Abbiamo tutti un doppio corpo
Pubblichiamo una sintesi della "conferenza inaugurale" tenuta nei giorni scorsi all’Ecole doctorale de droit comparé dell’università Paris Panthéon-Sorbonne, con il titolo "Diritti fondamentali, globalizzazione, tecnologie".
di Stefano Rodotà (la Repubblica, 29.11.2006)
Verso la fine del 1847, quattro mesi prima della pubblicazione del Manifesto del Partito comunista, Alexis de Tocqueville annotava nei suoi Souvenirs: «presto la lotta politica si svolgerà tra chi possiede e chi non possiede: il grande campo di battaglia sarà la proprietà». Quel conflitto è continuato, ininterrotto, e continua ancora, anche se al centro dell’attenzione non è più la terra, ma piuttosto il vivente e l’immateriale.
Il campo di battaglia si è allargato. E’ diventato il mondo intero, e abbraccia molti altri diritti. Viviamo in un mondo che si proietta «oltre lo Stato», dove ritroviamo un «diritto sconfinato». Sopravviveranno i diritti fondamentali della persona in questo nuovo contesto? Proprio la dimensione mondiale, non accompagnata da istituzioni adeguate, li minaccia. L’irresistibile marcia della tecnica sembra svuotarli della loro funzione di garanzia della libertà e dell’autonomia individuale. La transizione verso il post-umano rischia d’indebolirli nella loro stessa natura, nel loro essere diritti dell’uomo, «human rights».
Movimenti contraddittori. La globalizzazione allarga anche la scena sulla quale condurre «la lotta per il diritto». L’innovazione scientifica e tecnologica ha portato ad un allungamento del catalogo dei diritti. L’evoluzione, che si coglie in documenti internazionali e leggi nazionali, induce giustamente a parlare di una «costituzionalizzazione della persona». E l’attenzione sempre più intensa per i diritti fondamentali modifica i termini della discussione, fa affiorare nuove questioni e nuovi soggetti.
Di questo tema non ci si può liberare con una mossa ideologica o guardando ad una realtà in continuo mutamento con schemi giuridici invecchiati. Non si può ridurre la presenza dei diritti fondamentali sulla scena del mondo ad un tentativo di colonizzazione culturale e politica di chi vive fuori del cerchio stretto dell’Occidente. Non si può ritenere irrilevante la previsione di vecchi e nuovi diritti in documenti come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea solo perché non hanno ancora un formale valore giuridico formalmente vincolante.
Lo stesso modo di affrontare criticamente i problemi della globalizzazione si è, almeno in parte, modificato. Al rifiuto radicale («no global») si va sostituendo una strategia più articolata: non una globalizzazione attraverso i mercati, ma appunto attraverso i diritti. Un segnale chiaro in questa direzione era venuto dalle parole con le quali l’Unione europea aveva motivato la necessità di una carta dei diritti, sottolineando che questi rappresentano una «condizione indispensabile per la sua legittimazione». Conosciamo le difficoltà che la costruzione europea continua ad incontrare. Ma quelle parole vogliono dire proprio che essa non può proseguire se continua a legarsi soltanto alla logica di mercato. Senza una vera fondazione nei diritti, l’Europa non continuerà soltanto a soffrire d’un deficit di democrazia, ma addirittura di legittimità. Un problema, questo, che si avverte ormai nel vero spazio planetario unificato dalla tecnologia, Internet, per il quale si è appena chiesta proprio una carta dei diritti.
La tutela globale della persona, dunque, non può fermarsi agli spazi nazionali, ai soli spazi materiali, e neppure al modo abituale di segnare i confini del suo corpo. Anche questo appare sconfinato, con le informazioni che ci riguardano disperse in mille banche dati nei luoghi più diversi del mondo.
Di nuovo la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea può servirci da guida, riformulando le regole sull’integrità fisica e mentale in forme adeguate alle innovazioni scientifiche e tecnologiche e affiancando ad esse un diritto autonomo, quello alla protezione dei dati personali, che dà evidenza e tutela al «corpo elettronico». Siamo di fronte ad una nuova idea integrale della persona, che ne comprende le tre dimensioni - fisica, psichica, virtuale. Nel mondo mutato, il «doppio corpo» non è più quello rivelato per il re medievale da Ernst Kantorowicz, ma diviene attributo e problema d’ogni persona.
Nuovi spazi, diritti, oggetti. Ma pure soggetti nuovi. Negli spazi giuridici compaiono le generazioni future, portatrici di diritti legati alla biosfera, alle risorse materiali, all’ambiente. E accanto a loro, sulla scena del mondo si materializza l’umanità. Questa è indicata come titolare di nuovi patrimoni comuni, la spazio extra-atmosferico e il fondo degli oceani, l’Antartide e il genoma umano, i siti indicati dall’Unesco; dà il nome al diritto d’«ingerenza umanitaria» e ai «crimini contro l’umanità». Ma immediatamente pone un problema: chi può parlare e agire in nome dell’umanità o delle generazioni future?
Il rischio di derive autoritarie è evidente, testimoniato dall’uso del diritto di ingerenza umanitaria come nuovo fondamento delle guerre d’aggressione. Un’ombra difficile da dissipare, ma che non può cancellare il fatto che il riferimento all’umanità significa anche limite alla sovranità degli Stati, che non possono impadronirsi di una porzione della luna o dell’Antartide, e ostacolo alla rapacità degli interessi economici che vogliono distruggere un ambiente o brevettare il vivente in qualsiasi sua forma. Si trasforma in impegno di solidarietà dei paesi più ricchi. Si affida a corti internazionali competenti per crimini contro l’umanità. Significa allargamento del principio di precauzione, e creazione di nuovi beni comuni e di nuove possibilità di accedervi. Dietro l’astrattezza della nozione di umanità scopriamo così diritti, obblighi e responsabilità di soggetti concreti.
La questione dei beni comuni è essenziale. Il senso della battaglia, di cui parlava Tocqueville, è profondamente cambiato. Non riguarda soltanto un conflitto intorno a risorse scarse, oggi l’acqua più ancora che la terra. Nella dimensione mondiale assistiamo ad una creazione incessante di nuovi beni, la conoscenza prima di tutto, rispetto ai quali la scarsità non è l’effetto di dati naturali, ma di politiche deliberate, di usi impropri del brevetto e del copyright, che stanno determinando un movimento di «chiusura» simile a quello che, in Inghilterra, portò alla recinzione delle terre comuni, prima liberamente accessibili.
Dobbiamo ripetere che la tecnologia apre le porte e il capitale le chiude? Certo è che intorno al destino di nuovi e vecchi beni comuni si gioca una partita decisiva per l’eguaglianza. Protagonisti di questa vicenda non sono singoli o gruppi. E’ un’entità anch’essa nuova che, mimando la formula «economia mondo» di Immanuel Wallerstein, è stata definita «popolo mondo». Un popolo mobile, che si aggira nel mondo globale sempre più alla ricerca dei luoghi che più offrono opportunità, in un incessante «turismo dei diritti», che dalle sue forme più antiche, l’emigrazione e la ricerca d’asilo politico, si trasforma in turismo procreativo o in richieste d’asilo da parte di donne che, se rimandate nel paese d’origine, rischierebbero mutilazioni sessuali.
Sono dunque persone in carne ed ossa che, anche a prezzo di discriminazioni e persecuzioni, si fanno banditori nel mondo di diritti percepiti come parte dell’umanità di ciascuno. Nasce così una carta dei diritti spontanea e diffusa, specchio di esigenze reali, frutto di un ininterrotto dialogo tra culture, e non imposizione dall’alto. Anche con qualche paradosso. Il turismo dei diritti è reso possibile dal fatto che diversi Stati regolano in maniera diversa le stesse situazioni, rendendo possibile l’accesso alle tecnologie della riproduzione o la ricerca sulle cellule staminali che altri proibiscono. La sovranità nazionale come strumento della globalizzazione dei diritti?
Ma vi è chi percorre il mondo per trovare le maglie deboli della rete di protezione dei diritti. Gli antichi «paradisi» fiscali sono accompagnati da quelli che vanificano la protezione di dati personali. Imprese vanno alla ricerca dei luoghi dov’è facile lo sfruttamento dei lavoratori, nulla la tutela dei minori, agevole la sperimentazione dei farmaci sull’uomo. Astuti agenti di viaggio organizzano l’orribile «turismo sessuale». La prospettiva è completamente rovesciata. La pura logica di mercato aggredisce la persona nei luoghi dove maggiore è la sua debolezza. Si parla di paradisi, si trova l’inferno.
Torna il bisogno di punti fermi di riferimento solidi, di una rinnovata attenzione per dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà, nel tempo della tecnica e del mondo globale. Tutto questo evoca un altro soggetto, i giudici e le corti che, in assenza di un governo mondiale, si presentano come quelli che già possono offrire tutele anche in situazioni difficili, ricercando ogni strumento disponibile. Lo stanno facendo quei magistrati che danno più forte tutela ai diritti sociali ricorrendo alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Di fronte alle debolezze della politica, saranno i giudici a promuovere l’Europa dei diritti?
Su questo tema, decisivo e fondamentale, mi sia consentito, si cfr.
(ripreso da: Federico La Sala, L’enigma della sfinge e il segreto della piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria in forma di lettera aperta (a Primo Moroni, Karol Wojtyla e, p. c., a Nelson Mandela), Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 2001, pp. 41-48).
Per la prima volta in Italia la ricerca del medievista tedesco Kantorowicz sul «Christus vincit»: oggi acclamazione vaticana, ma nata per l’imperatore
Diventare re per una litania
Le «Laudes regiae», sorte in ambito carolingio per affermare la derivazione divina del potere civile, nel XII secolo e con la lotta per le investiture diventano invece segno liturgico della teocrazia
di Roberto Beretta (Avvenire, 03.03.2007)
Oggi le sue note fanno da refrain ai buchi di palinsesto della Radio Vaticana: «Christus vincit, Christus regnat, Christus Christus imperat!». Ma una volta questo ritornello era parte fondamentale delle «litanie cesaree», riservate all’incoronazione rituale di re e imperatori: senza di esse non si fece sovrano, dal Sacro Romano Impero in poi. Erano le Laudes Regiae: e questo è appunto il titolo di uno «studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del sovrano nel Medioevo» che il grande medievista tedesco Ernst Kantorowicz (scomparso nel 1963) ha dato alla terza opera della sua fondamentale trilogia, la meno fortunata dopo I due corpi del re e Federico II imperatore; così negletta che ha dovuto aspettare sessant’anni per essere tradotta la prima volta in italiano, oggi grazie a Medusa.
Dunque Kantorowicz - del quale Alfredo Pasquetti discute in introduzione le modalità di acquiescenza al Terzo Reich (in realtà lo studioso, di origine ebraica, chiederà il pensionamento dall’università per motivi razziali due anni soltanto dopo aver vinto la cattedra e nel 1939 lascerà la Germania per gli Usa) - esamina un elemento apparentemente minore, diciamo pure erudito: la presenza ed evoluzione del «Christus vincit» nei messali dall’VIII al XIII secolo. Ma, oltre a introdurre con ciò (e forse per primo) i libri liturgici tra le fonti della «grande storia», riesce a ricostruire sulla minuzia della sua analisi un affresco credibile della regalità medievale: il suo prediletto terreno di studio. Eccolo dunque rintracciare le origini dell’acclamazione nelle grida che il senato o il popolo e i soldati rivolgevano agli imperatori romani durante il trionfo; constatare poi il consolidamento della triade litanica nella Chiesa gallo-franca dell’VIII secolo, secondo un’andatura marziale di sicura derivazione militaresca; in seguito seguirne l’introduzione anche nella liturgia romana, con significative trasformazioni «imperiali» in uso fino al XII secolo; quindi ritrovarla come grido di battaglia per i crociati in Terrasanta; e ancora esaminarne l’apparizione (anche in lingua greca) su monete normanne dal XII secolo in poi... «Una delle preghiere più virili, infiammate e potenti della Chiesa cattolica», le Laudes (la cui più antica versione risale al 785 circa, piena epoca carolingia) sono dunque invocazioni che - partendo dal Cristo vincitore e re - servivano ad acclamare in Lui i suoi vicari terreni, imperatori e sovrani dapprima, vescovi e papi poi.
E infatti nel testo vengono spessi menzionati i nomi dei re in carica, per i quali si invoca sì assistenza dal cielo, ma di cui nello stesso tempo si colloca in excelsis la fonte dell’autorità. In pratica, con il mantra della ripetizione corale, la preghiera assumeva - oltre al ruolo liturgico - anche la funzione di confermare nell’inconscio popolare e nell’opinione pubblica la derivazione divina dell’umano potere: come lo scintillìo dorato della corona posta sul capo dell’erede al trono (non per niente le laudes sono spesso collegate all’incoronazione), tal quale all’unzione che lo consacrava re in eterno.
La cosa curiosa è come sia stato proprio lo Stato il primo a sfruttare la liturgia cattolica per proclamare la sua preminenza o comunque emanciparsi dalla Chiesa. Lo nota lo stesso Kantorowicz: nei periodi in cui la monarchia era particolarmente forte (ad esempio con Carlo Magno), i formulari del Christus vincit allineavano prima i nomi del re e dei suoi santi patroni (la Madonna, gli arcangeli e Giovanni Battista), solo poi quelli del Papa e dei protettori collegati - gli apostoli.
Ciò per dire che le varie versioni delle laudes regiae costituiscono quasi un termometro dell’evoluzione dei rapporti tra Papi e imperatori, della teocrazia o all’inverso del cesaropapismo; erano insomma una faccenda di «teologia politica», un «accompagnamento vocale» al «culto medievale del sovrano» prima, e più tardi della presa di sopravvento clericale. A parere dello storico tedesco, anzi, esse «si collocano tra le più antiche testimonianze della storia politica occidentale del tentativo di stabilire una somiglianza con la "città di Dio"».
Così almeno fino all’XI-XII secolo. Ché poi avviene l’inversione della medaglia («Il diritto divino dei sovrani - scrive Kantorowicz - e il diritto imperiale dei pontefici sono manifestazioni diverse della stessa idea di fondo, in quanto entrambi derivavano dal modello del Cristo rex et sacerdos, che sia il re sia il vescovo emulavano»): la riforma del papato e la lotta per le investiture enfatizzano infatti la dimensione «temporale» del potere pontificale, anche il Papa cinge una corona (la tiara) e si guadagna le sue laudes, esemplate su quelle dell’imperatore - che da parte sua si è nel frattempo «laicizzato».
Insomma, niente di strano se il Christus vincit lascia le laudes regiae e durante la cattività avignonese penetra nel Pontificale romano. Dove però rimane a dormicchiare fino alla riscoperta, avvenuta per opera dei cultori del gregoriano alla fine dell’Ottocento, e al rilancio legato all’introduzione della festa liturgica di Cristo re (1925). Con una coda maligna, tuttavia: nel canzoniere dei piccoli balilla italiani, anno 1929, anche Benito Mussolini era salutato da un Christus vincit... Manco fosse Carlo Magno.
-Ernst Kantorowicz -Laudes Regiae -Studio sulle acclamazioni liturgiche e sul culto del sovrano nel Medioevo -Medusa. Pagine 318. Euro 36
IL VOLTO di Raniero La Valle (Rocca, 15.11.2006)
Prodi governa nella tempesta, ma non ha perduto la sua lucidità. Sicché sulla questione del velo delle immigrate islamiche, ha detto finalmente la cosa più sensata che si potesse dire. Non ha detto, come dicono i poliziotti, che con un «travisamento» che copre tutta la faccia, non si può verificare l’identità. Non ha detto, come dicono i francesi, che il velo è una dichiarazione pubblica di fede religiosa, che uno Stato laico non può permettere. Non ha detto, come dicono gli arrabbiati e gli orgogliosi, che se consentiamo il velo ci arrendiamo ai fanatici, e l’Occidente è perduto. Non ha detto, come strilla la Santanchè, che il velo è un marchio di sottomissione per la donna, come la stella gialla per gli ebrei. E non ha chiesto, come fanno i presunti imparziali, la reciprocità, sicché qui il velo, il niqab, lo permetteremo solo quando in Arabia Saudita sarà ammesso il topless. Ha detto invece una cosa semplicissima e umana: se siete qui, ci dobbiamo guardare in faccia, se no come facciamo a conoscerci, a cooperare, a vivere insieme?
Così Prodi, di colpo, dalla diatriba sacra¬le, identitaria, competitiva, ha portato la discussione su un terreno universale, a tutti comune, perché tutti abbiamo un volto e tutti traggono la massima gioia e il significato del vivere nel guardare il volto degli altri. Ci sono i giardini e le città senza volti, e sono i cimiteri.
Ma nel richiamare l’attenzione sul volto, Prodi non ha fatto solo un discorso di buonsenso. Ne avesse l’intenzione o no, ha fatto un moderno discorso filosofico, perché a partire da Emmanuel Lévinas, il tema del volto è diventato il nuovo e più alto discorso filosofico della modernità. Lo spiegava il filosofo urbinate nostro amico Italo Mancini, dicendo che ormai si erano chiusi i due grandi cicli della filosofia dell’Occidente, che non erano stati innocui se avevano dato luogo agli universi concentrazionari e all’arrogante ideologia dell’identità: il ciclo della filosofia dell’essere (l’ontologia come totalità che annulla e domina i singoli enti) e il ciclo della filosofia dell’io (con tutta l’egologia e l’egolatria che comporta); e che quella che sopraggiungeva, come condizione di pace e di speranza per il nuovo millennio, era la filosofia dell’Altro: riconoscere e mettere l’altro al centro di tutto, l’altro e il suo volto, un volto da contemplare, da accogliere, da carezzare, da amare; il volto come altro da me, ma non come altra cosa da me, il volto come termine di ogni rapporto positivo, il volto altrui come realtà che non si può trascendere, che non permette che si vada «oltre» senza fermarsi: come accadde al samaritano che vide, si impietosì, si avvicinò, fasciò le ferite, lo caricò, lo portò, ebbe cura.
E’ proprio per questa centralità del volto che, paradossalmente, si capisce quella tradizione islamica che consiste nel velarlo. Il volto è la persona; e, come dice Lévinas, il volto è nudo, allude alla nudità del corpo, anzi la nudità è la sua condizione, proprio per questo suo rivolgersi a me, per questo non starsene nella sua sufficienza che di nuovo lo muterebbe nell’io; il volto si rivolge a me non solo come esigente, ma anche come indigente, e perciò è esposto alla cattura. Dunque se si vuole tenere al riparo la donna come propria, se la si vuole sottrarre al desiderio altrui, è il volto che si deve coprire. Quella è davvero la zona da tutelare, altro che l’ombelico che la nuova moda occidentale ostenta. Nessuno si innamora di un ombelico, mentre tutti si innamorano di un volto. Ma appunto, il coprirlo, è un eccesso di difesa, perché non solo intercetta l’attrazione sessuale (e neppure ci riesce), ma interdice ogni rapporto, e per sottrarre la donna come oggetto di desiderio, l’annulla addirittura come persona.
La religione non può chiedere questo. Essa vuole che si corra il rischio di vivere. L’essere sessuati, maschio o femmina, fa parte di questo rischio. Guardarsi in faccia, porre il proprio volto dinanzi al volto dell’altro, mettersi in gioco nello «sguardo che supplica e che esige, privato di tutto perché avente diritto a tutto, che si riconosce donando», significa correre questo rischio. Non è la nudità del volto, è la sua epifania. Ma è proprio correndo questo rischio, che si guadagna la partita. Perché stabilire la coesistenza dei volti, ponendo l’altro - e gli altri - come legge e riferimento supremo, significa cominciare, o ricominciare, a convivere. Perché è proprio di questo che siamo diventati incapaci; forse già nelle mura domestiche, ma certamente nello spazio pubblico delle città, dello Stato, del mondo falsamente detto globale.