giustizia e misericordia. La pace viene generata dalla giustizia: se manca la giustizia la pace non può sussistere come valore stabile, condiviso e costruttivo. Non si va oltre a forme precarie di tregua, perché la pace nasce da una vera sintonia delle menti e dei cuori. La pace dunque è figlia della giustizia, ma la giustizia - dice papa Francesco - non può operare autenticamente ed efficacemente se non è animata dalla misericordia. Perché una giustizia senza misericordia diventa aspra e vendicativa: una giustizia non equa, quindi non capace di ricomporre il bene che è stato violato e di ricostituire un ordine che è stato lacerato. L’esortazione a vivere la misericordia diventa fondamentale per invitare tutti a immettersi, attraverso la giustizia, sulla via della pace. Un messaggio, questo, che oggi deve risuonare forte: dovunque e per ognuno
L’Aquila. Perdonanza celestiniana, sarà papa Francesco ad aprire la Porta Santa
Oggi l’annuncio ufficiale: la visita nella mattinata del 28 agosto, data in cui si celebra l’appuntamento annuale concesso da Celestino V nel 1294
di Enrico Lenzi (Avvenire, sabato 4 giugno 2022)
Per la prima volta un Pontefice aprirà la Porta Santa della Basilica di Collemaggio a L’Aquila in occasione della festa della Perdonanza. Accadrà il 28 agosto e a compiere il gesto che darà il via all’appuntamento annuale con il perdono sarà appunto papa Francesco. L’annuncio ufficiale è stato dato oggi dalla Sala Stampa vaticana, in contemporanea con un comunicato ufficiale dell’arcidiocesi di L’Aquila. «Si tratta di un gesto di predilezione verso la nostra Chiesa - commenta l’arcivescovo, il cardinale Giuseppe Petrocchi nella nota ufficiale - e alla nostra città. La presenza del successore di Pietro conferirà a questo evento una portata planetaria».
La Perdonanza dell’Aquila, conosciuta anche come Perdonanza celestiniana, si rinnova ogni anno il 28 e il 29 agosto, giorni corrispondenti all’incoronazione a Pontefice di Celestino V, al secolo il monaco Pietro Angeleri. Era il 29 agosto 1294. Fu lo stesso Papa a concedere l’indulgenza plenaria perpetua per chi avesse varcato la Porta Santa della Basilica di Santa Maria di Collemaggio. La prima celebrazione avvenne nel 1295, ma sul soglio di Pietro non sedeva più Celestino V (si dimise pochi mesi dopo l’elezione, il 13 dicembre 1294), bensì Bonifacio VIII. L’appuntamento con la Perdonanza è diventato ancora più solenne da quando nel 1327 nella Basilica vennero traslate le spoglie di Celestino V.
«È triste dover vedere come l’esperienza del perdono nella nostra cultura si faccia sempre più diradata - scrive ancora nel suo messaggio il cardinale Petrocchi -. Senza la testimonianza del perdono, tuttavia, rimane solo una vita infeconda e sterile, come se si vivesse in un deserto desolato». Per questo «è giunto di nuovo per la Chiesa il tempo di farsi carico dell’annuncio gioioso del perdono». Tema quanto mai attuale davanti al conflitto in Ucraina. Ecco allora l’auspicio, espresso dall’arcivescovo di L’Aquila, che la Porta Santa della Perdonanza sia «spalancata sul mondo intero. Speriamo che tutti i popoli, specie quelli lacerati da conflitti e da divisioni interne, possano varcarla, idealmente, e ritrovare le vie della solidarietà e pace».
Papa Francesco arriverà in elicottero allo stadio Gran Sasso di L’Aquila alle 8.25 del 28 agosto e raggiungerà, secondo il programma ufficiale, in automobile la piazza del Duomo. Ad accoglierlo, con il cardinale Petrocchi, vi saranno le autorità cittadine (il sindaco Pierluigi Biondi e il prefetto Cinzia Teresa Torraco) e quelle regionali abruzzesi (il governatore Marco Marsilio). Il Papa compirà una visita privata nel Duomo ancora con le ferite del terribile terremoto del 6 aprile 2009. E proprio ai familiari delle vittime (furono 309) il Papa rivolgerà alle 9.15 il proprio saluto sul sagrato.
Alle 10 Francesco raggiungerà in auto la Basilica di Collemaggio, sul cui piazzale celebrerà la Messa, durante la quale è prevista anche l’omelia. La celebrazione eucaristica sarà seguita dalla recita dell’Angelus, al termine del quale si compirà l’atteso rito dell’apertura della Porta Santa che segna l’avvio di 24 ore dedicate all’ottenimento del perdono. Dopo l’apertura della Porta Santa, il Papa prenderà congedo dalle autorità e dai fedeli, facendo ritorno allo stadio Gran Sasso, da dove in elicottero alle 12.45 ripartirà per tornare in Vaticano.
Nella Basilica di Collemaggio, nei tempi recenti, si sono recati in visita anche Giovanni Paolo II, il 30 agosto 1980, e Benedetto XVI, il 28 aprile 2009 a pochi giorni dal terremoto del 6 aprile. Rendendo omaggio a Celestino V, papa Ratzinger mise il proprio pallio sulla teca che contiene le spoglie del Pontefice.
Santi Beati e Testimoni*
San Celestino V - Pietro di Morrone Eremita e Papa
Pietro da Morrone, sacerdote, condusse vita eremitica. Diede vita all’Ordine dei “Fratelli dello Spirito Santo” (denominati poi “Celestini “), approvato da Urbano IV, e fondò vari eremi. Eletto papa quasi ottantenne, dopo due anni di conclave, prese il nome di Celestino V e, uomo santo e pio, si trovò di fronte ad interessi politici ed economici e a ingerenze anche di Carlo d’Angiò. Accortosi delle manovre legate alla sua persona, rinunziò alla carica, morendo poco dopo in isolamento coatto nel castello di Fumone. Giudicato severamente da Dante come “ colui che per viltade fece il gran rifiuto “, oggi si parla di lui come di un uomo di straordinaria fede e forza d’animo, esempio eroico di umiltà e di buon senso.
Al secolo si chiamava Pietro Angeleri ed era nato verso il 1215 a Isernia (Campobasso) da modesti contadini, penultimo di dodici figli. Dalla madre, rimasta vedova, fu avviato agli studi ecclesiastici, ma siccome si sentiva attratto dalle austerità della vita monastica, a vent’anni Pietro si fece benedettino a Faifoli (Benevento), che lasciò dopo pochi anni per vivere da eremita in una grotta sul monte Palleno. Dopo tre anni fu ordinato sacerdote a Roma. Ritornò a condurre vita eremitica sul Monte Morrone, nei pressi di Sulmona, assetato di preghiera, di quotidiani digiuni e macerazioni.
Ben presto incominciarono ad accorrere a lui dei discepoli coi quali si stabilì sulla Maiella, attorno all’oratorio dello Spirito Santo, e costituì nel 1264, con l’approvazione di Urbano IV, gli Eremiti di San Damiano, detti poi Celestini, viventi secondo la regola benedettina interpretata con molta severità. Quando venne a sapere che al Concilio di Lione (1274) si volevano limitare i nuovi ordini, vi si recò in persona. Giunse che il concilio era già finito, però fu ricevuto dal Beato Gregorio X che confermò la sua congregazione (1275) costringendo così i vescovi a restituire i beni di cui si erano già appropriati. Beneficati dal Cardinale Latino Malabranca OP. e da Carlo II, re di Napoli, i religiosi di Pietro Morrone moltiplicarono i monasteri e incorporarono abbazie in decadenza come quelle di Santa Maria di Faifoli e San Giovanni in Piano di cui il fondatore fu successivamente abate.
A motivo della grande attrattiva che sentiva per la solitudine, Pietro di Morrone si ritirò ancora una volta a vita eremita sulla Maiella (1284), lasciando ad altri la direzione di 36 monasteri popolati da circa 600 monaci e oblati. Visse nella sua cella fino a tredici mesi di seguito senza uscirne. Ogni anno faceva quattro quaresime. Riservava alla preghiera tutti i mercoledì e venerdì. Negli altri giorni riceveva i numerosi laici che andavano a consultarlo. Non contento di prodigare ai visitatori buoni consigli, organizzò per essi una pia associazione, con l’impegno di recitare ogni giorno un certo numero di Pater, amarsi vicendevolmente, evitare il peccato e visitare i poveri e i malati, per soccorrere i quali non esitò a far vendere i calici e gli ornamenti preziosi delle chiese del suo Ordine.
Alla morte di Niccolò IV (1292) la Santa Sede rimase vacante per ventisette mesi perché gli undici elettori erano divisi tra i due partiti dei Colonna e degli Orsini, e il re Carlo II di Napoli (+1309), figlio e successore di Carlo D’Angiò, fratello di S. Luigi IX, re di Francia, brigava perché fosse scelto un cardinale di suo gradimento. L’elezione di Pietro da Morrone, la cui storia sembra una leggenda, è la più strana che si ricordi. Nella primavera del 1294 il re di Napoli si era recato a Perugia e aveva parlamentato con i cardinali radunati in conclave. Di lì era passato a Sulmona ove concesse dei privilegi ai seguaci del Morrone il quale, poco dopo, scrisse una lettera al cardinale Latino in cui minacciava terribili castighi da parte di Dio se, entro quattro mesi, il sacro Collegio non avesse eletto il papa. Tutti avevano sentito parlare dell’eremita come di un taumaturgo, ma nessuno lo conosceva di vista. Convinti che fosse la persona più adatta a governare la Chiesa, su proposta del cardinal Latino gli diedero il voto.
Una commissione di prelati e di notai fu mandata sulle montagne della Maiella per chiedere al Morrone se voleva accettare. I legati trovarono in una spelonca un vecchio di oltre ottant’anni, pallido, emaciato dai digiuni, vestito di ruvido panno e calzato di pelli d’asino. Gli comunicarono l’elezione al papato, ma egli l’accettò soltanto perché pressato dai confratelli. La notizia dello straordinario avvenimento giunse alla corte di Carlo II, che si precipitò a Sulmona nell’intento di rendere l’eletto docile strumento dei suoi interessi. Contrariamente al parere dei cardinali, che lo invitarono a Perugia per sottrarlo alle suggestioni dell’Angioino, egli decise di fermarsi un po’ di tempo all’Aquila ove, sull’esempio di Cristo, volle entrare seduto su di un asino, scortato da Carlo II e da suo figlio, che sorreggevano le briglie.
Davanti la chiesa dì Santa Maria di Collemaggio che Pietro aveva fatto costruire (1287), il 29-8-1294 ricevette in testa la tiara già di Innocenzo III, e il nome di Celestino V. Ben presto però si dileguarono le speranze riposte in lui, ignaro di latino, digiuno di scienze teologiche e giuridiche, privo di esperienza politica e diplomatica. Il pontefice, sordo ai consigli dei cardinali, s’impigliò ogni giorno più nelle reti che ambiziosi principi e astuti legulei gli tesero. Cominciò a dispensare favori spirituali senza discernimento, specialmente alle chiese del suo Ordine; pensò di mutare in Celestini gli altri monaci; cercò di obbligare i benedettini di monte Cassino a indossare la tonaca grìgia dei suoi religiosi; permise ai Francescani Spirituali di separarsi dagli altri sotto il nome di "Poveri Eremiti" non considerando in essi che l’austerità della vita. "Nella sua pericolosa semplicità" (L. Muratori) concesse al re di Napoli il prelievo di due decime sui beni della Chiesa francese e inglese perché potesse finanziare le sue spedizioni militari; la nomina di suo figlio Luigi, di ventun anni, all’arcivescovado di Lione; la nomina di dodici cardinali, di cui sette francesi, due napoletani, e nessuno romano.
In ottobre Celestino V decise di abbandonare l’Aquila, ma invece di prendere la via di Roma, contro il parere dei cardinali, si lasciò trascinare a Napoli dal re suo amico e protettore. I curiali durante i cinque mesi del suo pontificato approfittarono della sua inesperienza per trafficare e vendere grazie e privilegi, mentre i furbi ridevano dicendo che il papa comandava "nella pienezza della sua semplicità". Non volendo perdere nulla delle sue abitudini claustrali, in avvento, in un angolo del Castello Nuovo, Celestino V si fece costruire in legno una colletta in cui passare la quarantena in preparazione al Natale. Jacopone da Todi frattanto gl’indirizzava le sue frecciate poetiche: "Che farai, Pier di Morrone? - sei venuto al paragone. - Vedremo l’operato - che in cella hai contemplato. - Se il mondo è da te ingannato, - seguirà maleditione". Colpito dal disordine che s’infiltrava nella Chiesa a motivo della sua incapacità amministrativa, Celestino V si rese conto di non essere all’altezza del suo compito, motivo per cui si sentiva gemere, in preda ai rimorsi: "Dio mio, mentre regno sulle anime, ecco che perdo la mia".
Consultò allora esperti canonisti, tra cui Benedetto Gaetani, e tutti gli risposero che il papa poteva abdicare per sufficienti motivi. Appena i napoletani ebbero sentore che un papa così buono e così facile a lasciarsi ingannare stava per abbandonarli, invasero Castel Nuovo. Celestino V riuscì a calmarli a stento con vaghe promesse e l’autorizzazione di fare preghiere e processioni per chiedere a Dio più luce. Dopo aver preparato con il Gaetani l’atto di rinuncia al potere pontificale e una costituzione che riconosceva al pontefice la facoltà di dimettersi, il giorno di S. Lucia convocò il concistoro, ordinò ai presenti di non interromperlo, poi con voce alta e ferma lesse la sua rinuncia libera e spontanea al potere delle somme chiavi "per causa di umiltà, di perfetta vita e preservazione di coscienza, per debolezza di salute e difetto di scienza, per ricuperare la pace e la consolazione dell’antico vivere’". Fra le lacrime degli astanti depose le insegne papali per rivestirsi del suo vecchio saio. Bene ha scritto E. Casti in occasione del VI centenario dell’incoronazione di Celestino V; "L’abdicazione di lui non fu ne una viltà, ne un atto di eroismo; fu il semplice compimento dello stretto dovere che incombe a chiunque ha assunto un ufficio sproporzionato alle proprie forze. Il dovere morale di restare al suo posto non poteva obbligare perché in contrasto con l’interesse più imperioso del bene comune".
Il 24 dicembre fu eletto papa il cardinal Gaetani col nome di Bonifacio VIII. Uno dei suoi primi atti fu di annullare tutti i favori accordati dal suo predecessore il quale bramava far ritorno al suo eremo, mentre il papa voleva che lo seguisse in Campania per impedire eventuali scismi o ribellioni.
Di mala voglia egli si mise in cammino con l’abate di Monte Cassino. Giunto a San Germano approfittò della sosta per farsi dare un cavallo e fuggire a Monte Morrone, dove per due mesi rimase nascosto alle ricerche dei messi papali. Tentò in seguito la fuga in Grecia, ma una tempesta lo sospinse sul litorale di Vieste. Tradotto nel castello di Fumone vi morì il 19-5-1296 cantando salmi. Clemente V lo canonizzò nel 1313. Le sue reliquie sono venerate a L’Aquila, nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio.
* Autore: Guido Pettinati
* Fonte: Santi Beati e Testimoni.
FLS
San Patrizio, vescovo, apostolo dell’Irlanda *
Un ragazzo che prega
Maewyn Succat, questo il nome con cui Patrizio fu battezzato, nacque nella Britannia Romana tra il 385 e il 392 in una famiglia cristiana. All’età di quindici o sedici anni venne rapito da un manipolo di pirati irlandesi che lo portarono con loro nel nord dell’Irlanda e lo vendettero come schiavo. Nella sua “Confessione”, in cui si firma Patricius e in cui racconta l’esperienza di quegli anni, egli scrive: “L’amore per Dio e il timore di Lui crebbero in me, e così la fede. In un solo giorno recitavo cento preghiere, e di notte quasi altrettante. Pregavo nei boschi e sui monti, anche prima dell’aurora. Né la neve, né il ghiaccio, né la pioggia sembravano toccarmi.”
Dopo sei anni di prigionia, Patrizio ebbe in sogno la premonizione della libertà ormai prossima e, obbedendo alla visione avuta mentre dormiva, sfuggì alla sorveglianza e percorse a piedi i circa 200 chilometri che lo separavano dalla costa. Lì riuscì a impietosire alcuni marinai che lo imbarcarono con loro e lo ricondussero in Britannia, dove poté riabbracciare la sua famiglia.
Una visione
Pochi anni dopo, Patrizio ebbe un’altra visione, che descrive sempre nella “Confessione”: “Vidi un uomo che veniva verso di me, come proveniente dall’Irlanda; il suo nome era Vittorico, recava con sé alcune lettere, e me ne consegnò una. Lessi la prima riga: ‘Invocazione degli irlandesi’. Mentre leggevo, mi parve di udire la voce delle genti che abitavano presso la foresta di Vocluto (il luogo della sua prigionia), vicino al mare occidentale, e mi parve che mi implorassero, chiamandomi ‘giovane servo di Dio’, di andare tra loro.” Questa visione galvanizzò Patrizio che proseguì i suoi studi di formazione e che venne ordinato presbitero da Germano, vescovo di Auxerre.
Il suo sogno di evangelizzare l’Irlanda, tuttavia, non era ancora prossimo a realizzarsi. La sua candidatura al ministero episcopale, in vista di un suo invio in Irlanda, venne avversata sulla base di una sua presunta impreparazione dovuta all’irregolarità dei suoi studi; questo rimase a lungo un cruccio per Patrizio che nella “Confessione” ammette: “Non ho studiato come altri che si sono nutriti in egual misura del diritto e della Sacra Scrittura e fin dall’infanzia hanno perfezionato la loro lingua. Io invece ho dovuto imparare una lingua straniera. Alcuni mi accusano di ignoranza e di avere una lingua balbuziente, ma in realtà sta scritto che le lingue balbuzienti imparano rapidamente a parlare di pace”.
Vescovo in Irlanda
Finalmente, in una data imprecisata tra il 431 e il 432, Patrizio venne consacrato Vescovo d’Irlanda da papa Celestino I e arrivò a Slane il 25 marzo del 432. Il Vescovo che l’aveva preceduto, Palladio, era rientrato in patria scoraggiato dopo meno di due anni di missione. Patrizio si trovò dunque ad affrontare innumerevoli difficoltà: il capo di una delle tribù drude cercò di farlo uccidere, e per sessanta giorni venne imprigionato, ma nonostante le tribolazioni Patrizio continuò per circa quarant’anni la sua opera missionaria, arrivando a convertire migliaia di irlandesi, introducendo la vita monastica e stabilendo la sede episcopale ad Armagh.
Il trifoglio
Secondo la tradizione, San Patrizio usava spiegare il mistero della Trinità mostrando il trifoglio, in cui tre foglioline sono legate da un unico stelo. La prima testimonianza scritta di ciò risale solo al 1726, ma la tradizione potrebbe avere radici molto più antiche.
Le immagini di San Patrizio lo ritraggono spesso con una croce in una mano e un trifoglio nell’altra. Per questo il trifoglio è oggi simbolo della festa di San Patrizio, che cade il 17 marzo, giorno della sua morte avvenuta nel 461 a Saul. Le sue spoglie vennero trasportate e sepolte nella cattedrale di Down, che da allora si chiamò Downpatrick.
*FONTE: VATICAN-NEWS, 17 MARZO 2021.
IL GRAN RIFIUTO, QUELLO DI CELESTINO V E QUELLO DI PONZIO PILATO. Con Dante, pensarli insieme.... *
Il santo del giorno
Celestino V.
Il «gran rifiuto» di cedere alle logiche del potere
di Matteo Liut (Avvenire, martedì 19 maggio 2020)
Il coraggio della rinuncia può essere un segno di qualcosa di più grande, della scelta di rimanere sulla strada di Dio senza scendere a compromessi con le logiche del mondo e del potere. È in questa logica che va letto il “gran rifiuto” di san Celestino V, sul quale Dante espresse un severo giudizio a causa della sua decisione di rinunciare al ministero petrino nel 1294.
Una scelta incomprensibile, quella di Pietro di Morrone, che in realtà volle così solo stare dalla parte del Regno di Dio. Nato verso il 1215 in Molise, il futuro Celestino V aveva scelto la vita da eremita, diventando il fulcro di quelli che sarebbero poi diventati gli Eremiti di San Damiano, i Celestini.
Il 5 luglio 1294 venne scelto come Papa dopo 27 mesi di sede vacante. Presto, però comprese di essere al centro di trame politiche che usavano la sua persona: si dimise il 13 dicembre. Morì a Fumone, prigioniero, il 19 maggio 1296.
Altri santi. San Dunstano, vescovo (910-988); beata Pina Suriano, vergine (1915-1950). Letture. At 16,22-34; Sal 137; Gv 16,5-11. Ambrosiano. At 28,11-16; Sal 148; Gv 14,1-6.
IL GRAN RIFIUTO DI PONZIO PILATO... *
[...] L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!) :
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO ?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi ?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
*
Cultura
Cos’è la "Perdonanza Celestiniana", entrata nel patrimonio Unesco
Il nome deriva dalla Bolla del Perdono tramite cui Papa Celestino V, nel 1294, concesse l’indulgenza plenaria a chiunque, confessato e comunicato, fosse entrato nella basilica di Santa Maria di Collemaggio
di AGI *
Perdonanza Celestiniana - Unesco
La Perdonanza Celestiniana (’The Celestinian Forgiveness’) è stata ufficialmente iscritta nella Lista Rappresentativa del Patrimonio Culturale immateriale dell’Unesco dopo il parere favorevole espresso dal Comitato intergovernativo a Bogotà (Colombia).
La comunità aquilana, custode dal 1294 di questo rito solenne annuale di riconciliazione, che promuove i valori di condivisione, ospitalità e fraternità, ha attraversato i secoli seguendo una tradizione di pace di generazione in generazione. "La celebrazione della Perdonanza Celestiniana - si legge in una nota del Comune dell’Aquila - costituisce un simbolo di riconciliazione, coesione sociale e integrazione. Riflette l’atto di perdono tra le comunità locali e ne promuove i valori di condivisione, ospitalità e fraternità. Inoltre, rafforza la comunicazione e le relazioni tra le generazioni creando un intenso coinvolgimento emotivo e culturale. Come elemento in grado di coinvolgere una vasta comunita’ di persone, indipendentemente da genere, eta’ e origine, l’iscrizione della celebrazione del Perdono Celestiniano contribuisce a garantirne e a moltiplicarne la visibilità".
Storia della Perdonanza Celestiniana
Il nome Perdonanza deriva dalla Bolla del Perdono che Papa Celestino V emanò dall’Aquila alla fine di settembre del 1294 e con cui concesse l’indulgenza plenaria a chiunque, confessato e comunicato, fosse entrato nella basilica di Santa Maria di Collemaggio dai vespri del 28 agosto a quelli del 29.
L’evento, che quest’anno ha celebrato la sua 725 edizione, è dunque precursore del Giubileo istituito da papa Bonifacio VIII nel 1300 ed è stato nel tempo accompagnato da numerose altre manifestazioni, di carattere civico e storico, che si svolgono durante tutta l’ultima settimana di agosto.
L’eremita Pietro Angelerio da Morrone era nativo di Isernia (secondo la versione più accreditata dagli storici, anche se altri centri del Molise contendono i natali del Pontefice Santo) e aveva scelto, come luoghi per la predicazione, quelli dell’Abruzzo interno. Tra questi, l’Aquilano e il circondario di Sulmona, la città di Ovidio, in provincia dell’Aquila.
Il 5 luglio 1294, dopo due anni di contrasti (successivi alla morte di papa Niccolo’ IV), il Conclave, riunito a Perugia, designo’ il monaco - fondatore di un ordine che per secoli ha avuto, per l’appunto, il nome dei Celestini - come Pontefice.
Celestino V fu protagonista di un papato brevissimo: si dimise - caso piu’ unico che raro nella storia per un Pontefice - nel dicembre dello stesso anno e mori’ nell’esilio di Fumone (in provincia di Frosinone) due anni dopo. Alcuni seguaci del suo ordine trafugarono successivamente le sue spoglie mortali e le portarono nella basilica dell’Aquila di Santa Maria di Collemaggio, dove tuttora riposano. Fu canonizzato nel 1313 con il nome di San Pietro Confessore.
In quei pochi mesi di pontificato, Papa Celestino lasciò alla città dell’Aquila, ma anche al mondo intero, un’eredità di portata straordinaria. Alla fine di settembre del 1294, infatti, proprio dalla basilica di Collemaggio, emanò una Bolla con la quale concedeva un’indulgenza plenaria e universale a tutta l’umanità, senza distinzioni.
La Bolla di San Pietro Celestino, che introduceva i concetti di pace, solidarietà e riconciliazione, poneva solo due condizioni per ottenere il perdono. L’ingresso nella basilica di Collemaggio nell’arco di tempo compreso tra le sere del 28 e del 29 agosto di ogni anno, e l’essere "veramente pentiti e confessati".
Gli Aquilani hanno sempre custodito gelosamente la Bolla della Perdonanza, oggi conservata nella cappella blindata della Torre del Palazzo Comunale. Gli antichi statuti civici vollero che, proprio perché erano stati i cittadini a proteggere il prezioso documento, fosse l’autorità civile a indire la Festa del Perdono, rispettando, comunque, il dettato di Papa Celestino.
La Bolla viene letta dal Sindaco poco prima dell’apertura della Porta Santa della Basilica di Collemaggio, che viene dischiusa per ordine di un Cardinale designato dalla Santa Sede. L’apertura della Porta Santa, la sera del 28 agosto, e’ preceduta da un corteo storico, cui prendono parte le autorita’ e soprattutto i gruppi storici dell’Aquila e di altre città italiane.
* AGI, 13 dicembre 2019 (ripresa parziale).
L’Aquila.
La Perdonanza Celestiniana riconosciuta patrimonio dell’umanità
La gioia del cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo della città: «Il perdono è una chiave necessaria per aprire la porta della pace: a livello comunitario e personale»
Alessia Guerrieri (Avvenire, giovedì 12 dicembre 2019)
La Perdonanza Celestiniana è diventata patrimonio immateriale dell’umanità. L’iscrizione ufficiale nella lista del “The Celestinian Forgiveness” è avvenuta ieri, dopo il parere favorevole del Comitato intergovernativo a Bogotà.
La candidatura, sostenuta dal Comune dell’Aquila, dal Comitato Perdonanza Celestiniana, in collaborazione con i gruppi e le associazioni di praticanti locali, è stata presentata dall’Italia con il coordinamento tecnico-scientifico dell’ufficio Unesco del Mibact.
«La Chiesa e la città di L’Aquila esultano, unanimi, per questo prestigioso riconoscimento - sono le parole dell’arcivescovo della città, il cardinale Giuseppe Petrocchi - Il perdono è una chiave necessaria per aprire la porta della pace: a livello comunitario e personale».
La notizia che arriva dalla Colombia, perciò, è una spinta ulteriore «per testimoniare che solo l’amore può vincere la logica del conflitto, spalancando orizzonti di dialogo costruttivo e di intese convergenti, ricche di verità e di bene: aperte a Dio e, proprio per questo, degne dell’uomo».
La comunità aquilana è custode dal 1294 di questo rito annuale di riconciliazione che si svolge tra il 28 e il 29 agosto. «Ora grazie all’Unesco - dice il sindaco del capoluogo abruzzese, Pierluigi Biondi - lo spirito di riconciliazione e la rinascita si fondono e sostengono, attraverso la Festa del Perdono, in una rinnovata dimensione di città di pace, aperta e solidale, pronta ad accogliere le comunità che vorranno con noi partecipare al bene dell’umanità».
Un cristiano della soglia
· Ignazio Silone tra Giovanni XXIII e Celestino V ·
di Michele Giulio Masciarelli (L’Osservatore Romano, 22 novembre 2019)
Dietro a uno studio sul pensiero di un importante autore c’è sempre una storia di sofferenza fatta di tante croci piccole o grandi: difficoltà nel decifrare i problemi che questi pone, paure di poter tradirne la verità, immancabilmente connotata da aspetti autobiografici (come per Silone) e, pertanto, difficile da indagare con le sonde di procedure conoscitive che si affidano ai soli canoni dell’oggettività. Ma dietro a uno studio non manca nemmeno una storia di consolazioni che la storia dolorosa mitiga e lenisce: trovi sempre chi ti aiuta, chi ti consiglia, chi ti suggerisce come uscire da imbarazzanti cul de sac, chi t’invita a moderare il giudizio e chi ti slancia verso ermeneutiche inedite e sorprendenti, chi ti riporta perfino nei limiti di un linguaggio ironico o t’incoraggia a dar più colore a verbi e aggettivi.
Non dimenticherò mai i due preziosi colloqui avuti con Silone: uno a Pescara in occasione della prima nazionale de L’avventura d’un povero cristiano da parte della compagnia teatrale La Giostra, quando gli confidai l’idea di scrivere sul tema L’esperienza religiosa e il problema morale di Ignazio Silone. Egli si mostrò contento al mio progetto che, di fatto, andò avanti: il titolo definitivo della tesi in Teologia depositato presso la Pontificia Università Gregoriana (Roma) sarebbe stato alla fine: Il cristianesimo di Ignazio Silone.
Egli si mostrò molto interessato alla mia impresa, fece il gradito dono (fatto a pochi, precisò) del suo numero telefonico. Così ebbi modo di telefonargli più volte e di fargli visita nella sua abitazione a Roma, in via Ricotti, vicino al Verano: una lunga e interessante conversazione che gustai moltissimo e di cui presi puntuale nota, uscendo dalla sua casa.
Ricordo, fra l’altro, l’ammirazione con cui egli parlava di Giovanni XXIII e l’insistenza che egli metteva nel discorso per dire che il pontificato aveva provocato un grande salto di qualità nell’esistenza umana e cristiana di Angelo Giuseppe Roncalli. Nel suo discorrere si coglieva il tentativo di stabilire un velato paragone tra Papa Roncalli e il suo Celestino v.
La stessa percezione ebbi, molti anni più tardi, leggendo un bel testo di Hannah Arendt: Il Papa cristiano. Umanità e fede in Giovanni XXIII (Bologna 2013). Nel breve testo la filosofa ebrea si mostra molto impressionata dalla fede di Roncalli: «La forza straordinaria di questa fede non fu mai più evidente che negli “scandali” che essa innocentemente causò, e la statura di quest’uomo può essere abbassata solo se si omette l’elemento dello scandalo». Quest’elemento non può essere eliminato: L’avventura di un povero cristiano di Silone è una vera antologia di “scandali” celestiniani del tutto simmetrici a quelli roncalliani. Hannah Arendt chiama «cristiano» Giovanni XXIII in parallelo col «povero cristiano» con cui Silone chiama Celestino v prima che tornasse a essere fra Angelerio del Morrone, rinunciando alla sua impossibile avventura pontificale perché convinto che «è difficile essere Papa e rimanere buon cristiano».
Di quell’incontro indimenticabile ricordo con piacere il mio buffo barcollare linguistico nel rivolgermi a tentativi a Silone: all’inizio lo chiamai “dottore”, qualche volta “professore”; poi, pensando di usare termini impropri, mi avventurai nel chiamarlo, per il resto della conversazione: don Ignazio. Non mi venne affatto in mente che il modo più acconcio fosse quello di chiamarlo “maestro”. Ma ora questo è il titolo che uso per lui e per motivare il ritorno a lui.
Chiunque insegni ha un diritto perfino legale a essere chiamato insegnante, ma il titolo di “maestro” (di cui Tommaseo con enfasi evidenzia il suo significato di magis-ter: uno che è tanto più grande di altri) lo si merita sul campo: tanti possono insegnare filosofia, teologia, pedagogia, scienze diverse, ma non per questo li si chiama filosofi, teologi, pedagogisti, scienziati, ossia maestri. Silone è un maestro di prim’ordine: certo lo è di letteratura, ma ancora di più è un maestro di vita, di valori, di umanesimo profondo: lo è a tal punto che la sua sapienza umanistica sapora di tutto.
Una domanda s’impone: maestro è il più che si possa dire di Silone? San Paolo VI, nel cuore del Novecento ebbe a dire che «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Discorso ai Membri del Consilium de Laicis, 2 ottobre 1974). Papa Montini, però, non ha affermato di poter fare a meno dei maestri, ma si è augurato che questi siano testimoni. Forse egli si riferiva solo all’ambito cristiano, ma quell’affermazione ha una valenza più ampia, poiché di fatto è vero che esiste anche la testimonianza di una spiritualità intesa in senso ampio.
Silone è maestro, ma è anche testimone e si propone, nella sua scelta, quella precedenza montiniana: la testimonianza anzitutto. Con la lucidità che lo distingueva, Silone più volte definì il suo impegno di uomo e di scrittore nella prospettiva di un’ampia responsabilità etica. La definizione più completa è, forse, la seguente: «Se la mia opera letteraria ha un senso, in ultima analisi, è proprio in ciò: a un certo punto scrivere ha significato per me assoluta necessità di testimoniare, bisogno inderogabile di liberarmi da un’ossessione, di affermare il senso e i limiti di una dolorosa e definitiva rottura e di una più sincera fedeltà» (Uscita di sicurezza, Firenze 1965). Abbiamo bisogno di maestri: dobbiamo tornare a loro e dobbiamo lasciare che essi tornino a noi. È di pochi mesi fa uno degli ultimi gridi accorati per chiedere il ritorno dei maestri: è un ritorno che va meritato ed è, intanto, un’invocazione che va ascoltata.
La qualificazione di “abruzzese” al cristianesimo di Silone vuole significare che il cristianesimo s’incarna necessariamente in forme storiche, non consegnandosi però, mai in pienezza, ad alcuna di esse e patendo, altresì, talora di più talaltra di meno, per le angustie delle vie culturali, per la scarsezza e la rigidezza dei codici linguistici legate a tali forme. Nell’opera siloniana “abruzzese” evoca anzitutto la varietà di colori tenui e forti con cui questa forma di religiosità popolare ha espresso il suo ancoraggio alla fonte cristiana: il senso della provvidenza e della croce, la coralità del credere, l’austerità di vita, il primato della coscienza. Ma “abruzzese” indica anche alcuni limiti della religiosità di popolo che fa da sfondo alle storie siloniane, il primo dei quali, denunciato con insistenza dallo stesso Silone, è quello di un’etica incidente nella vita privata ma piuttosto indifferente in quella pubblica, assieme alla tendenza a ridurre il cristianesimo a etica. Meno evidenti sono l’assenza della dimensione trascendente e la riduzione di Gesù a sola figura storica, sulle quali Silone insiste specie nei suoi romanzi.
L’abruzzesità ha una diffusa presenza nei tracciati tematici dei romanzi, nel tono di voce dei suoi protagonisti, perfino in quello delle comparse, ma soprattutto nell’anima del popolo che, in fondo, è il personaggio dominante, a cui Silone affida non tanto la parte principale, quanto quella di una storia di vita sostanzialmente unitaria che trova il suo punto focale nell’esigenza di una fedeltà piena agli appelli dell’utopia, che è il verbum abbreviatum del suo messaggio umano, fiducioso e dolorante, corale e intriso di solitudine e di mestizia, cristiano e socialista, immanente e con propensioni escatologiche.
Si è ora accennato a una venatura di tristezza dell’utopia di Ignazio Silone: è un colore del suo cristianesimo “abruzzese”; questo è un filo forte di tutte le sue opere, che conoscono la speranza, ma sempre mista a pacata e controllata malinconia, a cominciare da Fontamara, un libro matriciale di tutta la sua opera perché «si propone come un crogiuolo di essenze primigenie. C’è tutto: la fonte, intesa come alimento primo delle radici; amara, a indicare l’amarezza dell’alimento delle radici, e dunque della vita; la via della nascita, indicare come non solo la nascita, ma anche il cominciamento della vita (la via) siano pervase dalla forza rovinosa di un’amarezza senza fine; infine, la fonte intesa come ristoro delle bestie, non possibile ai cafoni, “razza a sé” abitatori, da sempre, fratelli del vento e della pioggia e del sole cocente, nella grotta della miseria, che viene subito dopo quella del nulla» (F. Di Gregorio, Lettura di «Fontamara», in «Critica letteraria», 16, 1988, 322). Prima degli aggettivi, è importante il sostantivo: Silone è ancorato in modo vitale al cristianesimo. La sua formazione cristiana e il tessuto ideale evangelico restano discretamente e tenacemente presenti nella sua opera. Silone ricercò una pratica sociale del cristianesimo e, contemporaneamente, un’anima e una speranza cristiana del socialismo. Quest’innesto non costituì una sintesi, non fu pacifica e comoda, ma si risolse in una tensione interiore e progettuale altissima, perciò non senza rischi oggettivi (per il cristianesimo ad esempio) e non senza sofferenza personale.
Il sentire cristiano è la filigrana, se non la trama, di tutta l’opera di Silone. «Questo uomo che ha legato il suo nome alla storia e alla polemica politica di quasi cinquant’anni - scrive Vigorelli - e questo scrittore che ha scritto i suoi libri parallelamente alle sue esperienze politiche e che deve la sua fama al loro messaggio social-politico, risulta uno scrittore essenzialmente religioso. Quello che pareva un naturalismo è un realismo evangelico, e quello che risultava un populismo è piuttosto un messianismo» (Silone e l’avventura d’un povero cristiano, «Il Tempo» del 30 aprile 1968).
Simone Weil era venerata da Silone e credo che abbia ispirato il suo romanzo postumo: Severina, a cura di Darina Silone (Milano, 1981). Da Silone sentii per la prima volta il suo nome e mi intrigò tanto da leggere subito, di fila, le sue opere maggiori e quelle dei suoi conoscitori più affidabili: il filosofo Gustave Thibon e il padre domenicano Joseph-Marie Perrin. Come è noto, la Weil, benché di sentimenti profondamente cristiani, non ha mai compiuto il passo di entrare nella Chiesa cattolica. Ecco allora il titolo che non si è lasciato cercare, ma mi ha cercato: “Ignazio Silone, cristiano della soglia”. Simone Weil non è entrata nella Chiesa, ma non ne è restata lontana. Silone, uscito dalla Chiesa in età giovanile, non vi è più rientrato, ma anch’egli, mi sembra, non si è appostato in posizioni lontanissime: in un qualche modo, le si è fermato vicino, sulla soglia, appunto, sebbene il cristianesimo di Silone sia parziale, anche rispetto all’esperienza cristiana weiliana.
Un segno vistoso di questo consiste nel fatto che con gli anni pare che, per Silone, tra il suo “socialismo libertario” e il cristianesimo si operasse un avvicinamento, una specie di sintesi. Sensibile a certe voci nuove del socialismo europeo, in anticipo di oltre un trentennio su quella che sarebbe stata la riflessione della teologia cristiana circa il significato religioso del progresso nelle sue varie espressioni, Silone coglie nell’utopia il punto d’arrivo e di congiunzione delle sue speranze religiose e sociali (cfr. A. Scurani, Il punto d’arrivo d’Ignazio Silone, in «Letture 33», 1978, 601). Ma il cristianesimo non coincide con l’utopia, anche se sa comprendere dentro l’arco della sua escatologia la parabola utopica. Quel che manca a Silone di cristianesimo gli ha impedito di varcare la soglia della Chiesa per rientrarvi; ma stare sulla soglia è già, in qualche misura, stare nella casa: per Silone appartenere alla Chiesa, almeno parzialmente.
L’approccio al cristianesimo a-ecclesiale di Silone va compiuto prevalentemente per via esistenziale. Fra l’altro, che nell’affermazione del cristianesimo senza chiesa o del Regno senza chiesa Silone volesse restare ad un livello puramente esistenziale, lo si deduce da tanti particolari. Egli non ha preteso d’imporre ad altri il suo punto di vista, ma, cionondimeno, lo ha difeso come si difende una posizione che si ritiene non personale, ma oggettiva. Basti ricordare una sua risposta ad Alessandro Scurani, dopo una critica di questi a L’avventura d’un povero cristiano (cfr. «Letture», 1968, 427): «In quanto alla sua confutazione d’un certo modo d’intendere il Regno di Dio, lei sa meglio di me che non è una trovata personale. È una discussione che rimane aperta da molti secoli e non è vicina a concludersi, senza dedurne che una delle parti sia in malafede» (A. Scurani, Il punto d’arrivo di Ignazio Silone, in «Letture», 33, 1978, 601).
L’entrata del giovane Silone nel Partito comunista segna una svolta, una rottura dei suoi modelli di vita e, soprattutto, uno strappo da quella storia cristiana che aveva a lungo ramificato in profondità nella sua anima. Egli ne parla con una partecipazione e con un dolore che non sarà mai del tutto placato: «Erano ancora i tempi in cui il dichiararsi socialista o comunista equivaleva a gettarsi allo sbaraglio, rompere con i propri parenti e amici, non trovare impiego. Le conseguenze materiali furono dunque deleterie e le difficoltà dell’adattamento spirituale non meno dolorose. Il proprio mondo interno, il medioevo ereditato e radicato nell’anima e da cui, in ultima analisi, derivava lo stesso iniziale impulso della rivolta, ne fu scosso fin nelle fondamenta, come da un terremoto. Nell’intimo della coscienza tutto venne messo in discussione, tutto diventò un problema» (A. Ruggeri, Don Orione, Ignazio Silone e Romoletto, Tortona 1981).
Il profondo sconvolgimento interiore causato dall’uscita dalla Chiesa è la prova più credibile di quanto fosse intenso il suo sentire cristiano. In Silone non c’è nulla di superficiale, meno ancora nella sua esperienza cristiana, sia prima che dopo l’abbandono della Chiesa. Per questo motivo egli incute rispetto: è soprattutto nel suo dramma religioso che egli s’impone a un’attenzione piena, poiché apre la sua anima, insieme con pudore e senza reticenze, permettendo di far scorgere ferite e il dolore di cui palpita: «Fu nel momento della rottura che sentii quanto fossi legato a Cristo in tutte le fibre dell’essere. Non ammettevo però restrizioni mentali. La piccola lampada tenuta accesa davanti al tabernacolo delle intuizioni più care fu spenta da una gelida ventata. La vita, la morte, l’amore, il bene, il male, il vero cambiarono senso o lo perderono interamente. Tuttavia sembrava facile sfidare i pericoli non essendo più solo nell’azione. Ma chi racconterà l’intimo sgomento per un ragazzo di provincia, mal nutrito, in una squallida cameretta di città, della definitiva rinuncia alla fede nell’immortalità dell’anima? Era troppo grave per poterne discorrere con chicchessia; i compagni di partito vi avrebbero forse trovato motivo di derisione, e gli altri amici non v’erano più. Così, all’insaputa di tutti, il mondo cambiò aspetto» (ivi).
Negli ultimi tempi della sua vita, Silone fu costretto a lunghe degenze, concluse da quella, assai lunga, vissuta a Ginevra, durante la quale esperimentò un’illusoria e momentanea guarigione. Una crisi improvvisa lo porterà al coma il 18 agosto 1978, davanti a Darina, che ci riferisce le sue estreme parole: Maintenant c’est fini. Tout est fini. Je meurs. Nel testamento Silone ha espresso il desiderio, di fatto ascoltato, di essere sepolto ai piedi del vecchio campanile di San Berardo, nel suo paese natio, con una croce di ferro appoggiata al muro e in vista del Fucino, da lui disegnata. «(Credo) Spero di essere spoglio d’ogni rispetto umano e d’ogni altro riguardo d’opportunità, mentre dichiaro che non desidero alcuna cerimonia religiosa, né al momento della mia morte, né dopo. È una decisione triste e serena, seriamente meditata. Spero di non ferire e di non deludere alcuna persona che mi ami. Mi pare di aver espresso a varie riprese, con sincerità, tutto quello che sento di dovere a Cristo e al suo insegnamento. Riconosco che, inizialmente, m’allontanò da lui l’egoismo in tutte le sue forme, dalla vanità alla sensualità» (Severina).
Il testamento di Silone riluce, all’improvviso, di tenui bagliori che lasciano trasparire qualcosa della sua sensibilissima anima. Vi si coglie anche il riflesso del suo cristianesimo coscienziale, semplificato, sintetizzato nel rapporto col Cristo, al quale sente di dover render conto delle sue scelte, rispetto al quale tenta un essenziale bilancio della sua esistenza inquieta, vissuta sempre sul filo di una lama taglientissima di una coscienza vigilante ma senza complessi farisaici, rigorosa ma senza durezza: «Forse la privazione precoce della famiglia, le infermità fisiche, la fame, alcune predisposizioni naturali all’angoscia e alla disperazione, facilitarono i miei errori. Devo però a Cristo, e al suo insegnamento, di essermi ripreso, anche standone esteriormente lontano. Mi è capitato alcune volte, in circostanze penose, di mettermi in ginocchio, nella mia stanza, semplicemente, senza dire nulla, solo con (forte) sentimento d’abbandono; un paio di volte ho recitato il Pater noster; un paio di volte ricordo di essermi fatto il segno della Croce».
Registriamo la dichiarazione di Silone posta in limine vitae, sull’estrema soglia dell’esistenza, quando le parole che escono dal cuore sono più serie e più sincere: «Ma il “ritorno” - continua - non è stato possibile, neanche dopo gli “aggiornamenti” del recente Concilio. La spiegazione del mancato ritorno che ne ho dato è sincera. Mi sembra che sulle verità cristiane essenziali si è sovrapposto (sic) nel corso dei secoli un’elaborazione teologica e liturgica d’origine storica che le ha rese irriconoscibili. Il cristianesimo ufficiale è diventato un’ideologia. Solo rifacendo violenza su me stesso, potrei dichiarare di accettarlo, ma sarei in malafede». La sua buonafede è un lascito spirituale importante per noi e salvifico per lui. Questo speriamo.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA. FILANTROPIA... E AMORE di "DIO" ("AGAPE", "CHARITAS") *
La teologia corrente del Mediterraneo
Dall’esperienza di san Paolo alle riflessioni in musica di Cohen e Dalla: un viaggio per riscoprire l’essenza di un luogo di incontro e di mediazione
di Giuseppe Lorizio (Avvenire, martedì 22 ottobre 2019)
Perseguo qui il tentativo di mostrare come il Mediterraneo, questo (non nuovo, ma antico e per questo sempre attuale) “luogo teologico”, possa e debba innestarsi nel nostro teologare. Muovo dal Nuovo Testamento e in particolare dall’esperienza di Paolo e dei suoi compagni nell’approdo a Malta. Essi qui sperimentano innanzitutto una «rara umanità». «Una volta in salvo, venimmo a sapere che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni ci trattarono con rara umanità; ci accolsero tutti attorno a un gran fuoco, che avevano acceso perché era sopraggiunta la pioggia ed era freddo» (At 28,1-2).
Il testo greco la dice lunga e parla di «filantropia», rara e quindi eccezionale, senza la quale forse Paolo non avrebbe potuto raggiungere Roma. Sappiamo bene quanto sia “merce rara” l’umanità, che, in quanto filantropia apparterrebbe ai barbari, ma al tempo stesso dovrebbe essere inclusa nella forma agapica propria del cristianesimo, che deve esprimersi come «amore sconfinato » (R. Penna) e incondizionato, ossia senza e oltre le frontiere, o che comunque pensa la frontiera come luogo di incontro e non di scontro.
A proposito dell’agàpe, un’annotazione esegetica interessante riguarda la novità semantica che registriamo nei testi neotestamentari, dove il sostantivo ricorre solo diciassette volte (diciannove nella Settanta), mentre per ben centoquarantaquattro (centosessantatré nella Settanta) volte rinveniamo il verbo agapào. E se il verbo esprime - come afferma san Tommaso - una determinazione temporale, allora abbiamo a che fare non con qualcosa di atemporale (ad esempio la mediterraneità), ma con un sostantivo che (attraverso il verbo) deve penetrare nel tempo, nel nostro tempo, e sollecitare non solo la nostra mente, ma anche le nostre passioni. E a tal proposito possiamo leggere metaforicamente l’esperienza maltese/mediterranea di Paolo e dei suoi compagni, davvero carica di “umanità”.
Se trasferiamo quest’esperienza umana all’esperienza religiosa e credente, il calore di questo fuoco nella pietà popolare (ma anche individuale) degli uomini e delle donne mediterranee si esprime nella forma della “devozione” (il nocciolo duro che ha consentito al “ritorno del sacro” di archiviare la secolarizzazione). In questa prospettiva, mi piace leggere un’indicazione, suscitatami dalla lettura del bellissimo, prezioso e piccolo libro di Fabio Fiori, L’odore del mare. Piccole camminate lungo le rive mediterranee, (Ediciclo editore).
Karl Barth invitava infatti a leggere la letteratura profana e i giornali per comprendere la Scrittura del Nuovo Testamento: «Nel Mediterraneo - scrive Fiori - non c’è spiaggia che non sia stata teatro di approdi o naufragi, non c’è cala dove non sia stata calata ancora di pietra o di ferro. Lungo la riva il viandante ad ogni passo può incontrare il mito». La religiosità mediterranea assume in primo luogo una forma mitologica, piuttosto che logica.
Del resto, come più volte affermato da papa Francesco, quella del “popolo” è una «categoria mitica»: «La parola popolo non è una categoria logica, è una categoria mitica», ha detto di ritorno dal Messico. In seguito, intervistato dal suo confratello gesuita Antonio Spadaro, ha voluto precisare: più che “mistica”, ha detto, «nel senso che tutto ciò che fa il popolo sia buono», è meglio dire «mitica»: «Ci vuole un mito per capire il popolo». Attingendo dal già citato Fabio Fiori, un primo spunto riguarda l’ibridazione, non semplicemente declinata secondo la categoria del meticciato: «La sponda mediterranea è il risultato di ibridazioni tra natura e cultura, più di qualsiasi altro luogo ».
A livello teologico, più che di ibridazione, possiamo considerare il Mediterraneo come luogo di “mediazione”. Del resto la nostra identità cristiana risiede nella mediazione di Cristo mediatore e si riferisce alle mediazioni partecipate come quella di Maria (mediatrice). In secondo luogo, la necessità di costruire una koinè, ovviamente non solo linguistica, onde non cedere alla tentazione dell’anglismo: «Una koinè da costruirsi ogni giorno, innanzitutto con l’esperienza, camminando e navigando, leggendo e ascoltando, annusando e assaggiando, osservando e chiacchierando», come dovevano certamente chiacchierare, magari esprimendosi con i gesti piuttosto che col greco che i barbari non comprendevano o con l’assistenza di qualche mediatore, intorno al fuoco, i personaggi del testo lucano sopra evocato. In terzo luogo l’identità o appartenenza, tenendo anche conto delle lucide osservazioni di O. Roy, che ci mette in guardia dall’identificare le ricorrenti esibizioni di “identità cristiana” con la fede.
Tornando a Fiori: «L’appartenenza mediterranea non ha niente a che fare con il passaporto, il luogo di nascita, la nazione. L’appartenenza mediterranea si realizza con la pratica, sporcando il corpo di sale e riempendo i polmoni di salmastro». Con l’appello a realizzare la mediterraneità nel quotidiano, per non cadere nel rischio della retorica. «Noi con Albert Camus “vogliamo ricongiungere la cultura alla vita. Il Mediterraneo, che ci circonda di sorrisi, di sole e di mare, ce lo insegna” ». -Richiamerei, infine, l’invito di Edgar Morin a maternizzare e sacralizzare quella che definisce «l’essenza profana del Mediterraneo».
Una teologia mediterranea esprimerà innanzitutto la dimensione storico-escatologica della Rivelazione cristologica. Essa si può rinvenire, con una sorta di pop-theology, nella strofa di una canzone tradotta e interpretata da Fabrizio De André, di Leonard Cohen, intitolata Suzanne, che recita: «E Gesù fu marinaio / finché camminò sull’acqua / e restò per molto tempo / a guardare solitario / dalla sua torre di legno / e poi quando fu sicuro / che soltanto agli annegati / fosse dato di vederlo / disse: Siate marinai finché il mare vi libererà. / E lui stesso fu spezzato / ma più umano abbandonato / nella nostra mente lui non naufragò». Raggiungiamo la dimensione cosmica della Rivelazione evocando il grido etico circa la custodia del creato che dal Mediterraneo (o se si vuole dal mare) ci viene rivolto. Quando non lo impediscano interpretazioni negazioniste e del tutto fuorvianti, il grido ci raggiunge e provoca, insieme alla nostra indignazione, la domanda in noi dei contadini di Fontamara: «che fare?», purché essa non venga metabolizzata e trasformata in triste rassegnazione.
A tal proposito concludo evocando i versi di Lucio Dalla, nel famoso brano Come è profondo il mare, che non posso non pensare ispirato dai suoi soggiorni nelle isole Tremiti: «È chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce, anzi è un pesce e come pesce è difficile da bloccare perché lo protegge il mare, come è profondo il mare. Certo chi comanda non è disposto a fare distinzioni poetiche, il pensiero è come l’oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare. Così stanno bruciando il mare, così stanno uccidendo il mare, così stanno umiliando il mare, così stanno piegando il mare».
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
Celebrazioni.
Perdonanza celestiniana, l’Aquila città di misericordia
Ieri sera l’accensione del bracere davanti alla Basilica di Collemaggio. Il 28 l’apertura della Porta Santa con Bertello. La bolla del 1294
di Claudio Tracanna (Avvenire, sabato 24 agosto 2019)
L’Aquila. Il capoluogo d’Abruzzo, da più di settecento anni, celebra annualmente l’indulgenza della "Perdonanza celestiniana", eredità lasciata dal santo pontefice Celestino V che, con la bolla Inter sanctorum solemnia, indisse quella che, a buon diritto, è considerata la vera anticipazione del primo Giubileo della storia del 1300.
Ieri sera, con l’accensione del grande braciere dinanzi la Basilica di santa Maria di Collemaggio, custode delle spoglie di san Pietro Celestino, si è dato il via alle manifestazioni che faranno da contorno al giubileo aquilano che avrà inizio il prossimo 28 agosto, primi vespri della solennità del martirio di san Giovanni Battista.
Proprio il 28 sarà il cardinale Giuseppe Bertello, presidente della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano e del Governatorato Vaticano, a colpire per tre volte, con un bastone di legno d’ulivo del Getsemani, la Porta Santa della Basilica aquilana e dare così il via, con la celebrazione eucaristica, al giubileo celestiniano. Ad introdurre spiritualmente fedeli e pellegrini alla celebrazione della misericordia e del perdono, sarà il predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa, che oggi alle 18, a Collemaggio, terrà una conferenza al termine del biennio mariano indetto dal cardinale Giuseppe Petrocchi, arcivescovo dell’Aquila, su «La sua misericordia di generazione in generazione - il Magnificat di Maria, uno sguardo nuovo su Dio e sul mondo».
Da domani fino al 27 agosto, vigilia della Perdonanza, nel centro cittadino che lentamente vede la sua rinascita dopo il sisma del 2009, sarà collocata la Tenda del Perdono dove, oltre l’Adorazione eucaristica, vi saranno sacerdoti per la confessione e religiosi e religiose per colloqui spirituali. Dopo la solenne celebrazione di apertura del 28 agosto, per tutta la notte e fino ai vespri del 29 agosto i fedeli potranno confessarsi con i numerosi sacerdoti che, a turno, si succederanno nei confessionali della Basilica. I giovani saranno i protagonisti della grande veglia che animerà la Basilica dalle 22 a mezzanotte e mezza quando inizierà, per finire all’alba, la lettura continua di alcuni passi della Bibbia sul tema della rinascita e della misericordia. I vescovi di Abruzzo e Molise si succederanno nella celebrazione delle Messe dedicate ai giovani, ai malati, alle famiglie, ai lavoratori e ad altre categorie di persone fino ai vespri del 29 agosto quando terminerà l’indulgenza della Perdonanza.
A chiudere la Porta Santa di Collemaggio sarà l’arcivescovo del capoluogo abruzzese, il cardinale Giuseppe Petrocchi, che ieri sera, durante la cerimonia di apertura del giubileo aquilano, ha voluto ricordare il decimo anniversario del sisma che ha colpito la città, invitando tutti a mettersi alla scuola di Celestino: «Per ricostruire bene occorre promuovere la cultura della convergenza solidale e della condivisione, che presuppongono la logica del perdono e la disponibilità a progettare un futuro fraterno, abitato dall’amicizia e dalla speranza. Bisogna aprire i "cantieri della concordia" - ha proseguito il porporato - sostenuti da coraggiose e perseveranti idealità: religiose, politiche e culturali. Una ricostruzione "sana" e destinata a diventare sempre più feconda, richiede forti "anticorpi" etici; capacità di coesione, lungimiranti e produttive; e grandi energie, profetiche e creative. Per questo - ha detto in conclusione Petrocchi - l’anima della Perdonanza è anche l’anima della ricostruzione».
La storia
La «Inter sanctorum solemnia», nota anche come Bolla del Perdono, è la bolla emessa da papa Celestino V il 29 settembre 1294, con cui si concedeva l’indulgenza plenaria a tutti coloro che, pentiti dei propri peccati, si fossero recati nella Basilica di Collemaggio all’Aquila. Un evento storico che determinò un fenomeno di coinvolgimento popolare. Il successore, Bonifacio VIII, fu il primo Papa a indire il Giubileo nella storia della Chiesa, riprendendo lo spirito della Perdonanza aquilana.
Storia e memoria...
IL PALAZZO DEI CELESTINI A CARMIANO (LECCE) E LA CONGREGAZIONE CELESTINA IN ETÀ MODERNA.... *
MA VISTI E CONSIDERATI I LAUDATIVI GIUDIZI (sopra riportati), quasi a un anno di distanza, e, tenendo presente il brillante lavoro di Marcello Semeraro su “Oria. Un caso di araldica pontificia immaginaria” e, mi sia lecito, anche le mie brevi note relative al tema di Celestino V e del “miracolo” di San Pietro Celestino nella Napoli del primo Seicento, e deila storica presenza della Congregazione dei Celestini, in tutta la Puglia ( dalla provincia di Foggia da San Severo, a quella di Brindisi e Lecce, a Carmiano!), PERCHE’ non cercare di “allargare la coscienza” (come si diceva un tempo) e tentare saggiamente (e, ancora e altrettanto, come si faceva un tempo) tentare di “salvare capra e cavoli” - allargare la coscienza della stessa storia sociale e culturale della Regione e salvare il “Palazzo dei Celestini” di Carmiano?! O no?!
Memoria e storia
LA SPAGNA, IL VICERE’ DI NAPOLI, E "IL MERCANTE" - MIGUEL VAAZ ... *
NAPOLI, 1617. Il conte di Mola, Miguel Vaaz, salvato da San Pietro Celestino...
Il duca di Osuna contro Miguel Vaaz Alla partenza da Napoli del conte di Lemos nel 1616, la posizione della famiglia Vaaz, quelle del suo membro più in vista, Miguel conte di Mola, e del gruppo dei banchieri che lo circondavano, sembravano molto ben consolidate rispetto al decennio precedente. Tuttavia, la situazione cambiò completamente e in modo assai rapido nel giro di pochi mesi con l’ingresso a Napoli del nuovo viceré Pedro Téllez Girón, duca di Osuna.
Il duca di Osuna, com’è ben noto schierato su posizioni opposte rispetto al conte di Lemos nella lotta tra fazioni alla corte di Filippo III, poco dopo il suo arrivo scatenò una dura persecuzione contro tutti i più stretti collaboratori del suo predecessore; tra questi non poteva mancare Miguel Vaaz, che il duca di Osuna sospettava di aver cercato di contrastare la sua venuta a Napoli e che proprio nel momento dell’arrivo del nuovo viceré l’organismo municipale napoletano accusava di aver venduto alla città grano guasto o di cattiva qualità.
Il primo colpo arrivò alla sua famiglia: nello stesso 1616 il fratello di Miguel Vaaz, Benedetto, e sua moglie furono accusati dall’Inquisizione di essere giudaizzanti, in un processo che si volle ispirato dallo stesso viceré. L’anno seguente toccò a Miguel Vaaz.
Il 4 maggio del 1617 il duca di Osuna ordinò la detenzione di un gruppo di patrizi napoletani accusati di aver congiurato contro di lui; a questa accusa nel caso del banchiere portoghese si aggiunse anche quella di aver mantenuto corrispondenze segrete con gli infedeli.
Miguel Vaaz, che incrociò i birri al momento di uscire di casa per andare ad ascoltare la messa nel contiguo convento dei monaci Celestini, si rifugiò nella casa religiosa, dove rimase chiuso tre anni, protetto dall’immunità di cui godeva il luogo.
Successivamente egli raccontò di essere stato avvisato in sogno da san Pietro Celestino dell’imminente pericolo e nel 1622, per ricord-re il debito di gratitudine che lo legava ai Celestini, comprò per 1.000 ducati un terreno contiguo alla sua casa e al convento, che offrì ai monaci con il vincolo di edificare su di esso una chiesa dedicata a S. Michele e con una dotazione di 10.000 ducati per realizzare la costruzione e di altri 9.000 per decorarla; successivamente istituì anche un censo per garantire il finanziamento dei lavori anche dopo la sua morte [...]" (cfr. Gaetano Sabatini, "Un mercato conteso: banchieri portoghesi alla conquista della Napoli dei genovesi (1590-1650)", cfr. pf. 4, pp. 159-160, senza le note).
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA SPAGNA, IL VICERE’ DI NAPOLI, E "IL MERCANTE" (NINO MASIELLO)
NAPOLI, Chiesa dell’Ascensione a Chiaia - San Michele (Napoli)
NAPOLI, Chiesa di San Pietro a Majella.
Federico La Sala
RICCHEZZA E NOBILTÀ: LA CHIESA DI COSTANTINO, CELESTINO V E IL POSTUMO "RISARCIMENTO" ARALDICO ...
"ORIA. UN CASO DI ARALDICA PONTIFICIA IMMAGINARIA": UN LAVORO MAGISTRALE DI GRANDE INTERESSE. Tra le sue righe una notazione che getta luce sulla intera storia della Chiesa e non solo su Celestino V (la Congregazione dei Celestini, la città di Oria e al Salento), ma anche su papa Bonifacio VIII (Benedetto Caetani), su Benedetto XVI (Joseph A. Ratzinger), papa Francesco (Jorge M. Bergoglio), e, ancora, su DANTE ALIGHIERI (con la sua profetica lezione teologico-politica, cfr. "Monarchia" e "Commedia") e al tempestoso presente storico entro cui ancora oggi (nel III Millemnio d. C.) naviga l’Istituzione nata e cresciuta all’ombra di COSTANTINO, della sua "donazione", del suo "LATINORUM", e della sua "CARITAS" (da non confondere con la "CHARITAS", cfr. i commenti all’art. di Marcello Gaballo, "L’affresco di aant’Agostino nella cattedrale di Nardò", Fondazione Terra d’Otranto):
"Com’è noto, il primo pontefice di cui si possa attestare con certezza l’uso di uno stemma nell’esercizio della sua carica fu Bonifacio VIII (1294-1303), ma è con Clemente VI (1342-1352) che la conformazione dell’arma papale si canonizza nella forma che diventerà classica (...), mantenendosi tale fino al pontificato di Benedetto XVI"; - nota 16: "Com’è noto, Benedetto XVI abolì l’uso della tiara come timbro dello stemma papale, sostituendola con una mitria d’argento ornata da tre fasce d’oro, unite da un palo dello stesso colore. Il suo successore, Francesco, ha mantenuto tale uso" (cfr. Marcello Semeraro, "Oria. Un caso di araldica pontificia immaginaria").
Federico La Sala
Il gran rifiuto di Celestino V *
Celestino V, nato Pietro Angelerio (o secondo alcuni Angeleri), detto Pietro da Morrone e venerato come Pietro Celestino (Molise, fra il 1209 ed il 1215 - Fumone, 19 maggio 1296), fu il 192º papa della Chiesa cattolica dal 29 agosto al 13 dicembre 1294
“Finalmente avremo un papa che crede in Dio”.
Con queste parole Ignazio Silone fa commentare a un popolano l’elezione di papa Celestino V in L’avventura di un povero cristiano, opera teatrale pubblicata nel 1968 e dedicata a quello che è conosciuto come il papa “del gran rifiuto” per la citazione (assai poco benevola) che Dante ne fa nella Divina Commedia.
In realtà papa Celestino - morto il 19 maggio del 1296 - fu tutt’altro che vile: la chiesa lo ha proclamato santo il 5 maggio del 1313 e gli studiosi non sono neppure concordi sul fatto che l’Alighieri si riferisca proprio a lui.
Pietro Angelerio, nato all’inizio del XIII secolo in Abruzzo, aveva passato gran parte della vita come eremita sul monte Morrone, dove aveva fondato un ordine monastico e si era guadagnato fama di santità. Nel 1294 aveva inviato un messaggio ai dodici cardinali riuniti in conclave a Perugia per eleggere il successore di Niccolò IV, primo papa francescano, che era morto ormai da due anni.
È Latino Malabranca ad avere l’idea di scegliere proprio Pietro e i cardinali concordano perché il monaco abruzzese rappresenta una soluzione “neutra” al conflitto che contrappone le grandi famiglie romane. Inoltre, sono convinti che un monaco totalmente inesperto di politica sarà molto più facile da gestire.
Celestino viene eletto il 5 luglio 1294 e la notizia suscita stupore e speranza in tutto il mondo cristiano: l’arrivo sul trono di Pietro di un eremita con fama di santità sembra compiere la profezia di Gioachino da Fiore sull’avvento dell’Età dello Spirito.
“In realtà l’elezione di Pier del Morrone non rappresentò la vittoria della chiesa spirituale sulla chiesa carnale - commenta Paolo Golinelli in Il papa contadino - se così fosse altre figure sarebbero emerse, ben più vigorose, pensiamo solo ad Angelo Clareno”.
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Celestino V (probabile) in un affresco della chiesa di Santa Maria Assunta ad Assergi, poco lontano da L’Aquila
Se Raoul Manselli ed Edith Pàsztor parlano di “irruzione del soprannaturale nella storia”, secondo Golinelli “siamo di fronte semmai all’irruzione dell’insicurezza, in quella fine di secolo tanto travagliata, e dell’affacciarsi della stanchezza dopo 27 mesi di conclave, sedi diversi e molteplici traversie, anche politiche e militari, per l’oggettiva difficoltà di mantenere il dominio dello Stato Pontificio in quelle circostanze”.
L’eremita ha 84 anni, ed è un personaggio che evidentemente si ritiene di poter manipolare facilmente. E che in ogni caso non darà fastidio: il suo sarà un pontificato di tregua e di breve durata. Il classico papato “di transizione”.
Jacopone da Todi, invece, da smaliziato francescano spirituale quale è, ha già intuito i retroscena della “miracolosa” elezione, e mette in guardia il nuovo papa scrivendogli una lauda che più che un biglietto di auguri appare come una lettera di condoglianze:
“Que farai, Pier da Morrone? Sei venuto al paragone.
Vederimo êl lavorato, che en cell’ài contemplato. S’el mondo de te è ’ngannato, séquita maledezzone”.
Il poeta continua con parole durissime verso i cardinali che hanno eletto il santo eremita: “L’ordine del cardelanato posto è en basso stato, ciaschedun suo parentato d’arricchire ha intenzione”. Profeticamente, Jacopone aggiunge: “Guardati dal barattare, che in ner per bianco fan vendàre, se non te sai ben schermire canterai mala canzone”.
Se Dante lo accuserà di viltà per la rinuncia, Jacopone - al contrario - lo commisera proprio per aver accettato:
“Grann’eo n’ abi en te cordoglio co’ t’escìo de bocca: «Voglio»,
ché t’ài posto iogo en collo, che tt’è tua dannazione”.
Celestino decide però di dare subito un segnale forte: partendo alla volta di Roma per l’incoronazione, non fa sellare un cavallo ma un asino.
“Udendo ciò i re e i cardinali, che se la godevano su bellissimi cavalli e palafreni, ammirarono la sua grande umiltà ma cercarono di dissuaderlo” racconta Tommaso da Sulmona. Celestino, per niente convinto, segue il suo proposito e accompagnato da una grandissima folla arriva a L’Aquila il 25 luglio. Il nuovo papa si trova già tra due fuochi: i cardinali vogliono che li raggiunga a Perugia, lui vorrebbe andare a Roma, Carlo d’Angiò re di Napoli, invece, insiste perché resti a L’Aquila. Il motivo ufficiale è che fa troppo caldo e il papa è troppo vecchio per affrontare un viaggio così lungo. Ma la verità è che il sovrano, che dopo tanti conflitti con la Chiesa si è ritrovato ad avere un papa nel suo regno, non ha nessuna intenzione di fargli raggiungere lo Stato pontificio. Celestino, legatissimo a L’Aquila, dove lui stesso ha fondato la basilica di Collemaggio, è propenso a seguire il parere di Carlo. Si cerca quindi una soluzione di compromesso: i cardinali propongono di organizzare l’incoronazione a Rieti, che è più vicina ma già nello Stato della Chiesa, ma alla fine è il re ad averla vinta.
“Purtroppo Celestino V si mostrò fin dall’inizio creatura di Carlo lo Zoppo - commenta Golinelli - che faceva quanto il sovrano gli diceva. Da parte sua il re fece di tutto per legare a sé il papa, anche col vincolo della gratitudine e dell’amicizia”. Non a caso, quando ad agosto muore Latino Malabranca, Celestino lo sostituisce con la nomina a cardinale decano dell’unico francese del collegio.
Il 15 agosto avviene la vestizione e la scelta del nome, mentre il 29 agosto è il momento dell’incoronazione, che raccoglie una folla di 200mila persone. Al termine della cerimonia il papa sale su un cavallo bianco e percorre le vie della città, seguito da una lunga processione. L’eremita sembra aver già iniziato ad adeguarsi al fasto mondano.
Come segretario, Celestino sceglie un laico - Bartolomeo da Capua - e il primo settembre 1294 nomina 12 cardinali, in gran parte ispirati da Carlo II: sette sono francesi e cinque italiani, cinque benedettini tutti legati agli angioini e fra essi persino uomini della cancelleria del re di Napoli, mentre due sono monaci celestini: Francesco D’Atri e Tommaso di Ocre. Il papa angelico, d’altra parte, non si fa problemi a privilegiare apertamente il suo ordine: con la bolla del 27 settembre, priva completamente i vescovi della giurisdizione su monasteri e monaci celestini e arriva persino a nominare un morronese come abate di Montecassino, trasferendo l’abate precedente a Marsiglia e generando sempre più malcontento tra i benedettini tradizionali.
Il 29 settembre firma la bolla con cui istituisce la Perdonanza di L’Aquila:
“Noi che nel giorno della decollazione del capo di san Giovanni nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio dell’ordine di San Benedetto, ricevemmo l’insegna del diadema impostoci sul capo, desideriamo che quella chiesa si elevi ad onori speciali! Tutti coloro che saranno veramente pentiti dei peccati confessati, che dai vespri della vigilia della festa fino ai vespri immediatamente seguenti la festa stessa ogni anno entreranno nella predetta chiesa per la misericordia di Dio onnipotente e confidando nell’autorità dei santi Pietro e Paolo, assolviamo da ogni colpa e pena che meriterebbero per i loro delitti e per tutte le cose commesse sin dal battesimo”.
Il 6 ottobre il papa, scortato da Carlo II, lascia L’Aquila: vorrebbe raggiungere Roma, ma finisce per seguire il re a Napoli, e si fa costruire una cella in legno all’interno della stessa reggia. Il pontefice appare ormai come prigioniero del sovrano angioino e il paradosso è doppio: non solo il vicario di Cristo è ostaggio di un sovrano laico, ma uno stesso re - quale il papa è - finisce per essere “ospite permanente” di un sovrano confinante.
Da Napoli, Celestino continua a emanare decreti: se di molti non è l’ispiratore, di alcuni non è probabilmente nemmeno a conoscenza. “Celestino compiva le azioni di un uomo santo, poiché non si era allontanato dell’innocenza della vita precedente per essere divenuto pontefice - scrive il contemporaneo Tolomeo Fiadoni da Lucca - tuttavia veniva raggirato dai suoi funzionari in ordine ai privilegi che concedeva, dei quali egli non poteva aver notizia sia per la debolezza della vecchiaia, sia per l’inesperienza di governo intorno alle frodi e alle malizie umane nelle quali i curiali sono particolarmente esperti”.
Il papa incontra anche diverse e umilianti difficoltà pratiche: a cominciare dalla poca dimestichezza con il latino, usato in tutti i documenti ma anche nelle cerimonie ufficiali. Tra i ghigni della corte reale e il sarcasmo della curia papale, il pontefice chiede che ogni atto da firmare gli venga tradotto in volgare e che anche nei concistori si possa evitare di parlare in latino.
Ma Celestino non è uno sprovveduto: nella sua vita ha fondato decine di monasteri ed è a capo di un ordine grande e influente. Capisce benissimo che sta perdendo sempre di più il controllo della situazione, ma non ha la forza di reagire e si trova ormai in un cul de sac, sotto scacco di un sovrano potente e di una curia sempre più alla deriva. Proprio questa consapevolezza fa maturare in lui l’idea di dimettersi dal pontificato e tornare a fare l’eremita.
Una parte, in questa decisione, la riveste senza dubbio il cardinale Benedetto Caetani, consulente giuridico del papa sul quale - divenuto suo successore - sarebbe caduta una leggenda nera che vuole lo cospiratore e manipolatore dell’anziano pontefice.
Le dicerie diffuse dai nemici di Bonifacio VIII vogliono addirittura che, come in un film tragicomico, Caetani avrebbe fatto udire di notte a Celestino voci che - grazie all’utilizzo di canne o strani marchingegni - sembravano provenire dall’aldilà e suggerivano al papa la rinuncia al pontificato.
Carlo non ha però nessuna intenzione di farsi sfuggire il papato dalle mani, e quando il papa inizia a valutare l’ipotesi delle dimissioni, lui sparge la voce e poi organizza una solenne processione per convincerlo di quanta stima goda e con quanta forza il popolo lo voglia al suo posto. La processione, descritta da Tolomeo Fiadoni - giunge alla reggia di Castelnuovo: i fedeli chiamano a gran voce il papa e uno dei vescovi alla guida della processione chiede udienza per invocare il pontefice a nome del re e di tutti i presenti di non lasciare il papato. Celestino si affaccia a una finestra accompagnato da tre vescovi e impartisce la benedizione apostolica. Un altro vescovo, da dentro, risponde tranquillizzando la folla. Il papa, perplesso, si ritira nella sua cella mentre il popolo canta il Te Deum.
“Egli è sempre lontano, raggiungibile solo per interposta persona - commenta Golinelli - chiuso nell’eremo, oltre un muro, oltre una grata. Quella è l’immagine più significativa di quest’uomo separato, diverso, lontano dalle persone comuni, incapace di seguirne i piccoli vizi, l’ambizione, la vanità, anche soltanto quel poco di egocentrismo che non può mancare in un personaggio pubblico”.
“Lo deridano pure coloro che lo videro - scriverà Petrarca - per loro il povero spregiatore delle ricchezze e la sua santa povertà apparivano vili di fronte al fulgore dell’oro e della porpora. A noi sia concesso di ammirare quest’uomo e di considerare una disgrazia il non averlo potuto conoscere personalmente”.
Dopo aver cercato di affidare a tre cardinali la reggenza della Chiesa, riservandosi solo un ruolo formale di rappresentanza, e aver ricevuto un rifiuto, Celestino inizia a cercare dei precedenti canonici che legittimino le sue dimissioni, sostenuto nell’opera dall’onnipresente Caetani.
Il 13 dicembre 1294 riunisce il concistoro dei cardinali. Sedutosi sul trono impone il silenzio, poi prende la pergamena e legge l’atto di rinuncia.
“Io Papa Celestino V, spinto da legittime ragioni, per umiltà e debolezza del mio corpo e la malignità del mondo, al fine di recuperare con la consolazione della vita di prima, la tranquillità perduta, abbandono liberamente e spontaneamente il Pontificato e rinuncio espressamente al trono, alla dignità, all’onere e all’onore che esso comporta, dando sin da questo momento al sacro Collegio dei Cardinali la facoltà di scegliere e provvedere, secondo le leggi canoniche, di un pastore la Chiesa Universale”.
Poi scende dal trono e depone a terra l’anello, e la corona e il manto pontificale, e si siede lui stesso a terra. Infine celebra la messa.
Nove giorni dopo, a Napoli si riunisce il nuovo conclave: in un primo momento punta su Matteo Rosso Orsini, che però rifiuta. La figura più opportuna appare allora proprio Benedetto Caetani: quello che si era opposto alle interferenze di Carlo II a Perugia e che aveva gestito la rinuncia di Celestino.
Il 24 dicembre 1294 il conclave elegge dunque Caetani, che prende il nome di Bonifacio VIII. Il 17 gennaio il nuovo pontefice entra trionfalmente a Roma e viene incoronato nella cattedrale di San Giovanni in Laterano. L’8 aprile Bonifacio annulla con un solo atto - Olim Celestinus - tutti i provvedimenti del suo predecessore.
Da parte sua, Celestino, appena appresa l’elezione del nuovo papa va a rendergli omaggio, poi chiede di essere confessato da lui, infine di poter tornare al suo eremo. Bonifacio però rifiuta e gli ordina di seguirlo in Campania. “Se non è mai facile succedere a dei santi, lo è tanto meno quando questi sono ancora vivi e restano punti di riferimento per chi li ha sempre seguiti”. Bonifacio non può lasciarsi sfuggire un uomo che potrebbe coagulare intorno a sé i suoi avversari e tornare a riprendersi il papato. I precedenti nella storia delle Chiesa, d’altra parte non mancano.
Celestino, che pensava di essersi liberato e capisce che finirà prigioniero, si dà alla fuga e torna al suo eremo. Agli inviati del nuovo papa che lo trovano, chiede di essere lasciato in pace e finire i giorni nella solitudine, promettendo che non rivolgerà la parola ad altri che ai suoi due fidatissimi compagni che lo hanno seguito. Bonifacio, lo sa benissimo, non accetterà mai di avere il suo predecessore-rivale libero. Quindi, prima che i messi papali possano tornare per catturarlo, fugge nuovamente e resta nascosto in una grotta per un paio di mesi. Quando le acque si sono calmate, si mette in cammino verso il Gargano. Arrivato in Puglia, si prepara ad attraversare il mare travestito da pellegrino per raggiungere la Grecia, dove spera di essere finalmente al sicuro. Il destino, però, non lo aiuta. Dio lo vuole a Roma e il suo piccolo vascello, al primo vento contrario, viene risospinto a riva. Ad attenderlo trova le guardie mandate dal capitano della città, che ha già avvertito il papa. Un vero e proprio calvario fatto di insulti e umiliazioni aspetta l’ex papa.
Angelo Clareno scrive che, trasferito a Monte Sant’Angelo, i frati minori chiedono di avere udienza presso di lui, ma non appena sono introdotti alla sua presenza cominciano a inveire contro il vecchio monaco “con ogni sorta di affronti e villanie”.
Bonifacio lo fa trasferire di notte e di nascosto ad Anagni - sua città natale - in una casetta vicino al palazzo di famiglia del pontefice. Celestino chiede ancora una volta di poter tornare alla sua cella e Bonifacio si consiglia con i cardinali: “Se papa Celestino tornerà a casa, tu non sarai mai davvero papa” gli rispondono. Nell’estate del 1295 Pier Celestino viene così trasferito nella rocca di Castel Fumone, nel cuore della Ciociaria. La cella è così stretta che il santo, nel celebrare la messa al mattino, mette i piedi dove li aveva tenuti la notte per dormire. Ma non si lamenta. In fondo ci è abituato.
L’ex papa passa tutto l’autunno e l’inverno senza un letto decente, un materasso, un cuscino, un sacco di piume con cui coprirsi, ma solo una tavola di legno con un tappeto e una coperta sottile.
Nel frattempo le dimissioni del papa angelico e l’elezione di quello che sarà definito addirittura “L’anticristo” stanno generando una sommossa popolare, aizzata dai nemici di Bonifacio e dai francescani spirituali, che accusano di simonia il nuovo papa e dichiarano la sua elezione illegittima aprendo le porte ad un nuovo scisma.
“Egli ammalato giaceva così su una tavola: quello invece, al quale aveva lasciato il papato, come un dio dormiva su letti d’oro e di porpora, e costui giaceva malato sulla durezza del legno nudo!” commenta Tommaso da Sulmona.
Pietro Celestino muore la sera di sabato 19 maggio 1296 mentre dice la compieta, e in particolare subito dopo aver pronunciato - con un tenue filo di voce - la frase “Ogni spirito lodi il signore”.
Secondo alcune fonti, al momento della sua morte compare una croce luminosa e i primi ad accorgersene sono i soldati che fanno la guardia. “Un globo di fuoco, rotondo come una palla, che a poco a poco cominciò ad allontanarsi e a diminuire l’intensità della sua luce sino a ridursi a una piccola croce del colore dell’oro e così rimase per lungo tempo, finché svanì ai loro occhi” racconta Tommaso.
Il 21 maggio viene celebrato il funerale nella chiesa di Sant’Antonio, poco lontano dal paese di Ferentino, a una decina di chilometri dal castello di Fumone. Da parte sua, Bonifacio VIII provvede a celebrare a San Pietro solenni esequie insieme ad altri cardinali. “Quasi un Te Deum di ringraziamento, viene da pensare, per una dipartita tanto attesa quanto prolungatasi nel tempo”.
Subito si comincia a parlare di guarigioni miracolose avvenute presso la sua tomba. Ma perché si apra il processo di canonizzazione, bisognerà aspettare la morte di Bonifacio VIII.
Benedetto e CelestinoNel 1307 Filippo il bello cercherà di far riconoscere il martirio di Celestino, sostenendo la versione dell’omicidio in carcere con un chiodo conficcato nella fronte. Una versione sostenuta dai tanti nemici di Bonifacio e che troverà riscontri scientifici quando il corpo verrà riesumato: sul cranio è presente infatti un foro corrispondente a quello producibile da un chiodo di dieci centimetri. Solo nel 2013 un’ulteriore analisi stabilirà che quel foro è stato inferto al cranio molti anni dopo la sua morte. È stato, quindi, la conseguenza della diceria sull’omicidio, e non la causa.
Il 5 maggio 1313 da Avignone, Clemente V - che sta cercando di ricucire i rapporti tra Vaticano e Regno di Francia, mantenendo un equilibrio tra le due fazioni - proclama finalmente santo Pietro dal Morrone. Non è il papa, però, ad essere canonizzato, ma l’eremita.
Celestino tornerà nella sua basilica solo nel 1327. Nel 2009 papa Benedetto XVI, facendo visita a L’Aquila pochi giorni dopo il terremoto, donerà il suo pallio al predecessore. E, quattro anni dopo, ne seguirà l’esempio con le clamorose dimissioni.
Arnaldo Casali (Festival del Medioevo - senza immagini).
AI CARDINALI, PER L’ELEZIONE DEL NUOVO PAPA, NELLA CAPPELLA SISTINA: GUARDARE IN ALTO!
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 17 febbraio 2013)
Oggi, alle ore 18, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico, inizierò la mia predicazione degli Esercizi Spirituali per la Curia romana. Davanti a me, dopo secoli e secoli, circondato dai cardinali e dai vescovi curiali, sarà presente per la prima volta un Papa che ha formalmente rinunciato al suo officio pastorale universale, anche se temporaneamente ancora nelle sue funzioni.
Non è certo retorica confessare l’emozione che proverò iniziando un percorso settimanale di isolamento dalla vera e propria bufera mediatica che dallo scorso 11 febbraio, il giorno dell’annuncio di quell’atto di rinuncia, si è scatenata nel mondo.
Un’emozione che è, al tempo stesso, intima, perché è a questo Pontefice che devo il mio essere cardinale: sono stato suo collaboratore per oltre cinque anni, oggetto di costante affetto e di fiducia da parte sua. Mi soffermerò, allora, proprio su questi due eventi: da un lato, le giornate degli Esercizi Spirituali che trascorreremo insieme; d’altro lato, quella rinuncia che rivela certamente il coraggio e la grandezza della persona Ratzinger, ma anche il suo amore per la Chiesa come Papa. E lo faremo risalendo al più celebre antefatto certo.
Il mio ciclo di predicazione - che verrà pubblicato subito dopo, agli inizi di marzo, col titolo L’incontro - si staccherà dalla contingenza e respirerà, proprio secondo il desiderio di Benedetto XVI, l’atmosfera dell’anima che nella preghiera, nell’ascolto e nel silenzio trova il suo respiro. È lungo questo sentiero d’altura che si vive la fede autentica: infatti, un antico asserto latino affermava che lex orandi, lex credendi: la guida, la norma per il credere genuino è la via della preghiera. Anzi, idealmente trasformerò quel motto in ars orandi, ars credendi, perché pregare è un’arte, un esercizio di bellezza, di canto, di liberazione interiore.
È ascesi e ascesa, impegno rigoroso, ma anche volo lieve dell’anima verso Dio. Il tracciato sarà offerto dai Salmi, la raccolta biblica di preghiere sulla quale Dio stesso ha posto il suo sigillo, tant’è vero che il teologo martire, vittima del nazismo, Dietrich Bonhoeffer osservava che «se la Bibbia contiene un libro di preghiere, dobbiamo dedurre che la parola di Dio non è solo quella che egli vuole rivolgere a noi, ma è anche quella che egli vuole sentirsi rivolgere da noi». In questa esperienza il credente ritrova la propria identità spirituale.
Per questo, due saranno i movimenti dell’itinerario che proporrò nelle 17 prediche di questa settimana: da un lato, il volto di Dio, che si rivela all’orante e, dall’altro, il volto dell’uomo che pregando scopre se stesso nella sua fragilità e miseria, ma anche nella sua grandezza e gloria. Come scriveva nel 1548 sant’Ignazio di Loyola, in apertura al celebre testo Gli Esercizi Spirituali, evocando gli atti fisici del camminare, passeggiare, correre, «esaminare la coscienza, meditare, contemplare, pregare» sono «modi di preparare e disporre l’anima, così da scartare da sé tutte le affezioni disordinate, cercare e trovare la volontà divina nella disposizione della propria vita, per la salvezza dell’anima».
Un testimone al di sopra di ogni sospetto apologetico, Roland Barthes, nel 1971 affermava che «non occorre essere né cattolici né cristiani, né credenti né umanisti per essere interessati agli Esercizi Spirituali di Ignazio di Loyola».
Un’esperienza anche "laica", quindi, come l’aveva descritta quella straordinaria donna eliminata ad Auschwitz il 30 novembre 1943 a soli 29 anni, Etty Hillesum. Pochi mesi prima, nel suo Diario, recentemente riedito da Adelphi, confessava: «Dentro di me c’è una sorgente molto profonda. E in quella sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più sovente è coperta di pietra e di sabbia: in quel momento Dio è sepolto, bisogna allora dissotterrarlo di nuovo».
Ora, come dicevo, in attesa di entrare nel prossimo conclave per l’elezione di un nuovo successore di Pietro, quando ogni mia testimonianza sarà esclusa secondo le norme della costituzione apostolica Universi Dominici Gregis, emessa da Giovanni Paolo II il 22 febbraio 1996, vorrei evocare sinteticamente il più famoso atto di rinuncia che la storia ci ha consegnato. Altri eventi simili sono più confusi e oscuri o non ben documentati: è, ad esempio, il caso di Gregorio XII che rinunciò nel 1415, in un periodo particolarmente turbolento per la Chiesa con la presenza di vari antipapi.
Che l’atto sia possibile è contemplato anche nell’attuale Codice di diritto canonico, promulgato da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983. Il canone 332, al paragrafo 2, recita infatti che «nel caso in cui il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente (rite) manifestata, non si richiede invece che qualcuno (a quopiam) la accetti».
Anche a prescindere dalle dispute sull’interpretazione del passo dell’Inferno dantesco (III, 59-6o) ove in scena è «l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto», certo è che la figura di Pietro di Angelerio, molisano, nato attorno al 1209-10, asceta del monte Morrone, fondatore di una congregazione di eremiti, rimane nella memoria di tutti per la sua vicenda così originale. Dopo la morte di Niccolò IV nel 1292, i pochi cardinali si riunirono in conclave prima a Roma, poi a Perugia, per un paio d’anni, con interruzioni e senza esito per contrasti interni.
Alla fine - su impulso anche del re Carlo II lo Zoppo d’Angiò - elessero all’unanimità proprio l’eremita Pietro del Morrone. Il 28 luglio 1294 faceva il suo ingresso a L’Aquila a dorso di un asino, come Gesù a Gerusalemme, sceglieva il nome di Celestino V, forse per ragioni simboliche (legame con le uniche sue forze, quelle celesti) e il 29 agosto veniva consacrato papa di Roma, sempre a L’Aquila.
Un’altra figura mistica di alto profilo come lacopone da Todi lo ammonì subito sui rischi inerenti a un ufficio così elevato e oggetto di contese. La semplicità del monaco, gli intrighi politici ed ecclesiastici, l’incombente presenza del cardinale Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII, ben presto gli crearono una situazione difficile, nonostante la popolarità di cui godeva, e così egli maturò la decisione di dimettersi.
L’atto formale di rinuncia avvenne a Napoli, ove si era trasferito, davanti ai cardinali, il 13 dicembre 1294, dopo un papato di soli cinque mesi e nove giorni. Depose i paramenti pontifici, indossò la tonaca grigia dei suoi eremiti e, dieci giorni più tardi, il 24 dicembre 1294, il conclave eleggeva Bonifacio VIII che si sarebbe poi sempre premurato di controllare il suo predecessore a tal punto da riprenderlo dai vari eremi ove si rifugiava e condurlo in un edificio accanto al palazzo papale di Anagni ove era la corte pontificia.
Alla fine, però, lo riportò a Castel Fumone, presso Ferentino, ove il 19 maggio 1296, a 87 anni Pietro si spegneva. Le sue spoglie, nel 1327, furono traslate nella basilica di S. Maria di Collemaggio a L’Aquila, una chiesa da lui fondata, ove ancor oggi riposano nel sontuoso mausoleo eretto da Girolamo da Vicenza nel 1517 su committenza dell’Arte della Lana aquilana.
Ma anche le spoglie mortali di questo papa avranno una loro tormentata storia. Tra le numerose vicissitudini, basterà qui ricordare il trafugamento della salma nel 1988, ritrovata qualche giorno dopo, e il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 che provocò il crollo della volta della Basilica di Collemaggio proprio sul suddetto mausoleo. La fama, legata anche ai miracoli e alla sua vicenda umana ed ecclesiale, portò presto Celestino V sugli altari: il 5 maggio 1313 il papa francese Clemente V lo canonizzava e da allora la sua figura diveniva il modello di una Chiesa più spirituale e povera.
Petrarca lo aveva esaltato come un grande testimone della "vita solitaria" e della purezza celestiale. A lui si riferirà esplicitamente Ignazio Silone nel suo romanzo-saggio Avventura di un povero cristiano (1968), adattato poi a testo teatrale (1969), celebrazione di un cristianesimo primordiale e pauperistico. Per certi versi anche il film Habemus papam di Nanni Moretti (2011) può ammiccare a questo personaggio alonato di leggenda, ma nello stesso tempo di luce spirituale.
Cardini: “Ratzinger sbaglia, su Celestino aveva ragione Dante”
intervista a Franco Cardini
a cura di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 5 luglio 2010)
«Se fossi papa ci penserei due volte a riabilitare Celestino V. Storicamente ha più ragioni Dante per condannarlo di quante non ne abbia Benedetto XVI per elogiarlo».
Il medievista Franco Cardini è un «fervido estimatore di Joseph Ratzinger», però stavolta dissente «rispettosamente» e giudica «pericoloso» indicare come modello per la Chiesa attuale «colui che fece per viltà il gran rifiuto».
Perché, a differenza di papa Ratzinger, lei considera Celestino V un esempio negativo?
«Benedetto XVI fa il suo lavoro. E’ legittimo che nella missione di pontefice utilizzi vicende passate per attualizzare precetti, però è antistorico estrapolare dal loro contesto figure o eventi travisandoli davanti a persone che non ne sanno nulla. In Abruzzo è una gloria locale, ma nella storia ecclesiastica ha più ombre che luci, quindi è un errore di metodo trascurare il fatto che il santo eremita si trovò in balia di un tragico vuoto di potere nella Chiesa. Mi pare rischioso e controproducente tracciare paralleli con la situazione odierna».
Quindi fa bene Dante a confinarlo all’Inferno?
«L’antipatia di Dante non era infondata. Nel suo linguaggio "viltà" esprime soprattutto una bassa estrazione sociale, però i motivi storici per attaccare Celestino V non gli mancavano: come primo atto da Pontefice creò sette cardinali filo-Angioini, però malgrado l’insana alleanza trono-altare si accorse presto di essere isolato e incapace di governare la Chiesa. Insomma fu un vaso di coccio tra vasi di ferro e giustamente si ritirò dopo che anche la sinistra francescana spirituale e ribelle di Jacopone da Todi gli aveva voltato le spalle. Capì che per governare la Chiesa non serviva un sant’uomo e lasciò il soglio all’avveduto e solido Bonifacio VIII che, malgrado le leggende nere, non ebbe alcun bisogno di farlo avvelenare visto che aveva 85 anni e morì poco tempo dopo».
Eppure per Benedetto XVI rappresenta un valido modello di santità...
«La storia parla chiaro. Tra interessi contrastanti e pressioni dei re Angioini di Napoli legati alla corona francese, il molisano Celestino V fu eletto in conclave a Perugia, si fece incoronare all’Aquila (dove aveva fondato un ordine religioso poi sciolto) proprio per riposizionare la Chiesa sotto l’asfissiante controllo napoletano-francese. Anche l’indulgenza plenaria (la perdonanza) aveva l’intento, più politico che morale, di avversare la corte pontificia. Dunque è pericoloso riabilitarlo. Tanto più che, come oltraggio a Roma, Celestino V fu canonizzato ad Avignone dal papa-burattino francese Clemente V per volontà di Filippo IV, il re di Francia che aveva azzerato i Templari e arrestato Bonifacio VIII. Papa Ratzinger è un fine intellettuale e doveva riflettere di più prima di esaltare la memoria di Celestino V, suo debole predecessore. Fu ostaggio di giochi dinastici e gravemente inadeguato al compito».
Quel gesto simbolico di Benedetto XVI il pallio lasciato in omaggio a Celestino V
di Agostino Paravicini Bagliani (la Repubblica, 13 febbraio 2013)
Il prossimo 5 maggio si celebrerà a L’Aquila il 700esimo anniversario della canonizzazione di San Pietro Celestino V (1313), avvenuta diciassette anni dopo la sua morte (19 maggio 1296). In quell’occasione, come ha annunciato lo stesso arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Molinari, il pallio che papa Benedetto XVI lasciò sulla teca contenente le reliquie di Celestino V il 28 aprile 2009, in occasione della sua visita alla basilica di Santa Maria di Collemaggio, tre settimane dopo il tragico sisma, verrà collocato direttamente sulle spalle di San Pietro Celestino, l’unico papa ad avere rinunciato al papato nel Medioevo e l’unico papa medievale ad essere stato canonizzato.
L’arcivescovo ha altresì costituito una commissione deputata alla ricognizione delle reliquie del santo, attualmente esposte nella basilica di Collemaggio, al fine di fermare il processo di degrado delle ossa del santo.
Il pallio, una striscia di stoffa di lana bianca, tessuta con la lana bianca di due agnelli offerti ogni anno al papa nella festa di santa Agnese. Il pallio è il più antico oggetto simbolico destinato a rendere visibile il fatto che il papa è “l’erede” - così fu definito il papa già nel IV-V secolo - o “il successore” di san Pietro, il Principe degli Apostoli. Il pallio è infatti presente già nel VI secolo nella cerimonia di consacrazione del nuovo papa che avveniva generalmente nella basilica di San Pietro in Vaticano.
Dopo l’ultima preghiera recitata dal cardinale vescovo di Ostia (che fin dai primi secoli era colui che, essendo il vescovo della diocesi più vicina a Roma, consacrava il nuovo papa), l’arcidiacono aveva il compito di porre sulle spalle del nuovo papa il pallio che durante tutta la notte precedente era stato posto sulla tomba di San Pietro.
Rivestire la salma di San Pietro Celestino con il pallio donato da un papa, Benedetto XVI, diventa dunque un gesto intriso di un profondo simbolismo apostolico. Ed è un gesto che crea uno straordinario inedito legame simbolico tra i due soli papi che a distanza di sette secoli hanno rinunciato al papato in assoluta piena libertà.
Il pallio era già in uso nella Roma antica. Come la stola e le calzature, il pallio faceva parte del vestiario dei dignitari statali, era quindi un’insegna la cui concessione apparteneva in origine all’imperatore e con la quale veniva riconosciuto un rango statale. Del resto, per molti secoli - ossia fino almeno al VI secolo - il papa dovette chiedere il permesso all’imperatore bizantino per concedere il pallio ad altri vescovi.
Ma progressivamente i papi presero l’abitudine di concedere il pallio ad arcivescovi - ed in qualche caso anche a vescovi - in occasione della loro consacrazione. Concedere il pallio aveva una funzione simbolica precisa, quella di rendere simbolicamente visibile l’unità dei vescovi della cristianità con Roma e quindi la centralità e l’universalità della Chiesa romana.
Il pallio diventa sempre più nel corso del Medioevo il simbolo della funzione pontificia. I cerimoniali del tardo Medioevo lo dicono esplicitamente. Quando il nuovo papa riceve il pallio gli si rivolgono le seguenti parole: «Ricevi il pallio, simbolo della pienezza della funzione del papa, ad onore dei beati apostoli Pietro e Paolo e della santa Romana Chiesa».
Fin dai primi secoli, al papa, quando viene consacrato vescovo di Roma, il pallio veniva posto sulle spalle del pontefice, inserendovi tre spille d’oro, davanti, dietro e a sinistra. Sulla sommità di ciascuna di queste spille era infisso un giacinto. Così ornato il papa procedeva verso l’altare della Confessione di San Pietro e vi celebrava la messa solenne. Ora, le spille d’oro furono sovente interpretate come il simbolo delle “spine” (si giocava sulle parole) che la funzione pontificia necessariamente comporta.
Le difficoltà della funzione sono al centro della dichiarazione che Celestino V lesse ai cardinali riuniti in concistoro. Dopo avere annunciato la sua decisione di volere rinunciare al papato, il papa estrasse dal suo manto una carta di cui dette lettura: «Io, Celestino V papa, considerandomi incapace di questa carica, sia a causa della mia ignoranza, sia perché sono vecchio e debole, sia anche per la vita puramente contemplativa sin qui da me condotta, dichiaro di volere abbandonare questo incarico che io non posso più (rivestire); abbandono la dignità papale, i suoi impegni ed i suoi onori».
Seguì un rituale mai visto, semplice e sobrio, ma al tempo stesso spettacolare: Celestino V discese dal trono, si tolse la tiara dal capo e la posò per terra. Si spogliò quindi di ogni altra insegna pontificale e quindi anche del pallio.
I cardinali, ci dice ancora Bartolomeo di Cotton, assistettero stupefatti all’avvenimento. Celestino V, tornato a essere Pietro del Morrone, si recò poi nella sua camera e si rivestì subito dell’abito grigio della propria congregazione.
Le parole di Celestino V non sono così diverse da quelle pronunciate da Benedetto XVI ieri davanti ai cardinali, e forse sono state preannunciate da quell’inedito e straordinario gesto di deporre sulle reliquie celestiniane il pallio, simbolo della funzione papale, anche in termini di gravità, di difficoltà, di peso.
All’Aquila l’evento religioso. Per la prima volta domani un premier alla cerimonia
Ma il Vaticano insiste: cambi lo stile di vita. E Cossiga avverte: "Io non sarei andato"
Perdonanza, aperte le celebrazioni
Attesa per l’incontro Berlusconi-Bertone *
ROMA - All’Aquila tutto è pronto per l’incontro tra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il Segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone. Al parco della Transumanza, il braciere con il fuoco del Morrone arde da ieri sera. La fiaccola è giunta nel capoluogo abruzzese dopo aver attraversato i luoghi cari a Celestino V.
La prima di un presidente del Consiglio. Sarà il sindaco della città capoluogo, Massimo Cialente, ad accogliere i vertici delle due diplomazie per la prima volta invitati all’Aquila per la tradizionale festa religiosa. "Gli altri anni al massimo si faceva vedere un sottosegretario abruzzese", dice stupito il comitato organizzatore della Perdonanza. Domani, invece, all’appuntamento sarà presente, oltre al premier e al cardinale Bertone Segretario di Stato Vaticano, il sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta, braccio destro di Berlusconi, regista del tentativo di riavvicinamento fra Berlusconi e la Santa Sede.
Festa ridotta per il terremoto. Il terremoto del 6 aprile ha ridotto la grande festa all’essenziale. Quest’anno sarà difficile per le migliaia di pellegrini che tradizionalmente affollavano il piazzale antistante la basilica, oltrepassare la Porta Santa. I Vigili del Fuoco faranno affluire i fedeli a piccoli gruppi. Sarà una Perdonanza meno sfarzosa, che sarà ricordata però per l’incontro tra Berlusconi e Bertone. Un sogno che il premier ha accarezzato da quando è al centro delle critiche per le sue vicende personali.
Vaticano: "Berlusconi cambi stile". Ma dal Vaticano frenano gli entusiasmi. I collaboratori di Bertone puntualizzano che all’Aquila si tratterà di un semplice incontro di cortesia istituzionale. "Se il premier non cambia stile di vita - avvertono in Vaticano - l’incontro della Perdonanza non avrà nessun effetto".
Cossiga: "Io non sarei andato". Anche Francesco Cossiga sconsiglia a Berlusconi di andare all’Aquila. In un’intervista al Riformista, l’ex presidente della Repubblica manda a dire al premier che "tutti abbiamo bisogno di perdono, ma io all’Aquila non sarei andato. Premesso che non ho titolo per dare consigli a Berlusconi - afferma Cossiga - io non sarei andato alla Perdonanza E questo perchè alla fine Berlusconi, che era partito con l’intento di chiudere il caso, ha finito per rinfocolare una polemica con la Chiesa che non si era vista dai tempi in cui Mussolini sciolse l’Azione cattolica".
* la Repubblica, 27 agosto 2009
Sul tema, nel sito, si cfr.:
CRISTIANESIMO, CATTOLICESIMO E BERLUSCONISMO.
CRISTO AFFOGATO NELLE FOGNE DEL "DIO-PO". Berlusconi regna, Bossi governa.
IL PAPA ALL’AQUILA: SUBITO SOLUZIONI CONCRETE PER SFOLLATI
TAPPA NELLA BASILICA DI COLLEMAGGIO - Benedetto XVI ha fatto sosta nella basilica di Collemaggio, in preghiera davanti alle spoglie di Celestino V, tra le macerie e i pilastri imbragati nella basilica, nella quale é parzialmente crollata la navata centrale. Circondato dai vigili del fuoco e assistito dal segretario mons. Georg Gaenswein il papa ha posto il suo pallio sulla teca che contiene le spoglie di Celestino V. (Ansa» 2009-04-28 14:54 - ripresa parziale, per tutte le notizie sulla visita, clicca sul rosso).
CELESTINO
di Raniero La Valle
Articolo della rubrica “Resistenza e pace” in uscita sul prossimo numero del quindicinale di Assisi, Rocca (rocca@cittadella.org ) *
L’Aquila, il centro del terremoto, è stata per un momento, alla fine del Duecento, il centro della cristianità e il luogo da cui sarebbe potuto partire un tutt’altro corso della Chiesa e un ben diverso edificio del mondo. Chissà se il terremoto che ha travolto anche la basilica di Collemaggio, salvando però la teca con i resti di Celestino V, allude a quei lontani eventi.
Fu nella chiesa di Santa Maria di Collemaggio, da poco costruita come abbazia dei monaci morroniani, che il 29 agosto 1294 Pietro da Morrone, tratto dalle spelonche dei monti d’Abruzzo, fu fatto papa, un “papa di transizione”, in attesa che si quietassero le feroci lotte tra i cardinali.
Nella grande piazza gremita per l’incoronazione, fra i pellegrini toscani c’era anche un giovane poeta ventinovenne che si chiamava Dante Alighieri. Non che quella presenza gli abbia giovato perché, come risultò poi, Dante non capì nulla di Celestino, tanto da metterlo nel suo inferno, accusandolo di aver fatto “per viltà”, cinque mesi dopo l’elezione, il “gran rifiuto” del pontificato. Né Dante poteva capire Celestino, che una sola cosa veramente grande aveva fatto nel suo breve pontificato: e stando al potere, una sola cosa veramente grande si può fare, e quasi di sorpresa, perché quando l’hai fatta, ti scoprono, e il potere ti viene tolto o se ne scappa lontano da te.
Celestino aveva istituito il perdono, anzi “la perdonanza”, per “tutti i veramente pentiti”, ricchi e poveri, che, visitando quella chiesa aquilana il 29 agosto, festa di San Giovanni Battista, sarebbero stati liberati (assolti, sciolti) “dalla colpa e dalla pena”, a culpa et poena, “fin dal battesimo”; ciò voleva dire che chi aveva peccato - cioè tutti - in virtù del perdono erano non solo graziati della pena, ma fatti innocenti della colpa, resi liberi come se non avessero peccato; che era poi null’altro che prendere sul serio l’economia della redenzione, col suo rivoluzionario passaggio dalla giustificazione mediante la legge, alla giustificazione donata per grazia. E certo Dante questo non lo poteva capire, lui che della teologia della retribuzione aveva fatto un sistema totale, dentro il quale aveva imprigionato Dio, inquisitore, giudice ed esecutore penale, e aveva imprigionato l’uomo, tutti distribuendo in tre carceri diverse, l’inferno, il purgatorio e il paradiso.
La scelta di Celestino, che ben presto il suo successore Bonifacio VIII avrebbe istituzionalizzato, rarefatto e svuotato nella pia pratica dell’ anno santo, era di “rottura” rispetto al modello di Chiesa che si stava affermando in Occidente a partire dalla “riforma papale” di inizio millennio. Da un lato essa intercettava lo scandalo della compravendita delle indulgenze, messe sul mercato da chi poteva concederle, ed elargite in cambio di denaro o lasciti, sicché solo i ricchi potevano goderne; e questo mordeva su una patologia della Chiesa; ma dall’altro lato incideva sulla fisiologia della Chiesa, per la quale sembrava normale che essa facesse del peccato il criterio assoluto del suo giudizio sul mondo - perciò considerato tutto malnato e perduto se fuori della Chiesa - e nello stesso tempo il fondamento del suo potere.
Solo poco più di un secolo prima un altro monaco, Bernardo di Chiaravalle, con una intuizione geniale quanto perversa, aveva spiegato al papa Eugenio III, che era suo discepolo, che il vero potere della Chiesa non poggiava su terre e proprietà, ma si ergeva sul peccato: “in criminibus, non in possessionibus potestas vestra”. E perfino il potere temporale della Chiesa esteso oltre gli Stati pontifici, era legittimato “ratione peccati”, in ragione del peccato; e tanto più universale era il peccato, tanto più universale era il potere; cosa che doveva durare fino al ‘900, se Dietrich Bonhoeffer, dal carcere di Tegel, rivendicherà un Dio che “non approfitta dei nostri peccati, ma sta al centro della nostra vita”, contro “l’atteggiamento che chiamiamo clericale, quel fiutare-la-pista-dei-peccati-umani, per poter prendere in castagna l’umanità”.
È stato poi il Concilio Vaticano II che ha raccolto l’eredità di Celestino, promuovendo una Chiesa capace di accogliere l’umano, tutto l’umano; e che dunque non consideri l’umanità una massa dannata, preda di un illuminismo e di un nichilismo gaio e trionfante; che non attribuisca all’uomo moderno l’idea di essere solo uno sghiribizzo culturale fluttuante nella storia; che non consideri l’attuale come una generazione di omicidi, da Obama a Peppino Englaro alla Corte Costituzionale, perché nella moderna disputa sull’inizio e sulla fine della vita “umana” essi non sarebbero “pro life”; che non percepisca la storia come un mare di morte, sul quale a galleggiare sia solo la Chiesa., come pur si è sentito nelle veglie dell’ultima Pasqua.
Raniero La Valle
* Il Dialogo, Martedì 21 Aprile,2009 Ore: 13:52
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Giuliana Conforto - 11 aprile 2009
L’Abruzzo, L’Aquila e la resurrezione
La sensazione che qualcosa di speciale è avvenuto in Abruzzo mi accompagna da vari giorni. L’Abruzzo è la mia seconda patria. Vado sempre a Ovindoli, ho insegnato all’Università de L’Aquila, per tre anni. La Facoltà di Scienze era allora in centro, il palazzo vetusto, ma accogliente. I colleghi e gli aquilani simpatici, schietti e... laici. È lì che ha preso corpo il grande sogno, quello della “città nova”, non un nuovo luogo, ma un nuovo modo di vivere la città, su scala umana, incontro delle genti, arte e cultura, rapporto diretto con la natura.
L’aquila è il simbolo del Cristo, che muore e risorge. A L’Aquila è vissuto Celestino, l’unico Papa che fece il gran rifiuto, come dice Dante e ci spiega con ben maggiori dettagli Maria Grazia Lopardi. Il mio libro Baby Sun si svolge a L’Aquila oltre che a Roma e si conclude con una gita a Campotosto dove i tre protagonisti intravedono il nuovo mondo, felice e ricco di armonia. Non è un sogno; è la percezione di altri mondi che mi accompagna sin da bambina ed è simile a quella che hanno molti altri. Avevo nove anni quando mi ritrovai in un mondo di giganti e molti di più quando cominciai a capire che ognuno di noi partecipa a vari mondi, generati tutti dal Cristallo, il piccolo Sole, il Baby Sun che anima il cuore di ogni cosa, di ogni atomo.
A L’Aquila ho insegnato fisica quantica. Anche grazie a questo e al lavoro su me stessa ho verificato che tutte le scienze, fisica quantica inclusa, si fondano su un colossale inganno, smentito dai fatti. È la fede cieca nel tempo unico che va dal passato al futuro. È la fede che impedisce ai geofisici di accettare la previsione dei terremoti, agli scienziati e ai medici di comprendere il ruolo cruciale de “l’unica Forza che unisce a dà vita a infiniti mondi” e agli uomini il significato della vita e della morte.
C’è una nuova percezione che oggi si diffonde nel mondo; è individuale e collettiva, simile per tutti. Nei miei seminari abbiamo visitato molti mondi e, tra i tanti, anche quello dei “morti” che sono vivi e felici. È un mondo parallelo, invisibile con gli occhi normali, ma reale, dipinto con rara poesia da poeti e artisti di tutti i tempi, miti antichi e oggi anche da molti film.
La fede cieca nel tempo unico impedisce di comprendere che dal futuro possono giungere segnali e consentire la previsione dei terremoti. Non è certa, è probabile, circoscritta a pochi giorni, a una zona con un raggio non superiore a 100 Km. Poteva essere utile.
La stessa fede vieta di comprendere che la Vita non è la proprietà di un corpo, ma una Forza universale. È l’unica Forza che unisce infiniti mondi, ha Memoria e anche un Progetto, annunciato da millenni: la resurrezione. Un miracolo? No, un processo che si spiega e spiego nel mio libro Baby Sun; si manifesta con una percezione nuova che consente di prevenire gli eventi e di agire con tempestività e in modo coerente con i propri progetti; agire in prima persona quindi, senza più delegare ai “potenti” la loro realizzazione.
Nella storia la resurrezione è venuta dopo la morte, ma oggi possiamo capire che può non essere la morte del corpo. È la “morte seconda” come la chiamano i Vangeli, la fine di una mentalità, della fede cieca nel “dio” unico, il tempo, legato all’altro “dio” unico che dirige la politica mondiale: il denaro. La vita dopo il terremoto non ha più i ritmi consueti, sviluppa la solidarietà, favorisce la manifestazione della Volontà del Padre, la stessa dei saggi e i giusti: il benessere di tutti, nessuno escluso.
Campotosto, vicino al Parco Nazionale, è il monumento mondiale alla biodiversità. Tantissime specie vivono in armonia e confermano che la sismicità non è il segno di una natura “ostile”, ma una prova della sua vitalità. Il terremoto non fa danni se si costruiscono le case in modo corretto. Si sapeva da prima, ma ora è emerso subito in modo chiaro a tutti. E l’emergere di questa e altre verità è un indizio che conferma la peculiarità di questo terremoto. Non è il solo.
Il funerale degli uomini si è svolto nello stesso giorno in cui ricorre la “morte” di Dio. “Farete come me e cose più grandi di me” sono le parole dell’Uomo Gesù che si era proclamato “un re non di questo mondo” e aveva testimoniato così l’esistenza di altri mondi. Oggi la fisica ne calcola l’esistenza, scopre anche l’unica Forza che li unisce, la chiama “debole” e non la collega alla Vita. Se vogliamo collegare noi stessi al tutto, dobbiamo riconoscere il "debole" fuoco che travolge i confini tra le discipline.
Questa morte collettiva, che poteva essere ridotta e persino evitata, è la premessa per la resurrezione collettiva, secondo me. È l’inizio di quel rinnovamento profondo che riporterà “il mondo al suo antico volto” come annuncia Giordano Bruno. È l’inizio del Parto Planetario, la rivelazione del vero Sole, il Cristallo che anima e dà vita a infiniti universi.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
«Sono conservate perfettamente»
Salva la reliquia di Celestino V
È stata recuperata sotto le macerie nel complesso di Collemaggio
L’AQUILA - La teca che contiene le spoglie di Papa Celestino V è stata trasferita dal complesso di Collemaggio, gravemente danneggiato dal terremoto. L’operazione di salvataggio è stata condotta da Vigili del Fuoco, Protezione Civile, con la collaborazione della Guardia di Finanza e sotto la supervisione del rettore della Basilica di Collemaggio, don Nunzio Spinelli. «Si tratta di un altro grande miracolo di papa Celestino V - ha commentato Fabio Carapezza Guttuso, responsabile Commissione Sicurezza Beni Culturali -. Le spoglie di Celestino sono state conservate in perfetta sicurezza».
TRASFERIMENTO - La teca è stata trasferita nel torrione accanto alla basilica e quindi a pochi metri da dove si trovavano prima del sisma. Lo spiega il segretario generale del ministero dei beni culturali Giuseppe Proietti confermando che non ci sono danni. Proietti ha anche detto che la scia sismica di questi giorni ha provocato spostamenti sensibili nei pilastri della navata della basilica, oramai inagibile.
IL PAPA DEL GRAN RIFIUTO - La volta della Basilica di Santa Maria di Collemaggio è infatti crollata proprio nel punto in cui si trovava la teca, che era rimasta quindi sotto un cumulo di macerie. La reliquia del «Papa del gran rifiuto» si salvò nel terremoto del 1703, quando venne giù il soffitto dell’edificio costruito nel 1287. Il sisma di lunedì scorso ha fatto precipitare la volta della chiesa romanica.
* Corriere della Sera, 09 aprile 2009
Diretta - CRONACA
Napolitano visita le zone terremotate
"Nei soccorsi generosità straordinaria"
Cdm: "Dopo Pasqua sospesi bollette e mutui" *
Il capo dello Stato all’Aquila si commuove davanti alle bare. Ringrazia per l’efficenza della macchina dei soccorsi. Poi si lamenta con i giornalisti: "Non sono qui per farmi fotografare". Recuperati altri corpi, il bilancio è di 279 vittime. Il Viminale: si scaverà fino a Pasqua. Nuove forti scosse nella notte e all’alba. Un migliaio i feriti, 28 mila i senza casa, quasi 18 mila nelle tendopoli. Domani all’Aquila i funerali di Stato. Il Cdm rinvia a dopo Pasqua il decreto sugli aiuti ma dà il via libera a un’ordinanza che sospende bollette e mutui
12:19 Cdm, dopo Pasqua sospesi bollette e mutui Il Cdm ha rinviato a dopo Pasqua il decreto sugli aiuti per le zone terremotate, mentre ha dato via libera a un’ordinanza per sospendere i termini relativi, fra l’altro, a mutui e bollette per i cittadini coinvolti dal sisma. Il decreto contenente gli stanziamenti tornerà sul tavolo del Cdm la settimana prossima. Dovrebbe essere stato anche rinviato lo stanziamento di circa 70 milioni di euro che il ministro dell’Economia Giulio Tremonti aveva previsto in favore della Protezione civile
12:14 Appello Croce rossa: donare solo materiale nuovo A tutti coloro che in queste ore stanno raccogliendo materiali e generi di prima necessità per le popolazioni colpite dal sisma, la Croce Rossa Italiana rivolge un appello "a donare solo materiale rigorosamente nuovo e confezionato", specificando che "a differenza di quanto erroneamente riportato da numerosi organi di informazione, la Cri non accetta beni usati di qualsiasi genere" e invita ad attenersi alle indicazioni riportate sul sito dell’associazione: www.cri.it.
11:51 Al via Consiglio dei ministri su aiuti per terremoto E’ cominciata a Palazzo Chigi la riunione del Consiglio dei ministri. Al centro, il pacchetto di misure che il governo intende varare in favore delle zone colpite. Prima della riunione, incontro fra il premier, Umberto Bossi e Roberto Maroni, sul decreto sicurezza. Nel frattempo i tecnici del governo hanno lavorato per le ultime limature ai provvedimenti sull’emergenza Abruzzo
11:49 Napolitano: non sono qui per farmi fotografare Napolitano, poco prima di entrare nella tendopoli allestita all’ingresso di Onna, si è lamentato con il gruppo dei giornalisti e dei fotografi che gli impedivano l’ingresso lanciando un pressante invito a "farsi da parte" e un esplicito "non rompete". "Non sono venuto qui per farmi fotografare, lasciateci entrare tranquillamente" ha detto il capo dello Stato
11:37 Napolitano giunto a Onna Giorgio Napolitano è giunto a Onna, il borgo dell’Aquila che con 39 vittime su 300 abitanti, è il simbolo della tragedia del terremoto abruzzese. Il capo dello Stato ha attraversato la frazione ridotta a un cumulo di macerie e si è recato alla tendopoli allestita in un campo vicino che ospita gli sfollati
11:36 Chiodi, Napolitano ha promesso che vigilerà Chiodi ha aggiunto poi che "il Capo dello Stato ci ha promesso che quando sarà passato questo momento di emotività non saremo dimenticati, che lui vigilerà". "Napolitano - ha spiegato il presidente della Regione - ha detto che tutto verrà seguito da lui, nei limiti delle sue competenze, nei prossimi mesi e anni; che la situazione dell’Abruzzo sarà una priorità e questa è una cosa molto importante. Il presidente era informato però l’ho visto più volte, davanti alle parole di Bertolaso, sbarrare gli occhi e sorprendersi per i dati di quella che, come ha detto lo stesso capo della Protezione civile, è la più grossa emergenza che il paese vive dall’unità d’Italia perché è la prima volta che viene coinvolta un’intera città, un’intera popolazione"
11:28 Chiodi, Napolitano ha detto lo Stato c’è Nei territori dell’Abruzzo "lo Stato c’è". E’ la considerazione che, secondo quanto riferisce il presidente della Regione Gianni Chiodi, ha espresso Giorgio Napolitano durante l’incontro con Bertolaso. "Il presidente ha apprezzato moltissimo la presenza dello Stato in queste zone e ha osservato - ha proseguito Chiodi - che paradossalmente lo Stato è fortemente presente proprio in un posto dove di fatto lo Stato non c’è più perché sono inagibili tutte le strutture che lo rappresentano"
11:17 Napolitano davanti alla casa dello studente Giorgio Napolitano si è fermato dinanzi alla casa dello studente, in via XX settembre, dove sono morti diversi giovani nel crollo della palazzina. Napolitano si è fermato a parlare con i vigili del fuoco che stanno ancora scavando per cercare altri eventuali corpi di giovani rimasti sotto le macerie
11:16 Sotto le macerie teca con spoglie di Celestino V
La volta della basilica di Santa Maria di Collemaggio all’Aquila è crollata nel punto in cui si trova la teca che custodisce le spoglie di papa Celestino V, rimasta quindi sotto un cumulo di macerie. La reliquia del "papa del gran rifiuto" si salvò nel terremoto del 1703, quando venne giù il soffitto dell’edificio costruito nel 1287. Il sisma di lunedì scorso ha fatto precipitare la volta della chiesa romanica
11:14 Napolitano incontra speleologi, pompieri e militari Giorgio Napolitano si è intrattenuto per circa un’ora nel centro di coordinamento che la Protezione civile ha allestito nella scuola allievi ispettori della Guardia di finanza all’Aquila. Uscendo dalla palazzina il Capo dello Stato, accompagnato da Bertolaso, ha stretto la mano a una decina di uomini che in questi giorni si sono adoperati nei soccorsi alla popolazione colpita dal sisma: speleologi, vigili del fuoco e militari dell’esercito
11:02 Napolitano: generosità straordinaria "Sono qui per dovere e sentimento. Sono qui per ringraziarvi per tutto ciò che state facendo, uno sforzo di efficienza e di generosità straordinaria nell’ambito dell’organizzazione dello Stato e della mobilitazione dei cittadini" ha detto Giorgio Napolitano al termine dell’incontro con Bertolaso che ha illustrato la macchina dei soccorsi. Il capo dello Stato ha poi iniziato un sopralluogo sui luoghi più colpiti iniziando dalla casa dello studente nel centro storico dell’Aquila. La tappa successiva sarà la piccola frazione di Onna, il paese completamente distrutto dal sisma. Napolitano si recherà poi alla tendopoli di San Demetrio, allestita per accogliere 500 sfollati. La mattinata si concluderà con il ritorno alla caserma di Coppito dove dovrebbe svolgersi un incontro con la stampa
* la Repubblica, 09.04.2009 - ripresa parziale, per aggiornamenti - cliccare sul rosso.
ANSA» 2008-08-28 21:48
PERDONANZA, CELEBRATO ALL’AQUILA PRIMO GIUBILEO CRISTIANITA’
L’AQUILA - Il cardinale Giovanni Coppa, Nunzio Apostolico emerico della Repubblica Ceca, ha aperto nel pomeriggio la Porta Santa della Basilica di Santa Maria di Collemaggio dell’Aquila, dando così inizio al Giubileo che, da 714 anni, si celebra nel capoluogo d’Abruzzo. L’indulgenza plenaria, la più antica della cristianità, emanata con una bolla di Papa Celestino V nel 1294 dalla chiesa aquilana, potrà essere ottenuta entrando nella stessa basilica - "sinceramente pentiti e confessati" - fino a domani sera, quando la Porta Santa di Collemaggio sarà chiusa dall’arcivescovo dell’Aquila, monsignor Giuseppe Molinari.
Prima del rito religioso, la Bolla del Perdono universale del Pontefice, poi santificato, è stata letta dal sindaco Massimo Cialente. Il Governo era rappresentato dal sottosegretario al ministero del Lavoro, Eugenia Maria Roccella. Al Corteo che ha preceduto l’apertura della Porta Santa erano presenti la nipote del Mahatma Gandhi, Ela Gandhi, e l’ambasciatore del Niger Mireille Ausseil.
Una delle caratteristiche di questo Giubileo, infatti, sta nel fatto che è la Municipalità a indire la celebrazione detta della Perdonanza. Questo perché Papa Celestino V, poco prima delle dimissioni (fatto pressoché unico nella Chiesa, avvenute appena quattro mesi dopo l’elezione), donò la Bolla alla città, affinché la custodisse. Il prezioso documento, restaurato per la prima volta dieci anni fa, è conservato nella stanza blindata della torre del palazzo comunale e viene fatto uscire solo ogni 28 agosto (l’indulgenza è infatti annuale) per essere portato a Collemaggio, per poi essere riconsegnato alla Municipalità il giorno successivo.
La Bolla dell’eremita del Morrone è stata accompagnata alla Basilica da un corteo composto da circa 300 figuranti in costume d’epoca e da altri 700 rappresentanti istituzionali di varie città italiane. Il corteo è partito dal Comune e ha attraversato il centro storico, davanti a oltre 30 mila persone. Il Giubileo celestiniano dell’Aquila è stato accompagnato da una settimana di appuntamenti culturali e musicali, inaugurato il 23 da Tosca e che sarà concluso domani, alle 22, a piazza Duomo, da Fiorella Mannoia.
Il Centro 25.08.2008
Iniziativa all’Aquila di Padre Quirino
Messa per Nietzsche, il vescovo è d’accordo
Molinari: ma evitiamo di beatificarlo
In pochi alla celebrazione a San Bernardino
di Giampiero Giancarli
L’AQUILA. L’idea di celebrare una messa in ricordo del filosofo tedesco Friedrich Wilhelm Nietzsche, clamorosa sotto il profilo culturale, non ha riscosso l’interesse dei fedeli. Non più di trenta persone, infatti, hanno partecipato alla funzione officiata da padre Quirino Salomone, nella basilica di San Bernardino. Il vescovo Molinari è d’accordo sull’iniziativa: ma evitiamo di beatificare il filosofo.
Anzi, a dire il vero, sembrava che dopo l’uscita dal luogo di culto della gente che aveva partecipato della precedente messa, la basilica fosse destinata a restare deserta ma poi, alla spicciolata, sono arrivati alcuni fedeli che hanno assistito alla funzione religiosa. L’orario delle 19,30, del resto, non era certo quello più adatto per attendersi una gran folla nella grande basilica bernardinana.
Tra i presenti anche persone che nulla sapevano del pur famoso filosofo tedesco, morto nel 1900, e ancora meno del clamore suscitato dall’iniziativa di padre Salomone. E qualcuno, forse, è rimasto inizialmente spaesato dalla lunga e appassionata omelia del sacedote, in parte intrisa di contenuti filosofici di spessore, ma poi tutti sono stati coinvolti dalle indubbie facoltà oratorie di padre Quirino.
«Se questo filosofo con le sue opere è stato un male per la Chiesa», ha detto padre Quirino «io invoco la pietà di Cristo anche per lui». E questo, come ha tenuto a precisare il frate francescano, rientra perfettamente nel messaggio del Perdono celestiniano.
«Il Padre», ha aggiunto inoltre il rettore della basilica, «ama tutti i suoi figli e ha una particolare predilezione per chi si allontana da lui e quindi per chi ne ha più bisogno. Questa è una provocazione per risvegliare la fede. Non dimentichiano che i martiri non hanno mai maledetto i loro carnefici, semmai ne hanno chiesto al Padre la salvezza. Dobbiamo ricordarci che nessuno è mai escluso dalal misericordia di Dio». Sull’iniziativa di una messa in onore del filosofo si registra anche una presa di posizione dell’arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Molinari. «C’è una discussione sull’ateismo di questo filosofo, e alcune pagine delle sue opere sembrano contrarie alla religione cattolica» ha commentato il prelato «ma sono stati molti coloro che hanno visto del positivo in queste dissertazioni. La sua avversione non è nei confronti di Dio e della Bibbia ma contro alcune forme di religione che non sono autentiche. Questo deriva da esperienze personali difficili».
«In fondo» prosegue «la Chiesa non deve fare altro che predicare la misericordia divina. Anche Giuda, qualora si fose pentito, sarebbe stato perdonato. Nessuno, per il Signore, è perduto. Pregare per una persona che ha avuto tanti legami con questa città è sempre giusto specie se ha sbagliato. L’importante è non strumentalizzare il messaggio evitando il rischio di una “beatificazione” del filosofo in questione. Conosco bene il professor Arturo Conte e sono certo che non volesse dire nulla di contrario alla fede».
Padre Quirino, infine, non ha escluso in futuro un convegno su queste tematiche.
Io difendo quel palco
di Marco Travaglio *
Caro Direttore,
quando tutta la stampa (Unità compresa), tutte le tv e persino alcuni protagonisti dicono la stessa cosa, e cioè che l’altroieri in Piazza Navona due comici (Beppe Grillo e Sabina Guzzanti) e un giornalista (il sottoscritto) avrebbero “insultato” e addirittura “vilipeso” il capo dello Stato italiano e quello vaticano, la prima reazione è inevitabile: mi sono perso qualcosa? Mi sono distratto e non ho sentito alcune cose - le più gravi - dette da Beppe, da Sabina e da me stesso? Poi ho controllato direttamente sui video, tutti disponibili su You Tube e sui siti di vari giornali, ma non vi ho ritrovato ciò che è stato scritto e detto da tv e giornali.
Nessuno ha insultato né vilipeso Giorgio Napolitano né Benedetto XVI. Nessuno ha “rovinato una bella piazza”. È stata, come tu hai potuto constatare de visu, una manifestazione di grande successo, sia per la folla, sia per la qualità degli interventi (escluso ovviamente il mio). Per la prima volta si sono fuse in una cinque piazze che finora si erano soltanto sfiorate: quella di Di Pietro, quella di molti elettori del Pd, quella della sinistra cosiddetta radicale, quella dei girotondi e quella dei grillini, non sempre sovrapponibili. E un minimo di rigetto era da mettere in conto. Ma è stata una bella piazza plurale, sia sotto che sopra il palco: idee, linguaggi, culture, sensibilità, mestieri diversi, uniti da un solo obiettivo. Cacciare il Caimano.
Le prese di distanze e i distinguo interni, per non parlare delle polemiche esterne, sono un prodotto autoreferenziale del Palazzo (chi fa politica deve tener conto degli alleati, delle opportunità, degli elettori, di cui per fortuna gli artisti e i giornalisti, essendo “impolitici”, possono tranquillamente infischiarsi). La gente invece ha applaudito Grillo e Sabina come Colombo (anche quando ha chiesto consensi per Napolitano), Di Pietro, Flores e gli altri oratori, ma anche i politici delle più varie provenienze venuti a manifestare silenziosamente. Applausi contraddittorii, visto che gli applauditi dicevano cose diverse? Non credo proprio. Era chiaro a tutti che il bersaglio era il regime berlusconiano con le sue leggi canaglia, compresi ovviamente quanti non gli si oppongono.
Come mai allora questa percezione non è emersa, nemmeno nei commenti delle persone più vicine, come per esempio te e Furio? Io temo che viviamo tutti nel Truman Show inaugurato 15 anni fa da Al Tappone, che ci ha imposto paletti (anche mentali) sempre più assurdi e ci ha costretti, senza nemmeno rendercene conto, a rinunciare ogni giorno a un pezzettino della nostra libertà. Per cui oggi troviamo eccessivo, o addirittura intollerabile, ciò che qualche anno fa era normale e lo è tuttora nel resto del mondo libero (dove tra l’altro, a parte lo Zimbabwe, non c’è nulla di simile al governo Al Tappone). In Italia l’elenco delle cose che non si possono dire si allunga di giorno in giorno. Negli Stati Uniti, qualche anno fa, uscì senz’alcuno scandalo un libro di Michael Moore dal titolo «Stupid White Man» (pubblicato in Italia da Mondadori...), tutto dedicato alle non eccelse qualità intellettive del presidente Bush. Da dieci anni l’ex presidente Clinton non riesce a uscire da quella che è stata chiamata la «sala orale». In Francia, la tv pubblica ha trasmesso un programma satirico in cui un attore, parodiando il film «Pulp Fiction» in «Peuple fiction», irrompe nello studio del presidente Chirac, lo processa sommariamente per le sue innumerevoli menzogne, e poi lo fredda col mitra. A nessuno è mai venuto in mente di parlare di «antibushismo», di «anticlintonismo», di «antichirachismo», di «insulti alla Casa Bianca» o di «vilipendio all’Eliseo».
Tanto più alta è la poltrona su cui siede il politico, tanto più ampio è il diritto di critica e di satira e anche di attacco personale. Quelli che son risuonati l’altroieri in piazza Navona non erano «insulti». Erano critiche. Grillo, insolitamente moderato e perfino affettuoso, ha detto che «a Napolitano gli voglio bene, ma sonnecchia come Morfeo e firma tutto», compreso il via libera al lodo Alfano che crea una «banda dei quattro» con licenza di delinquere. Ha sostenuto che Pertini, Scalfaro e Ciampi non l’avrebbero mai firmato (sui primi due ha ragione: non su Ciampi, che firmò il lodo Schifani). E ha ricordato che l’altro giorno, mentre Napoli boccheggia sotto la monnezza, il presidente era a Capri a festeggiare il compleanno con la signora Mastella, reduce dagli arresti domiciliari, e Bassolino, rinviato a giudizio per truffa alla Regione che egli stesso presiede. Tutti dati di fatto che possono essere variamente commentati: non insulti o vilipendi. Io, in tre parole tre, ho descritto la vergognosa legge Berlusconi che istituisce un’«aggravante razziale» e dunque incostituzionale, punendo per lo stesso reato - gli immigrati irregolari più severamente degli italiani, e mi sono rammaricato del fatto che il Quirinale l’abbia firmata promulgando il decreto sicurezza. Nessun insulto: critica. Veltroni sostiene che io avrei «insultato» anche lui, e che «non è la prima volta».
Lo invito a rivedersi il mio intervento: nessun insulto, un paio di citazioni appena; per il resto la cronistoria puntuale dell’ennesima resurrezione di Al Tappone dalle sue ceneri grazie a chi come dice Furio Colombo «confonde il dialogo con i suoi monologhi». Sono altri dati di fatto, che possono esser variamente valutati, ma non è né insulto né vilipendio. O forse il Colle ha respinto al mittente qualche legge incostituzionale, e non me ne sono accorto? Sono o non sono libero di pensare e di dire che preferivo Scalfaro e i suoi no al Cavaliere? Oppure la libertà di parola, conquistata al prezzo del sangue dai nostri padri, s’è ridotta a libertà di applauso? Forse qualcuno dimentica che quella c’è anche nelle dittature. È la libertà di critica che contraddistingue le democrazie. Se poi a esercitarla su temi quali la laicità, gli infortuni sul lavoro, l’ambiente, la malafinanza, la malapolitica, il precariato, la legalità, la libertà d’informazione sono più i comici che i politici, questa non è certo colpa dei comici.
Poi c’è Sabina. Che ha fatto, di tanto grave, Sabina? Ha usato fino in fondo il privilegio della satira, che le consente di chiamare le cose con il loro nome senza le tartuferie e le ipocrisie del politically correct, del politichese e del giornalese: ha tradotto in italiano, con le parole più appropriate, quel che emerge da decine di cronache di giornale sulle presunte telefonate di una signorina dedita ad antichissime attività con l’attuale premier, che poi l’ha promossa ministra. Enrico Fierro ha raccolto l’altro giorno, su l’Unità, i pissi-pissi-bao-bao con cui i giornali di ogni orientamento, da Repubblica al Corriere, dal “Riformatorio” financo al Giornale, han raccontato quelle presunte chiamate (con la “m”). Ci voleva un quotidiano argentino, il Clarin, per usare il termine che comunemente descrive queste cose in Italia: «pompini», naturalmente di Stato. Quello di Sabina è stato un capolavoro di invettiva satirica, urticante e spiazzante come dev’essere un’invettiva satirica, senza mediazioni artistiche né perifrasi. Gli ignorantelli di ritorno che gridano «vergogna» non possono sapere che già nell’antica Atene, Aristofane era solito far interrompere le sue commedie con una «paràbasi», cioè con un’invettiva del corifeo che avanzava verso il pubblico e parlava a nome del commediografo, dicendo la sua sui problemi della città. Anche questa è satira (a meno che qualcuno non la confonda ancora con le barzellette). Si dirà: ma Sabina ha pure mandato il papa all’inferno. Posso garantire che, diversamente da me, lei all’inferno non crede. Quella era un’incursione artistica in un genere letterario inaugurato, se non ricordo male, da Dante Alighieri. Il quale spedì anticipatamente all’inferno il pontefice di allora, Bonifacio VIII, che non gli piaceva più o meno per le stesse ragioni per cui questo papa non piace a lei e a molti: le continue intromissioni del Vaticano nella politica.
Anche Dante era girotondino? Il fatto è che un vasto e variopinto fronte politico-giornalistico aveva preparato i commenti alla manifestazione ancor prima che iniziasse: demonizzatori, giustizialisti, estremisti, forcaioli, nemici delle istituzioni, e ovviamente alleati occulti del Cavaliere. Qualunque cosa fosse accaduta, avrebbero scritto quel che hanno scritto. Lo sapevamo, e abbiamo deciso di non cedere al ricatto, parlando liberamente a chi era venuto per ascoltarci, non per usarci come pedine dei soliti giochetti. Poi, per fortuna, a ristabilire la verità sono arrivati i commenti schiumanti di Al Tappone e di tutto il centrodestra: tutti inferociti perché la manifestazione spazza via le tentazioni di un’opposizione più morbida o addirittura di un inciucio sul lodo Alfano (ancora martedì sera, a Primo Piano, due direttori della sinistra «che vince», Polito e Sansonetti, proclamavano in stereo: «Chi se ne frega del lodo Alfano»). La prova migliore del fatto che la manifestazione contro il Caimano e le sue leggi-canaglia è perfettamente riuscita.
* l’Unità, Pubblicato il: 10.07.08, Modificato il: 10.07.08 alle ore 13.42
LA STORIA DELLA «PERDONANZA»
Nell’abbraccio della misericordia anche i poveri e i diseredati
Tutto iniziò con l’elezione a papa dell’eremita Pietro Angeleri, che concesse l’indulgenza plenaria perpetua. Anche a chi non poteva permettersi ricche elemosine
(C.Tra.) *
Il 28 e il 29 agosto d’ogni anno all’Aquila si rinnova il rito della Perdonanza, l’indulgenza plenaria perpetua concessa da Celestino V la sera stessa della sua incoronazione a pontefice. In precedenza Pietro Angeleri - questo il nome secolare - aveva trascorso molti anni di vita eremitica, in special modo in una grotta sul monte Morrone, sopra Sulmona, ricevendo dai suoi devoti l’appellativo di Pietro del Morrone.
Il 5 luglio 1294 fu designato dal conclave riunito a Perugia come successore di Niccolò IV, la cui morte (1292) aveva lasciato la sede vacante per più di due anni. Dall’eremo di Sant’Onofrio al Morrone nel quale s’era ritirato, Pietro, a dorso di un asino e avendo come palafrenieri re Carlo II d’Angiò e il figlio, mosse alla volta di L’Aquila. Il 29 agosto 1294 nella basilica di Collemaggio fu incoronato Papa. Alla cerimonia partecipò una folla enorme composta - secondo le antiche fonti - da più di duecentomila persone, che ricevettero dal nuovo pontefice un dono straordinario: quanti - confessati e sinceramente pentiti, dai vespri del 28 agosto fino ai vespri del giorno 29, festa di san Giovanni Battista - avessero visitato devotamente Collemaggio, avrebbero ricevuto contemporaneamente la remissione dei peccati e l’assoluzione dalla pena.
Fino ad allora l’indulgenza plenaria era stata concessa solo a favore dei crociati in partenza per la Terra Santa e ai pellegrini che si recavano alla Porziuncola di Assisi. Spesso era privilegio dei ricchi, che in cambio di sostanziose elemosine chiedevano almeno la remissione parziale dei peccati. All’Aquila invece il Perdono sarebbe stato rinnovato annualmente e concesso anche a poveri e diseredati. L’indulgenza celestiniana apparve da subito nella sua valenza spirituale ma anche nel suo significato politico, tale da accrescere il prestigio civile ed economico della giovani città abruzzese.
Il 29 settembre la cancelleria papale formalizzò la concessione di Celestino V con l’emanazione di una bolla affidata all’autorità civile della città, che ne garantì la conservazione, avocando a sé anche il diritto sulla cerimonia del Perdono, alla quale le autorità religiose erano soltanto invitate a partecipare.
Ogni anno dunque, a seguito della Bolla di Celestino, il 29 agosto la porta viene aperta. La prima celebrazione solenne ebbe luogo nel 1295, contro la volontà di Bonifacio VIII, pontefice in carica, che tentò di annullare l’indulgenza celestiniana con una bolla emanata il 18 agosto 1295. I fedeli, i monaci di Collemaggio e l’autorità civile non si curarono del provvedimento di Bonifacio e rifiutandosi di consegnargli la Bolla si adoperarono perché la cerimonia avesse il risalto che le si confaceva.
La cerimonia del Perdono - solo con termine moderno chiamata Perdonanza - si arricchì ancor più dopo il 1327, quando le spoglie di Celestino furono traslate da Ferentino (Frosinone) a Collemaggio e le sue reliquie mostrate al popolo. Nel XV secolo invalse l’uso di entrare in Collemaggio attraverso la Porta Santa sul fianco sinistro dell’edificio, secondo quanto avveniva nelle basiliche patriarcali romane in occasione del Giubileo, indetto per la prima volta nel 1300 da Bonifacio VIII.
* Avvenire, 29.08.2007
DEVOZIONE POPOLARE
Riconciliazione ed Eucaristia: pellegrini e penitenti hanno affollato la basilica di Collemaggio. Stasera la chiusura con l’arcivescovo Molinari: «Rinnoviamo ogni giorno la festa della conversione»
L’Aquila apre con Sepe la Porta Santa del perdono
L’arcivescovo di Napoli ieri ha dato il via alla «Grande Indulgenza» concessa da Celestino V nel 1294
Da L’Aquila Claudio Tracanna (Avvenire, 29.08.2007)
«È il Signore stesso che ci invita alla riconciliazione e al perdono. Egli sta alla porta della nostra vita e bussa, chiedendo di entrare per offrirci il dono della sua presenza e del suo amore. La porta è aperta, anzi parafrasando il servo di Dio Giovanni Paolo II, è spalancata!». Con queste parole l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe, ha aperto - ieri pomeriggio, davanti a una grande folla - i battenti della Porta Santa della basilica di Santa Maria di Collemaggio dando così inizio alla Grande Indulgenza concessa da Celestino V nel 1294. Il rito d’apertura della Porta Santa e la Messa - presieduta dallo stesso Sepe e animata dal coro diocesano dell’Aquila - si sono svolti dopo il «Corteo storico della Bolla di san Celestino V», preceduto a sua volta dalla lettura della Bolla da parte del sindaco della città abruzzese, Massimo Cialente.
Il corteo storico, partito alle ore 15, e il rito celebrato da Sepe alle 18 hanno fatto da solenne, partecipato prologo a una fitta serie di celebrazioni in basilica: alle 21 la Perdonanza scout con la Messa presieduta da don Dino Ingrao, assistente ecclesiastico degli scout; alle 22 la Perdonanza degli sportivi con la Messa presieduta da don Danilo Priori, assistente provinciale del Csi; alle 23 la Perdonanza giovani con la Messa presieduta da don Dante Di Nardo, vicario episcopale per la pastorale; alle 24 infine la veglia dei giovani.
Ma torniamo a Sepe che nel corso del rito si è soffermato sulla ricchezza della simbologia della porta. «In verità vi dico: io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo», si legge nel Vangelo di Giovanni. «Solo Cristo è il Signore e Salvatore. Gli altri che vogliono sostituirsi a lui, sono ladri e briganti che non vengono "se non per rubare, uccidere e distruggere" - ha commentato Sepe attingendo ancora al Vangelo di Giovanni -. Anche oggi dobbiamo constatare la presenza di tanti che, come ladri e briganti, tentano di rubarci la fede, di uccidere la nostra identità cristiana, di distruggere la nostra dignità umana e sociale. Ladri e briganti sono quelli che si vestono dei panni di uno sfrenato materialismo, e tentano di pervadere le nostre menti, i nostri cuori, la nostra volontà; di entrare nella nostra vita, svuotando di senso la nostra esistenza, di dissolvere la nostra libertà; di chiudere gli orizzonti soprannaturali, impedendoci ogni gesto di amore e di solidarietà verso i nostri fratelli più bisognosi, provocando solo sofferenza e morte. Non diversamente da quelli di Celestino - ha aggiunto - anche i nostri giorni hanno fame e sete di riconciliazione. È il dramma, il grande e spesso inesplicabile dramma dei nostri tempi, questa mancanza di pace che dalle coscienze si riversa e quasi esplode all’esterno... Quel che è più grave, è il fatto che anche noi cristiani non sempre, pur disponendo di questa pace, siamo in grado di offrirla, di metterla al centro del nostro pensare e agire. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. I sintomi di un forte malessere sociale esistono tutti».
Stasera alle 18 l’arcivescovo dell’Aquila, Giuseppe Molinari, celebrerà la Messa di conclusione della Perdonanza celestiniana. Ciò al termine di una giornata che vedrà la basilica accogliere fin dall’alba (la Messa dell’aurora con don Osman Prada alle 6,30) una fitta serie di celebrazioni - come quella delle 15, la Perdonanza dei malati, la Messa con l’Unzione degli infermi presieduta dal vescovo emerito di Volterra, Vasco Giuseppe Bertelli. Ma il flusso dei pellegrini e dei penitenti non si è fermato nemmeno stanotte. Migliaia di fedeli si sono accostati al sacramento della Riconciliazione.
«Oggi - spiega Molinari - abbiamo tutti la sciocca convinzione di essere giusti, come il figlio maggiore della parabola del figliol prodigo, che non seppe chiedere perdono e non entrò nella sala della festa approntata dal padre misericordioso. San Celestino ci aiuta a entrare e rimanere ogni giorno nella festa della conversione. Questa è la Perdonanza celestiniana».
L’intramontabile attualità del perdono
Una parola più potente di ogni debolezza umana
di Francesco D’Agostino (Avvenire, 28.08.2007)
«Perdonate sempre, perdonate tutti»: così, nei Fratelli Karamazov, Dostoevskij riassume il messaggio pastorale dello starec Zosima, il maestro spirituale del più giovane dei Karamazov, Alioscia. È un messaggio che pervade in forme sottili tutto il romanzo e che assume un’impressionante evidenza nella conclusione, quando Dimitri Karamazov, prima imputato e poi ingiustamente condannato per parricidio, giunge tra indicibili sofferenze spirituali ad accettare la pena che gli è stata comminata e si dispone ad espiare fino in fondo una colpa che non ha commesso. Perché il perdono è anche e soprattutto questo: non semplicemente tollerare le altrui violenze, rimuovere lo sgradevole ricordo delle ingiustizie a torto subite, riconoscere le ragioni che possano giustificare le azioni malvagie che ci hanno colpito, ma percepire lucidamente, nella loro esatta rilevanza, le colpe altrui e prenderle su di sé, facendosene carico fino in fondo, con tanta maggiore determinazione, quanto più si ha la certezza che si tratta di colpe gravi, ingiustificabili, imperdonabili. È assurdo pensare al perdono in questi termini? Eppure, il perdono che Dio ha concesso agli uomini, la sua grazia, è stato assurdo nella sua immensità e ha avuto un prezzo immenso: la croce.
È per questo che, per chi si collochi al di fuori della prospettiva della croce, è ben difficile non solo parlare di perdono, ma addirittura riuscire a concettualizzare questo concetto. Si racconta che crollato il nazismo, il grande filosofo esistenzialista Karl Jaspers venne invitato a tornare in Germania, per contribuire alla ricostruzione morale del suo paese, dal quale si era consapevolmente autoesiliato durante gli anni del dominio hitleriano. Dopo un sofferto dibattito interiore, egli declinò l’invito e finì per stabilirsi in Svizzera. Come poteva tornare a vivere in mezzo al popolo tedesco, perdonandogli le sue follie, le violenze, le guerre, l’ olocausto? Per quanto in genere vengano rimosse, domande di questo genere cont inuano a ripresentarsi in forme piene di angoscia: come perdonare l’imperdonabile? Esistono -e come attivarle, se esistono- forze puramente umane, che possano indurre al perdono? E cosa può rendere davvero credibile il perdono?
Potrebbe sembrare che, essendo questa la questione centrale che agita gli spiriti di coloro che in questi giorni prendono parte, all’Aquila, alla 713ª Perdonanza celestiniana, drammatica e lacerante debba essere anche il carattere di questa singolare manifestazione. E’ certamente così, perché il tema del perdono è costantemente preso sul serio, in tutti i numerosi eventi in cui si articola il suo programma (e in particolare nel convegno giuridico che si è svolto sabato 25 agosto presso il Palazzetto dei Nobili sul tema "Il perdono e la pena"). Ma i nodi drammatici che inevitabilmente si evocano, quando si parla di colpa e di perdono, all’Aquila sembrano stemperarsi.
La Perdonanza infatti vive non tanto grazie all’impegno concettuale e pastorale di generosi intellettuali e di parimenti volenterosi predicatori, ma a partire dalla memoria storica di Celestino V. Se mancasse il ricordo di Celestino V e della sua santità, se mancasse la sintesi tra annuncio della parola e vangelo del perdono, la Perdonanza si estrinsecherebbe in una serie sconnessa, anche se prestigiosa, di singoli e lodevoli eventi religiosi, artistici, culturali. La Perdonanza è certamente tutto questo, ma nello stesso tempo molto più di tutto questo: è in primo luogo un affidarsi a Dio e alla sua misericordia, nella speranza e nella fede che tramite questo affidamento può darsi spazio alla carità. Ancora oggi la Perdonanza è testimonianza di una convinzione di cui il mondo non può fare a meno, se vuole sopravvivere: quella di chi crede che il male non riuscirà mai a prevalere sul bene e quella di chi spera che l’ultima parola della storia non sarà mai una parola né di vendetta, né di pena, ma di perdono.