«Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò, il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue. Mi fermai, mi appoggiai stanco morto ad un recinto. Sul fiordo neroazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco. I miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura... e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura.» (E. Munch).
PILATO Antonio, pittore: "Geni in bottiglia. L’impotenza del pensiero", 21.05.2005] -> cfr. foto-riproduzioni, sotto
Materiali per una eventuale buona-riflessione:
A
L’ACQUA VIVA DEL BUON-MESSAGGIO E LE BUONE-RELAZIONI "IN BOTTIGLIA"!!!
La Samaritana
[...] 3 Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6 qui c`era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno.
7 Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: "Dammi da bere". 8 I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. 9 Ma la Samaritana gli disse: "Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?". I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani.
10 Gesù le rispose: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva". 11 Gli disse la donna: "Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest`acqua viva? 12 Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?".
13 Rispose Gesù: "Chiunque beve di quest`acqua avrà di nuovo sete; 14 ma chi beve dell`acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l`acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna". 15 "Signore, gli disse la donna, dammi di quest`acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua". 16 Le disse: "Và a chiamare tuo marito e poi ritorna qui". 17 Rispose la donna: "Non ho marito". Le disse Gesù: "Hai detto bene "non ho marito"; 18 infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero". 19 Gli replicò la donna: "Signore, vedo che tu sei un profeta. 20 I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare".
21 Gesù le dice: "Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. 22 Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23 Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. 24 Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità".
25 Gli rispose la donna: "So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa". 26 Le disse Gesù: "Sono io, che ti parlo". 27 In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: "Che desideri?", o: "Perché parli con lei?".
28 La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: 29 "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?". 30 Uscirono allora dalla città e andavano da lui. (Giovanni, 4, 3-30)
B
LA DIFFUSIONE GENERALE DELL’INVIDIA E LA PAURA DI PERDERE IL "TRONO" E L’ "ALTARE" (A GERUSALEMME, COME A ROMA) E L’ACQUA DI PONZIO PILATO
Gesù davanti a Pilato
[...] 11 Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore l`interrogò dicendo: "Sei tu il re dei Giudei?". Gesù rispose "Tu lo dici". 12 E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani, non rispondeva nulla. 13 Allora Pilato gli disse: "Non senti quante cose attestano contro di te?". 14 Ma Gesù non gli rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore.
15 Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. 16 Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. 17 Mentre quindi si trovavano riuniti, Pilato disse loro: "Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?". 18 Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia. 19 Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: "Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua". 20 Ma i sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a richiedere Barabba e a far morire Gesù.
21 Allora il governatore domandò: "Chi dei due volete che vi rilasci?". Quelli risposero: "Barabba!". 22 Disse loro Pilato: "Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?". Tutti gli risposero: "Sia crocifisso!". 23 Ed egli aggiunse: "Ma che male ha fatto?". Essi allora urlarono: "Sia crocifisso!". 24 Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell`acqua, si lavò le mani davanti alla folla: "Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!". 25 E tutto il popolo rispose: "Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli". 26 Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso.
27 Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. 28 Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto 29 e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano: "Salve, re dei Giudei!". 30 E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. 31 Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero indossare i suoi vestiti e lo portarono via per crocifiggerlo.
(Matteo, 27, 11-30)
Federico La Sala (22.06.2007)
Presentazione critica
di Fulvio Papi *
Antonio Pilato si avventura molto felicemente in una pittura che vuole essere una rappresentazione (vor-stollen, mettere davanti) di eventi del mondo secondo una vocazione narrativa che solo un percepire morale può instaurare nella sua energia espressiva.
Abituati ai numerosi collassi manierista, all’aggressività di superficie, o a segni inevitabilmente ridotti nell’angolo della decorazione, questa pittura evoca e, in certo senso impone, un referente etico comune, conferendo all’ esperienza estetica un approdo ulteriore. L’immagine si trasfigura nella comprensione emotiva, così che guardare questi lavori espone al giusto rischio che appaiano sentimenti e propositi tacitati spesso dallo scorrere sordo dell’essere.
Il tema di Pilato è l’insieme delle tracce, tracce devastanti del prendere un mare infido per una speranza, devota nel cuore, fragilissima nel mondo. A fronte di queste rappresentazioni del migrare torna alla memoria, in un contesto differente, il sintagma celebre di Primo Levi “se questo è un uomo”.
Azzardando astrazioni direi che la pittura di Antonio Pilato appartiene al continente del solo realismo possibile, quello che non parla con il lessico dell’amministrazione quotidiana, ma educa a vedere come si deve vedere (l’ “ infanzia negata” é il degrado di una figura chiusa, priva di ogni gestualità, propria di quegli anni: una figura che vive nella sua stasi tale che evoca altra specie vivente). E gli altri bambini, angeli senza cielo, abbandonati sulla riva con la memoria o la visione di un viaggio che ha il peso del destino.
Dovrei parlare del colore di Pilato: una tavolozza che ha preso tale confidenza con le sue risorse da costruire scene che catturano lo sguardo: sfondi paralizzanti, cieli crudeli, mari senza luce, ricchezze senza amore. E non vorrei dimenticare la “carretta della speranza”, dove la distribuzione del colore nel variare del sua dovizia, delle apparizioni, delle luci, fa persino evocare un tratto di felicità, quello del partire, dell’abbandonare la sorte già prefigurata, la morte quotidiana, per aprirsi a una storia incognita, per lo più pericolosa, ma ancora invisibile e assente.
Dicevo del realismo etico, possibile solo per l’arte sapiente del colore, capace di divenire una profonda inquietudine che seleziona lo sguardo, lo coinvolge e, un poco come è questo, lo opprime.
*
MILANO,
Circolo della Stampa - Sala Lanfranchi,
Palazzo Serbelloni - Corso Venezia 16,
7-14 marzo 2009, MOSTRA DI PITTURA,
DISPERAZIONE E FUGA DI ANTONIO PILATO,
Presentazione critica
FULVIO PAPI
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ... ***
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli) ! Hai ragione : "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo !
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’« omuncolo » di qualche "uomo supremo" o “superuomo” !) :
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO ?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi ?!
Che vogliamo fare ? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca) ?!
* Discorso sulla dignità dell’uomo.
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
***
Federico La Sala "Fondazione Terra d’Otranto", 01/03/2020).
MICHELANGELO E KANT: IL CIELO STELLATO, LA LEGGE MORALE, E LA PIETA RONDANINI
La Pietà Rondanini sotto al cielo stellato di Mario Cresci *
Un unico blocco di pietra, denso, avvolgente, dai dettagli a volte appena sbozzati, altri dolcemente rifiniti, dove le figure della Madonna e di Cristo si confondono: è la Pietà Rondanini, l’ultima opera di Michelangelo alla quale lo scultore ha lavorato fino al 1564, pochi giorni prima di morire.
Oggi questo capolavoro è reinventato dalla macchina fotografica di Mario Cresci (Chiavari, Genova, 1942) in un percorso esposto a Milano, nelle Sale dell’Antico Ospedale Spagnolo del Castello Sforzesco (dove l’opera risiede dal 2 maggio 2015), dal titolo Mario Cresci in aliam figuram mutare. Interazioni con la Pietà Rondanini di Michelangelo (fino al 25 settembre).
Il progetto di Mario Cresci è intitolato all’auxilium (l’aiuto) e gravita intorno alla luce come creazione del cosmo, al movimento e alla materia che è scabra, spezzata e tenue, materia che diventa figura.
Nella chiave di lettura di Cresci l’auxilium, la misericordia di questa nuova Pietà, va oltre ed è rivolta ad altri volti fotografati e coperti da luccicanti coperte termiche, quelle con cui si avvolgono i naufraghi: sono i visi coperti dei migranti a cui dovrebbe andare tutta la nostra pietas e il nostro auxilium. Per noi. Per tutta l’umanità.
*
Su «la Lettura» #246, numero speciale di Ferragosto in edicola dal 13 al 21 agosto, un articolo di ARTURO CARLO QUINTAVALLE racconta la mostra al Castello Sforzesco.
In questo percorso per immagini (a cura di Jessica Chia) alcuni scatti di Mario Cresci esposti a Milano
INTORNO AL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA .... DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO.
"IL CIELO STELLATO SOPRA DI ME E LA LEGGE MORALE IN ME": ESSERE GIUSTI CON KANT. La lezione di Michel Foucault e la sorpresa di Habermas.
Lo spettacolo del disumano
di Flore Murard-Yovanovitch *
C’è qualcosa di osceno a fissare la foto della barca che si rovescia in diretta. Fissare quell’istante in cui uomini, donne, neonati colano a picco sotto i nostri occhi. Quell’istante. Di coscienza immediatamente sommersa dall’illusione del fatalismo dei naufraghi, dalle altre notizie.
Quella foto, come per quella immaginata per gli altri circa 20.000 o molto di più desaparecidos scomparsi e fatti sparire in vent’anni nel cimitero Mediterraneo. In un non meglio precisato "al largo della Libia", come scrivono ormai tutti i giornalisti, senza ulteriore precisazione, come se la localizzazione di un naufragio fosse in sé anche inutile fantasma.
La fossa comune allora è quell’istante, dove la barca cola picco. Alcuni si gettano, alcuni urtano con la testa la barca, altri rimangono imprigionati nella stiva soffocati. Quell’istante in cui cola a picco. E desensibilizza, anestetizza, in quell’odierna anestesia della sensibilità umana collettiva. Una gigantesca anestesia storica. Già annunciata da Susan Sontag, ma oggi essa ha fatto un passo ulteriore, con l’era tecnologica digitale, l’era di Facebook, dei social network e della stra mediatica rivoluzione migratoria.
Quella foto svela questo spettacolo del disumano, al quale siamo ormai più che assuefatti. Dietro gli schermi anaffettivi, dove ognuno, per sé, clicca, condivide, invia foto, denuncia, numeri, notizie, cercando di dominare l’ineluttabile rabbia: quella di non essere in grado di fermare la barbarie. Mentre nessuna barca sarà mai salvata da uno schermo.
Il lancinante fotografare, narrare, svelare il filo spinato, le sbarre, gli abusi sui profughi, non sarebbe, allora, a parte il ruolo chiave che ricoprirà per le successive e future indagine degli storici, controproducente? Creando assuefazione a non (re)agire. Quella che in realtà condividiamo in un cerchio ipnotico, non è solo quell’immagine, ma la nostra incapacità di reagire. E se la foto del piccolo Aylan non era riuscita ad accendere una rivolta politica contro i nostri governi che permettono e lucidamente prendono decisioni disumane anti-profughi. Se lasciamo spiaggiare a qualche miglia, ogni giorno, neonati, come allora, questa foto dell’istante della barca potrà mai accendere una sollevazione contro i responsabili leader, contro il Trattato con la Turchia, il Migration Compact, la Commissione europea, e Frontex?
Lasceremo quella barca rovesciarsi oggi come ieri e domani ancora. Sotto nostri occhi. Quella foto dovrebbe invece innescare una lotta frontale per fare sparire il disumano e distruggere quello che ci distrugge. Perché non illudiamoci: siamo anche noi i naufragati. Questa foto non sono solo i profughi annegati, è la nostra umanità colata a picco nel Mediterraneo. È lo spettacolo del nostro disumano. Corridoi umanitari e legali subito.
* L’ Huffington Post, 30.05.2016 (ripresa parziale).
Che ci fa un artista a Lesbos
di Giuseppe Frangi (Vita, 05.01.2016)
Ai Weiwei, grande protagonista dell’arte di oggi, cinese, ha deciso di aprire uno studio nell’isola dei migranti. Ci lavorerà con una decina di allievi. Ecco i perché di questa sua scelta
Ha passato il capodanno a Lesbos, l’isola greca vicina alla costa turca dove da mesi continua lo sbarco di migliaia di migranti. Ha documentato la sua esperienza con decine di foto su Instagram. E ora ha annunciato qualcosa di più: installare nell’isola uno studio in cui lavorare a progetti sull’epopea umana dell’immigrazione, realizzando tra l’altro un memoriale. Lui è Ai Weiwei, artista cinese, tra i più popolari e mediatici del nostro tempo. Un artista che ha sempre messo al centro della sua creatività i diritti umani, essendo lui stesso una vittima: qualche anno fa venne incarcerato dalle autorità cinesi, con l’imputazione di aver fatto gli interessi delle potenze imperialistiche.
Oggi Ai Weiwei ha riavuto dopo anni il passaporto, si divide tra Berlino, dove abita su figlio, e Pechino e ha potuto mettere in campo alcuni grandi progetti, come una mostra alla Royal Academy di Londra e un’altra Melbourne che hanno affascinato migliaia di visitatori.
Quello che colpisce in Ai Weiwei è un’attenzione non ideologica al tema dei diritti umani. Al centro delle sue opere c’è sempre la persona, l’esperienza drammatica dei singoli. Lo si è visto a Lesbos, dove la documentazione è quella di un uomo che vuole condividere le attese e le speranze dei migranti. Le immagini che ha mandato in giro per il mondo lo vedono dialogare e far festa con loro? Per Ai Weiwei la costruzione di una relazione è infatti la premessa indispensabile alla base di qualsiasi processo creativo.
Lo si era visto anche in occasione del terribile terremoto che aveva colpito la provincia del Wenchuan nel 2008. Allora aveva scoperto che seimila bambini erano morti sotto le macerie di scuole costruite con materiali non adeguati. Aveva raccolto tutti i materiali documentativi, aveva condiviso dolore e testimonianze dei genitori delle vittime e alla fine aveva prodotto una drammatica installazione, che si può vedere alla mostra londinese, composta dalle sbarre di acciaio che avevano cedute alle scosse, in quanto non a norma.
Per questo Ai Weiwei è l’emblema della figura di artista di oggi: che sa unire poesia, innovazione nella ricerca e attenzione non schematica alle emergenze umane e sociali, come il caso della sua presenza a Lesbos conferma e ancor più confermerà una volta che se ne conosceranno gli esiti creativi.
I due geni della pittura. Van Gogh e Munch
Le stelle stanno a guardare
Al Museo che Amsterdam dedica al suo illustre artista un match a colpi di capolavori da cui affiora una comune sensibilità
di Fiorella Minervino (La Stampa, 19.12.2015)
Due giganti a confronto: Van Gogh e Munch per la prima volta fianco a fianco per raccontare le affinità che li legano in una mostra ricca di ben 80 dipinti e 30 lavori su carta, realizzata grazie anche al Museo Munch di Oslo e a 25 prestatori. Sono i due artisti che forse meglio hanno saputo scavare nel proprio animo turbato, anticipando angosce, paure, incubi dell’intero ’900.
Dieci anni li separano nella nascita, Vincent vide la luce a Groot-Zundert nel 1853, Edvard ad Oslo nel 1863, tuttavia le esperienze corrono parallele, molto li unisce anche se probabilmente mai si incontrarono. L’esordio artistico risale per entrambi al 1880 nella scia dei pittori naturalisti, ma subito avvertono l’esigenza di stili personali e temi cari al realismo.
La panoramica prende l’avvio dai famosi Mangiatori di patate 1885, e da Il mattino 1884: i dipinti fecero scandalo, quello di Munch con la ragazza ai bordi del letto per la crudezza del racconto, quello di Van Gogh per le mani callose, i volti scavati dalla fatica, l’atmosfera cupa dei contadini a tavola.
I due, desiderosi di libertà e novità, partono entrambi per Parigi, il centro delle avanguardie artistiche internazionali di primo ’900 e frequentano talora gli stessi ambienti e artisti, Gauguin, Bernard e così via. Ciascuno vuol trasformare il linguaggio dell’arte, anzi rivoluzionarlo per dare corpo a sentimenti universali, semmai offrire risposte alle domande comuni, rendere l’esistenza umana in tutti gli aspetti, dai più duri ai più alti, meglio se a contatto della natura.
Nascono così i cicli di nascita e morte, le stagioni, la paura, la sofferenza, l’amore e la speranza: in una vasta sala si succedono opere prodigiose, suddivise per tali temi, come del resto le numerose lettere esposte in vetrine dove entrambi spiegano il proprio lavoro.
Ecco allora la Fanciulla malata e Madonna di Munch, vicini a La berceuse di Van Gogh, poi Campo di grano sotto un cielo nuvoloso di Edvard, accanto al Giardino dell’ospedale di Vincent. I loro linguaggi esasperati cercano l’espressione più profonda nei colori e nelle pennellate: alle linee ondulanti, corpose dell’olandese, capaci fin di agitarsi sulla tela per catturare i gialli del Sud di Francia, corrispondono i rossi e le atmosfere soffocanti, dalle prospettive e inquadrature ribaltate, e dalle mirabili semplificazioni formali del norvegese.
Se i celebri Girasoli turbano l’osservatore, l’Urlo ne sconvolge l’animo catturandone sgomento e impotenza. I due amano il mare, i fiumi dai fragili ponti in legno con giovani donne appena delineate, prediligono le serie, i dipinti in successione che definiscono «sinfonie»: per Munch è il possente Fregio della vita (vi lavora sino alla morte nel 1944) a narrare l’esistenza come una danza animata da figure eloquenti, volti sintetizzati e colori simbolici come l’abito candido della fanciulla, il rosso della passione al centro, mentre i blu e i bruni della vecchia sottolineano i lineamenti sfatti. Per Van Gogh è invece La casa gialla ad Arles che chiamava «decorazione», come la famosa Camera da letto 1888.
«Realizziamo ora un nostro lungo sogno, anche con il nuovo ingresso al museo, in occasione dei 125 anni dalla morte del pittore», ha dichiarato all’inaugurazione il direttore Axel Rueger del museo di Amsterdam, poi con la curatrice Malte Van Dijk (classe 1982) ha tolto i teli che coprivano due capolavori accostati all’ultimo piano, salutati da performances e musiche: sono le Notti stellate, l’una sul Rodano nel 1888, l’altra a Oslo nel 1924. Medesima è la lontananza dalle minuscole città illuminate sul fondo sotto il potente cielo blu; entrambi paiono voler afferrare le stelle, Van Gogh le crea lucenti nell’acqua, sfavillanti, quasi in movimento. Gli astri di Munch paiono dei pianeti, se non sogni, con l’ombra lunga d’un uomo sulla neve, fuori dalla sua casa.
Presepe nella barca dei migranti, Francesco: "Non è facile perdonare queste stragi" *
"Invito ad aprire il vostro cuore alla misericordia e al perdono... ma non è facile perdonare queste stragi! Non è facile". Papa Francesco si rivolge con queste parole ai migranti e ai rifugiati che sono ad Assisi, per la cerimonia di accensione del presepe e dell’albero di Natale, in videocollegamento con il Vaticano. "Gesù sempre è con noi, anche nei momenti difficili - ricorda il Papa - Quanti fratelli e sorelle sono annegati nel mare... e ora sono con il Signore. Lui è venuto per darci speranza, per dirci che Lui è più forte della morte, che Lui è più grande di ogni malvagità, che Lui è misericordioso". La terra italiana ha ricevuto tanto generosamente i migranti e i rifugiati. Il Sud Italia è stato un esempio di accoglienza e di solidarietà per tutto il mondo", dice ancora il Papa. Che ringrazia poi la Guardia Costiera italiana: "Sono donne e uomini bravi, che ringrazio di cuore. Siete stati strumento della speranza che porta Gesù. Voi siete stati fra di noi seminatori di speranza". Poi esorta i migranti e i rifugiati: "Pur con il cuore addolorato, abbiate la testa alta, nella speranza del Signore".
"E’ un presepe che ha un significato molto profondo, molto forte: una barca sequestrata agli scafisti che ha trasportato diversi migranti e profughi, nella quale sarà collocata la Natività", ricorda su Radio Vaticana padre Enzo Fortunato, portavoce del Sacro Convento di Assisi.
"Il senso di tutto questo, come ha spiegato il custode padre Mauro Gambetti, è superare la logica dei confini, per immaginarci in una logica di spazi aperti, dove regna la condivisione, non solo materiale ma anche culturale e spirituale".
Dopo la benedizione del presepe di Assisi da parte di monsignor Georg Gaenswein, alla presenza di una trentina di migranti provenienti dal Camerun, dalla Siria e dalla Nigeria, il momento centrale sarà il collegamento in diretta dal Vaticano con Papa Francesco.
"Si sottolinea così il profondo legame tra San Francesco di Assisi e la Chiesa di Roma, tra San Francesco di Assisi e Papa Francesco. Vorrei quasi che immaginassimo spiritualmente che Papa Francesco sia in dialogo con San Francesco e viceversa - osserva padre Fortunato - In fondo, è come riproporre quell’immagine che già molti di noi hanno avuto modo di vedere: quando Papa Francesco si inginocchiò davanti a San Francesco e i suoi occhi lucidi dissero più di tante nostre povere parole".
*
Speciale Giubileo /AdnKronos, 06/12/2015 - (ripresa parziale).
BRERART. Settimana dell’Arte Contemporanea a Milano dal 23 al 27 ottobre 2013
Antonio Pilato
Antonio Pilato nasce a Grotte, paese della provincia di Agrigento, in cui prestissimo non resta indifferente davanti alle problematiche esistenziali angoscianti degli oppressi, di pirandelliana memoria ed evocati dallo scrittore L. Sciascia, che conosce personalmente e di cui sente il respiro sofferente dei personaggi delle zolfare e dei “carusi”, durante i brevi incontri estivi a Racalmuto. Frequenta, da pendolare, per alcuni anni l’accademia di Palermo, ma mal sopportando l’impostazione didattica, che non tarda a definire pedante e carceraria, e per le nuove esigenze sopravvenute di carattere spirituale si scrive nella facoltà di pedagogia e filosofia, dove si laurea con la tesi su “I problemi di estetica in Croce”.
Trasferitosi a Milano nel “76/”77, alterna l’insegnamento della filosofia e della pedagogia negli Istituti superiori, con la frequenza saltuaria del libero corso di composizione a Brera; dove stringe rapporti di amicizia di lunga durata con Migneco, suo conterraneo e con L. Veronesi, coi quali matura il meglio del processo di sintesi linguistica e formale,consona alla sua originale personalità.
Simbologia dei contenuti: gli squali simboleggiano i pericolosi ostacoli naturali, animali e umani, che mettono a rischio anche la vita, non solo per mare ma anche per terra, di chi fugge dai luoghi dell’oppressione e della miseria.
Linguaggio “La mia pittura è la voce del sentimento , fatta di linee, colori , forme calligrafiche liberamente ed emotivamente concepite, fissate nei contorni , lasciati aperti all’intuizione ritmica della dinamica spaziale che va oltre il limite del quadro, dall’abilità e spontaneità della mano che domina il segno. A prima vista le immagini sembrano ripetersi , in verità variano negli spazi e nei colori luninosi , e rappresentano idee simboliche, che pur ispirati alla realtà, acquistano un carattere di assoluta libertà introspettiva.
Spiegazione della tematica Gli immigrati (denominati comunemente clandestini) e i perseguitati politici, pagando ai trafficanti di esseri umani un prezzo di faticosi sacrifici, non perdono il coraggio di affrontare e superare qualsiasi pericolo, per mare e per terra, a rischio della vita, così anche i pregiudizi e impedimenti istituzionali dei paesi in cui approdano, fortemente spinti dalla speranza di una vita più degna di essere vissuta, rispetto a quella di provenienza. Antonio Pilato docente di filosofia e pedagogia.
Date ed Orari:
da Mercoledì, 23 Ottobre, 2013 (Tutto il Giorno) a Domenica, 27 Ottobre, 2013 (Tutto il Giorno)
* FONTE: BRERART: http://brerart.com/it/content/338/antonio-pilato
Ciò che i governi hanno taciuto
di Furio Colombo (il Fatto Quotidiano, 9 luglio 2013)
“Ha gettato fiori sul mare per ricordare i morti fantasma”, hanno scritto molti giornali per parlare della visita di papa Francesco a Lampedusa. Nessuno ha voluto dire senza ipocrisia che nel Mediterraneo non si muore per la violenza della natura o per la crudeltà del destino, ma a causa di un accurato piano elaborato con coscienza di causa (pena di morte) di un governo italiano. Lo ha detto il Papa dall’altare costruito alla buona, con legno di barche affondate, rivolto a chi comanda, a qualunque grado di responsabilità: “Per favore, non fatelo più”.
Non c’era aria da cerimonia o l’astuzia di dire cose buone. C’era verità e dolore del primo Papa che ha scelto di accorgersi che i profughi, i rifugiati, i migranti morti in mare non sono le dolorose vittime di una disgrazia. Sono morti ammazzati.
Ricordate? C’erano, in base a un trattato, veloci e armate motovedette italiane, con marinai italiani e ufficiali o poliziotti libici con il compito di “respingere”, negando non solo le leggi umanitarie, ma i doveri del mare. Finalmente si è saputo con chiarezza il numero: “almeno” 20 mila morti. Che vuol dire uomini e donne giovani, mamme incinte, adolescenti, bambini, che stavano fuggendo da guerre, persecuzioni e fame credendo che l’Italia fosse un Paese civile. Ma l’Italia era un Paese governato da Maroni e da Berlusconi, firmatari del tragico patto con la Libia.
Sapevamo, prima del Papa, che gli annegati a causa del nostro governo leghista, affarista, indifferente, crudele e stupido, erano “almeno” 20 mila? Lo sapevamo. Lo aveva detto Laura Boldrini, allora coraggiosa portavoce dell’Onu, al Comitato per i diritti umani della Camera dei deputati che io presiedevo. Lo aveva detto e testimoniato il solo deputato del Pd che era venuto con me a Lampedusa, Andrea Sarubbi (prontamente non più ricandidato). Lo avevano detto i sei deputati Radicali che non avevano smesso mai di denunciare con allarme ciò che stava accadendo.
Purtroppo i media hanno taciuto temendo il potere vendicativo Maroni-Berlusconi. Per questo dobbiamo dire grazie al Papa. Con un calice e una croce di legno e un timone ripescato dal mare accanto, ha detto, lui capo di un altro Stato, ciò che nessun italiano, inclusi i presunti buoni, aveva mai detto: “Per favore, per favore, non fatelo più”.
La grazia di piangere
di papa Francesco (Avvenire, 9 luglio 2013)
Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di speranza sono state una via di morte. Così il titolo dei giornali. Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui, oggi, a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Non si ripeta, per favore. Prima, però, vorrei dire una parola di sincera gratitudine e di incoraggiamento a voi, abitanti di Lampedusa e Linosa, alle associazioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà! Grazie! Grazie anche all’arcivescovo monsignor Francesco Montenegro per il suo aiuto, il suo lavoro e la sua vicinanza pastorale. Saluto cordialmente il sindaco signora Giusi Nicolini, grazie tanto per quello che lei ha fatto e che fa. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che, oggi, alla sera, stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie. A voi: o’ scià!
Questa mattina, alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei proporre alcune parole che soprattutto provochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente certi atteggiamenti.
«Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei, Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello!
Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza! Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.
«Dov’è il tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio! E una volta ancora ringrazio voi abitanti di Lampedusa per la solidarietà. Ho sentito, recentemente, uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui sono passati per le mani dei trafficanti, coloro che sfruttano la povertà degli altri, queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto! E alcuni non sono riusciti ad arrivare.
«Dov’è il tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitanti della città di Fuente Ovejuna uccidono il governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il governatore?», tutti rispondono: « Fuente Ovejuna , Signore». Tutti e nessuno! Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?».
Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo ’poverino’, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto.
La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!
Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indifferenza ci rende tutti ’innominati’, responsabili senza nome e senza volto. «Adamo dove sei?», «Dov’è il tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo? ». Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie?
Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ’patire con’: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere! Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli... perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi... Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo. «Chi ha pianto?». Chi ha pianto oggi nel mondo?
Signore, in questa Liturgia, che è una Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e sorelle, ti chiediamo Padre perdono per chi si è accomodato e si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuore, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore! Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello? ».
Antonio Pilato
Dal 20 al 30 aprile al Centro Culturale di Durazzo (Albania).
Una nota sull’opera esposta
La poetica della pittura di Antonio Pilato apre uno squarcio nel “cielo di carta” del mondo. È una “feritoia”, ma è anche una “ferita”. Ferire se stessi per ferire il mondo. Infliggere alla carne lo squarcio che sacrifica, di se stessi, la parte più sublime.
Riappropriarsi della propria vita, quindi, anche a costo di essere costretti alla marginalità. Nutrirsi di marginalità. È solo ai margini della società che si possono conoscere, insieme all’abisso, opere splendide, opere nate nella consapevolezza, tutta beckettiana, che la massima aspirazione di un artista non possa che essere che lo scacco, la fuga. Il superamento. Essere e dichiararsi postumi.
Laddove ogni possibilità di comunicare è impossibile l’artista diventa colui che denuncia ogni illusione e ogni allucinazione ideologica e, rifiutando il linguaggio delle convenzioni, ha il coraggio di farsi carico di tale solitudine, di fallire fino in fondo. Per consegnare all’umanità, nuda e bruciante, la testimonianza della propria opera..(Salvo Sequenzia)
Edvard Munch
L’occhio dell’inquietudine
Un’imponente mostra al Centre Pompidou di Parigi ripercorre la produzione novecentesca dell’autore dell’Urlo. E si scopre che fu anche fotografo
di Francesco Poli (La Stampa, 17.10.2011)
Naturalmente, quando si va a visitare una mostra importante di Edvard Munch, ci si aspetta di vedere L’urlo , l’icona quintessenziale della solitudine e dell’angoscia dell’uomo moderno, ma questo capolavoro del 1893 è clamorosamente assente al Centre Pompidou. È vero che il quadro, dopo il furto del 2004 e il suo tribolato ritrovamento, è ormai bloccato nel suo museo di Oslo, ma non sono esposte neanche le altre versioni disegnate o in litografia. E credo che si tratti di una scelta voluta dai curatori per non fissare ancora una volta, in modo prevalente e troppo emblematico, l’attenzione sul periodo più celebrato della ricerca dell’artista norvegese, quello degli Anni 90 incentrato su Il fregio della vita , ciclo simbolico dedicato ai temi dell’amore, dell’angoscia e della morte. E in effetti l’intenzione di questa esposizione che presenta circa centoquaranta opere (tra dipinti, disegni, acquerelli, fotografie e anche una scultura e un breve filmato) è quella di sottolineare soprattutto la modernità di Munch, la sua appartenenza a pieno titolo anche alla ricerca più vitale del XX secolo. Il che vuol dire che Munch non deve essere solo considerato come un artista che (relativamente influenzato all’inizio da Van Gogh e Gauguin) si afferma come precursore e maestro dell’espressionismo con connotazioni simboliste specificamente nordiche.
È vero che i caratteri fondamentali della originalissima e drammatica espressività esistenziale della sua pittura si definiscono molto presto, ma è anche vero che, sia pure senza sostanziali soluzioni di continuità stilistica e senza rotture formali d’avanguardia, il suo linguaggio si evolve per decenni in presa diretta con lo spirito del tempo in termini di intensità e di profonda autenticità estetica, fino agli straordinari esiti della sua fase finale. In questo senso, diventa più significativo dell’anno di nascita (1863) quello della sua morte nel 1944, lo stesso della scomparsa di due altri grandi innovatori come Kandinskij e Mondrian. E allora si può comprendere il fascino tragicamente esistenziale (in cui risuona sempre l’eco lontana e ossessiva dell’ Urlo ) degli ultimi autoritratti, tra cui in particolare Tra il letto e l’orologio a pendolo , dove si vede in una stanza, in mezzo a questi due oggetti, la figura quasi fantasmatica del vecchio artista in piedi. E un dipinto di assoluta evidenza allo stesso tempo realistica e simbolica.
Per evidenziare la dimensione moderna della personalità dell’artista e della sua opera, i curatori Angela Lampe e Clément Chéroux, hanno articolato il percorso espositivo non in ordine cronologico ma per sezioni tematiche piuttosto variate. Le prime due sale mettono in scena un interessante confronto fra le versioni originali di celebri dipinti degli Anni 80/90 (tra cui La fanciulla malata , Pubertà , Le ragazze sul ponte , Il bacio , Vampiro ) e alcune delle rielaborazioni successive. Qui si può da un lato vedere l’evoluzione della pittura in termini sempre più fluidamente sintetici e cromaticamente accesi, e dall’altro riflettere sul senso di queste operazioni di reiterazione degli stessi temi sicuramente legate alla necessità di riattualizzare la scintilla delle emozioni creative più profonde, ma anche all’esigenza di soddisfare le richieste di mercato (secondo alcuni non benevoli critici).
In ogni caso la ripresa quasi ossessiva di composizioni precedenti era sicuramente un aspetto peculiare del processo operativo del pittore come dimostra la sala in cui è esposta una mirabile sequenza di variazioni della Donna che piange , del 1907/8. E a questo riguardo possiamo vedere anche una foto di una modella nuda in piedi, scattata dall’artista stesso. Ma questa è la sola foto usata come libero riferimento per un lavoro pittorico. Tutte le altre foto che Munch ha fatto in due distinti periodi della sua vita (dal 1902 al 1910, e dal 1926 al 1932) sono soprattutto autoritratti in primo piano o in mezzo ai suoi quadri, foto dello studio e qualche veduta esterna. Queste immagini, che sono esposte in due salette, sono uno degli aspetti interessanti della mostra.
È chiaro che Munch non aveva ambizioni da fotografo, ma era fortemente attratto dalla possibilità di usare la macchina fotografica come un mezzo per conoscere meglio se stesso «dall’esterno», e per fissare la stretta connessione fra sè e la sua opera. Lo stesso vale per l’uso di una piccola cinepresa, di cui rimane un breve e curioso film in cui l’artista riprende se stesso che osserva incuriosito l’obiettivo. Tutto questo ha a che fare con la sua ansia di introspezione che, oltre alla serie notevole di autoritratti, si sviluppa anche in tarda età attraverso affascinanti e inquietanti lavori in cui ormai semi-cieco, cerca di rappresentare la sua stessa visione perturbata, con effetti addirittura astratti.
Riflessioni Filosofiche a cura di Carlo Vespa *
La profonda posizione rivoluzionaria dell’a-politico positivo assoluto, contro l’a-politico negativo nell’attuale sistema di politica padronale.
dii Antonio Pilato settembre 2011 *
L’autore di questo scritto, il professor Antonio Pilato docente di pedagogia e filosofia, mette alla vista alcuni problemi, profondi e complessi, di cui non pretende diagnosticare le possibili soluzioni indicate da altri, perché non ne trova una, né proporre delle sue. Si limita soltanto, assumendo il ruolo di investigatore, soprattutto introspettivo, a togliere il velo della retorica, che copre l’agonia del mondo, causata dai corrotti e corruttibili uomini politici.
“Facciamo sempre come se avessimo il compito di far trionfare la verità, mentre noi abbiamo invece il compito di combattere sempre per essa.” Pascal. Dedicato a me stesso e alla mia famiglia Antonio Pilato
Vi sono uomini che credono e hanno la presunzione di voler far credere di essere preparati e portati ad essere dei veri, virtuosi uomini politici; invece sono veri a-politici.
Vi sono altri uomini che credono e vogliono far credere di non essere portati a far politica, invece nella vita pratica, in ogni loro azione corretta dimostrano tutto il contrario, di possedére cioè le doti della politica virtuosa. Questi sono a-politici non veri, cioè apparenti perché essenzialmente virtuosi.
1. Diverse realtà formali del male della politica
Nei confronti del malaffare politico si può parlare da diverse angolazioni, ne scegliamo principalmente due, a cui convergono tutte le altre: del pensiero pensante e del pensiero pensato. A - da parte del soggetto che fa politica, e B - da parte dell’oggetto, cioè del contenuto vero e proprio del fare politica. Nel primo caso si esamina la conoscenza teorica della politica e la consapevolezza del ruolo che essa svolge per il singolo e per la società in cui si opera.
A1 - Partendo dal soggetto gli a-politici veri credono di essere veri uomini politici, mentre in verità non lo sono. Essi adorano la professione e la carriera, la gloria, la ricchezza, il benessere, il successo, l’affare, il mondo, il potere, il denaro. Ogni loro azione è egoistica, tornacontistica perché amano soltanto se stessi e gli affari (la realpolitik, come si direbbe con linguaggio giornalistico).
A2 - Gli a-politici apparenti, ossia non veri, detti anche falsi, ma che in realtà credono all’interno della loro coscienza, nei valori universali pratici ed anche teorici di essa, perché la politica che essi negano è quella irrazionale, cieca, del malaffare, dell’arrivismo e in funzione strumentale dei bisogni individuali e di gruppo, volta a giustificare qualsiasi mezzo per il fine del loro Dio denaro. Per questo essi negano la degenerazione della politica.
Nel secondo caso si esamina invece la diversa posizione di fronte all’agire male in politica.
B1 - Partendo dai contenuti di quelli chi si dichiarano a-politici, ma che sono solo a-politici non veri (perché in realtà contestano la politica paludosa) essi a loro volta si dividono in negativi e positivi.
B2 - Quelli negativi, non trovando alcuna possibilità risolutiva e considerando vano qualsiasi tentativo di sperimentazione, giacché giudicano tutte le prove inique e fallaci, si chiudono nella solitudine assoluta, sprofondando, senza rimedio, in un vuoto vorticoso senza fondo.
A2 - Quelli positivi invece, non perdendo la fiducia, lottano disperatamente per un mondo sociale migliore, in cui le regole del bene comune, senza egoismi, siano assolutamente rispettate da tutti, indipendentemente dal ruolo che si svolge e dalla preparazione culturale. In questo senso gli apolitici positivi sono eroi rivoluzionari, perché tentano di costruire una strada, una scala umana di valori per vivere ed operare senza la suggestione e il timore della retorica e viltà del potere dominante. Questo tipo positivo di a-politica lo troviamo in Nietzsche, in J.P. Sartre e nel materialismo storico del novecento, e soprattutto nel pensiero dei sociologi della scuola di Francoforte. I pensatori del materialismo storico, che si muovono contro la politica corrotta, lottano quasi tutti per un mondo dell’uomo migliore, per cambiare in modo totale la faccia della terra in cui si specchiano gli egoisti e opportunisti. Di questo male politico è responsabile sicuramente il razionalismo borghese capitalistico, che ha annullato il valore della persona.
2. La doppia incoerenza (il doppio aspetto) dell’a-politico assoluto positivo, ossia la fede alla rovescia.
L’a-politico assoluto positivo copre una doppia incoerenza, posta nella sua psiche. A quest’affermazione si dà la spiegazione. Un soggetto assoluto a-politico positivo non diventa tale in conseguenza di una ricerca sistematicamente razionale della virtù politica, conclusasi senza risultato: la ricerca non ha mai fine; né trascura l’esito negativo della ricerca; ma dentro questa assoluta denigrazione della politica, lo fa essere a-politico un atto fondamentale di fede alla rovescia, il cui contenuto è non la negazione della necessità della politica, ma è contro questa o quella politica degli uomini di Stato, per la quale impegna tutte le sue forze spirituali in direzione della moralità. Allora il suo è un preciso interesse che lo porta alla consapevole conquista del bene supremo della libertà critica, che gli fa anche dire di essere contro ogni sistema politico.
3. Un’altra contraddizione interna all’assoluto a-politico positivo, grido noumenico della sofferenza.
L’a-politico assoluto positivo comincia col negare qualsiasi autorità per rivendicare la propria libertà di fronte a qualsiasi ordine esteriore e alle leggi, considerandole tutte sbagliate, a prova delle esperienze fatte di persona e anche sugli altri... L’autorità politica che l’a-politico assoluto positivo contesta nasce dal bisogno di darsi delle leggi e dei regolamenti, non ancora evidenti, che tutelino il bene di tutti.
Queste leggi ipotetiche sono state tanto sublimate da divenire ideali di vita, allo stesso grado della realtà trascendente, pari a quella divina.
Qual è allora il risultato del disprezzo delle norme assolute della politica, che ci vengono calate e imposte dall’alto? La loro negazione è la risposta, per la repulsione delle medesime avendone sperimentata la nocività, il malessere da tutti i punti di vista: economiche, sociali, morale ed anche culturale, ponendosi come modello di riferimento negativo nella crescita educativa dei giovani.
Verità, bene, giudizio, fedeltà, male ed ogni altro segnale normativo della coscienza, per la loro relatività, mutevolezza divengono permanentemente strumenti a beneficio dei protagonisti della storia, che ancora oggi sono la classe politica di parte. Così la verità cambia nel tempo. Un’azione qualsiasi che oggi é vista giusta, domani potrà essere considerata ingiusta. Che cosa succede? Succede che il rifiuto totale della politica conduce all’allontanamento da essa senza via di uscita, alternativa alla logica dell’anarchia.
Qual è il rimedio a questa totale abnegazione del nulla? L’uomo è portato a scegliere, e la sua scelta tra il male e il bene è sempre per il bene di se stesso. Occorre adoprarsi per il bene suo e dei suoi simili, che coincide col bene universale. Questo fine ultimo ed essenziale della vita è un fine etico ed implica l’impegno di tutti, molto più profondo del bene epicureo e del bene trascendente. E’ il bene laico che implica di non escludere nessuno: il bene per il bene.
L’a-politico assoluto positivo paga a caro prezzo la scelta di vivere lontano dalle fauci del Minotauro della corruzione, ma è felice di morire sacrificandosi per il puro amore della dignità della vita.
L’a-politico assoluto positivo osserva da lontano l’insaziabile desiderio, di schopenhaueriana memoria, che prostra, piega, curva, inginocchia i suoi simili per il piacere del successo passeggero.
Il suo è un disinteresse mistico che cova grandezza e generosità. Questa rottura col mondo della politica è però eroica, rivoluzionaria, fiera perché si alimenta col proprio sacrificio, e alimenta una migliore concezione della cooperazione con la specie umana.
Ma è una sconfitta pragmatica dell’a-politico assoluto positivo? La sconfitta dell’a-politico positivo è una sconfitta apparente, perché in verità non lo è. L’a-politico assoluto positivo per il fatto che nutre dentro di sé uno stato d’animo rivoluzionario, non subisce la storia, ma la crea, la cavalca (di nietzschiana memoria). Questo sentimento di assoluto rifiuto della politica, retto da un ideale di critica costruttiva positiva, lo fa essere superiore ad ogni altro che si inchina, si prostra, si inginocchia passivamente ad essa, incurante del bene e del male. Il compito dell’a-politico assoluto positivo è ancora più radicale della rottura del santo con il mondo. L’a-politico assoluto positivo affonda l’ascia più in profondità per curare il mondo della sua specie dai mali.
4. La rottura col bene universale laico e divino.
La rottura con il bene universale, identificato con il Dio trascendente ed anche con l’imperativo categorico laico: “fai il bene senza mai chiederti il perché”, di kantiana memoria, cominciata come rivendicazione, come rottura superba e rivoluzionaria con tutto ciò che sottomette l’uomo all’alienazione, finisce in una sottomissione all’onnipotente divenire della storia? La risposta ci mette necessariamente a confronto la posizione del Santo e quella dell’a-politico assoluto positivo. Il primo che sacrifica tutto se stesso per l’amore in Dio, assolutamente spirituale, che raggiunge attraverso un percorso puramente interiore; il secondo che restando legato coi piedi a questo mondo, cerca disperatamente di cambiarlo reagendo a tutto quanto sa di putredine.
L’uno e l’altro sono complementari, anche se percorrono, per lo stesso fine, due strade opposte, sono due realtà che si integrano, come in Schelling ed altri filosofi idealisti lo spitito e la materia, che si attraversano pur rimanendo distinti. Il santo si libera di ogni interesse mondano per compiere un atto di assoluta purificazione, e porsi come esempio di guida spirituale. Questo è pur vero, per la parte dell’umanità che ha fede.
Ma per gli uomini che vivono solo concretamente la loro limitata esistenza, senza più un’altra, si deve intervenire in questo esistere, e si deve intervenire a favore di questa condingenza. A svolgere questo rivoluzionario compito è chiamato l’a-politico assoluto positivo che impegna tutto se stesso per il bene di tutta l’umanità esistente, indicando la via della libertà terrena per il bene universale terreno.
In realtà il mondo è contenuto di menzogna e di ingiustizia, di povertà e di miseria; la creazione, qualunque sia l’intelligenza generatrice di tutte le cose, è intrisa di male ad un punto tale che dal più profondo il Santo e l’a-politico assoluto positivo rifiutano di accettarla come esso é. La potenza del male e l’universale sofferenza che ne consegue, la putritudine del nulla è tale che al Santo fa sorgere il desiderio assoluto dell’abbandono materiale. Ma questo atto non salva l’umanità che vive in continuo rapporto col mondo. L’a-politico assoluto positivo invece non abbandona il bisogno della vita terrena, ma lotta disperatamente per un modello di vita migliore.
Il Santo in ultima analisi volge eroicamente gli occhi nell’aldilà, l’a-politico positivo assoluto invece tiene ben fermo il suo sguardo nell’al di qua e lotta per il bene temporale.
L’a-politico assoluto positivo, seppure apparentemente distaccato dal mondo non si pone in assoluto stato di contemplazione, come il santo, e di abbandono psicologico, ma anzi reagisce disprezzando l’aspetto negativo del mondo politico, sociale giudiziario e quant’altro degli uomini, per il bene di esso, formulando dentro di sé e coi continui discorsi con gli altri il modo migliore di operare per trasformarlo. Nei tempi presenti, nei quali una struttura particolarmente inumana della società, alla vista di tutti, si presenta cruciale il problema della giustizia sociale, l’uomo a-politico positivo non diserta, non abbandona i disperati al loro destino, non chiude gli occhi davanti alle sofferenze dei deboli, resi schiavi dalla miseria e da impossibili condizioni esistenziali. L’a-politico positivo non abbandona il campo di battaglia ma anzi si immerge nell’attività temporale, sociale e secolare con le sue armi critiche. L’a-politico assoluto positivo non trascende il problema sociale, ma si prodiga di trattarlo per risolverlo in profondità.
Egli sa e predica tra la gente comune e di buona volontà di comprendere la missione temporale di ognuno per affrontare il problema senza paura, indugio.
L’a-politico positivo assoluto possiede l’intelligenza e la sensibilità per compiere la missione di lotta per la felicità degli uomini deboli, di portar loro la verità che nessuno ha il diritto di essere padrone della vita di un altro, all’infuori di Dio (se è), di realizzare la giustizia e la libertà nella società politica, di portare l’umanità a sollevarsi dalla miseria e dallo sfruttamento, di ravvivare le energie dell’amore dell’esistenza temporale, così da rendere questa esistenza più degna di essere vissuta. Per finire, come l’a-politico assoluto positivo così dovrebbero essere le chiese, il cristianesimo e il santo. Il Cristianesimo non deve essere decorativo, la fede deve essere una fede reale, viva, pratica: credere in Dio deve significare far di tutto per respingere il male del mondo, operare concretamente, non solo parlare o gridare, per il bene universale.
Antonio Pilato
L’uomo che non capì la parola verità
di Armando Torno (Corriere della Sera, 27 luglio 2011)
La famiglia dei Ponzi doveva essere di origine sannita ed era nota già al tempo della repubblica romana. All’epoca di Augusto il nome è diffuso nelle diverse classi sociali e si chiamavano in tal modo i consoli degli anni 17 e 37 della nostra era. Ma il cognomen Pilato è raro, con un significato non facile da definire: potrebbe voler dire «armato di pilum» , la lancia della fanteria romana, oppure «calvo», ma non va escluso nemmeno «arruffato». Ponzio Pilato non doveva avere nobili origini e il pilum ce lo fa immaginare in un accampamento, tra coloro che cominciavano la loro ascesa nei bassi ranghi dell’esercito.
La carriera? Probabilmente merito della moglie Claudia Procula, che sarebbe stata figlia illegittima di Claudia, sposa dell’imperatore Tiberio e nipote di Augusto. La troviamo in Palestina, a Gerusalemme, durante i giorni ultimi di Gesù, anche se le consorti dei procuratori risiedevano a Roma. Del resto, leggiamo nel Vangelo di Matteo: «Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: "Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua"» (27,19).
L’ipotesi che Pilato fosse «amico di Cesare» - alcuni la fondano sul passo del Vangelo di Giovanni 19,12 - non ha valore e, per ricostruirne il profilo, sono preferibili altri riferimenti, a cominciare da quello rivelato da
un’epigrafe incisa su un masso di calcare, rinvenuta nel 1961 a Cesarea marittima, l’odierna Qaisariyyeh: si leggono il nome e la carica ricoperta, «Pontius Pilatus Praefectus Iudaeae». Sappiamo anche che governò la Giudea per un tempo insolitamente lungo, dal 26 al 36; le ragioni sono da cercarsi quasi sicuramente nel gradimento di Roma. Ma le fonti ebraiche lo giudicano ben diversamente e sia Filone di Alessandria nella Legatio ad Caium che Giuseppe Flavio nelle Antichità giudaiche non si lasciano sfuggire occasione per metterlo in cattiva luce. Tra le cause del malumore vi fu anche l’utilizzo che il prefetto fece della cavalleria e delle truppe con armamenti pesanti per reprimere i Samaritani, costato non poche vittime. Proprio a Ponzio Pilato, uomo concreto e deciso, è capitato di incontrare Gesù e di vivere con lui uno dei momenti cruciali della sua vicenda.
A questo magistrato toccò, dopo aver tentato di salvarlo, di farlo flagellare e di consegnarlo ai soldati per l’esecuzione. Dire che fosse l’opposto è quasi un eufemismo, anche per chi non crede nella divinità del suo interlocutore: di certo sappiamo dai Vangeli che tra loro ci fu un colloquio. Anche se il romano non poteva capire in quel momento quello che Gesù gli rispondeva, va detto che secondo quanto si legge nel capitolo 18 del Vangelo di Giovanni i due arrivarono a scambiarsi una serie di considerazioni che poi verranno commentate senza requie da teologi e filosofi.
Sino alle parole cruciali: «Allora Pilato gli disse: "Dunque tu sei re?". Rispose Gesù: "Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce". Gli dice Pilato: "Che cos’è la verità?".
E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei...» (Giovanni 18, 37-38). E quella parola, verità, con la quale si tronca la scena, ci mostra due personaggi distanti che si sono incontrati nel momento cruciale della storia dell’Occidente. Inutile tentare di interpretare ancora una volta le frasi proferite da entrambi, perché per un ebreo verità era emet (significava fermezza, stabilità quando era riferita a persone o cose) e per un romano veritas, che al tempo di Tiberio poteva significare comprendere la realtà delle cose. Pilato forse non aveva mai sentito pronunciare il termine verità in greco, ovvero alétheia, lingua nella quale ci è giunto il Vangelo di Giovanni, ma se anche l’avesse udita in un suo viaggio difficilmente l’avrebbe meditata in quel momento attraverso la filosofia greca. Peccato.
Se ci fosse stato Cicerone... ma la storia non si fa con i se. Nietzsche difenderà Pilato, per Kelsen agì con correttezza, dal IV secolo l’arte cominciò a rappresentarlo nell’atto di lavarsi le mani, anche se quel gesto cela significati ancora da scoprire.
Tuttavia in uno scritto apocrifo del II secolo, il Vangelo di Nicodemo, Gesù risponde alla domanda di Pilato: «La verità è dal cielo». Al che il magistrato romano replica: «Non c’è verità sulla terra?». Il testo va avanti, ma quel che vorremmo ricordare resta il fatto che un interlocutore capiva tutto e l’altro soltanto cose pratiche. I due erano radicalmente diversi nell’anima oltre che nel ruolo. Ha fatto bene Gesù a non rispondere. Poteva permetterselo. La sua vita, sottolineerà Kierkegaard, era la risposta.
GRAMSCI, SULLA ZATTERA DELLA MEDUSA
Ho letto la lettera del grande pensatore sardo. Il senso non può essere interpretato diversamente da come è stato inteso dall’autore.
Io la faccio mia , sostenendo di avere il dovere morale di resistere davanti a tutte le tentazioni del male, pur di mantenermi saldo nella ragione e puro nei sentimenti. Questo finché avrò anche il diritto alla libertà e alla sopravvivenza
Ma se il "Minotauro" metterà in pericolo la mia esistenza, avverrà in me un tal mutamento da rendermi completamente irriconoscibile a lui e a tutti.
Saluti
Antonio Pilato
I veri colpevoli
di Annamaria Rivera (il manifesto, 23.08.2009)
Abbiamo provato a gridarlo in ogni modo che il mostruoso reato d’immigrazione clandestina avrebbe generato crimini «umanitari». Così è stato, purtroppo. L’abbandono e poi la morte dei settantatre profughi eritrei è la prima strage prodotta dal «pacchetto-sicurezza». È, certo, il frutto maturo del trattato con la Libia, siglato dal ministro Amato, rafforzato e reso operativo, cioè criminale, dall’attuale governo. È il frutto, più largamente, dell’Europa-fortezza e dell’adeguamento alla sua politica anche da parte del governo maltese.
Ma inedito è il cinismo di Stato per cui una tale strage non trovi come risposta né l’indignazione corale, né l’incriminazione per strage, appunto, bensì per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. «Senza escludere un’eventuale ipotesi di omissione di soccorso», dicono gli inquirenti. Immigrazione clandestina di cui potrebbero essere imputati i cinque poveri spettri che il fato - lui solo compassionevole - ha voluto sottrarre alla morte. Questo «dettaglio», con l’annuncio della parata che Berlusconi sta per fare il 30 agosto con Gheddafi per festeggiare a Tripoli l’anniversario del trattato, restituisce in modo perfetto il senso del crollo dell’elementarmente umano consumato con le politiche di questo governo.
Politiche disumane generano comportamenti disumani: se nessuno ha sentito il dovere morale di soccorrerli è anche perché leggi criminali producono condotte sociali criminali. Ma non tutto è inedito in questo dramma. Non è vero che con esso «abbiamo toccato il fondo», come si è scritto. Se così fosse, si potrebbe coltivare la fragile speranza che un futuro governo non reazionario e non razzista potrebbe ripristinare forme di rispetto per l’elementarmente umano. Purtroppo non è così. Ce lo dice la strage di 108 profughi albanesi della Kater I Rades, provocata nel 1997 dalla pretesa di un governo di centrosinistra di bloccare manu militari l’esodo albanese. Ce lo ricorda un’altra strage del proibizionismo, quella del 25 dicembre 1996, in cui annegarono 233 migranti: a lungo ignorata dai media - il manifesto fu l’unico giornale ad aprire subito con la tragedia -, sempre negata dal governo di centrosinistra e occultata da una parte dei pescatori di Portopalo. Alla fine fu grazie all’ostinazione di qualche giornalista e di antirazzisti come Dino Frisullo, che il silenzio fu spezzato. Non vogliamo sostenere che il trattamento crudele riservato ai de-umanizzati - coloro che anche da cadaveri sono detti clandestini - sia una lunga notte oscura in cui tutte le vacche sono nere. Ma che per produrre i frutti marci che coltiva il governo in carica, di fatto guidato dall’ideologia post-nazionalsocialista della Lega nord, altri hanno provveduto a spargere i semi avvelenati: quelli del proibizionismo crudele e ad ogni costo. La condizione per tornare a coltivare la speranza sta nella costruzione di una volontà collettiva di superamento del paradigma proibizionista.
L’UMANITÀ CALPESTATA
di GAD LERNER (La Repubblica 22.08.09)
La prima reazione del governo italiano alla morte di 73 cittadini eritrei nel Canale di Sicilia è stata di fastidio e incredulità. Per bocca del suo ministro dell’Interno, che si è ben guardato dall’esprimere cordoglio e pietà, si è gettato discredito sul racconto dei cinque sopravvissuti.
Sopravvissuti che - non fossero apparsi in pericolo di vita - sarebbero stati quasi certamente respinti, nonostante il diritto internazionale assegni loro lo status di rifugiati politici.
I notiziari televisivi hanno fatto da cassa di risonanza a tale ignominia, lasciando sottintendere l’insinuazione che i disperati giunti a Lampedusa dopo aver visto morire di stenti i loro congiunti, potessero avere chissà quale interesse a mentire.
Sul piano morale, una tale prova di cinismo nei confronti di vittime inermi, che non ha precedenti nella storia repubblicana, giustifica il paragone avanzato ieri da Marina Corradi su "Avvenire": evoca cioè l’indifferenza di tanti europei, 65 anni fa, di fronte alla discriminazione e alla deportazione degli ebrei considerati untermensch, sottouomini. Pure allora una martellante propaganda sollecitava a distinguere fra vite degne e vite indegne...
La pietà, come la bontà, è tornata a essere, nella propaganda governativa, un lusso che non ci potremmo permettere. Il dovere assoluto del soccorso in mare rischia di procurare a chi vi ottemperi accuse di favoreggiamento del reato di immigrazione illegale. Le motovedette della Guardia di finanza hanno ricevuto l’ordine di procedere in mezzo al mare, frettolosamente, alla selezione degli stranieri dei paesi in guerra, titolati a richiedere asilo; anche se è palese l’impossibilità di condurre a bordo le indagini accurate che sarebbero obbligatorie.
Così lo scandalo del prolungato omesso soccorso in mare, denunciato dai pochi superstiti di un’odissea lunga venti giorni, ha trovato legittimazione postuma nell’insensibilità conclamata del ministro Maroni. Assistiamo a un abbrutimento delle coscienze che produce un guasto di civiltà e disonora chi l’ha perseguito. Non è solo la dottrina evangelica a uscirne calpestata, come denuncia la Conferenza episcopale italiana, ma il più elementare senso di umanità.
Da mesi assistiamo allo spettacolo di esponenti politici che esultano per i respingimenti, quasi che ci liberassimo di scorie tossiche e non di persone bisognose. Quando un partito di governo come la Lega diffonde. su Facebook un gioco di società intitolato "Rimbalza il clandestino", festeggiando col suono di un campanello la sparizione di ogni barca,di migranti, vuol dire che la velenosa ideologia dell’untermensch è di nuovo entrata a far parte del nostro senso comune.
La viltà di tale comportamento è suggellata dallo scaricabarile delle colpe su di una nazione infinitamente più piccola e meno attrezzata della nostra, qual è Malta. Crediamo forse di lavarci la coscienza addossando su La Valletta la responsabilità dei soccorsi? O non stiamo piuttosto assistendo a una lugubre replica della favola del lupo e dell’agnello?
La Libia sta giocando spregiudicatamente con la vita di migliaia di persone e con le aspettative politiche mirabolanti del governo italiano. I migranti vengono trattenuti per mesi nei suoi campi di lavoro e di prigionia; vengono sfruttati con la promessa di guadagnarsi i soldi necessari a salpare verso la sponda nord; e ora vengono di nuovo mandati allo sbaraglio in mare: perché ogni tanto bisogna pur saziare l’avidità dei trafficanti che godono di protezione all’interno del regime corrotto di Tripoli.
Rivelando che fra il 1° giugno e il 20 agosto 2009 le nostre motovedette hanno effettuato 13 interventi, prestando soccorso a 420 profughi del mare, il Viminale riconosce implicitamente che l’accordo bilaterale con la Libia, spacciato sui mass media di regime come risolutivo, è invece un colabrodo. Invece di rifugiarsi dietro al mancato sos di un gommone con 78 persone a bordo prive di strumenti di comunicazione, il ministro Maroni farebbe meglio a chiedere scusa alle persone di cui ha messo in dubbio la parola. Commettendo una bassezza morale.
Per mesi egli ha cercato di darci a bere un’altra favola, secondo cui sarebbe possibile fermare un esodo biblico dall’Africa all’Europa rinforzando la marina militare di Gheddafi. Come se potessimo ignorare che gli affamati nel mondo sono i miliardo e 20 milioni di persone, 100 milioni. in più del 2008 (stima Fao del 19giugno). Di questi affamati, 265 milioni vivono nell’Africa subsahariana, 42 milioni nel Vicino Oriente e nell’Africa del nord.
Di fronte a una tragedia di tale portata, l’Italia ha finora reagito tagliando i fondi per la cooperazione allo sviluppo e disinteressandosi al rispetto dei diritti umani concernenti le persone che respinge.
Può capitare che per fare buoni affari petroliferi i nostri manager corrompano dei funzionari governativi, come in Nigeria; o che il fior fiore della nostra imprenditoria vada a rendere omaggio a Gheddafi sotto la tenda che un governo compiacente gli ha lasciato piantare nel parco di Villa Pamphili a Roma. Ma di progetti per lo sviluppo, per combattere la fame e le malattie, ci si riempie la bocca solo di fronte alle telecamere del G8, salvo poi dimenticarsene. Perché una cultura miope e razzista trova più conveniente assecondare l’istinto popolare. Si prendono più voti dicendo che abbiamo già troppi problemi noi per poterci interessare ai problemi di persone talmente disperate e diverse da apparirci minacciose.
Sulle rotte dei disperati
Chi non vuole vedere e chi muore
di Marina Corradi (Avvenire, 21 Agosto 2009)
Sono arrivati in cinque. Erano ische-letriti, cotti dal sole che martella, in agosto, sul canale di Sicilia. Ma il barcone, era grande: ce ne stipano ottanta, i trafficanti in Libia, di migranti, su barche così. Affastellati uno sull’altro come bidoni, schiena a schiena, gli ultimi seduti sui bordi, i piedi che penzolano sull’acqua. E dunque quel barcone vuoto, con cinque naufraghi appena, è stato il segno della tragedia. Laggiù a 12 miglia da Lampedusa, ai margini estremi dell’Europa, un relitto di fantasmi. Cinque vivi e forse più di settanta morti, in venti giorni di peregrinazione cieca nel Mediterraneo.
Decine e decine di eritrei inabissati come una povera zavorra di ossa in fondo a quello stesso mare in cui a Ferragosto incrociano navi da crociera, traghetti, e gli yacht dei ricchi. È questo il dato che raggela ancor più. Perché in venti giorni, nelle acque della Libia e di Malta, e in mare aperto, qualcuno avrà pure incrociato, o almeno intravisto da lontano quel barcone; ma lo ha lasciato andare al suo destino. Solo da un peschereccio, hanno detto i superstiti, ci hanno dato da bere. Come dentro a una spietata routine: eccone degli altri. E non ci si avvicina. Non si devia dalla rotta tracciata, per un pugno di miserabili in alto mare. Noi non sappiamo immaginare davvero. Come sia immenso il mare visto da un guscio alla deriva; come sia spaventoso e nero, la notte, senza una luce.
Come picchi il sole come un fabbro sulle teste; come devasti la sete, come scarnifichino la pelle le ustioni. Noi del mondo giusto, che su quelle stesse acque d’agosto ci abbronziamo, non sappiamo quale spaventevole nemico siano le onde, quando il motore è fermo, e l’orizzonte una linea vuota e infinita. Non possiamo sapere cosa sia assistere all’agonia degli altri, impotenti, e gettarli in acqua appena dopo l’ultimo respiro. ’Altri’ che sono magari tuo marito o tuo figlio. Ma bisogna liberarsene, senza tempo per piangere. Perché quel sole tormenta e disfa anche i morti; e i vivi, vogliono vivere. Noi non sappiamo com’è il Mediterraneo visto da un manipolo di poveri cristi eritrei, fuggiti dalla guerra, sfruttati dai trafficanti, messi in mare con un po’ di carburante e vaghe indicazioni di una rotta.
Ma c’è almeno un equivoco in cui non è ammissibile cadere. Nessuna politica di controllo della immigrazione consente a una comunità internazionale di lasciare una barca carica di naufraghi al suo destino. Esiste una legge del mare, e ben più antica di quella pure codificata dai trattati. E questa legge ordina: in mare si soccorre. Poi, a terra, opereranno altre leggi: diritto d’asilo, accoglienza, respingimento. Poi. Ma le vite, si salvano. E invece quel barcone vuoto - non il primo arrivato come un relitto di morte alla soglia delle nostre acque - dice del farsi avanti, tra le coste africane e Malta, di un’altra legge. Non fermarsi, tirar dritto. (Pensate su quella barca, se avvistavano una nave, che sbracciamenti, che speranza. E che piombo nel cuore, nel vederla allontanarsi all’orizzonte).
La nuova legge del non vedere. Come in un’abitudine, in un’assuefazione. Quando, oggi, leggiamo delle deportazioni degli ebrei sotto il nazismo, ci chiediamo: certo, le popolazioni non sapevano; ma quei convogli piombati, le voci, le grida, nelle stazioni di transito nessuno li vedeva e sentiva? Allora erano il totalitarismo e il terrore, a far chiudere gli occhi. Oggi no. Una quieta, rassegnata indifferenza, se non anche una infastidita avversione, sul Mediterraneo. L’Occidente a occhi chiusi. Cinque naufraghi sono arrivati a dirci di figli e mariti morti di sete dopo giorni di agonia. Nello stesso mare delle nostre vacanze. Una tomba in fondo al nostro lieto mare. E una legge antica violata, che minaccia le stesse nostre radici. Le fondamenta. L’ idea di cos’è un uomo, e di quanto infinitamente vale.
Marina Corrad
LA PITTURA DI ANTONIO PILATO
Presentazione critica
di Fulvio Papi *
Antonio Pilato si avventura molto felicemente in una pittura che vuole essere una rappresentazione (vor-stollen, mettere davanti) di eventi del mondo secondo una vocazione narrativa che solo un percepire morale può instaurare nella sua energia espressiva.
Abituati ai numerosi collassi manierista, all’aggressività di superficie, o a segni inevitabilmente ridotti nell’angolo della decorazione, questa pittura evoca e, in certo senso impone, un referente etico comune, conferendo all’ esperienza estetica un approdo ulteriore. L’immagine si trasfigura nella comprensione emotiva, così che guardare questi lavori espone al giusto rischio che appaiano sentimenti e propositi tacitati spesso dallo scorrere sordo dell’essere.
Il tema di Pilato è l’insieme delle tracce, tracce devastanti del prendere un mare infido per una speranza, devota nel cuore, fragilissima nel mondo. A fronte di queste rappresentazioni del migrare torna alla memoria, in un contesto differente, il sintagma celebre di Primo Levi “se questo è un uomo”.
Azzardando astrazioni direi che la pittura di Antonio Pilato appartiene al continente del solo realismo possibile, quello che non parla con il lessico dell’amministrazione quotidiana, ma educa a vedere come si deve vedere (l’ “ infanzia negata” é il degrado di una figura chiusa, priva di ogni gestualità, propria di quegli anni: una figura che vive nella sua stasi tale che evoca altra specie vivente). E gli altri bambini, angeli senza cielo, abbandonati sulla riva con la memoria o la visione di un viaggio che ha il peso del destino.
Dovrei parlare del colore di Pilato: una tavolozza che ha preso tale confidenza con le sue risorse da costruire scene che catturano lo sguardo: sfondi paralizzanti, cieli crudeli, mari senza luce, ricchezze senza amore. E non vorrei dimenticare la “carretta della speranza”, dove la distribuzione del colore nel variare del sua dovizia, delle apparizioni, delle luci, fa persino evocare un tratto di felicità, quello del partire, dell’abbandonare la sorte già prefigurata, la morte quotidiana, per aprirsi a una storia incognita, per lo più pericolosa, ma ancora invisibile e assente.
Dicevo del realismo etico, possibile solo per l’arte sapiente del colore, capace di divenire una profonda inquietudine che seleziona lo sguardo, lo coinvolge e, un poco come è questo, lo opprime.
*
MILANO,
Circolo della Stampa - Sala Lanfranchi,
Palazzo Serbelloni - Corso Venezia 16,
7-14 marzo 2009, MOSTRA DI PITTURA,
DISPERAZIONE E FUGA DI ANTONIO PILATO,
Presentazione critica
FULVIO PAPI
L’associazione, costituita nel 2002 a Milano, lancia una raccolta di firme
per "rompere il silenzio" sugli ormai quotidiani attacchi alla Costituzione e alla legalità
Appello di "Libertà e Giustizia":
"La democrazia è in bilico: salviamola" *
ROMA - "La democrazia è in bilico": l’allarme arriva da "Libertà e Giustizia", l’associazione nata nel 2002 a Milano per far fronte alla crescente insoddisfazione dei cittadini nei confronti della classe politica, cittadini che "non trovano gli strumenti culturali per unirsi e cambiarlo, per contare insieme, per far valere il loro impegno civile". "Libertà e Giustizia" ha pubblicato su Repubblica un appello per la difesa della democrazia, dal titolo "Rompiamo il silenzio". L’associazione invita chi intende aderire all’appello, che reca le firme di Gustavo Zagrebelsky, Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Sandra Bonsanti, Umberto Eco, Giunio Luzzatto, Claudio Magrisi, Simona Peverelli, Guido Rossi, Elisabetta Rubini e Salvatore Veca, a sottoscriverlo sul suo sito.
"Assistiamo a segni inequivocabili di disfacimento sociale: - si legge nel testo pubblicato su Repubblica - perdita di senso civico, corruzione pubblica e privata, disprezzo della legalità e dell’uguaglianza, impunità per i forti e costrizione per i deboli, libertà come privilegi e non come diritti".
I promotori dell’appello denunciano "il decadimento etico e istituzionale" del Paese, rispetto al quale la crisi economica è un’aggravante. La democrazia rischia di diventare demagogia, "l’investitura da parte di monarchie o oligarche di partito si mette al posto dell’elezione". Questo avviene in Italia, dove la selezione della classe politica è diventata "una cooptazione chiusa", il Parlamento "è in via di esautoramento", "la separazione dei poteri è gravemente minacciata".
"Libertà e Giustizia" denuncia i conflitti d’interesse, le commistioni sempre più pericolose: il risultato è "un regime chiuso di oligarchie rapaci, che succhia dall’alto, impone disuguaglianza, vuole avere a che fare con clienti-consumatori ignari o imboniti".
Che fare? La strada suggerita dai firmatari dell’appello è quella di "contrastare le proposte di stravolgimento della Costituzione, come il presidenzialismo e l’attrazione della giurisdizione nella sfera d’influenza dell’esecutivo", e di "difendere la legalità contro il lassimo e la corruzione". E infine, "promuovere la cultura politica, il pensiero critico, una rete di relazioni tra persone ugualmente interessate alla convivenza civile e all’attività politica, nel segno dei valori costituzionali".
Materiali per una eventuale buona-riflessione:
A
L’ACQUA VIVA DEL BUON-MESSAGGIO E LE BUONE-RELAZIONI "IN BOTTIGLIA"!!!
La Samaritana
[...] 3 Giunse pertanto ad una città della Samaria chiamata Sicàr, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: 6 qui c`era il pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, stanco del viaggio, sedeva presso il pozzo. Era verso mezzogiorno. 7 Arrivò intanto una donna di Samaria ad attingere acqua. Le disse Gesù: "Dammi da bere". 8 I suoi discepoli infatti erano andati in città a far provvista di cibi. 9 Ma la Samaritana gli disse: "Come mai tu, che sei Giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?". I Giudei infatti non mantengono buone relazioni con i Samaritani. 10 Gesù le rispose: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva". 11 Gli disse la donna: "Signore, tu non hai un mezzo per attingere e il pozzo è profondo; da dove hai dunque quest`acqua viva? 12 Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede questo pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo gregge?". 13 Rispose Gesù: "Chiunque beve di quest`acqua avrà di nuovo sete; 14 ma chi beve dell`acqua che io gli darò, non avrà mai più sete, anzi, l`acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna". 15 "Signore, gli disse la donna, dammi di quest`acqua, perché non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua". 16 Le disse: "Và a chiamare tuo marito e poi ritorna qui". 17 Rispose la donna: "Non ho marito". Le disse Gesù: "Hai detto bene "non ho marito"; 18 infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero". 19 Gli replicò la donna: "Signore, vedo che tu sei un profeta. 20 I nostri padri hanno adorato Dio sopra questo monte e voi dite che è Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare". 21 Gesù le dice: "Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre. 22 Voi adorate quel che non conoscete, noi adoriamo quello che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. 23 Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. 24 Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità". 25 Gli rispose la donna: "So che deve venire il Messia (cioè il Cristo): quando egli verrà, ci annunzierà ogni cosa". 26 Le disse Gesù: "Sono io, che ti parlo". 27 In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliarono che stesse a discorrere con una donna. Nessuno tuttavia gli disse: "Che desideri?", o: "Perché parli con lei?". 28 La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: 29 "Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?". 30 Uscirono allora dalla città e andavano da lui. (Giovanni, 4, 3-30)
B
LA DIFFUSIONE GENERALE DELL’INVIDIA E LA PAURA DI PERDERE IL "TRONO" E L’ "ALTARE" (A GERUSALEMME, COME A ROMA) E L’ACQUA DI PONZIO PILATO
Gesù davanti a Pilato
[...] 11 Gesù intanto comparve davanti al governatore, e il governatore l`interrogò dicendo: "Sei tu il re dei Giudei?". Gesù rispose "Tu lo dici". 12 E mentre lo accusavano i sommi sacerdoti e gli anziani, non rispondeva nulla. 13 Allora Pilato gli disse: "Non senti quante cose attestano contro di te?". 14 Ma Gesù non gli rispose neanche una parola, con grande meraviglia del governatore.
15 Il governatore era solito, per ciascuna festa di Pasqua, rilasciare al popolo un prigioniero, a loro scelta. 16 Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, detto Barabba. 17 Mentre quindi si trovavano riuniti, Pilato disse loro: "Chi volete che vi rilasci: Barabba o Gesù chiamato il Cristo?". 18 Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia. 19 Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: "Non avere a che fare con quel giusto; perché oggi fui molto turbata in sogno, per causa sua". 20 Ma i sommi sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a richiedere Barabba e a far morire Gesù. 21 Allora il governatore domandò: "Chi dei due volete che vi rilasci?". Quelli risposero: "Barabba!". 22 Disse loro Pilato: "Che farò dunque di Gesù chiamato il Cristo?". Tutti gli risposero: "Sia crocifisso!". 23 Ed egli aggiunse: "Ma che male ha fatto?". Essi allora urlarono: "Sia crocifisso!". 24 Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto cresceva sempre più, presa dell`acqua, si lavò le mani davanti alla folla: "Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!". 25 E tutto il popolo rispose: "Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli". 26 Allora rilasciò loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò ai soldati perché fosse crocifisso.
27 Allora i soldati del governatore condussero Gesù nel pretorio e gli radunarono attorno tutta la coorte. 28 Spogliatolo, gli misero addosso un manto scarlatto 29 e, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo, con una canna nella destra; poi mentre gli si inginocchiavano davanti, lo schernivano: "Salve, re dei Giudei!". 30 E sputandogli addosso, gli tolsero di mano la canna e lo percuotevano sul capo. 31 Dopo averlo così schernito, lo spogliarono del mantello, gli fecero indossare i suoi vestiti e lo portarono via per crocifiggerlo.
(Matteo, 27, 11-30)
Federico La Sala (22.06.2007)
Gesù davanti a Pilato
Quel processo dovrebbe tormentare tutti, nessuno escluso, caro Federico ! Pilato, pur rendendosi conto della innocenza di Gesù, si lasciò condizionare dalla "piazza", astutamente strumentalizzata, e dalla ragion di Stato.
Quante vittime sacrificali sulla nostra coscienza (iniziando dai milioni di bambini che non vedranno mai la luce del sole a causa di una legge orribile come l’aborto) !
Non apparteniamo forse anche noi a quella piazza indistinta, assetata di giustizia sommaria, che rivela invidie, rivalse, gelosie ?
Caro Biasi
Condivido e, tuttavia, c’è da dire e da precisare che "una legge orribile come l’aborto" è tale soprattutto per tutti e tutte quelli/e (vale a dire, a partire i tuoi idolatrati "grandi fratelli" e "grandi sorelle" tanto affezionati/e al loro "trono" e al loro "altare") che ostacolano in tutti i modi l’educazione psico-sessuale (Freud) e l’educazione alla sovranità (don Milani), per avere sempre le "piazze" da condizionare, da manipolare, e da af-fasci-nare!!!
Se hai tempo rileggiti, qui nel sito:
M. cordiali saluti e buona estate. Non fare il "damasceno" - a san Giovanni in Fiore!!!
W o ITALY
Federico la Sala (22.06.2007)
FESTA DI SAN GIOVANNI ..... IN FIORE!!!
Caro Biasi
ti ringrazio per l’intervento, ma ti ricordo che proprio sul tema una risposta te l’avevo già data nel forum dell’art. ERODE IL GRANDE. RITROVATA LA TOMBA DEL "RE DEGLI GIUDEI", IL GOVERNATORE DELLA GALILEA. Ora cerca (e cerchiamo)di aprire gli occhi sulla luminosità del "buon-messaggio in bottiglia, alla deriva" del’artista e filosofoAntonio Pilato.
Se vuoi - e questa è ormai evidenza planetaria - il cattolicesimo-romano è morto!!!, l’alleanza edipica (mammasantissima e figlio) è finita, e se vogliamo ri-nascere .... l’unica possibiltà è r-accogliere la "bottiglia", e cercare di capire che cosa significa l’ "acqua viva".
Per così dire il tempo è scaduto e la nostra (umana e planetaria) follia aumenta sempre di più.
Per e su questo, hai perfettamente ragione a dire che i"quel processo dovrebbe riguardare tutti, nessuno escluso", ti sollecito a riflettere ancora, ad approfondire, ed, eventualmente, a leggerti l’intervista a un grande studioso che (pur avendo fatto un lavoro eccezionale per capire il legame che corre - come ben dici - tra l’innocenza di Gesù, la piazza, e la ragion di Stato) alla fine si acceca e si ritrova in un vicolo cieco):
Ancora m. cordiali saluti e buona estate - a san Giovanni in Fiore!!!
W o ITALY
Federico La Sala (24.06.2007).
Caro Federico,
è da molto tempo che ti seguo e come sai, pur non approvando le tue affermazioni sulla Chiesa cattolica, e in particolare sulla sua gerarchia vaticana , ti ammiro per la tua coerenza e la tua costante difesa di coloro che stanno al di là del "recinto", per una loro libera scelta o "non idonei", per motivi di "incompatibilità", con le "regole" e gli "orari" del buon pastore.
Come ebbi a sottolineare precedentemente, siamo tutti , indistintamente, colpevoli di quel delitto. Ciononostante, tutti abbiamo beneficiato di quel perdono !
Io credo profondamente che se ripartissimo tutti quanti da quel processo, da quel tempo (tempo di Erode il Grande, come sottolineavi tu), da quel luogo (la travagliata Palestina, stretta ancor oggi, come allora, nella morsa di autorità politiche e religiose) da quella morte (orribile, in croce ), troveremmo le risposte a tutti i nostri problemi.
Troveremmo la risposta alla sete di Giustizia presente nel mondo. Perchè senza Giustizia, come dovremmo aver capito da molto tempo, non avremo pace!
Attraverso quella clamorosa sentenza, siamo tutti chiamati affinchè la verità emerga sempre sull’errore, la giustizia sull’ingiustizia e il primato della dignità di ogni uomo sulle barbarie.
Io sono convinto che nessun sistema politico od economico (Capitalismo o Socialismo/Comunismo) possa dissetare l’uomo dalla sua sete di amore e giustizia. Soltanto Cristo, attraverso il suo sangue e la sua acqua vivificante può permetterci di riconoscere ed aiutare tutti quei "cristi" che, senza l’aiuto di un cireneo, portando la propria croce e le nostre colpe, giungono al limite della loro sofferenza lanciando il loro ultimo disperato lamento : "Dio mio, Dio mio, perchè m’hai abbandonato?"
Venuti però da Gesù e vedendo che era già morto,
non gli spezzarono le gambe,
ma uno dei soldati gli colpì il costato con la lancia e
subito ne uscì sangue ed acqua.
(Giovanni 19,33-34)
Ricambio i tuoi cari saluti. Non so se potrò permettermi un viaggio a San Giovanni in Fiore. Probabilmente farò un breve viaggio in Baviera, sulle orme del "mio grande amico" Joseph.
biagio allevato
DOPO MUNCH, MÜNCHEN .... E SAN GIOVANNI IN FIORE, FINALMENTE!!!
Caro Biagio
.... ma san Giovanni in Fiore ti apetta!!! Non dimenticarlo!!!
E non fermarti né nel viaggio né nella lettura e nella meditazione del buon-messaggio. Prosegui:
Gesù appare a Maria
11 Maria invece stava all`esterno vicino al sepolcro e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro 12 e vide due angeli in bianche vesti, seduti l`uno dalla parte del capo e l`altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesù. 13 Ed essi le dissero: "Donna, perché piangi?". Rispose loro: "Hanno portato via il mio Signore e non so dove lo hanno posto". 14 Detto questo, si voltò indietro e vide Gesù che stava lì in piedi; ma non sapeva che era Gesù. 15 Le disse Gesù: "Donna, perché piangi? Chi cerchi?". Essa, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: "Signore, se l`hai portato via tu, dimmi dove lo hai posto e io andrò a prenderlo". 16 Gesù le disse: "Maria!". Essa allora, voltatasi verso di lui, gli disse in ebraico: "Rabbunì!", che significa: Maestro! 17 Gesù le disse: "Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma và dai miei fratelli e dì loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro". 18 Maria di Màgdala andò subito ad annunziare ai discepoli: "Ho visto il Signore" e anche ciò che le aveva detto. (Giovanni, 20, 11-18).
M. cordiali saluti e buona-estate!!!
Federico La Sala
Da New York a Roma: "Usate quella del rubinetto, meno plastica in giro" Nel mondo consumi alle stelle, in testa Stati Uniti e Italia
Metropoli contro l’acqua minerale "Non bevetela, la bottiglia inquina"
Produzione e trasporto danneggiano l’ambiente
Le aziende: useremo materiali biodegradabili
di LUIGI BIGNAMI *
ROMA - E’ una vera e propria dichiarazione di guerra all’acqua in bottiglia. Numerose città del pianeta stanno chiedendo ai propri cittadini di abbandonare l’uso dell’acqua minerale a favore di quella che scende dai rubinetti.
In questi giorni è New York ad essere scesa in campo, dando il via ad una campagna per ridurre se non per eliminare l’uso delle bottigliette di plastica. Obiettivo: aiutare l’ambiente. Anche il sindaco di Salt Lake City, sempre negli Stati Uniti, sta facendo una campagna simile, e in California numerosi ristoranti servono ormai unicamente acqua del rubinetto. Ma anche in Europa si hanno esempi simili, primo tra tutti Roma dove, dopo 250.000 prelievi dai propri acquedotti, il Comune ha deciso di rendere pubblica la carta d’identità della propria acqua che risulta essere buona, fresca e molto meno dispendiosa (da 100 a 1.000 volte meno) rispetto all’acqua in bottiglia.
Eppure americani e italiani in testa, seguiti a ruota dal resto dei Paesi industrializzati, bevono sempre di più acqua in bottiglia. Quanto contribuiscono al deterioramento dell’ambiente?
* la Repubblica, 11 luglio 2007 - (ripresa parziale)
Sul tema dell’ "acqua" della "Sapienza", nel sito, si cfr. anche
L’acqua ad Agrigento, un affare Nestlè
di Antonello Caporale *
MIRACOLO ad Agrigento, la città senz’acqua. L’acqua invece c’è. Ed è, manco a dirlo, buonissima. Le vene del sottosuolo, pochi chilometri dal centro abitato, sono gonfie: "Caratteristiche perfette, una oligominerale adatta al consumo di tutta la famiglia". Bellissimo, no? "Acqua gustosa, dissetante, gradevole, con un equilibrato contenuto di sali minerali", è stato comunicato, documentato e infine certificato.
La Regione Siciliana, tirando un sospiro di sollievo, ha finalmente deciso di dare il via alla migliore captazione di questo tesoro. Ha dunque concesso alla Nestlè, la multinazionale che controlla il gruppo San Pellegrino, che a sua volta ha appena acquistato il marchio della Platani Rossini srl, il permesso di raggiungere nell’arco di un quinquennio la produzione di 250 milioni di litri: dagli attuali 16.500 pezzi l’ora agli oltre 46 mila pezzi previsti e pianificati. Acqua per tutti, dunque.
L’amministratore delegato della San Pellegrino Marco Settembri è entusiasta: "E’ buona come la nostra Nestlè Vera, tra le più bevute (sgorga da una fonte veneta). Il nostro obiettivo è sostituire questo brand conquistando con il nuovo marchio oltre il 50 per cento dei consumi dell’isola".
A pagamento, ma finalmente un’acqua tutta siciliana, veramente. "Vera Santa Rosalia" la nuova etichetta. Pochi euro a cassetta, trentatrè centesimi a bottiglia, e Santa Rosalia entrerà nelle case di Agrigento: leggera, abbiamo già detto gustosa, lievemente gassata. Buona per piccoli e per grandi.
Che le cose vadano per il meglio è desumibile da una seconda obiettiva considerazione: adesso gli agrigentini possono vedere scorrere l’acqua dai loro rubinetti anche per qualche ora ogni due giorni. Se va male ogni otto giorni: performance eccezionali a fronte di ciò che capitava appena qualche anno fa (quattro ore d’acqua ogni diciotto giorni). Non c’è casa che non abbia il proprio contenitore autonomo sul tetto, e non c’è elettore che non sappia che l’acqua dal rubinetto non fa bene al corpo: è buona norma bollirla prima di usarla nei consumi domestici. Potabile? Esagerati.
E però nel tempo, grazie agli oculati investimenti pubblici, le novità ci sono state e adesso si vedono: fino a pochi anni fa la clorazione dell’acqua nei serbatoi era somministrata secondo il calcolo che, de visu, decideva u’ funtanieru, il fontaniere. Personaggio mitico della città. Portava taniche di cloro, valutava ad occhio la massa d’acqua e miscelava. Se andava bene, ok. Se andava male, e il più delle volte andava male, l’acqua non solo non era potabile ma sinceramente schifosa. Oggi non è più così: tutto in automatico, a norma di legge.
La notizia dell’ampliamento della concessione alla Nestlè ha comunque reso frenetica e turbolenta l’attività del sindaco di Santo Stefano Quisquinna, distante quaranta chilometri dal capoluogo, il cui territorio custodisce il tesoro. Proteste, blocchi, interrogazioni parlamentari. Non era in discussione la scelta di affidare alla Nestlè, invece che ad Agrigento, l’acqua che c’è, quanto il timore che la multinazionale con le sue macchine scavi troppo e troppo in profondità e prosciughi presto le vene sorgive. Con un’interrogazione Angelo Lomaglio, deputato di Sinistra democratica, ha appena denunciato al ministro dell’Ambiente che è dimostrata "la pericolosità dei prelevamenti acquiferi perché costituirebbe un’ulteriore diminuzione della riserva, già notevolmente danneggiata, ed arrecherebbe non pochi problemi alla popolazione locale che non sarebbe più in grado di approvvigionarsi e sarebbe costretta ad acquistare l’acqua".
Dunque e ricapitolando: ad Agrigento l’acqua non c’è, ma a pochi chilometri di distanza sì. Che l’acqua ci fosse era cosa nota da decenni (la Montedison fece i primi rilevamenti), ma a nessuno è parso opportuno approfondire. Ha approfondito invece, e bene, la Nestlè che infatti ha chiesto lo sfruttamento di questo bene introvabile laggiù. Ha approfondito così bene che i pochi comuni che si dissetano autonomamente nell’area del tesoro, rischieranno di finire anch’essi assetati. Per fortuna soccorre la politica commerciale della multinazionale: nell’isola, a differenza del resto d’Italia, il prezzo sarà calmierato. Solo trentatrè centesimi la bottiglia. Un affare.
Il dominio della tecnica genera una nuova paura: l’«artificiale» fagocita l’umano. Esce ora un libro con gli scritti profetici del filosofo francese
Mounier, attacco al nichilismo
«Il pessimismo deriva dal crollo delle due grandi religioni del mondo moderno: il cristianesimo e il razionalismo»
di Marco Roncalli (Avvenire, 15.09.2007)
Tra le paure del tempo che abitiamo, una ha lo stesso volto celato da tante maschere: l’«artificiale». Volto un po’ diverso, specie per la rapidità con cui muta, da quello bifronte della «tecnica» della quale si discuteva all’alba del Novecento. Ma pur sempre qualcosa che ci fa interrogare sul senso di possibilità affidate a macchine che da una parte liberano l’anima dell’uomo, dall’altra finiscono per costituire - e non più in senso metaforico - prolungamenti o protesi del suo corpo. Interrogativi che si accompagnano ad angosce nuove, ma anche antiche, a illusioni rassicuranti che restano tali, e ai consueti traumi provocati da ogni «separazione», a cominciare da quella della natura.
La paura dell’artificiale. Progresso, catastrofe, angoscia è il titolo con il quale Città Aperta manda in libreria, preceduti da una ricca introduzione di Franco Riva, alcuni interventi di Emmanuel Mounier apparsi nel 1949 sotto il titolo La petite peur du XXe siècle e svolti pochi anni prima, più o meno gli stessi in cui Martin Heidegger esibiva -contrapposta a quella di Prometeo - l’icona dell’uomo «pastore dell’essere». Si tratta di un’edizione accurata di quello che può essere ormai considerato un classico, corredata di una bibliografia degli scritti citati (redatta da Maria Pastrello, pure autrice della nuova traduzione), di indici onomastici e analitici. Quanto può servire insomma, non solo a capire i riferimenti culturali del grande pensatore o la sua concezione sul rapporto dell’uomo con la macchina e della macchina con l’uomo (oggetto di capitoli quasi divinatori nel romanzo Erewhon di Samuel Butler non a caso citato da Riva all’inizio della sua introduzione), ma anche per riflettere - oggi - su macchine sempre più somiglianti all’uomo e in un dibattito in cui le distinzioni tra «naturale» e «meccanico», tra «umano» e «artificiale», cancellata ogni prerogativa, sembrano scomparire dentro ricorrenti tautologie, lasciando posto a paure. Che in ogni caso restano dell’uomo.
Certo, ogni epoca ha avuto le sue paure, diverse o già viste. Ogni periodo storico - ad ogni latitudine - ha conosciuto il timore di sorti immaginate con tratti apocalittici. «Sotto i nostri occhi si raccolgono gli elementi storici e psicologici del terrore dell’anno 2000, ma la prospettiva di fondo è completamente diversa dall’importante attesa del 1000. Non nasce da una profezia profondamente ottimistica, ma dallo smarrimento generale delle credenze e delle strutture. La crisi delle credenze è la conseguenza del crollo massiccio e quasi contemporaneo delle due grandi religioni del mondo moderno: il cristianesimo e il razionalismo...».
Questo l’approccio - datato 1948 - di Emmanuel Mounier. Approccio di constatazione su dati sociologici, senza ipotecare né il valore né la durata di questo crollo, e con uno sguardo proiettato sul futuro. Lo sguardo di un filosofo, gli occhi di un credente. Lo scrittore infatti, ad esempio nel testo Per un tempo d’Apocalisse, indagata la differenza tra il sentimento apocalittico dell’Europa all’indomani della seconda guerra mondiale e il senso biblico dell’Apocalisse, si spinge poi ad una disamina sulla tipicità dell’angoscia contemporanea nel suo rapporto con il nichilismo attivo (non quello teorico, quanto piuttosto quello dotatosi nella realtà di armi devastanti) e con il terrorismo (che è, in nuce, lo stesso oggi accettato da mentalità di massa, predicato persino come prassi collettiva). In sintesi - come ricorda Riva - Mounier affronta qui «l’altra faccia di una cultura della libertà che trova nell’artificiale e nella domanda sull’umanità le sue corrispondenze più immediate». Non è propriamente questo però l’«artificiale» sul quale Mounier argomenta nello scritto La macchina sotto accusa. Alle origini psicosociali dell’antitecnicismo.Qui invece il fondatore di Esprit scandaglia indugiando su dettagli non irrilevanti tra comportamenti reattivi e polemici nei confronti della tecnica («Mi viene fatto notare che il musulmano di fronte alla macchina, stavolta per ragioni teologiche, non prova né stupore né spavento, ma una sorta di sacra indifferenza per un oggetto che non merita né la sua ammirazione né le sue preoccupazioni»).
Sosteneva Mounier quasi sessant’anni fa: «Viviamo in una società nella quale i concetti cristiani impregnano anche coloro che non ne accettano le implicazioni religiose, e in cui essi, di rimando, si sono ampiamente imbevuti di influenze esterne. Paradossalmente, questo cristianesimo diffuso e corrotto ispira spesso il disprezzo del lavoro e della materia, mentre il cristianesimo autentico riabilita l’uno e l’altra». Lo stesso discorso - secondo Mounier - riguarda il rapporto con la modernità e la cultura. E non vi è per nulla incompatibilità tra queste e il cristianesimo.
Emmanuel Mounier
La paura dell’artificiale
Progresso, catastrofe, angoscia
Città aperta. Pagine 160. Euro 14,00
Opere ritrovate. Dal 1893 al 1910: il Grido di Munch «ringiovanisce»
di Stefano Bucci (Corriere della Sera, 22.05.2008)
Da domani tornerà ad essere visibile in quelle stesse stanze del Munch Museum di Oslo da cui era stato trafugato il 22 agosto del 2004. Dopo il ritrovamento il 31 agosto 2006 («due anni e nove giorni dopo il furto», spiega puntigliosamente un comunicato ufficiale) per il Grido di Edward Munch (1863-1944), una delle opere più celebri dell’artista norvegese, sarà un vero e proprio ritorno sulle scene. L’occasione è la mostra, aperta fino al 26 settembre, che propone di «rivisitarlo» assieme all’altro capolavoro di Munch rubato nella medesima occasione, la Madonna.
Sarà un ritorno con tanto di sorpresa: visto che il restauro effettuato dopo il recupero (sponsorizzato da l gruppo petrolifero Idemitsu) ha costretto gli esperti a spostare la datazione, dal 1893 al 1910. E così nel catalogo ragionato delle opere di Munch in via di pubblicazione a fine anno, a cura di Gerd Woll, il capolavoro sarà più giovane di diciassette anni. Anche se, accanto a 1910, ci sarà comunque un punto interrogativo: «Perché se la vigorosa pennellata e lo straordinario gioco di colori fanno posticipare la data - spiega la direttrice del museo Ingebjorg Ydtsie- restano pur sempre dei dubbi».
Intanto si sa che il restauro non ha potuto cancellare tutti i danni prodotti dal furto (la polizia non ha mai chiarito le modalità del ritrovamento): a cominciare dall’umidità e dai frammenti di vetro che si sono conficcati nel cartone su cui il Grido è stato dipinto. Ancora una volta la direzione del Munch Museum precisa: «Il valore incalcolabile del quadro non è però certo diminuito».
L’attore, con Roberto Sturno, è in scena a Roma in "Il Vangelo secondo Pilato" "Un’inchiesta sull’uomo, che smuove le coscienze e fa riscoprire le emozioni"
Glauco Mauri, un giallo su Gesù
quando la ragione cede al mistero
di ALESSANDRA VITALI *
ROMA - Il titolo può spaventare. Ma questo non è uno spettacolo religioso, anzi. E’ un lavoro laico, la cronaca di un omicidio, un cadavere che scompare, l’indagine su dove quel cadavere sia finito e su chi sia quell’uomo che, da cadavere, è tornato a vivere. Una specie di giallo. Molto di più, in realtà. E’ in scena fino al 14 dicembre al Teatro Valle di Roma Il Vangelo secondo Pilato, dal testo teatrale che Eric-Emmanuel Schmitt ha tratto da un suo romanzo, con Glauco Mauri adattatore, regista e co-interprete insieme a Roberto Sturno.
Una prima parte, un monologo, con un uomo che racconta la storia di Gesù, che dubita di essere ciò che è e, anzi, crede che qualcuno lo stia manipolando, con tutte quelle storie di miracoli e del messia che non sente di essere. E una seconda parte con l’inchiesta di Pilato, "sorta di Montalbano dell’epoca" lo definisce Sturno, sulla scomparsa del corpo dello "stregone di Nazareth". Un’inchiesta condotta con le armi della ragione, fino al punto in cui la ragione però si deve fermare. E arrendersi al mistero.
"Quella di Pilato diventa un’indagine su se stesso in rapporto al mistero - spiega Sturno - libera gli interrogativi della sua coscienza e, alla fine, resta con il dubbio, profondamente laico nel suo modo di concepire il mondo. Un’indagine sull’uomo. Il teatro deve smuovere le coscienze". Una proposta fortemente teatrale grazie all’abilità di Schmitt nel far scattare meccanismi di curiosità, un autore che la compagnia Mauri-Sturno aveva già frequentato in passato con Variations énigmatiques anche se stavolta "il ruolo di Pilato è stato impegnativo - racconta Sturno - perché costruito su una raccolta di lettere con cui dalla Palestina comunica con il fratello, e avevo pochi ’appoggi’ come attore. Ma un impegno ripagato dal pubblico".
Da cinquant’anni pietra preziosa del teatro italiano, Glauco Mauri è convinto che "in quest’epoca pigra di mente e di cuore, Il Vangelo secondo Pilato rappresenti una forma di rispetto per tutti coloro che tentano, attraverso la ragione, di comprendere e accettare la fede, anche se questa è un dono e, per chi crede, nessuna spiegazione è necessaria". Anche lui osserva come, nel testo, sia forte l’elemento di riscoperta dell’uomo, sia per quel che riguarda la figura di Gesù che per quella di Pilato "che viene a contatto con un mondo d’amore folle, a lui sconosciuto". E tutti e due, "nella loro diversa grandezza, restano con un punto interrogativo".
La più grande dignità dell’uomo, continua Mauri, "è quella di faticare per comprendere le cose, questa è la mia religione, credo che comprendere sia la cosa più faticosa. Si può perdonare, odiare, anche dimenticare ma per comprendere devi mettere in gioco te stesso, ed è la cosa più difficile".
Convinto che l’impegno di un uomo di teatro non debba essere puramente estetico ma anche e soprattutto etico e sociale, "per mettere in moto il maggior numero possibile delle corde dell’arpa che abbiamo dentro di noi", Mauri non può fare a meno di valutare in maniera "drammatica, quasi tragica" la situazione del teatro in Italia. "Non solo viene tagliato il Fondo unico per lo spettacolo, ma vengono meno anche i soldi ai Comuni, quindi in città dove si facevano sei giorni ora se ne fanno tre - dice - questo significa un impoverimento del teatro che non sarà più distribuito su tutto il territorio nazionale".
Mauri tuttavia si dice "fiducioso" perché "il teatro è una forma di comunicazione unica": "Io adoro il cinema ma il film, ovunque tu lo veda, è sempre quello. Il teatro no, lo stesso spettacolo è diverso ogni sera perché varia in umanità, e in un momento in cui siamo dominati e plagiati dalle macchine il pubblico ha bisogno di umanità, di emozioni".
Dunque teatro sì, ma che parli dritto al cuore dello spettatore. "Non servono le masturbazioni intellettuali - insiste Mauri - il teatro deve emozionare in profondità ma in modo semplice, senza mezzucci ma con i grandi sentimenti, a questo serve il teatro clasico, di respiro. Bisogna saper parlare d’amore, odio, follia, delusioni. Viviamo sepolti dalla banalità, una metastasi silenziosa che ottunde il nostro sentire, tutto è uguale e tutto va bene. Invece bisogna risvegliare il cuore".
Mai rassegnato e combattivo, dopo oltre cinquant’anni di teatro Mauri si dice "felice di avere, alla mia età, la freschezza per raccontare favole tutte le sere. Ecco perché - conclude - mi sento un bambino coi capelli bianchi, che spera che queste favole possano essere d’aiuto, anche piccolo, agli altri".
* la Repubblica, 6 dicembre 2008 - ripresa parziale
Cinestoria.
"Processo" a Ponzio Pilato. Al cinema il giudizio è sospeso
Un lungo viaggio cinematografico, a partire dal “Re dei Re”, kolossal muto del 1927, per scoprire la figura del politico romano che condannò a morte Gesù
di Eusebio Ciccotti (Avvenire, sabato 11 aprile 2020)
Recentemente, un pool di magistrati ha ricreato, nel palazzo di Giustizia di Milano, un intrigante e, processualmente imparziale, Processo a Ponzio Pilato (2019). Il dispositivo finale della sentenza riconosce il procuratore colpevole di abuso di potere, per aver condannato «a morte un uomo che pur riteneva innocente, per paura che le sue azioni potessero essere criticate dall’Imperatore ». E un secolo di tribunali di cinema come hanno giudicato Ponzio Pilato?
Nel kolossal più bello e costoso del muto dedicato a Gesù (T. Newman), Il Re dei Re (1927), il regista Cecil B. DeMille (figlio di un pastore), tratteggia un Pilato con carattere. Egli (è Victor Varconi, primo attore ungherese emigrato a Hollywood) siede su un trono, alle cui spalle svetta la scultura di una gigantesca aquila, simbolo della potenza di Roma, circondata da quattro alti e robusti bracieri fumanti ai lati, e centurioni sull’attenti. Un lento back-travelling, alla David W. Griffith, contribuisce a presentare il procuratore in forma ancor più imponente. Sopra la tunica un orientaleggiante toga aperta, con almeno un metro di strascico.
La sceneggiatura, firmata da Jeanie Macpherson, cita Marco, Luca e Giovanni («Non mi rispondi? Sai che ho il potere di liberarti o metterti in croce?»). Claudia Procula raggiunge Pilato accanto al trono (diversamente dai Vangeli) e gli chiede, molto preoccupata, «Where is He?». Pilato, con un cenno ai soldati, fa aprire le tende in fondo alla sala, da cui si vede Gesù legato a una colonna e flagellato nel cortile. Claudia, in versione di discepola, soffre addolorata e implora Pilato di non fare del male a Gesù per via di un sogno. Pilato, davanti all’insistenza del popolo, nonostante abbia liberato Barabba, che vuole Gesù crocifisso, si fa portare un catino e una brocca (sono d’argento): un soldato gli versa dell’acqua sulle mani (allusione prolettica alla Messa) e poi dice: «Sono innocente di questo sangue!».
Nel taglio successivo, brevissimo, (3 secondi), DeMille ci mostra Pilato, sconsolato sul trono, con la mano che sorregge la testa. Il primo film dedicato interamente alla figura del procuratore è Ponzio Pilato (1962, Gian Paolo Callegari/ Irving Rapper), con un finale che forse respira l’aria del Concilio Vaticano II. Qui, Pilato (un incolore Jean Marais), rientrato a Roma, finisce sotto processo e, alle accuse di Caligola, in Senato, sceglie il silenzio, come un tempo fece il Nazareno davanti a lui.
Pilato, accetta serenamente la condanna, novello martire, non prima d’aver dichiarato, ad alta voce, la sua conversione al cristianesimo. Pier Paolo Pasolini in Il vangelo secondo Matteo (1964) riduce all’essenziale l’intervento di Pilato («Chi volete che vi liberi per Pasqua, Barabba o Pilato?») insistendo una sola volta in difesa di Gesù («ma cosa ha fatto?», mentre, in Matteo, Pilato fa due tentativi). Pilato ha con tono distaccato. A Pasolini non interessa l’eventuale dramma interiore di Pilato, legge il lavoro del prefetto come normale e quotidiana amministrazione. Non cita il sogno della moglie Claudia.
Maggiormente fedele ai testi, come il film di DeMille, è il Pilato (un superbo Rod Steiger) del Gesù di Nazareth (1975) di Franco Zeffirelli, da anni nell’immaginario di milioni spettatori. Egli ascolta le accuse di Caifa e Anna, con malcelato fastidio, opponendosi senza timore. L’interrogatorio del condannato è risolto in un classico campo/controcampo di primi piani, con Gesù in posizione simbolicamente più alta rispetto a Pilato. Il procuratore si concede dell’ironia sul “re dei giudei”, ma senza cattiveria, concludendo «fatelo frustare in ricordo della legge romana, è un sognatore ».
Dopo la flagellazione Zeffirelli inserisce una scena di forte impatto visivo: Gesù rientra senza scorta, con la coperta rossa gettatagli dai soldati sulle spalle e la corona di spine. Avanza lentamente, dal fondo della sala, in controluce: Pilato, e lo spettatore, rimangono, per un lungo momento, colpiti da quella simbolica abbagliante luce. Pilato, poi, dovrà cedere, di fronte al ricatto di Caifa: non può salvare chi si proclama «re dei Giudei», al posto di Cesare, senza che Cesare lo sappia. L’anno seguente, Luigi Magni, con Secondo Ponzio Pilato (1976), propone una riscrittura filmica popolare.
Pilato veste da ebreo, parla in romanesco e assisterà da lontano all’Ascensione di Gesù. Magni, sceglie il tono leggero, mescolando più generi: commedia (talvolta volgare), traccia storica, conversione di personaggi. come Procula (è l’improbabile Stefania Sandrelli), attratti dall’insegnamento di Gesù. Eppure, tali infedeltà tornano poi utili per una lettura etica del personaggio Pilato: un uomo tiepido di fronte al Sinedrio, ma non sciocco da credere alle false accuse raccolte da Anna e Caifa.
Per alcuni critici l’asciutto Pilato (è il bulgaro Hristo Shopov) di Mel Gibson (La Passione di Cristo, 2004) «è troppo “gentelmen» (M. Morandini), non solo perché prima dell’interrogatorio, giocato tra primi piani in controluce di forza caravaggesca, offre da bere a Gesù (che non reagisce), ma perché, nelle sue domande, non è né ironico né aggressivo. Inoltre Gibson inserisce un delicato dialogo, extra canonico, tra Pilato e Claudia, sulla verità. Dopo un secolo di processi al cinema il giudizio su Ponzio Pilato è sospeso a metà.