di Giulio Busi *
«Indietro»! Tamino si è imbattuto in tre grandi porte. Prova a entrare da quella di destra, e poi da quella a sinistra, solo per esserne scacciato da una voce minacciosa. Finalmente si aprono per lui i battenti della terza porta. Ad accoglierlo c’è un anziano sacerdote, che lo apostrofa con un misto di curiosità e diffidenza: «Dove vuoi andare audace forestiero? Cosa cerchi qui nel tempio?». La risposta di Tamino è immediata, ingenua, ardita: «Il regno dell’amore e della virtù».
La scena dei tre portali, nel primo atto del Flauto magico di Mozart, non è solo un espediente per rendere più movimentata la peripezia del protagonista, alla ricerca di Pamina, che non ha ancora incontrato ma già ama: i tre portali, che costringono l’eroe ad arrestarsi e a dimostrare il proprio valore, sono il simbolo di un’avventura sapienziale che accompagna la cultura europea sin dal Rinascimento italiano. Davanti a tre ingressi, del tutto simili a questi mozartiani, si era fermato dubbioso Poliphilo, nella Hypnerotomachia del frate Francesco Colonna, pubblicata nel 1499.
Nell’incunabolo aldino dell’opera, al di sopra di ciascun passaggio, si legge in quattro lingue - arabo, ebraico, greco e latino - il nome di un diverso dominio: «Gloria di Dio», «Madre dell’amore», «Gloria del mondo». Poliphilo, come Tamino, cerca l’amore di una donna, Polia, e, attraverso di quello, vuol comprendere se stesso. Anche l’eroe quattrocentesco ottiene di varcare una delle tre soglie, per poi trovarsi di fronte a ulteriori prove, col rischio di perdere la vita e la ragione.
La somiglianza tra i due episodi non è casuale: un filo nascosto di erudizione e di esoterismo lega la Venezia del Colonna alla Vienna di Mozart e di Emanuel Schikaneder, l’autore del libretto. A far da mediatore tra i due estremi, tra la lotta d’amore in sogno dell’umanista italiano e l’utopia illuministica del Flauto magico è probabilmente un celebre testo del primo Seicento, le Nozze alchemiche, dedicate all’unione tra principio maschile e femminile. In quest’opera è Christian Rosenkreuz, l’eroe in viaggio verso il segreto della trasmutazione dei metalli, a dover superare tre cancelli, che difendono la scienza da occhi profani. La domanda è sempre la stessa. Come varcare la soglia proibita e addentrarsi al di là delle apparenze? In che modo raggiungere «il regno dell’amore e della virtù»?
Colonna, frate invero poco ortodosso e ancor meno casto, cerca la risposta nel piacere sensuale e nei riti neopagani, mentre l’anonimo autore delle Nozze alchemiche propone una raffinata e oscura allegoria d’iniziazione. Dopo la critica radicale della religione portata dall’Illuminismo, Mozart e Schikaneder scelgono un registro espressivo più lieve, ma non per questo meno carico di allusioni erudite. Il tempio in cui Tamino è riuscito a penetrare si rivela una vera macchina simbolica. Sotto la guida del re-sacerdote Sarastro (nome che evoca la pronuncia italiana di "Zoroastro"), gli iniziati si muovono in uno spazio denso di riferimenti all’antica tradizione ermetica. Loro numi tutelari sono Osiride e Iside, sul seggio su cui siedono in assemblea è collocata «una piramide assieme a un corno nero incastonato d’oro», mentre altre «piramidi diroccate, resti di colonne e porte egizie» riempiono l’atrio del santuario. E, ancora, i sacerdoti portano in processione «sulle spalle, una piramide illuminata, e in mano, una piramide trasparente della grandezza di una lanterna».
Per Mozart e per il suo librettista, e per gli spettatori che assistono alla prima dell’opera, il 30 settembre 1791, questi decori sono più che semplici elementi scenografici. L’Egitto, le piramidi, i riti compiuti in nome di Osiride evocano un dibattito che appassiona e divide in quegli anni la capitale asburgica e l’Europa intera. Sia Mozart sia Schikaneder sono convinti massoni (così come lo è Carl Ludwig Giesecke, che forse ebbe parte nella stesura del libretto), ed è proprio ripercorrendo la vita intellettuale delle logge viennesi che è possibile recuperare motivazioni ed echi formali altrimenti per noi inafferrabili.
Un’ottima occasione è data dall’edizione italiana di un libro quasi dimenticato di Carl Leonhard Reinhold, I misteri ebraici ovvero la più antica massoneria religiosa. Viennese anch’egli, prima gesuita poi passato al protestantesimo, entrò nel 1783 nella loggia «Alla vera concordia» (Zum wahren Eintracht), alle cui sedute partecipava spesso Mozart (affiliato alla «Carità» - Zur Wohltätigkeit). Alla guida della loggia era Ignaz von Born, a cui forse è ispirato il personaggio di Sarastro. E su invito di von Born, tra il 1786 e il 1787 Reinhold scrisse I misteri ebraici. L’opera è una revisione, audace e provocatoria, della figura di Mosè. Principe iniziato ai misteri egizi, Mosè avrebbe deciso di usare i segreti rituali della religione di Osiride e Iside per guidare la propria gente nell’esodo dalla terra dei faraoni. Così, grazie a uno stratagemma di natura essenzialmente politica, quello ebraico sarebbe stato l’unico popolo dell’antichità a ricevere in massa una rivelazione destinata di norma solo a una ristretta élite di sapienti. Reinhold non è certo tenero verso gli ebrei, definiti sprezzantemente «nomadi selvaggi» e ignoranti.
Quello che gli interessa è il nucleo di conoscenze che si cela dietro i loro riti. Per lui, e per i confratelli massoni a cui è rivolto il libro, la liturgia ebraica, dai gesti e dagli abiti del sommo sacerdote sino agli arredi del tempio, racchiude un messaggio salvifico che proviene dall’Egitto, e di cui, nei secoli, si è persa la chiave. Con un termine che torna insistentemente nel libro, Reinhold chiama «geroglifici» i precetti e i paramenti rituali descritti nella Bibbia. Il suo lavoro vuole decifrare, in senso massonico, il significato occulto dei cerimoniali, per accedere alla verità, oscurata dalla superstizione e dall’oblio. Anche il Dio ebraico è ridefinito in termini egizi. «Io sono colui che sono», pronunciato dal roveto ardente, è interpretato come l’equivalente del motto inciso - secondo la testimonianza di Plutarco - sull’immagine di Iside a Sais: «Io sono tutto ciò che è stato, che è, e che sarà. Nessun mortale mai sollevò il mio peplo». Scopo del sapiente sarà allora alzare il drappo, che rende invisibile l’essenza del divino.
Un insegnamento, questo di Reinhold, che influenzò profondamente la cultura di fine Settecento. Tamino, nel Flauto magico, dimostra di aver compreso a che cosa deve rivolgersi l’iniziato. «Ma quando cadrà il velo?», chiede infatti, impaziente, al sacerdote, che gli risponde: «Appena la mano dell’amicizia ti condurrà nel tempio, verso il vincolo eterno». Dopo aver superato le prove che Sarastro gli ha imposto, Tamino ottiene finalmente l’unione con Pamina, e il coro celebra il suo successo: «La consacrazione d’Iside ora è tua! Venite! Entrate nel tempio». E se poi la rivelazione del divino diviene una conquista d’amore, tanto meglio per la coppia mozartiana, con buona pace dell’austero Reinhold.
* Carl Leonhard Reinhold, I misteri ebraici ovvero la più antica massoneria religiosa, introduzione di Jan Assmann, a cura e con un saggio di Gianluca Paolucci, Quodlibet, Macerata, pagg. 258, € 18,00
* Il Sole 24 Ore, 27.11.2011
MUSICA ANTROPOLOGIA E RICERCA SCIENTIFICA: ALFRED A TOMATIS E L’ORECCHIO DI MOZART.
La storia dell’orecchio di Mozart
L’orecchio è uno strumento importantissimo per un musicista. Mozart, aveva un orecchio eccezionale, riusciva a sentire il minimo sbaglio di intonazione e tutta la sua musica è in armonia perfetta: la musica corale scritta da Mozart è davvero speciale per quel suono perfettamente amalgamato formato da voci perfettamente legate da armonie perfette che sembrano accarezzare l’orecchio.
Oltre all’orecchio musicale Mozart aveva una evidente malformazione all’orecchio sinistro: sarà per questo che era così eccezionale?
Studi moderni hanno evidenziato che la malformazione non incide su anomalie dell’orecchio interno e pertanto è solo un fattore ereditario che si manifesta ad un solo orecchio.
Effetto Mozart
Secondo il Dottor Tomatis, la musica di Mozart può curare le difficoltà di apprendimento, l’epilessia, la dislessia, il ritardo mentale e il deficit di attenzione dei bambini.
Nel 1954, Tomatis inventò un apparecchio di rieducazione uditiva chiamato l’Orecchio Elettronico, e lo usò per curare bambini con difficoltà di apprendimento e autismo, convinto che prima di saper parlare bisogna saper ascoltare: cantare bene, parlare, pensare, apprendere bene e, in ultima, la buona salute psicofisica, dipendono da un buon udito.
Quando parliamo o cantiamo, produciamo soltanto suoni che possiamo sentire, Tomatis afferma “che non ci si deve limitare a pensare all’udito come funzione delegata all’orecchio esterno e alla membrana timpanica, ma come attività dell’orecchio interno, cioè del sistema vestibolo-cocleare”.
Tutti sappiamo udire ma pochi sanno ascoltare. L’ascolto è un’abilità particolare, ed è la chiave per: l’apprendimento, il linguaggio e anche per l’identità personale. Il malfunzionamento dell’udito può provocare disturbi di apprendimento e capacità mentali dei bambini. Il dottore pensò bene di prendere come punto di riferimento Mozart.
Mozart è stato concepito e cresciuto nei suoni. Prima ancora di imparare a suonare,il piccolo Wolfgang imparò molto presto ad ascoltare in modo attivo.
Il trattamento è il seguente: si inizia ascoltando musica mozartiana pura, poi gradualmente viene filtrata: si eliminano le frequenze più basse, filtrando prima 1.000 Hz, poi 2.000 Hz, e se ritenuto necessario si arriva fino a 8.000 Hz. Di norma, un bambino riceve questa stimolazione sonora due ore al giorno, cinque giorni alla settimana per tre settimane. Grazie a questo metodo i suoni attraversano le orecchie e le ossa del cranio(probabilmente il modo con il quale i suoni vengono uditi all’interno dell’utero). Tomatis ha ideato cuffie speciali (auricolari dotati di vibratore collocato al vertice del cranio) che trasmettono i suoni direttamente alle ossa craniche
FLS
MUSICA, ALCHIMIA, FILOLOGIA, E ANTROPOLOGIA ("CHARITAS").
Il messaggio del "Flauto magico" di Mozart (da non confondere con il "flauto" del "pifferaio") non è un’opera di magia nera, è un messaggio all’insegna della "Wohltätigkeit", della "Charitas" (della Grazia, della "Charis", e delle Grazie, delle "Charites", non della miserevole e triste carità intesa come elemosina, la "cara" molto "cara" "caritas").
Nell’opera di Mozart riaffora e risorge "l’amor che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145) della "Casa dei Due Soli" (Dante 2021) della tradizione critica ("eresia" - autonomia di giudizio e scelta) dello spirito europeo e terrestre: quantomeno di Giordano Bruno e di Shakespeare e delle "nozze chimiche" della tradizione alchemica.
"Abbracciatevi, moltitudini" (Friedrich Schiller, "Alla Gioia", 1785): con il "Flauto magico" (1791), Mozart apre la strada alla "Nona Sinfonia" di Beethoven (1824).
Federico La Sala
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO...
PER CARITÀ...
MUSICA, POLITICA, E PIFFERAIO MAGICO: RIATTIVARE LA MEMORIA della TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE, della “Wohl-tätigkeit”, della carità! “THE SHAWSHANK REDEMPTION” : LA “MOS-ART” (“arte di Mosé”)! Una breve sequenza dal film “Le Ali della Libertà”.
L’umanità di Mozart
Muti: «il suo punto di vista siamo noi e ci guarda con un sorriso triste»
Il maestro apre la stagione del San Carlo di Napoli con «Così fan tutte», unico suo impegno operistico della stagione in Italia. La regia è della figlia Chiara. «La persona giusta per portare in scena il mondo di Amadeus con rispetto»
di Valerio Cappelli (Corriere della Sera, 10.11.2018)
Un gioco di inganni che richiede adesione intellettuale, il titolo più controverso della trilogia italiana di Mozart-Da Ponte. Riccardo Muti dice che Così fan tutte, insieme con il Falstaff, è l’opera che porterebbe sull’isola deserta. È l’apertura di stagione del San Carlo di Napoli, il 25; è al momento l’unico impegno operistico del grande direttore in Italia; è la terza volta che lavora con sua figlia Chiara alla regia.
Maestro, è il suo quinto «Così fan tutte»: il primo?
«Nel 1979, mentre ero in tournée in Usa con la Filarmonica di Londra. Un giorno alle sette del mattino mi telefonò Karajan per propormi il Così fan tutte da fare tre anni dopo al Festival di Salisburgo. Ero titubante, non l’avevo mai diretto ed era un’opera legata ad anni di trionfo di Karl Böhm. Gli risposi: è un suo invito, sua la responsabilità. Accettò. Quel successo diede una spinta straordinaria alla mia carriera internazionale. C’erano in giro i giganti del podio, un’opera che si riteneva di proprietà culturale austro-germanica, spesso non si coglievano le sottigliezze del libretto di Da Ponte. Io partii dalle parole, che danno la scintilla alla musica e non viceversa. Lo stesso percorso lo aveva fatto molti anni prima Guido Cantelli alla Piccola Scala».
Lo si considera un testo «matematico», difficile.
«Da Ponte raggiunge vette di alta poesia, pensiamo soltanto a “Soave sia il vento, tranquilla sia l’onda”. Il testo è difficile per chi non capisce la lingua italiana, o per il cittadino italiano che non approfondisce i giochi di parole. C’è una lettura “ufficiale” che si presenta nel suo candore, ma le stesse parole possono significare altre cose e diventano piene di allusioni erotiche. Quando Fiordiligi e Dorabella riconoscono gli amanti, e di aver commesso un grave errore, dicono: Il mio fallo tardi vedo. Oppure Don Alfonso: Folle è quel cervello che sulla frasca ancor vende l’uccello. Non è che il testo abbia volgarmente questi doppi sensi, è un gioco di estrema leggerezza ed eleganza, il segreto è di comprendere il sublime che nasce da situazioni apparentemente banali. Per questo è l’opera più misteriosa ed enigmatica di Mozart. Penso alla finta partenza dei due giovani che diventa un fatto profondo, e cioè la partenza dalla vita. Il finale è una considerazione negativa sull’umanità».
Come nel Falstaff.
«Esatto, sono occhi critici sulla condizione umana, su chi siamo veramente. Non c’è niente di misogino, avrebbe dovuto chiamarsi “Così fan tutti”, perché tutti e quattro i giovani sono colpevoli e alla fine gabbati, come dirà Verdi concludendo la sua esistenza. Le due opere hanno in comune questo triste sguardo sull’umanità, espresso con un sorriso lieve. Senza Mozart non ci sarebbe stato Verdi, e senza “Così fan tutte” non ci sarebbe stato “Falstaff”».
Ci sono citazioni di Metastasio e Sannazaro.
«E prese in giro di certi autori. Mozart non amava Gluck, che parla di miti e mondi epici, lo trovava retorico. Il punto di vista di Mozart, come di Verdi, è l’uomo: siamo noi, uomini che si specchiano negli uomini. È un’opera che irritò Beethoven, che era un moralista, e Wagner, il che è curioso».
Si dovette aspettare il ’900 e Strauss per rivalutarla.
«Mozart muore nel 1791, la Scala fu inaugurata nel 1778. Mozart non ebbe mai il piacere, in vita, di vedere rappresentata l’opera alla Scala».
Lavorare con sua figlia?
«Da tempo sognavo di fare un’opera con la regia di Chiara, che ha studiato alla scuola di Strehler, da cui ha assorbito il concetto della Bellezza e conosce a memoria il testo. Essendo il titolo meno prorompente dal punto di vista immediato, è quello che si presta a soluzioni registiche le più improbabili e infami. Chiara è la persona giusta per creare un mondo mozartiano che sia moderno e rispettoso».
È una coproduzione con l’Opera di Vienna.
«Tornerò alla Staatsoper nel 2020, a dodici anni proprio dal “Così fan tutte”. I teatri di Stato hanno il vantaggio di avere un grande repertorio, per cui si possono mettere in scena una sessantina di titoli dall’oggi al domani, e si va all’opera come al cinema. Lo svantaggio è che certe vecchie produzioni, senza essere provate, diventino fatalmente routine. Ma parliamo di Vienna, e di una grande realtà culturale».
MOZART, Requiem (K 626):
DIES IRAE (CORO)
(dal "Requiem")
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
L’inesauribile Don Giovanni di Mozart
di Alberto Mattioli (La Stampa, 26.05.2016)
Il 29 ottobre 1787 il mondo diventò un posto migliore dove vivere, benché un po’ più inquietante. Quella sera, a Praga, debuttava Don Giovanni, «dramma giocoso» di Lorenzo Da Ponte, musica di Wolfgang Amadé Mozart, «opera delle opere» e capolavoro assoluto, anche di ambiguità. La sera della prima è il titolo di un consigliabilissimo libro di Giorgio Ferrari (La Vita Felice, pp. 197, € 14,50), sottotitolo «Mozart, Da Ponte, Casanova e la nascita di Don Giovanni».
Ferrari non è un musicologo né un critico musicale: di mestiere, fa l’inviato di guerra e l’editorialista ad Avvenire. Infatti sa scrivere e soprattutto lo fa pensando al lettore e non ad altri specialisti. Il suo reportage su quella famosa sera, con tutti i relativi antefatti, non racconta nulla di nuovo, ma lo racconta bene. Ed è documentato: Ferrari si fa leggere anche perché ha letto tutto quel che doveva.
La variabile è ovviamente Casanova. Che fosse alla prima del Don Giovanni, è possibile e forse probabile; che abbia in qualche modo collaborato all’opera, è pure possibile ma improbabile; che collaborare gli sarebbe piaciuto, è certo, se nelle sue carte vennero trovate due varianti al libretto di Da Ponte, decisamente peggiorative (fra parentesi: Da Ponte è uno dei maggiori drammaturghi della letteratura italiana e Casanova uno degli scrittori più divertenti, ma di quella francese).
È noto che della genesi del Don Giovanni non sapremo mai tutto, e che troppi misteri resteranno insoluti. Questo libro però ha due pregi. Il primo, di riordinare i fatti con l’acribia di un giudice istruttore; il secondo, di non prendere per fatti delle supposizioni, anche le più suggestive. Oltre a regalarci qualche sintesi folgorante come questa: «Impensabile, prima di quel 29 ottobre, che un dramma giocoso potesse mettere in gioco abissali congegni di vita e di morte mantenendo intatto il respiro di una comicità leggera assieme alla profonda necessità di una superiore istanza morale, mescolando il dolore alla beffa, il perdono alla crudeltà, l’istinto alla ragione. Nessuno prima di lui aveva mai osato tanto. Ma lui è Mozart».
Ontologia massonica
L’arpa del Gran Maestro
I dialoghi di Lessing e Herder mettono in luce l’armonia scaturita dall’unione tra illuminismo e neoplatonismo
di Silvia Ronchey (Il Sole-24 Ore, Domenica, 07.06.2015)
Mozart e Goethe, Mesmer e Lavater, Robespierre e De Maistre. Quasi nessun intellettuale nel secolo della rivoluzione francese è riuscito a non essere massone. Il fatto è che illuminismo e massoneria non solo avevano ideali comuni, ma condividevano un linguaggio. Libertà, fraternità, soprattutto uguaglianza - tra classi e non solo tra pari grado - erano parole d’ordine anzitutto massoniche, come si vede bene negli scritti di due filosofi tedeschi, maestro e discepolo, illuministi e massoni, ora raccolti e per la prima volta tradotti in italiano con testo a fronte nel volume della collana di Giovanni Reale, Il Pensiero occidentale, l’ultimo ad avere visto la luce prima della morte del suo ideatore e direttore. L’Ernst e Falk di Lessing, suddiviso in cinque contraddittori, e i Massoni di Herder, due conversazioni che proseguono quelle del maestro, sono composti programmaticamente nella forma platonica - e teatrale - del dialogo e da molti considerati la vetta della filosofia massonica moderna.
Possiamo davvero parlare di vetta, o di filosofia? In un celebre aforisma Nietzsche scrisse che Herder «ebbe la sfortuna che i suoi scritti fossero sempre insieme troppo nuovi e già invecchiati», fossero «qualcosa di vecchio fin dal loro apparire». Forse aveva intuito una verità, ma senza comprenderne le implicazioni. Forse quella attribuita da Nietzsche a Herder è in realtà l’essenza del pensiero massonico: un pensiero antifilosofico che ha il preciso intento di essere al di sopra della portata degli incolti e al di sotto di quella degli intellettuali di professione.
Da parte di entrambe le categorie finisce per essere sottovalutato, ma è a un altro gruppo, per così dire mediano, che si rivolge: a quegli «uomini saggi che nei vari Stati non soggiacciono ai pregiudizi della loro religione di nascita, che non si lasciano abbagliare dalle elevate distinzioni civili, cui non ripugna l’irrilevanza sociale, ma che sono superiori ai pregiudizi del popolo e sanno esattamente quando il patriottismo cessa di essere virtù» - quegli uomini che Lessing fa descrivere a Falk alla fine del secondo dialogo con Ernst e che compongono il clero laico di una «chiesa invisibile».
Questi uomini “saggi” univano al culto della ragione proprio dell’illuminismo quello dell’antica sophia dei greci. Saggezza e ragione, Weisheit und Vernunft, canta Sarastro nel più celebre e diffuso manifesto massonico del Settecento tedesco, il Flauto magico di Schikaneder e Mozart. Secondo Lessing e Herder la massoneria è sempre esistita perché i suoi principi sono connaturati all’anima umana e perché il suo nucleo è innato, universale ed eterno come l’anima mundi e come lo spirito del mondo, il Weltgeist.
Che l’ontologia massonica di Lessing affondi le sue radici non solo nella tradizione degli antichi culti misterici ma specificamente in quella del neoplatonismo e nella sua idea di anima del mondo è stato già da tempo argomentato dal curatore del volume Moreno Neri, che ce lo ricorda a più riprese, sommessamente, con tipico understatement, nell’immenso lavoro di traduzione e di commento. È solo apparente il contrasto tra la matrice illuministica settecentesca e quella neoplatonica antica e bizantina, anche questa permeata di egualitarismo e utopia sociale, anche questa insieme mistica e razionale, esoterica e pratica, “speculativa” e “operativa”, per usare una distinzione avversata da Guénon.
È l’eredità delle scuole platoniche e neoplatoniche greche, perpetuate carsicamente lungo tutto il millennio di Bisanzio in un flusso ininterrotto dove la distinzione tra paganesimo e cristianesimo era irrilevante, a trasmettersi al rinascimento italiano e europeo per il concreto e personale tramite degli ultimi emigrés bizantini guidati da Giorgio Gemisto Pletone. È dalle fratrìai di quei greci, trapiantate a nordovest all’inizio dell’età moderna, che nascerà la fraternitas massonica settecentesca, nuova e globale fratrìa di cui l’illuminismo tedesco sgombrerà gli argini e sonderà i confini.
La complexio oppositorum illuminismo-neoplatonismo è l’elemento della cultura se non della filosofia massonica che i dialoghi di Lessing e Herder, grazie anche al loro commento, mettono in luce. Se nell’unione sapienziale degli opposti si realizza l’armonia universale, quella colossale arpa dalle molte corde che Herder vede in mano al Gran Maestro del mondo, come annoterà Heine in calce al suo secondo dialogo, è all’insegna di un’armonia discorde, dissonante e spesso dissacrante, che si rifonda la mass-masonry, la nuova massoneria massificata nel mondo della rivoluzione industriale.
Lessing sostiene il diritto all’autoiniziazione, fondata sul riscontro individuale, sull’intimo riconoscimento, sull’intuizione privata dei princìpi massonici, contrapposta al ritualismo narcististico dell’iniziazione esteriore. In politica legalista, democratico e libertario, in questi scritti esoterici Lessing fa balenare così un ideale anarchico e elitario, se non perfino reazionario, che culmina nel motto sibillino con cui si chiude il primo dei contraddittori tra Ernst e Falk: «Le vere azioni dei massoni hanno l’obiettivo di rendere superflua la maggior parte di quelle che si considerano comunemente buone opere». Più leggibile e forse più attuale la formula con cui Herder definisce lo scopo della «ricostruzione massonica dell’umanità»: essere onesti, prendere con semplicità in mano la cazzuola e «realizzare il bene là dove la politica dei governi non arriva o fallisce, ovvero dare aiuto ai deboli, ai poveri e ai giovani».
Storia della lingua
L’italiano andò in America
Fu Lorenzo Da Ponte, autore dei libretti più celebri di Mozart, che all’età di 80 anni da innamorato dei nostri classici, li lanciò insieme all’insegnamento della lingua
di Nicola Gardini (il Sole Domenica, 09.02.2014)
Come certi grandi fiumi o imperi dell’antichità, anche le discipline accademiche possono formarsi da stente origini. È il caso dell’italianistica americana. Oggi, pur menomati dalla diffusa crisi antiumanistica, gli «Italian Studies» vengono praticati in decine di dipartimenti, per tutto il paese; alimentano carriere, spesso prestigiose e remunerative, corsi di laurea e dottorati, biblioteche, convegni, associazioni e riviste; e, a differenza dell’italianistica italiana, si danno gli oggetti più svariati: non solo Dante, Petrarca, Boccaccio, Machiavelli, Castiglione, Tasso, tolti comunque dalla patriottica bacheca della cosiddetta storia letteraria e riletti alla luce di ben altri paradigmi culturali, ma anche le mistiche medievali, le petrarchiste del Cinquecento, Michelangelo poeta, i teorici post-tridentini; e pure i romanzi di Calvino, di Levi e di Eco, il Gattopardo, Pasolini, e la storia dell’arte, i film (muti e no), la politica, la mafia, la storia (specie quella novecentesca, compresa la recentissima), la televisione, la cucina, l’opera lirica, la moda, eccetera. Sul principiare del diciannovesimo secolo, invece, all’Italia gli americani erano del tutto indifferenti, o quasi.
Nessuno nel nuovo continente ne sapeva nulla né desiderava saperne alcunché. Nonostante il successo internazionale del melodramma, non attirava nemmeno la sua lingua, alla quale si preferivano quelle di Francia e di Spagna, considerate più utili per il commercio.
Se a un certo punto il rigagnolo divenne fiume, gran parte del merito è stato di un uomo, Lorenzo Da Ponte, quello stesso Da Ponte che aveva firmato qualche decennio prima i libretti più celebri di Mozart, e che, non per niente, era convinto che il suo compito avrebbe avuto piena realizzazione solo quando avesse imposto sul suolo americano anche il teatro cantato.
Quasi ottantenne, innamorato dei classici italiani e convinto che l’italiano fosse la lingua più bella del mondo e non avesse nulla che invidiare in flessibilità ed eleganze neppure al greco classico, promuoveva la tradizione del suo paese con un vigore e una ardore che avevano della frenesia apostolica.
A New York, dove era arrivato fin dal 1805, importò migliaia di volumi, lanciò l’insegnamento dell’italiano e della sua letteratura, a livello privato e no, creò una biblioteca, tentò di aprire una libreria e finì per inaugurare, decrepito nel fisico, ma non nella mente, la prima cattedra di italiano di Columbia University. Questa straordinaria attività fu accompagnata dalla composizione di discorsi apologetici, pieni di proteste contro il disinteresse degli americani, uno dei quali, Storia della lingua e letteratura italiana in New York, del 1827, viene ora ripubblicato dal Polifilo in un volume delizioso, editorialmente esemplare, per le cure di Lorenzo della Chà, già curatore dei libretti di Da Ponte e di un’ottima biografia dello stesso.
Leggendo questo centinaio di pagine, che propagandano i grandi libri italiani e proclamano fieramente il compito messianico del loro autore (temi che tornano nell’ultima parte delle stesse Memorie), non si può non pensare che la grande impresa di Da Ponte sia stata la fantasia di un emigrato. Insomma, i suoi giudizi sulla lingua e sulla letteratura italiana sono nati, oltre che dall’ammirazione per la bellezza, anche dalla nostalgia e dal confronto con i fantasmi della disidentità. Le esasperazioni della vecchiaia e un narcisismo missionario di entità byroniana diedero poi una mano.
D’altronde, che razza di italiano poteva essere o pretendere di essere questo signor Lorenzo Da Ponte, nato a Ceneda, nel Veneto, uno dei tanti stati disuniti di quella penisola cui solo per fedeltà alla storia pristina si attribuiva ancora il nome latino? L’italianità per lui come per altri, non solo i dipartiti, era una proiezione della lettura. Leggo, dunque sono.
Ma Da Ponte - ecco l’altro aspetto di questa ardimentosa Storia che colpisce il cuore e che gli italianisti, in particolare quelli che si formano e lavorano in Italia, dovrebbero far loro - non leggeva né proponeva agli americani di leggere soltanto poeti e letterati. La sua biblioteca ideale (ma pure reale, dato che per davvero la mise assieme, di acquisto in acquisto, e a caro prezzo) constava, oltre che di poesia e teatro, delle scritture dei più diversi ingegni e delle più varie materie: medicina, giurisprudenza, architettura, fisica, chimica, matematica, storia. I fari di tanto spettacolare canone sono Machiavelli e Beccaria, scrittori supremi, ma non certo bellettristici. E, come si apprende dalle Memorie, vi rientrano anche le migliori traduzioni dei classici latini e greci e volgari.
Questo, quando elogia le grandezze linguistiche e letterarie dell’Italia, ha ancora da insegnarci il bravo autore di Don Giovanni: a cercare nella tradizione italiana pensiero, impegno civile e scienza; a includere, ancora rinascimentalmente, nel concetto di «lettere» ogni ramo del sapere, non solo le melopee, abolendo l’atavica dicotomia tra letteratura e scienza, la quale, se continua a recare il nobilitante sigillo di Platone e di tanti suoi emuli, ha pur sempre la responsabilità di dar forma a pedagogie presuntuose e fuorvianti.
Quel massone di Mosè
L’origine misteriosa dell’ebraismo
Finalmente tradotto in Italia il fondamentale studio di Reinhold gesuita, poi protestante e "libero muratore"
Il relativismo che propone confronti e analizza le relazioni è il motore che fa avanzare la conoscenza
Il profeta è visto come un capo politico che ha fatto della sapienza egizia la religione del suo popolo
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 09.12.2011)
Il relativismo è la bestia nera di tutti i fondamentalismi religiosi. Chi propone una verità esclusiva non tollera che la sua merce sia messa sullo stesso banco delle altre, paragonata e soppesata e magari individuata come un prodotto storico, con tanto di data di nascita e rapporti di parentela con quelli della concorrenza. E tuttavia non c’è dubbio sul fatto che la cultura occidentale è impastata di relativismo: lo scopriamo ogni volta che ci confrontiamo con l’alterità culturale di paesi dove - è storia di questi giorni - i meccanismi elettorali democratici portano al potere partiti religiosi. Naturalmente, qui si impone una distinzione necessaria: c’è un relativismo banalizzante, quello che si esprime nella considerazione che non c’è niente di nuovo sotto il sole; e c’è un relativismo stimolante, quello che confronta, analizza e cerca di cogliere le relazioni. Quando Niccolò Machiavelli confrontò Mosé con Numa Pompilio e la religione antica di Roma con quella della Roma cattolica, fece il salto di qualità che distingue il relativismo banalizzante dal distacco intellettuale di chi si pone come osservatore al di fuori e davanti all’oggetto osservato. In termini di storia della cultura, la conquista del punto di vista dell’osservatore occupò la cultura europea su di un lungo arco di tempo, dal ’400 italiano fino all’Illuminismo, passando attraverso la scoperta dell’America e le tragedie delle guerre di religione e del colonialismo benedetto dai missionari cristiani.
Ma questo stesso percorso si propose e continua a riproporsi nella vita delle persone e può essere compiuto nello spazio di una vita individuale. Lo dimostra il caso di Carl Leonhard Reinhold, un autore importante nella cultura di lingua tedesca che solo oggi trova per la prima volta un editore italiano. Sulle sue qualità di scrittore basti dire che senza la sua opera la filosofia di Kant non avrebbe conquistato il mondo della scuola e dell’università nel secolo d’oro dell’idealismo filosofico.
Ma la ragione che riporta tra noi questo scritto va cercata nella biografia intellettuale di uno dei più noti e letti studiosi del fenomeno religioso e della teologia politica. Senza questo scritto forse Jan Assmann non avrebbe avuto l’idea di fondo del suo Mosé l’egizio. Perché questo è precisamente il tema del piccolo libro di Reinhold, I misteri ebraici ovvero la più antica massoneria religiosa, edito da Quodlibet (pagg. 258, 18 euro), a cura e con un saggio di Gianluca Paolucci e con una introduzione scritta appositamente da Jan Assmann.
Davanti a un titolo che parla dell’ebraismo come la più antica massoneria forse qualche lettore si chiederà se non si tratta per caso dell’accusa di complotto giudaico-massonico scagliato contro i rivoluzionari francesi a fine ’700 dall’abate Barruel e diventato la fissazione dei gesuiti della Civiltà cattolica negli anni di quella feroce battaglia antigiudaica e antimassonica che li vide condividere l’antisemitismo del "socialismo degli imbecilli". Il fatto è che Reinhold fu gesuita e massone. Un fatto solo apparentemente singolare, che ci aiuta a capire come la storia cambi continuamente i colori delle cose e i significati delle parole. Nel suo tempo tra Compagnia di Gesù e Massoneria ci fu un’intensa simpatia; i gesuiti frequentavano le logge stimolati dall’idea che presiedeva all’origine del loro Ordine, quella della fiducia nel potenziale rivoluzionario dell’intelligenza come strumento d’azione di una piccola élite illuminata da Dio.
Carl Leonhard Reinhold (nato in Austria nel 1758, morto a Weimar nel 1823) cominciò la sua carriera come gesuita e lo rimase fino allo scioglimento della Compagnia, un evento traumatico per un Ordine religioso che si sentì mal protetto dal papato e che vide la dispersione degli ex membri. La storia dei gesuiti nell’impero asburgico e dei loro percorsi massonici, come ha mostrato un ottimo libro di Antonio Trampus, vide i membri del disciolto Ordine religioso confluire nelle logge massoniche per dividersi poi tra un versante illuministico aperto a idee rousseauiane e un versante reazionario di appoggio all’assolutismo.
Reinhold non seguì né l’uno né l’altro filone: convertitosi al protestantesimo per l’influsso di Herder, trovò in Kant il maestro della sua vita, colui al quale dedicò la sua straordinaria capacità di divulgatore e di docente universitario nella fase matura della sua attività. Da questo rapido curriculum si può già intuire come i percorsi della sua vita lo avessero predisposto al relativismo e stimolato alla comparazione.
La Compagnia di Gesù aveva portato un suo straordinario contributo in tal senso quando, sul fondamento di un impulso mistico all’azione salvifica, aveva innestato il suo metodo che fu detto dell’accomodamento: porsi dalla parte dell’altro, imparare la lingua di giapponesi, cinesi, indios d’America, abituarsi a vedere le cose coi loro occhi come mezzo per poter meglio conquistare neofiti al cristianesimo. Ma il mezzo era rischioso, come intuirono i rivali domenicani. Comportava da un lato l’abitudine a ricercare analogie e parentele, e dall’altro la semplificazione delle dottrine, col risultato di spogliare il cristianesimo della lussureggiante vegetazione di culture europee cresciuta sul suo tronco.
Quanto al lavoro della comparazione, i punti obbligati di riferimento erano sempre quelli: la religione ebraica, madre che resisteva all’abbraccio e alle vessazioni dei figli cristiani; e la misteriosa religione egizia, con quelle piramidi e quei tipi umani così simili ai reperti archeologici delle culture dell’America centrale da suggerire l’ipotesi di una lontanissima migrazione di popoli mediterranei oltre Oceano.
L’idea di Reinhold fu semplicissima: mentre altri sviluppavano comparazioni superficiali cercando analogie formali fra miti pagani antichi e racconti biblici, egli propose l’idea di un nesso diretto, un anello storico di trasmissione tra i misteri egizi e la religione mosaica. L’anello sarebbe stato Mosé, una specie di massone ante litteram, un capo politico che avrebbe fatto della sapienza segreta degli egizi la religione del popolo ebraico.
Era un passo ulteriore rispetto all’intuizione di Machiavelli. Si poteva così ritrovare il nucleo della religione di Mosé in quei misteri egizi così familiari ai frequentatori delle logge massoniche e prima che a loro all’erudizione curiosa e raffinata della cultura gesuitica del ’600. Dalla comparazione nasceva un’ipotesi di derivazione e di sviluppo. È su questa base che si doveva sviluppare ai nostri giorni la ricerca di Jan Assman. Ma anche, prima e più in generale, doveva partire da qui l’impulso a porre la comparazione come metodo al centro della moderna scienza storica delle religioni in un assetto statale del sapere.
E il faraone creò il monoteismo
di Marco Rizzo (Corriere della Sera, La Lettura, 13.03.2016)
Jan Assmann (Lubecca, 1938), è noto per i suoi studi sulla nascita del monoteismo e la violenza da cui esso sarebbe segnato. Nella sua visione, il Dio della rivelazione mosaica è il primo a imporre ai fedeli il divieto di intrattenere rapporti con altre divinità («non avrai altro Dio al di fuori di me»), mentre il politeismo antico, per sua stessa natura, permetteva la comunicazione e lo scambio di dèi tra popolazioni differenti.
In questo senso, Mosé e la Bibbia risultano gli eredi del fallito tentativo di imporre al popolo egiziano il culto esclusivo del dio Sole da parte del faraone Amenofi IV, che per questo motivo cambiò il suo nome in Akhenaton («amato dal Sole»). Viene da qui il titolo del libro più celebre di Assmann, Mosé l’egizio (Adelphi, 2000). Il monoteismo comporta quella che lo studioso tedesco definisce la «distinzione mosaica», ovvero il principio secondo cui a un solo Dio corrisponde una sola verità, che diviene pertanto un criterio di conflitto tra identità diverse. Dalla matrice biblica ed ebraica, il principio monoteistico e le sue implicazioni sono passati prima al cristianesimo e poi all’islam, creando un legame complesso tra religione, politica e violenza.
Compare ora presso Morcelliana una lunga intervista originale, in cui Assmann ripercorre la propria biografia intellettuale e scientifica, mostrando, fin dal titolo scelto, Il disagio dei monoteismi (a cura di Elisabetta Colagrossi, pp. 96, e 11), il legame non pacificato che egli ha intrattenuto con l’oggetto dei suoi studi.
Questo Don Giovanni ha letto Camus
Spettacolo bellissimo
Trionfano il regista Robert Carsen e il maestro Barenboim
Un gruppo di cantanti quasi tutti eccellenti anche come attori.
Raffinato il continuo gioco di teatro nel teatro...
Impeccabile Kwanchul Young (Commendatore), mentre S. Kocan era un modesto Masetto.
di Paolo Petazzi (l’Unità, 08.12.2011)
Sulle prime note dell’ouverture Don Giovanni balza dalla platea al proscenio e strappa il sipario, alla fine riappare e con un gesto fa precipitare all’inferno i personaggi che hanno cantato la improbabile «morale» della vicenda: non soltanto in questi colpi di scena egli appare quasi il regista delle vite di coloro che ruotano intorno a lui come satelliti attingendo alla sua dirompente energia vitale. Senza di lui non possono vivere, o non sono gli stessi, come dimostra il non lieto fine: anche questo fa capire nel suo bellissimo spettacolo il regista Robert Carsen, che vede Don Giovanni come un personaggio inafferrabile e indefinibile, un libertario che vive solo nel presente e si spinge oltre ogni limite mosso da una amara consapevolezza, da una visione esistenzialistica della assurdità della vita: un Don Giovanni che ha letto Camus.
La coerenza e l’efficacia teatrale dello spettacolo di Carsen e dei suoi consueti eccellenti collaboratori (scene di Michael Levine, costumi di Brigitte Reiffenstuel) hanno un carattere per qualche aspetto intellettuale e riflessivo, e ciò rende particolarmente congeniale e interessante l’incontro con l’interpretazione di Daniel Barenboim, che ha nel Don Giovanni sempre prediletto tempi piuttosto lenti, usandoli con molta raffinatezza. Barenboim e Carsen hanno inoltre collaborato con un gruppo di cantanti quasi tutti eccellenti anche come attori.
Nel continuo gioco del teatro nel teatro ideato da Carsen, più esplicito che mai nel II atto (quando Don Giovanni assiste da spettatore alle vicende di Leporello travestito con i suoi abiti), le scene sono tutte riferite alla Scala, con una riproduzione del sipario o con elementi mobili che lo riprendono solo parzialmente, o con vertiginose prospettive illusionistiche, oppure con gli effetti creati da un gigantesco specchio. Per esempio davanti al sipario riprodotto sta il letto su cui Don Giovanni e Donn’Anna si stringono in amplesso all’inizio e su cui muore il Commendatore (ucciso involontariamente).
Nella scena del cimitero i palchi scaligeri riflessi dallo specchio fungono da loculi, da tombe: così il palco centrale (che ieri sera ha ospitato le più alte autorità) diventa, nello specchio, la tomba del Commendatore che vi appare quando accetta il fatale invito a cena di Don Giovanni. I costumi sono atemporali: per esempio si comincia in abiti moderni, ma nel Finale del I atto tutti sono mascherati e vestono abiti di velluto rosso (come le poltrone della Scala) di foggia settecentesca. Il protagonista si diverte a cambiare continuamente d’abito. Gli invitati alle nozze di Masetto e Zerlina vestono da cafoni anni 50; ma sono muniti di telefonino (allusione ad un certo pubblico scaligero).
Barenboim dirige un’orchestra di dimensioni cameristiche (come era quella di Mozart) e stacca tempi che gli consentono di indugiare con grande finezza su infiniti dettagli della mirabile partitura, con esiti di intensità meditativa che sembrano creare una armonia prestabilita con alcuni aspetti dello spettacolo. Peter Mattei è un protagonista magnifico per l’autorevolezza vocale e per l’identificazione con il personaggio creato da Carsen. Anna Netrebko è una Donn’Anna di tormentatissima intensità e rara bellezza vocale, Barbara Frittoli una Donna Elvira teneramente disperata, Bryn Terfel un Leporello di straordinaria vitalità teatrale (che fa dimenticare i limiti vocali), Anna Prohaska una valida Zerlina (che Carsen mostra sicura e aggressiva), Giuseppe Filianoti un nobile Ottavio.
Mozart, la seduzione è un gioco di specchi
L’allestimento di Carsen riflette la sala e vi porta l’azione. Lenta, raccolta, emozionante la direzione di Barenboim
di Giorgio Pestelli (La Stampa, 08.12.2011)
Peter Mattei perfetto Don Giovanni come «fisico del ruolo» per eleganza e agilità Bryn Terfel non avrà più la voce di una volta, ma è un Leporello irresistibile per simpatia splendida la Donna Anna di Anna Netrebko, orgogliosa e piena di ansia misteriosa Teatro nel teatro: la regia di Robert Carsen gioca con gli specchi e proietta sullo sfondo i palchi della Scala
Un Don Giovanni di prepotente evidenza scenica ha aperto la nuova stagione scaligera, accolto da un vivissimo successo. La bacchetta di Daniel Barenboim aveva appena calato il primo fortissimo che dalla platea salta su Peter Mattei e ruba letteralmente la scena, lacerando un fondale dietro cui appare la Scala riflessa a se stessa da uno specchio: è qui infatti che il regista Robert Carsen e il suo scenografo Michel Levine collocano l’azione dell’opera, quasi citando i Contes d’Hoffmann di Offenbach: teatro nel teatro, con sale di prova, costumi e attrezzi in vista, e naturalmene Don Giovanni supremo primo attore e capocomico.
L’idea non sarà nuova, d’accordo, però la bravura del regista nel manovrare personaggi e muovere la scena ottiene allo spettacolo un ritmo serrato e incalzante; e più ancora si appunta su un protagonista affascinante, il Mattei appunto, perfetto come «fisico del ruolo» per eleganza e agilità, capace di modulare la sua voce in tutte le sfumature dalla seduzione alla sfrontatezza, onnipresente inventore di intrighi che sa godersi anche come spettatore. La dinamica dell’azione esce dal palco e invade la sala, con personaggi che spuntano fra il pubblico e si dileguano o riemergono dai palchi di proscenio; e il Commendatore che redarguisce Don Giovanni dal palco reale, dove sedeva il presidente Napolitano con le autorità.
A questa esuberanza visiva è curioso come si sposi la direzione musicale di Barenboim che è tutta compostezza e raccoglimento; lo sfrecciare della regìa è come messo in rilievo dalla calma, dai tempi lenti scanditi dal direttore. L’orchestra è ridotta alle proporzioni della più schietta sonorità mozartiana: suono splendido, tessuto sempre trasparente e squisitezze di fraseggio, con i legni della Scala, oboe, clarinetto, flauto e fagotto che fanno meraviglie; quanto ai respiri, agli accenti parlanti degli archi nei grandi recitativi accompagnati, Barenboim li fraseggia con la più emozionante intensità. Dell’opera c’è tutto, anche i pezzi scritti in un secondo tempo per la versione viennese, con arie, in sè bellissime, che ritardano l’azione: ma mentre il direttore le fa risplendere nella loro bellezza, il regista evita il rallentamento isolandole dal contesto: Donna Elvira canta Mi tradì quel’alma ingrata su una vertigine di prospettive astratte, mentre Non mi dir bell’idol mio di Donn’Anna si ascolta a sipario chiuso, come in un concerto.
Di tutte le facce della complessa figura di Don Giovanni, Carsen privilegia ad evidenza l’erotismo: un erotismo trionfante e appagato, fin dall’inizio con l’abbraccio consenziante di Donn’Anna nel suo letto, e poi via via con le altre donne che mostrano una propensione naturale a spogliarsi non appena vedono Don Giovanni (ad onta dei bei costumi di Brigitte Reiffenstuel, sono quasi sempre in sottoveste e una servetta muta introdotta da Carsen non ha nemmeno quella). Eppure, il fondo amaro, l’irrequietezza permanente di questo erotismo a ruota libera si percepisce lo stesso, resta attaccato all’audace libertino come ai suoi ammiratori.
La compagnia vocale si amalgama bene alla figura dominante del protagonista e alla coerenza dello spettacolo. Bryn Terfel non avrà più la voce di una volta, ma è un Leporello irresistibile per vivacità e simpatia, al quale inoltre il «parlando» conviene certe volte piùdel canto vero e proprio; splendida la Donna Anna di Anna Netrebko, orgogliosa nell’ intrepidezza di Or sai chi l’onore e piena di ansia misteriosa nel racconto della seduzione («Era già alquanto avanzata la notte») ; sempre ammirevole Barbara Frittoli che regge la parte durissima di Donna Elvira; qualche stanchezza nella voce scompare davanti a una interpretazione che non flette di un attimo l’appassionata tensione.
Il Don Ottavio di Giuseppe Filianoti canta con senso dello stile mozartiano, anche se non sempre irreprensibile nell’intonazione delle note acute; un po’ piccola la voce di Anna Prohaska ma di garbo graziosissimo e con qualche difficoltà di pronuncia il vigoroso Masetto di Stefan Kocan: ma bisogna anche dire che Carsen qualche volta li fa cantare troppo in fondo al palco; convenientemente autorevole il Commendatore di Kwangchul Youn. La trovata finale, con Don Giovanni che riappare fumando una sigaretta, mentre i suoi compagni di avventura precipitano all’inferno, sanziona il mito indistruttibile del personaggio, per altro già chiaro, ma complica un poco la linea della regìa.
Ritrovato il frammento di un’opera scritta insieme. Crolla la leggenda dell’eterna rivalità
Mozart Salieri
Quando per amore della stessa donna i grandi nemici divennero complici
di Leonetta Bentivoglio (la Repubblica, 23.01.2016)
Mozart e Salieri erano rivali o complici? Possiamo immaginare una coppia di duellanti scatenati fino alla morte del primo, il più bravo, che ci si è spinti a supporre (ma non c’è certezza) avvelenato dal secondo, geloso del suo talento fino al livore omicida? O erano colleghi capaci all’occorrenza di un’intesa? Si saprà mai la verità sull’antagonismo più favoleggiato della storia della musica, riflesso nel contrasto fra lo splendore di un’ispirazione immensa, quella mozartiana, e una scrittura definita da molti “di maniera”, quella di Salieri, che ha consegnato ai posteri un autore poco eseguito, benché giustamente rivalutato negli ultimi tempi?
Nulla potrà essere dimostrato in modo definitivo. Ma il ritrovamento a Praga di un esemplare di una cantata commemorativa composta da Mozart insieme a Salieri getta una luce nuova su una vicenda di potenza metaforica così straordinaria (genio e sregolatezza contro il rigore delle convenzioni) da aver stimolato la fantasia di uno scrittore come Aleksandr Puskin, con la sua piccola tragedia Mozart e Salieri (1830), poi messa in musica da Rimskij-Korsakov. E a tal punto, nel periodo romantico, si dilatò la parabola del conflitto fra i due musicisti, da approdare sia al teatro che al cinema nel Novecento, grazie al dramma di Peter Shaffer Amadeus (1978) e al film che ne trasse Milos Forman (1984), premiato da ben otto Oscar. Un successo che ha rilanciato il mito e la popolarità del musicista austriaco. E anche un inopportuno e falsante B Movie, secondo musicologi esperti, pieno di aberrazioni e inesattezze storiche, oltre che offensivo verso entrambi i compositori. In particolare nei confronti di Mozart, ritratto come un fricchettone settecentesco rozzo e inconsapevole: tutto all’opposto di ciò che in realtà fu Wolfgang, secondo la parte più consistente e accreditata della musicologia contemporanea. Vedi Robbins Landon, il quale ha aperto la strada alla visione di un Mozart illuminato e profondo nella sua fisionomia decisiva di esponente dell’evolutissima e democratica massoneria viennese.
Il documento giunto a incrinare la leggenda dello scontro Mozart-Salieri nasce da quest’episodio: nel giugno del 1785 Nancy Storace, soprano inglese destinata a divenire la prima Susanna delle Nozze di Figaro, nonché pupilla di Giuseppe II, perse la voce cantando a Vienna Gli sposi malcontenti, opera composta da suo fratello Stephen Storace. Molta attesa era la sua interpretazione di Ofelia nell’opera di Salieri La grotta di Trofonio, e sarebbe passato qualche mese prima che la diva potesse tornare in forma. La notizia della sua guarigione fu celebrata in ottobre da una cantata chiamata (in italiano) Per la ricuperata salute di Ofelia, pastiche firmato da Mozart, Salieri e un tale “Cornetti”, scritto in corsivo: forse pseudonimo di un mecenate della Storace o forse del tenore e maestro di canto Alessandro Cornet. La stampa dell’epoca annunciò con esultanza il debutto della composizione, di cui però non fu mai reperito un esemplare.
Di recente il compositore e musicologo Timo Jouko Herrmann, specialista in Salieri, s’è imbattuto per caso, durante i suoi studi presso la biblioteca del Museo nazionale di Praga, nel titolo della cantata, i cui versi furono scritti da Lorenzo Da Ponte, abile librettista della trilogia “italiana” di Mozart formata dalle Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte. Aperto il file del catalogo e vedendo citato il pezzo, Hermann ne ha chiesto una copia digitale al Museo, restando sconvolto dalla loro gentile replica: vuole visionare anche lo spartito? Dunque la musica era lì, acclusa al testo, che appare scandito in trenta strofe di spirito bucolico. Il documento consta di una riduzione per voce e accompagnamento di basso continuo (“Generalbass”), ma sembra che in origine fossero previsti vari strumenti. La parte che sarebbe creata da Mozart è un Andante di 36 battute che comincia con il verso “Quell’agnelletto candido”. Ora ci sta lavorando sopra la Fondazione Mozarteum di Salisburgo, che tra breve ne presenterà la ricostruzione.
Dal ritrovamento risulterebbe che tra Mozart e Salieri non ci fu alcun odio? La risposta è delicata almeno quanto il mistero che avvolge le cause della morte precoce di Wolfgang, a 35 anni. Circolarono a lungo ipotesi di un avvelenamento (avvallata dallo stesso Mozart agonizzante, secondo una testimonianza indiretta), e la diceria che il veleno arrivasse da Salieri invase per molti anni l’Europa, malgrado le continue autodifese dell’italiano, che si dichiarò sempre calunniato. Visitato nel 1823 da un allievo di Beethoven, Salieri, ormai vecchio e malatissimo, lamentava la “pura malvagità” di quella supposizione. Poco dopo tentò invano di suicidarsi, e Schindler, segretario di Beethoven, annotò sui suoi diari lo sconvolgimento della sua mente e il “vaneggiare di essere responsabile della morte di Mozart”. Gli studi medici, però, tendono a escludere l’avvelenamento e parlano di decesso di Mozart per infezione da streptococco o per febbre reumatica.
Resta il fatto che, tra scambi e collaborazioni, Salieri e Mozart ebbero spesso rapporti anche sostanziali, pur se talvolta normalmente complicati dalle tresche di “palazzo”. Figura interessante nelle sue sfaccettature (fra l’altro ebbe fra i suoi allievi Beethoven, Schubert e Liszt, che ne lodarono le virtù di pedagogo), Antonio Salieri lavorò per mezzo secolo alla corte degli Asburgo, conquistando così un record senza paragoni, e negli anni Ottanta del Settecento Salieri e Mozart sono i due principali compositori di corte, in un’oscillazione tra complicità e screzi. Sono comunque numerose le testimonianze della loro stima reciproca. Il sedicenne di Salisburgo, nel 1773, dedica una serie di variazioni su un tema dell’opera La fiera di Venezia al ventitreenne operista di Legnago. Infine Salieri era in platea, fra gli spettatori entusiasti, alla prima del “Flauto Magico”. E mai sarebbe potuto accadere che uno dei figli di Mozart, il suo omonimo Wolfgang, che adorava il padre, studiasse proprio con un persecutore di Amadeus, cosa che fece.