Omaggio a Gianni Vattimo

IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS. Il "tema"(Gianni Vattimo), il "filo"(Emanuele Severino) ... e, cum grano salis, il messaggio evangelico (Giuseppe Betori). Ripartire dal nostro presente storico, dall’ "attuale"!: un "invito" al dialogo e a una più profonda comprensione antropologica e teologica - a cura di pfls

mercoledì 21 marzo 2007.
 

Gianni Vattimo - 23.8 Kb

Gianni Vattimo

Quando si diventa un «tema»

di GIANNI VATTIMO (La Stampa, 20.03.2007)

Il solo modo di vincere l’imbarazzo provocato dall’essere diventato (anche solo per motivi biologico-biografici come l’età) «tema» di un colloquio di colleghi filosofi - un imbarazzo che Derrida spiegava con la sensazione di essere trattato come già morto, o comunque come assente - è rifarsi al noto detto di un grande filosofo antico: Non ascoltate me, ma l’essere...

Un detto certo presuntuosissimo (quante volte lo abbiamo amichevolmente rimproverato a Emanuele Severino, che pure lo ripete senza alcuna iattanza), che però perde ogni aria di arroganza se si pensa l’essere non come l’eterna struttura di principi primi che dovrebbero spiegare tutto, ma come ciò che accade, appunto quello «che c’è», nel senso più banale del termine, e che una filosofia non più irrigidita sull’ideale metafisico-autoritario della ricerca delle essenze e della cause supreme può solo (tentare di) concepire come la storia in atto, la situazione, l’orizzonte comune, oggi, della nostra esperienza.

Chiunque sia il «tema» del colloquio, dunque, senza nascondersi la (riconoscente) soddisfazione che non può non provare chi si trova a ricoprire quel ruolo a preferenza di altri, ciò di cui si parla in un incontro come questo è soprattutto l’essere così concepito; ciò di cui si tratta è una «ontologia dell’attualità», che realizzi in qualche modo la definizione della filosofia come la formulò in modo esemplare Hegel, assegnandole il compito di essere «il proprio tempo pensato in concetti». Non è neanche detto che tutti gli interlocutori concordino su questa definizione - peraltro modesta, nonostante il termine ontologia, che sembra somigliare troppo a quello di metafisica.

Davvero la filosofia non è una scienza di «cose» che si tratta di conoscere «scientificamente» raggiungendo enunciati verificabili su cui possa fondarsi il «progresso della ricerca»? Ad alcuni pare che, pensata così, la filosofia perda il suo tradizionale prestigio, anche in termini di peso accademico (tutti i fondi alle scienze sperimentali?), si riduca a chiacchiera sulle (sempre vaghe) visioni del mondo, e si avvicini troppo al quotidiano - anche nel senso di giornale. Sarà davvero un male?


Caro Vattimo ti stimo ma ti critico

Provo ammirazione per il suo pensiero e la lucidità con la quale è sempre riuscito ad esprimerlo. Siamo in disaccordo sui contenuti: vi spiego perché

di EMANUELE SEVERINO (La Stampa, 21/3/2007)

Sulla Stampa di ieri abbiamo pubblicato un articolo sul convegno che si svolge oggi all’Università di Roma Tre in onore di Gianni Vattimo e un articolo di quest’ultimo in cui si citava Emanuele Severino, che oggi risponde all’amico e «collega» filosofo con questa lettera al nostro giornale.

Caro direttore,

innanzi tutto mi associo con molto piacere al festeggiamento fatto all’amico Gianni Vattimo dall’Università di Roma, preceduto da quello canadese. Ho grande stima del suo pensiero, innanzi tutto per la lucidità con la quale, fin dai primi libri, si è espresso. Niente fumo ma un periodare limpido che indica con chiarezza quali sono le intenzioni dell’autore.

Una vecchissima conoscenza

Conosco Gianni Vattimo da tantissimo tempo, addirittura da quando ai convegni di filosofia di Gallarate, negli anni Sessanta, lo vedevo raccolto in preghiera nella piccola cappella dove c’era soltanto lui. In questa direzione non dico altro, perché gli episodi di simpatica frequentazione, di discussione e di approfondimento del discorso filosofico, tra noi due, sono stati tanti. Naturalmente non siamo d’accordo su quello che la filosofia abbia ad essere. Però siamo d’accordo su un punto decisivo: che non si debba dare ascolto all’individuo che scrive o parla ma a quello che Gianni chiama «essere», e che propriamente è indicato da Eraclito (perché a Eraclito egli si riferisce nel suo scritto di ieri sulla Stampa) con la parola logos, che sì, si può tradurre heideggerianamente con «essere», ma che forse si potrebbe rendere anche con le parole «pensiero», «verità». Ma lasciamo stare, perché, in questa sede, sono dettagli.

Il logos non è né «debole» né «forte»

Gianni chiama «essere» l’«attualità», spogliandola dai paraventi solenni dell’episteme tradizionale. Ancora una volta vorrei dirgli che egli contrappone il «pensiero debole» al «pensiero forte» («pensiero debole» essendo, si può dire, tutto quello che si è fatto innanzi dopo il culmine epistemico costituito dal pensiero hegeliano), ma non tiene presente che il logos a cui il sottoscritto si rivolge non è né «pensiero debole» né «pensiero forte».

Infatti quest’ultimo è l’indicazione di quella «struttura», come dice Vattimo, che presume dettare al divenire del mondo le leggi inviolabili alle quali esso deve sottostare. Sia il «debole» che il «forte», cioè, partono dal riconoscimento di quel divenire altro delle cose che è il loro scindersi, il loro squartamento, il loro orrore, la matrice dell’angoscia essenziale dell’uomo. Anche il pensiero di Heidegger è completamente immerso in questo modo di pensare. Il logos al quale invece il sottoscritto fa riferimento è proprio la messa in questione di quella matrice dell’angoscia essenziale. In questo senso Gianni, riferendosi a me, manca il bersaglio. Lo invito da tempo ad aggiustare la mira.

Se la quotidianità ci trascina al profondo

Ma oggi è giorno di festeggiamento per lui - e quindi, in qualche modo, anche per me. E allora gli auguro affettuosamente di continuare a lungo a coltivare quell’attenzione per l’essere inteso come attualità, la quale però a volte riserva sorprese; perché anche la quotidianità non la possiamo trattenere alla superficie, ma spesso ci sollecita o addirittura ci impone di andar oltre, verso il profondo.


Vattimo, la forza del pensiero debole

Giorello: «Si è liberato della metafisica, anzi direi del "grasso superfluo"»

di MARIO BAUDINO (La Stampa, 20.03.2007)

ROMA. Weakining Philosophy, ovvero pensiero debole. Gianni Vattimo ne parlò in un libro dell’83 che portava questo titolo, e da allora il «pensiero debole» è diventato un crocevia della discussione non solo filosofica, in tutto il mondo. Nell’era del postmoderno si è imposto fra le chiavi di interpretazione cui non si può non fare riferimento, insomma è assurto a una sorta di canone filosofico oltre che a metafora-etichetta, usata anche da chi, di Gianni Vattimo, magari non ha mai letto un testo. Il passaggio da un «pensiero forte» al «pensiero debole», ci ha spiegato il filosofo di libro in libro, è quello tra il «moderno» e il «postmoderno», ossia tra una fase storica in cui si riteneva che le cose dovessero andare più o meno necessariamente di bene in meglio, e il nuovo fosse comunque migliore, a un’altra in cui tutto questo è messo in discussione, tanto che riesce difficile se non impossibile ragionare in base a valori forti e indiscutibili.

Detto altrimenti, non ci sono fatti ma solo interpretazioni, e anche un’affermazione di questo genere appartiene alla seconda categoria, non alla prima. Non è un «fatto». Ma allora come indirizzare il nostro agire? Per più di vent’anni Gianni Vattimo ha cercato risposte anche a questa domanda. E ora che di anni ne ha compiuti 71, filosofi di tutto il mondo gli hanno dedicato un’opera collettiva, dal titolo appunto Weakening Philosophy, uscita per un editore canadese e destinata a essere presto tradotta in italiano da Garzanti. Intorno all’evento l’Università di Roma Tre ha organizzato per oggi, nell’Aula Magna di Lettere e Filosofia, un seminario in suo onore, «Il futuro del pensiero. Ontologia, politica, religione», cui partecipano studiosi di varia estrazione, da Santiago Zabala, che è anche il curatore del volume, a Giulio Giorello, da Giacomo Marramao a Paolo Flores d’Arcais, da Mario Perniola a Dario Gentili.

Non sarà un’agiografia, a ogni buon conto. Ci saranno anche interventi critici, come quello di Flores d’Arcais, che gli riconosce la «grande importanza» d’aver portato l’ermeneutica, cioè la filosofia dell’interpretazione, «alla conseguenza più estreme, rendendola così egemone a livello mondiale», ma vede il rischio «di una sempre maggiore autoreferenzialità». «Soprattutto», dice il direttore di Micromega, e docente di etica, «se tutte le asserzioni sono equivalenti dal punto di vista della loro attendibilità, la posizione diventa insostenibile: tra un asserto estetico, teologico, morale ci sono delle differenze». E nella politica? C’è un’egemonia-Vattimo nel campo dell’interpretazione filosofica, ma è anche vero che le sue battaglie sul terreno politico lo hanno visto, finora, sconfitto. «Sconfitto in tutti i luoghi del mondo, non mi sono mai sentito così libero», proclama sulla copertina di Non essere Dio, la sua autobiografia pubblicata per l’editore Aliberti.

«Sul piano politico tutti i democratici radicali sono degli sconfitti», risponde Flores. Lui, anzi, ha chiesto di intervenire nella sessione di stamattina, dedicata alla filosofia, e non in quella pomeridiana, che ha per tema la politica, e che comunque è molto affollata. Giacomo Marramao, che la presiede, su questo tema ha una visione molto diversa: «Il pensiero debole ha vinto, sì, ma secondo me proprio nel momento in cui Vattimo ha “fortificato” la sua posizione con una prospettiva etico-politica», ci spiega. «Se infatti lo consideriamo solo come un richiamo all’importanza del dialogo rispetto a quella dell’autorità precostituita, allora è un terreno dove ci siamo impegnati in molti. Per quanto riguarda la sua prima fase, il mio dissenso riguardava un certo ottimismo su un mondo aconflittuale. L’ultima, invece, ha visto emergere in Vattimo una forte tensione etico-politica che lo mette in una posizione simile a quella occupata da Norberto Bobbio». Certo, Bobbio era un illuminista, Vattimo è uno storicista, però «uno storicista più prossimo a mettersi su posizioni di critica dell’esistente». Una prova? «Ha colto dopo l’89 che si stava andando verso un mondo non “neoliberale” e pacificato, ma in cui sarebbe emerso con prepotenza il problema delle grandi ingiustizie. Proprio in questo vedo il rapporto con Bobbio», conclude Marramao.

Il pensiero debole come possibilità di un’utopia politica è del resto il senso del recente Ecce comu, che Vattimo ha pubblicato da Fazi. Che cosa ne pensa un filosofo della scienza come Giulio Giorello? «Accetterei una riqualificazione che ha fatto egli stesso, in un convegno a Londra con molti filosofi neoempiristi, quando ha parlato di “slimmer philosophy”, filosofia snella. In questo mi sento molto vicino. Apprezzo il suo liberarsi della metafisica, anzi direi del “grasso superfluo”. Filosofia snella, liberazione dal simbolico (nel senso del peso delle tradizioni) e del simbolico, nel senso del linguaggio che parliamo». Con un problema, però: «Che poi tutto questo c’entri in qualche modo con il suo cattocomunismo, lo escludo. Ma voglio rileggermi Ecce comu. L’ho qui, sulla scrivania».



il dibattito *

Razionalità e nuovi orizzonti

Il filosofo Habermas aveva visto nel discorso di Ratisbona una svolta verso posizioni antimoderne e il rischio di una nuova ellenizzazione della teologia cristiana. In questo intervento monsignor Giuseppe Betori, segretario della Cei (foto accanto), sottolinea come il Vangelo di Giovanni non sia frutto esclusivamente del tracciato semitico del pensiero biblico, ma anzi l’esempio fondamentale di un parallelo pensiero ellenistico che innerva il tracciato biblico con una idea della sapienza che, su basi anche razionali, consente il dialogo e una più profonda comprensione teologica.

INTERVENTO

Il tentativo di depurare l’annuncio cristiano delle sue radici elleniche rischia di negare una componente essenziale, almeno tanto quanto le radici semitiche del pensiero biblico

Chi vuole sottrarre al Logos la ragione?

di Giuseppe Betori *

Nel dibattito che si è sviluppato attorno alla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona non è mancato chi ha voluto rimproverargli un uso indebito del concetto di Logos, in quanto il Logos giovanneo non potrebbe essere connesso alla dimensione della razionalità.

Il rimprovero, per lo più in forma implicita, si ripropone anche in genere con riferimento all’appello del Santo Padre all’ampliamento degli spazi della ragione, accusando in ciò una forma riduzionista della rivelazione biblica, che si modulerebbe piuttosto sul registro della dialogicità. Un’accusa peraltro respinta da Benedetto XVI fin dall’inizio della sua prima enciclica, quando caratterizza il fatto cristiano non come una conoscenza ma come un incontro, un incontro con un avvenimento e più precisamente con una persona, quella di Cristo (cfr. Deus caritas est, 1). Ciò però, per il Santo Padre non solo non esclude ma al contrario esalta la dimensione razionale nella esperienza della fede.

Di qui l’importanza di fare chiarezza attorno al concetto di Logos giovanneo. Non mancano infatti esponenti del mondo degli studi biblici per i quali il retroterra del Logos neotestamentario non sarebbe il mondo della razionalità greca, ma puramente quello del pensiero semitico e in specie il concetto di dabar ebraico, nella sua duplice fondamentale accezione di parola ed evento. Ma facendo questo ci si dimentica che il Logos giovanneo sta al termine di un cammino di elaborazione concettuale ben più complesso della semplice trasposizione dabar-logos, in cui il contatto con il mondo ellenico costituisce un passaggio non secondario del percorso, in particolare nello snodo della riflessione sulla sapienza, in cui per l’appunto nella realtà della sophia il dabar ebraico incontra il logos greco e se ne arricchisce. Come acutamente rileva R. Schnackenbur nel suo commentario al vangelo di Giovanni (Paideia, vol. I, p. 364), l’identificazione della parola-sapienza divina con il Logos serve a "realizzare un’"apertura" verso il mondo ellenistico". Più compiutamente si può quindi affermare che nel Logos giovanneo vengono a confluire un insieme di dimensioni che hanno radici sia nel pensiero biblico semitico sia in quello biblico ellenistico, e che possono essere così riassunte: rivelazione, parola, legge, ragione, dialogo ed evento.

Non a caso parlo di pensiero biblico ellenistico, in quanto al di là della risposta che si vuole dare alla questione della ispirazione della traduzione greca dell’Antico Testamento detta dei Settanta, non si può negare il dato storico letterario della presenza fattuale e più ampiamente dell’influsso culturale della Settanta nel Nuovo Testamento, a livello della sua elaborazione e nel suo stesso dettato. Il problema della ellenizzazione del cristianesimo non è un problema esterno alla fase biblica neotestamentaria, ma interno ad essa. A ciò si aggiunga che una corretta teoria dell’interpretazione dei testi non può prescindere dalla storia dei suoi effetti, che per la Bibbia cristiana comincia per l’appunto con il suo collocarsi all’interno del mondo ellenistico e, illuminato da questo, continua a produrre frutti indiscussi per secoli. Prescindere dal rapporto con il mondo ellenico ed ellenistico significherebbe stabilire una cesura immotivata tra il testo biblico e l’inizio della sua comprensione, che diverrebbe invece accettabile solo a partire dall’inizio della fase cosiddetta critica dell’esegesi nel secolo XVIII. Una soluzione di continuità immotivata, o meglio motivata solo ideologicamente.

Ma tornando al significato da attribuire al Logos, non va neppure dimenticato che nel prologo del vangelo di Giovanni il concetto di Logos riceve una sua ulteriore determinazione dalla connessione che gli si riconosce con la sarx, vale a dire con quella carne che ne d etermina la forma personale nella storia.

Considerando pertanto l’intero tragitto culturale è errato opporre il Logos giovanneo al concetto di ragione, facendo parte quest’ultima dei suoi inalienabili caratteri costitutivi. Il Logos giovanneo assume e arricchisce di significato il logos-ragione ellenico, connettendo indissolubilmente ragione e relazione, verità e fedeltà/libertà, ma non rinuncia alla dimensione razionale che ne determina il significato originario. Così che non si può dare dia-logos senza logos, vale a dire che non si può dare incontro di salvezza senza acquisizione e riconoscimento della sua ragionevolezza.

* Avvenire, 21.03.2007.



Sul sito, si cfr.:

-  QUESTIONE ANTROPOLOGICA. E’ lecito e ancora possibile affermare una verità universale sul genere umano? "J’accuse" di René Girard. L’incomprensione della lezione di Freud (Marx e Nietzsche) lo spinge ad un’apologia del cattolicesimo costantiniano e dell’ideologia "papa ratzi-stica"!!! Il cristianesimo non è un cattolicismo!!!

-  "CONOSCI TE STESSO". "ECCE HOMO. Come si diventa ciò che si è". Una bella e limpida discussione tra U. Galimberti ed E. Scalfari, ma ancora in un orizzonte "pre-copernicano" e "pre-fachinelliano".

E si continua a dormire: una lettera del 2002 !!! PER UNA "SANA LAICITA’", UN SANO CRISTIANESIMO!!! DEPONIAMO LE ARMI, APRIAMO UN DIBATTITO TRA CATTOLICI E NON

-  BASTA CON LA MENZOGNA DI "DIO". IO VENGO DALL’ AMORE DI "D-ue-IO"!!! USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’ (E DI PRETESA MATURITA’), SIA AGNOSTICO SIA ATEO SIA RELIGIOSO!!! RATZINGER-HABERMAS: ALLEATI CONTRO I DISFATTISTI?! RUINI, nella "Prolusione" all’ottavo Forum del "Progetto Culturale", attacca benissimo Habermas ... e se stesso (e lo stesso Ratzinger-Benedetto XVI)!!! Possenti Numi - che "forza" e che confusione!!!


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