Gianni Vattimo |
di GIANNI VATTIMO (La Stampa, 20.03.2007)
Il solo modo di vincere l’imbarazzo provocato dall’essere diventato (anche solo per motivi biologico-biografici come l’età) «tema» di un colloquio di colleghi filosofi - un imbarazzo che Derrida spiegava con la sensazione di essere trattato come già morto, o comunque come assente - è rifarsi al noto detto di un grande filosofo antico: Non ascoltate me, ma l’essere...
Un detto certo presuntuosissimo (quante volte lo abbiamo amichevolmente rimproverato a Emanuele Severino, che pure lo ripete senza alcuna iattanza), che però perde ogni aria di arroganza se si pensa l’essere non come l’eterna struttura di principi primi che dovrebbero spiegare tutto, ma come ciò che accade, appunto quello «che c’è», nel senso più banale del termine, e che una filosofia non più irrigidita sull’ideale metafisico-autoritario della ricerca delle essenze e della cause supreme può solo (tentare di) concepire come la storia in atto, la situazione, l’orizzonte comune, oggi, della nostra esperienza.
Chiunque sia il «tema» del colloquio, dunque, senza nascondersi la (riconoscente) soddisfazione che non può non provare chi si trova a ricoprire quel ruolo a preferenza di altri, ciò di cui si parla in un incontro come questo è soprattutto l’essere così concepito; ciò di cui si tratta è una «ontologia dell’attualità», che realizzi in qualche modo la definizione della filosofia come la formulò in modo esemplare Hegel, assegnandole il compito di essere «il proprio tempo pensato in concetti». Non è neanche detto che tutti gli interlocutori concordino su questa definizione - peraltro modesta, nonostante il termine ontologia, che sembra somigliare troppo a quello di metafisica.
Davvero la filosofia non è una scienza di «cose» che si tratta di conoscere «scientificamente» raggiungendo enunciati verificabili su cui possa fondarsi il «progresso della ricerca»? Ad alcuni pare che, pensata così, la filosofia perda il suo tradizionale prestigio, anche in termini di peso accademico (tutti i fondi alle scienze sperimentali?), si riduca a chiacchiera sulle (sempre vaghe) visioni del mondo, e si avvicini troppo al quotidiano - anche nel senso di giornale. Sarà davvero un male?
Provo ammirazione per il suo pensiero e la lucidità con la quale è sempre riuscito ad esprimerlo. Siamo in disaccordo sui contenuti: vi spiego perché
di EMANUELE SEVERINO (La Stampa, 21/3/2007)
Sulla Stampa di ieri abbiamo pubblicato un articolo sul convegno che si svolge oggi all’Università di Roma Tre in onore di Gianni Vattimo e un articolo di quest’ultimo in cui si citava Emanuele Severino, che oggi risponde all’amico e «collega» filosofo con questa lettera al nostro giornale.
Caro direttore,
innanzi tutto mi associo con molto piacere al festeggiamento fatto all’amico Gianni Vattimo dall’Università di Roma, preceduto da quello canadese. Ho grande stima del suo pensiero, innanzi tutto per la lucidità con la quale, fin dai primi libri, si è espresso. Niente fumo ma un periodare limpido che indica con chiarezza quali sono le intenzioni dell’autore.
Una vecchissima conoscenza
Conosco Gianni Vattimo da tantissimo tempo, addirittura da quando ai convegni di filosofia di Gallarate, negli anni Sessanta, lo vedevo raccolto in preghiera nella piccola cappella dove c’era soltanto lui. In questa direzione non dico altro, perché gli episodi di simpatica frequentazione, di discussione e di approfondimento del discorso filosofico, tra noi due, sono stati tanti. Naturalmente non siamo d’accordo su quello che la filosofia abbia ad essere. Però siamo d’accordo su un punto decisivo: che non si debba dare ascolto all’individuo che scrive o parla ma a quello che Gianni chiama «essere», e che propriamente è indicato da Eraclito (perché a Eraclito egli si riferisce nel suo scritto di ieri sulla Stampa) con la parola logos, che sì, si può tradurre heideggerianamente con «essere», ma che forse si potrebbe rendere anche con le parole «pensiero», «verità». Ma lasciamo stare, perché, in questa sede, sono dettagli.
Il logos non è né «debole» né «forte»
Gianni chiama «essere» l’«attualità», spogliandola dai paraventi solenni dell’episteme tradizionale. Ancora una volta vorrei dirgli che egli contrappone il «pensiero debole» al «pensiero forte» («pensiero debole» essendo, si può dire, tutto quello che si è fatto innanzi dopo il culmine epistemico costituito dal pensiero hegeliano), ma non tiene presente che il logos a cui il sottoscritto si rivolge non è né «pensiero debole» né «pensiero forte».
Infatti quest’ultimo è l’indicazione di quella «struttura», come dice Vattimo, che presume dettare al divenire del mondo le leggi inviolabili alle quali esso deve sottostare. Sia il «debole» che il «forte», cioè, partono dal riconoscimento di quel divenire altro delle cose che è il loro scindersi, il loro squartamento, il loro orrore, la matrice dell’angoscia essenziale dell’uomo. Anche il pensiero di Heidegger è completamente immerso in questo modo di pensare. Il logos al quale invece il sottoscritto fa riferimento è proprio la messa in questione di quella matrice dell’angoscia essenziale. In questo senso Gianni, riferendosi a me, manca il bersaglio. Lo invito da tempo ad aggiustare la mira.
Se la quotidianità ci trascina al profondo
Ma oggi è giorno di festeggiamento per lui - e quindi, in qualche modo, anche per me. E allora gli auguro affettuosamente di continuare a lungo a coltivare quell’attenzione per l’essere inteso come attualità, la quale però a volte riserva sorprese; perché anche la quotidianità non la possiamo trattenere alla superficie, ma spesso ci sollecita o addirittura ci impone di andar oltre, verso il profondo.
Giorello: «Si è liberato della metafisica, anzi direi del "grasso superfluo"»
di MARIO BAUDINO (La Stampa, 20.03.2007)
ROMA. Weakining Philosophy, ovvero pensiero debole. Gianni Vattimo ne parlò in un libro dell’83 che portava questo titolo, e da allora il «pensiero debole» è diventato un crocevia della discussione non solo filosofica, in tutto il mondo. Nell’era del postmoderno si è imposto fra le chiavi di interpretazione cui non si può non fare riferimento, insomma è assurto a una sorta di canone filosofico oltre che a metafora-etichetta, usata anche da chi, di Gianni Vattimo, magari non ha mai letto un testo. Il passaggio da un «pensiero forte» al «pensiero debole», ci ha spiegato il filosofo di libro in libro, è quello tra il «moderno» e il «postmoderno», ossia tra una fase storica in cui si riteneva che le cose dovessero andare più o meno necessariamente di bene in meglio, e il nuovo fosse comunque migliore, a un’altra in cui tutto questo è messo in discussione, tanto che riesce difficile se non impossibile ragionare in base a valori forti e indiscutibili.
Detto altrimenti, non ci sono fatti ma solo interpretazioni, e anche un’affermazione di questo genere appartiene alla seconda categoria, non alla prima. Non è un «fatto». Ma allora come indirizzare il nostro agire? Per più di vent’anni Gianni Vattimo ha cercato risposte anche a questa domanda. E ora che di anni ne ha compiuti 71, filosofi di tutto il mondo gli hanno dedicato un’opera collettiva, dal titolo appunto Weakening Philosophy, uscita per un editore canadese e destinata a essere presto tradotta in italiano da Garzanti. Intorno all’evento l’Università di Roma Tre ha organizzato per oggi, nell’Aula Magna di Lettere e Filosofia, un seminario in suo onore, «Il futuro del pensiero. Ontologia, politica, religione», cui partecipano studiosi di varia estrazione, da Santiago Zabala, che è anche il curatore del volume, a Giulio Giorello, da Giacomo Marramao a Paolo Flores d’Arcais, da Mario Perniola a Dario Gentili.
Non sarà un’agiografia, a ogni buon conto. Ci saranno anche interventi critici, come quello di Flores d’Arcais, che gli riconosce la «grande importanza» d’aver portato l’ermeneutica, cioè la filosofia dell’interpretazione, «alla conseguenza più estreme, rendendola così egemone a livello mondiale», ma vede il rischio «di una sempre maggiore autoreferenzialità». «Soprattutto», dice il direttore di Micromega, e docente di etica, «se tutte le asserzioni sono equivalenti dal punto di vista della loro attendibilità, la posizione diventa insostenibile: tra un asserto estetico, teologico, morale ci sono delle differenze». E nella politica? C’è un’egemonia-Vattimo nel campo dell’interpretazione filosofica, ma è anche vero che le sue battaglie sul terreno politico lo hanno visto, finora, sconfitto. «Sconfitto in tutti i luoghi del mondo, non mi sono mai sentito così libero», proclama sulla copertina di Non essere Dio, la sua autobiografia pubblicata per l’editore Aliberti.
«Sul piano politico tutti i democratici radicali sono degli sconfitti», risponde Flores. Lui, anzi, ha chiesto di intervenire nella sessione di stamattina, dedicata alla filosofia, e non in quella pomeridiana, che ha per tema la politica, e che comunque è molto affollata. Giacomo Marramao, che la presiede, su questo tema ha una visione molto diversa: «Il pensiero debole ha vinto, sì, ma secondo me proprio nel momento in cui Vattimo ha “fortificato” la sua posizione con una prospettiva etico-politica», ci spiega. «Se infatti lo consideriamo solo come un richiamo all’importanza del dialogo rispetto a quella dell’autorità precostituita, allora è un terreno dove ci siamo impegnati in molti. Per quanto riguarda la sua prima fase, il mio dissenso riguardava un certo ottimismo su un mondo aconflittuale. L’ultima, invece, ha visto emergere in Vattimo una forte tensione etico-politica che lo mette in una posizione simile a quella occupata da Norberto Bobbio». Certo, Bobbio era un illuminista, Vattimo è uno storicista, però «uno storicista più prossimo a mettersi su posizioni di critica dell’esistente». Una prova? «Ha colto dopo l’89 che si stava andando verso un mondo non “neoliberale” e pacificato, ma in cui sarebbe emerso con prepotenza il problema delle grandi ingiustizie. Proprio in questo vedo il rapporto con Bobbio», conclude Marramao.
Il pensiero debole come possibilità di un’utopia politica è del resto il senso del recente Ecce comu, che Vattimo ha pubblicato da Fazi. Che cosa ne pensa un filosofo della scienza come Giulio Giorello? «Accetterei una riqualificazione che ha fatto egli stesso, in un convegno a Londra con molti filosofi neoempiristi, quando ha parlato di “slimmer philosophy”, filosofia snella. In questo mi sento molto vicino. Apprezzo il suo liberarsi della metafisica, anzi direi del “grasso superfluo”. Filosofia snella, liberazione dal simbolico (nel senso del peso delle tradizioni) e del simbolico, nel senso del linguaggio che parliamo». Con un problema, però: «Che poi tutto questo c’entri in qualche modo con il suo cattocomunismo, lo escludo. Ma voglio rileggermi Ecce comu. L’ho qui, sulla scrivania».
il dibattito *
Razionalità e nuovi orizzonti
Il filosofo Habermas aveva visto nel discorso di Ratisbona una svolta verso posizioni antimoderne e il rischio di una nuova ellenizzazione della teologia cristiana. In questo intervento monsignor Giuseppe Betori, segretario della Cei (foto accanto), sottolinea come il Vangelo di Giovanni non sia frutto esclusivamente del tracciato semitico del pensiero biblico, ma anzi l’esempio fondamentale di un parallelo pensiero ellenistico che innerva il tracciato biblico con una idea della sapienza che, su basi anche razionali, consente il dialogo e una più profonda comprensione teologica.
INTERVENTO
Il tentativo di depurare l’annuncio cristiano delle sue radici elleniche rischia di negare una componente essenziale, almeno tanto quanto le radici semitiche del pensiero biblico
Chi vuole sottrarre al Logos la ragione?
di Giuseppe Betori *
Nel dibattito che si è sviluppato attorno alla lezione di Benedetto XVI a Ratisbona non è mancato chi ha voluto rimproverargli un uso indebito del concetto di Logos, in quanto il Logos giovanneo non potrebbe essere connesso alla dimensione della razionalità.
Il rimprovero, per lo più in forma implicita, si ripropone anche in genere con riferimento all’appello del Santo Padre all’ampliamento degli spazi della ragione, accusando in ciò una forma riduzionista della rivelazione biblica, che si modulerebbe piuttosto sul registro della dialogicità. Un’accusa peraltro respinta da Benedetto XVI fin dall’inizio della sua prima enciclica, quando caratterizza il fatto cristiano non come una conoscenza ma come un incontro, un incontro con un avvenimento e più precisamente con una persona, quella di Cristo (cfr. Deus caritas est, 1). Ciò però, per il Santo Padre non solo non esclude ma al contrario esalta la dimensione razionale nella esperienza della fede.
Di qui l’importanza di fare chiarezza attorno al concetto di Logos giovanneo. Non mancano infatti esponenti del mondo degli studi biblici per i quali il retroterra del Logos neotestamentario non sarebbe il mondo della razionalità greca, ma puramente quello del pensiero semitico e in specie il concetto di dabar ebraico, nella sua duplice fondamentale accezione di parola ed evento. Ma facendo questo ci si dimentica che il Logos giovanneo sta al termine di un cammino di elaborazione concettuale ben più complesso della semplice trasposizione dabar-logos, in cui il contatto con il mondo ellenico costituisce un passaggio non secondario del percorso, in particolare nello snodo della riflessione sulla sapienza, in cui per l’appunto nella realtà della sophia il dabar ebraico incontra il logos greco e se ne arricchisce. Come acutamente rileva R. Schnackenbur nel suo commentario al vangelo di Giovanni (Paideia, vol. I, p. 364), l’identificazione della parola-sapienza divina con il Logos serve a "realizzare un’"apertura" verso il mondo ellenistico". Più compiutamente si può quindi affermare che nel Logos giovanneo vengono a confluire un insieme di dimensioni che hanno radici sia nel pensiero biblico semitico sia in quello biblico ellenistico, e che possono essere così riassunte: rivelazione, parola, legge, ragione, dialogo ed evento.
Non a caso parlo di pensiero biblico ellenistico, in quanto al di là della risposta che si vuole dare alla questione della ispirazione della traduzione greca dell’Antico Testamento detta dei Settanta, non si può negare il dato storico letterario della presenza fattuale e più ampiamente dell’influsso culturale della Settanta nel Nuovo Testamento, a livello della sua elaborazione e nel suo stesso dettato. Il problema della ellenizzazione del cristianesimo non è un problema esterno alla fase biblica neotestamentaria, ma interno ad essa. A ciò si aggiunga che una corretta teoria dell’interpretazione dei testi non può prescindere dalla storia dei suoi effetti, che per la Bibbia cristiana comincia per l’appunto con il suo collocarsi all’interno del mondo ellenistico e, illuminato da questo, continua a produrre frutti indiscussi per secoli. Prescindere dal rapporto con il mondo ellenico ed ellenistico significherebbe stabilire una cesura immotivata tra il testo biblico e l’inizio della sua comprensione, che diverrebbe invece accettabile solo a partire dall’inizio della fase cosiddetta critica dell’esegesi nel secolo XVIII. Una soluzione di continuità immotivata, o meglio motivata solo ideologicamente.
Ma tornando al significato da attribuire al Logos, non va neppure dimenticato che nel prologo del vangelo di Giovanni il concetto di Logos riceve una sua ulteriore determinazione dalla connessione che gli si riconosce con la sarx, vale a dire con quella carne che ne d etermina la forma personale nella storia.
Considerando pertanto l’intero tragitto culturale è errato opporre il Logos giovanneo al concetto di ragione, facendo parte quest’ultima dei suoi inalienabili caratteri costitutivi. Il Logos giovanneo assume e arricchisce di significato il logos-ragione ellenico, connettendo indissolubilmente ragione e relazione, verità e fedeltà/libertà, ma non rinuncia alla dimensione razionale che ne determina il significato originario. Così che non si può dare dia-logos senza logos, vale a dire che non si può dare incontro di salvezza senza acquisizione e riconoscimento della sua ragionevolezza.
* Avvenire, 21.03.2007.
Sul sito, si cfr.:
Chiesa stracolma per l’ultimo saluto a Vattimo a Torino. L’abbraccio di Caminada e l’affetto di colleghi, allievi, parenti e amici
di Cristina Palazzo (la Repubblica/Torino, 23 settembre 2023)
“Gianni nella sua vita ha cercato di amare e ha tanto desiderato di essere amato. Che ora possa godere del sentirsi abbracciato dall’amore infinito di Dio in modo assoluto e senza più rischio di fine”. Cosi il rettore don Giovanni Ferretti questa mattina ha dato l’ultimo saluto commosso a Gianni Vattimo filosofo e padre del pensiero debole, “amico Gianni” ricordato nella sua “intelligenza acuta sempre in ricerca, alla sua militanza sociale e politica e soprattutto alla fede cristiana che lo ha ispirato”.
La bara questa mattina ha lasciato la camera ardente allestita nell’Università di Torino per raggiungere la chiesa di San Lorenzo, in piazza Castello nel cuore di Torino. Era la chiesa che amava e “frequentava con discrezione”. Accanto al feretro che era avvolto da un grande mazzo di rose rosse e altri fiori bianchi, è entrato in chiesa l’assistente e compagno di vita Simone Caminada: tra le sue mani il copricapo da docente di Vattimo.
Al primo banco della chiesa gremita anche il sindaco Stefano Lo Russo, l’assessore Jacopo Rosatelli e l’assessore regionale Andrea Tronzano, tra i banchi tanti volti istituzionali e della comunità accademica, come Maurizio Ferraris, Massimo Cacciari, Elsa Fornero, Franco Debenedetti. la sociologa Chiara Saraceno, il direttore del dipartimento di filosofia Graziano Lingua e tanti ex studenti del filosofo. Molti commossi per il saluto al maestro. Fuori dalla chiesa sono rimaste le bandiere NoTav: nei giorni scorsi il movimento lo ha salutato con una lettera di Nicoletta Dosio, presente anche al funerale.
Il sacerdote, filosofo e già rettore dell’Università di Macerata, legato a Luigi Pareyson, molto vicino a Vattimo - è stato lui a dargli l’estrema unzione - lo ha ricordato con la sua fede che “ha cercato di ripensare con rigore critico”. Gianni Vattimo, ha ripercorso si è “impegnato a superare la visione sacrificale del cristianesimo che lo aveva tormentato in Gioventù. Egli ha giustamente scoperto e sostenuto che essa non corrisponde al Vangelo di Gesù. Ed è giunto a sentire la tanto desiderata vicinanza di Dio che ci ama e ci vuole felici”.
Due i testi scelti per il funerale pensando “alla sua figura umana generosa , l’inno alla Carità e la Beatitudine secondo Matteo, testi non casuali ma che hanno ispirato il filosofo e che ricordano importanti aspetti della sua fede. “La carità, diceva Gianni in Credere di credere, non è secolarizzabile, non ha fine nella storia - riprende il sacerdote -. Ci fa vivere oltre la morte. Mentre le beatitudini hanno ispirato l’impegno culturale e politico di Gianni per la giustizia sociale e l’emancipazione di poveri ed oppressi che gli stava a cuore”. Le ultime due parole della cerimonia, però, sono arrivate dalla comunità di Vattimo, quella che attorno al suo pensiero di era costruita negli anni: “Ciao Maestro” e lo hanno salutato con un grande applauso.
IL SOGGETTO, LA MASCHERA, E LA SOCIETÀ TRASPARENTE.
Alcune note su "che cosa ha veramente detto GIANNI VATTIMO". *
AUTOIRONIA, "Auto-chiarificazione (filosofia critica)", e Charitas: queste poche parole, forse, possono essere dei segnavia per non perdersi l’essenziale (e, in qualche modo, per distinguere prima e unire poi, quanto ritenuto accoglibile) nel mare della ricchissima produzione culturale e professionale di Vattimo.
UNA NUOVA "FILOSOFIA DELL’AVVENIRE". "«L’uomo è ciò che mangia, ma soprattutto quel che beve». Così Gianni Vattimo, scomparso il 19 settembre scorso, trasformò il celebre motto di Ludwig #Feuerbach, bevendo un calice di rosso della Sila. Di origini calabresi e fama mondiale, il filosofo torinese era autoironico, alleggeriva i discorsi, amava scherzare e porsi con umiltà." (cfr. Emiliano Antonino Morrone, "La ricerca (infinita) della verità e il pensiero “forte” di Vattimo per la sua San Giovanni in Fiore", Corriere della Calabria, 22.09.2023).
Rimettendo storicamente e antropologicamente accanto all’ironia (della dialettica platonico-socratica), anche l’autoironia di Gianni Vattimo, forse, a omaggio delle sue "AVVENTURE DELLA DIFFERENZA" (1980)", in un mondo dove la lanterna è in mano ai #ciechi, è più che opportuno richiamare alla memoria la figura di Diogene di Sinope.
RIPARTIRE DALLA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA DELL’ATTUALE PRESENTE STORICO. Se nel "processo dell’avvento del valore di scambio come metro di misura totalizzante si nasconde il trionfo dell’homo oeconomicus e della tendenza all’illimitazione del capitalismo", e, ancora, come ricorda Francesco Fistetti, "il recupero del valore d’uso e di un progetto di demercificazione dei mondi vitali va reimpostato a quest’altezza ", come è possibile svegliarsi dal #sonnodogmatico (Kant)?
QUESTIONE ANTROPOLOGICA. Come mi sembra di capire, non è proprio il caso di re-interrogarsi sul tema del "soggetto e della maschera" (Vattimo, 1974) e riprendere la indicazione kantiana del 1784 (riafferrata per i capelli, da #MichelFoucault nel 1984), della questione antropologica e ripartire dal "#sàpereaude!", "dal coraggio di servirsi della propria intelligenza"? All’ordine del giorno, oggi, per ri-"orientarsi nel pensiero" (Kant) e per una seconda rivoluzione copernicana (Th. W. Adorno), è augurabile che venga ripresa la lettura dello "Spaccio della bestia trionfante" di Giordano Bruno e del "Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano" del Galileo Galilei, senza queste opere l’uscita dal letargo claustrofilico e terrapiattistico è impensabile.
IL MATERIALISMO DIALETTICO. Superato Kant dialettica-mente (con la hegeliana astuzia della ragione "mascherata" - già di Platone e Cartesio, sia atea sia devota, sia idealistica sia materialistica), si è perso anche il senso e il sottotitolo stesso del lavoro di Marx sul "Capitale" e, con esso, ogni possibilità di portare avanti la stessa "critica dell’economia politica": si tenga presente che per John Dewey, la rivoluzione di Kant è "un ritorno a un sistema di tipo ultra-tolemaico").
LA "COSCIENZA MISTICA", IL "SOGNO DI UNA COSA", E "IL PROBLEMA DELLA LIBERAZIONE". Paradossalmente, e probabilmente, se avessimo letto di più e meglio sia Giambattista Vico sia Kant a questa ora, in occasione della riflessione sul percorso filosofico di Gianni Vattimo, forse, potremmo capire di più la sua reale vicinanza e consonanza con la "Critica dell’idealismo" della "Critica della Ragion Pura" (1787) e il programma giovanile di Marx, il #sognodiunacosa (1843) : "Sarà chiaro come non si tratti di tirare una linea retta tra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma venga consapevolmente a capo del suo antico lavoro."("Annali franco-tedeschi"). Uno dei più importanti contributi in tale direzione di Gianni Vattimo, a mio parere, è proprio il saggio del 1974: "Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione" (Bompiani, 1974). Negli stessi anni, nelle infinite analisi sul rapporto tra il marxismo ed Hegel, correva il ripescaggio del "sapiente" Bovillus e della sua "rinascimentale" antropologia piramidale.
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MONSIGNORE SI DIA UNA CALMATA
di Chiara Saraceno *
La gerarchia cattolica, come ogni autorità religiosa, ha sicuramente il diritto e persino il dovere di esprimersi sui temi che toccano la morale e il senso della vita. Ciò che dice va ascoltato con rispetto e con attenzione, anche quando non lo si condivide. Ma ci sono occasioni in cui è davvero difficile mantenere un atteggiamento di rispetto e ascolto. Le dichiarazioni di ieri di monsignor Betori, segretario della Conferenza episcopale italiana, a Gubbio sono una di queste - ormai sempre più frequenti - occasioni. Di fatto ha individuato come i peggiori nemici della umanità - «fomentatori di guerre e terrorismo», negatori «del riconoscimento dell’altro» a vantaggio del mantenimento di «situazioni e strutture di ingiustizia sociale» - le donne che abortiscono, le persone che riflettono sul testamento biologico e sul diritto a porre fine ad una vita che ha perso tutte le caratteristiche di vita umana, le coppie eterosessuali che convivono senza sposarsi e gli omosessuali in quanto attenterebbero alla dualità sessuale. Sono loro responsabili dei mali del mondo, non i dittatori politici ed economici, non coloro che fomentano guerre etniche e religiose, non gli sfruttatori di donne e bambini, non i mercanti di uomini e neppure coloro che in nome della morale sessuale si oppongono all’utilizzo di semplici precauzioni per evitare il diffondersi dell’Aids che da solo in alcune parti del mondo fa ancora più stragi delle guerre civili.
È difficile provare rispetto ed avere attenzione per chi confonde terroristi e violenti veri e persone che, assumendosene tutta la responsabilità e talvolta la sofferenza, compiono scelte eticamente motivate, ancorché in modo difforme dalla morale cattolica. Per chi, tra l’altro, non distingue neppure, dal punto di vista della gravità rispetto al suo stesso concetto di morale, tra aborto e convivenza senza matrimonio, tra eutanasia e approvazione dei Dico e ritiene (contro le stesse più recenti acquisizioni della Chiesa) che l’omosessualità sia uno stile di vita, e non una condizione umana in cui ci si trova a nascere e vivere. Perciò teme, un po’ grottescamente, che se si riconoscessero le coppie omosessuali nessuno più farebbe coppie (e matrimoni) eterosessuali. È una visione senza sfumature e senza distinzioni, oltre che senza rispetto. Per questo è intimamente violenta oltre che intellettualmente rozza.
Non credo che così si difenda veramente il cristianesimo. Certamente non è così che si può aspirare a ottenere rispetto e attenzione per le proprie posizioni. Si incoraggia soltanto l’escalation dell’insulto reciproco, dell’abuso del linguaggio, dell’incapacità a distinguere e ad ascoltare, della caccia al diverso. Non è né pedagogia civile né, tantomeno, pedagogia religiosa. È una chiamata alle armi. È questo che la gerarchia cattolica vuole per il suo popolo e per il nostro Paese? Chi sta davvero, per riprendere le parole di Betori, coltivando «sentimenti di arroganza e di violenza»? Un po’ di autocontrollo, per favore.
* La Stampa, 18/05/2007
È tornato il ’48?
di Bruno Gravagnuolo *
Il dado è tratto e indietro tutta. Rotti gli argini di una «sfida etica» in parte ancora contenuta nei termini degli «ammonimenti», i Vescovi si appellano alla società civile. E scendono in piazza per interposti parroci. Infatti con le parole di Mons. Betori, segretario generale della Cei, non solo plaudono alle associazioni laicali cattoliche che guideranno a Roma il family day contro i Dico. Ma incoraggiano le parrocchie e i parroci a essere presenti. Pur escludendo ogni adesione vescovile in prima persona.
È un salto di qualità politico, non c’è dubbio. E un chiaro ritorno al protagonismo capillare e di massa della Chiesa sulle questioni civili. Come nel 1948, al tempo dei comitati civici di Gedda, delle scomuniche di Pio XII e dei cortei col Biancofiore. Con partecipazione di ecclesiastici nonché di icone sacre e Madonne pellegrine. E come al tempo del divorzio, battaglia persa nonostante la mobilitazione dei pulpiti.
Ora però si ricomincia e con supporto di teorie devote sul «diritto naturale» in tempi di evangelizzazione contro il «relativismo». La Chiesa, ci dicono Mons. Cafarra e prima ancora il Pontefice, coi teocon nostrani, deve essere un baluardo etico e razionale contro la deriva dei valori. Il saldo sostegno della verità universalmente umana e non dubitabile, che sta a base a degli ordinamenti civili. I quali in sè - recita il Magistero ecclesiale - sono deficitari, non reggono alla globalizzazione culturale e all’emergere dei diritti individuali su scala planetaria, fomite di arbitrio e possibile anarchia. Sicchè travolti i collateralismi di partito, la Chiesa non può che farsi agenzia «metapolitica». Punto di riferimento trasversale delle coscienze e della legislazione che diviene per questa via affare precipuo dei credenti, in quanto orientati dalla Chiesa.
Di più. Proprio questo Papa, prima ancora di ascendere al soglio di Pietro teorizzò a chiare lettere che il pluralismo civile dei moderni era null’altro che un pluralismo tra Chiese, come avvenne negli Usa delle sette religiose. Dottrina confermata anche dal cardinal Scola, che ha ribadito in un suo saggio la sostanza fondativa della religione cristiana, in virtù della sua intima razionalità superiore e «cristiano-occidentale». Sempre del tutto in linea col Pontefice, che a Ratisbona celebrò la superiore razionalità «greco-cristiana», a petto della deficitaria ragione islamica così intrisa di violenza in Maometto. C’è dunque da meravigliarsi se a partire da queste «basi cognitive» e di milizia teologica la Chiesa scenda in piazza? E persino contro una realtà minimale e per nulla «epocale» come i Dico? Già, scende in piazza, anche se l’invito è rivolto solo in guisa di incoraggiamento ai parroci. Dopo le note ingerenze dirette sul referendum della fecondazione assistita. Dirette fin dentro la tecnica da adottare (l’astensione per far mancare il quorum). E dopo la nota promossa dalla Cei di Bagnasco sull’obbligo esplicito di votare in Parlamento contro i Dico, già essa ben altro che «richiamo pastorale», visto il pressing sulle coscienze dei parlamentari e il riferimento vincolante all’ultimo documento «ex cathedra» del Papa.
Di che si tratta stavolta con l’appello ai parroci di Betori? Di una ben precisa teoria dell’«egemonia», che usa un «concetto» conciliare per volgerlo nel suo esatto contrario. Questo: la Chiesa come articolazione orizzontale di comunità. E il punto vien fatto valere così. Le parrocchie per Betori «non sono proprietà del clero. E se i laici si appoggeranno alle parrocchie per organizzare la manifestazione, non si potrà impedire al parroco di partecipare con i fedeli»». Da un lato quindi si preserva la distinzione, dallo stato, dei rami alti: La Chiesa dei Vescovi. Dall’altro però la distinzione viene «agita» per dare impulso all’autonomia del clero e dei laici, dentro la società civile. È una mobilitazione dall’alto insomma. Che incalza da entrambi i lati la «res pubblica» e che recupera la «Chiesa di base», preventivamente pungolata all’obbedienza sui princìpi dottrinali. Lotta dal basso perciò, e pressione sulle Istituzioni laiche dall’alto. In uno con la pretesa che i contenuti della fede siano vincolanti per la legislazione civile, e per credenti e non. Perché proprio questa è la democrazia basata sul «consenso», come più volte ha teorizzato sempre il cardinal Scola. Attenzione però, solo formalmente la distinzione tra Stato e Chiesa è rispettata, in tale impostazione generale. Perché di fatto in questo caso la Chiesa di Roma si muove come una forza organizzata di massa, come un partito trans-politico che plasma dinamicamente la legislazione.
Organizzando per via diretta e indiretta la mobilitazione attiva, e non già fornendo appigli alla coscienza dei credenti, o tracciando orientamenti generali per essa. Ne vien fuori uno stato laico pressato e in libertà vigilata. Dove lo sconfinamento della sfera religiosa è insieme diritto e fonte del diritto. Né vale l’argomento pedestre di quei devoti alla Della Loggia, che obiettano: «vanno bene gli ecclesiastici sulla mafia e la pace e non sui Dico?». Non vanno bene affatto. Perché un conto è l’intervento episodico o spontaneo su mali e beni universalmente sentiti, come il crimine, la guerra, la fame e le ingiustizie. Altro l’intervento sistematico e capillare sui singoli temi di legislazione, pungolato e organizzato dalla gerarchia: dalla società civile al Parlamento. E tramite il privilegio di un insediamento territoriale e di una sovraesposione mediatica a vantaggio della Chiesa, senza confronti con altri paesi. Infine e in conclusione. A che pro la Chiesa vuole oggi spaccare le coscienze e la società civile con la sua nuova mobilitazione capillare? Per conquistarsi un primato civile sulle ceneri della pace religiosa, e contro ruvide ondate anticlericali e magari «neoscismatiche»? Ce lo chiediamo sinceramente preoccupati. Ci pensino i buoni Pastori prima di raccogliere inattese tempeste.
* l’Unità, Pubblicato il: 04.04.07, Modificato il: 04.04.07 alle ore 8.38
«Fede e ragione alleate nella ricerca della verità»
Ieri la catechesi del Papa si è soffermata sulla riflessione di san Giustino,apologeta e martire del secondo secolo
L’Udienza Del Mercoledì (Avvenire, 21.03.2007)
Cari fratelli e sorelle,
stiamo in queste catechesi riflettendo sulle grandi figure della Chiesa nascente. Oggi parliamo di san Giustino, filosofo e martire, il più importante tra i Padri apologisti del secondo secolo. La parola «apologisti» designa quegli antichi scrittori cristiani che si proponevano di difendere la nuova religione dalle pesanti accuse dei pagani e degli Ebrei, e di diffondere la dottrina cristiana in termini adatti alla cultura del proprio tempo. Così negli apologisti è presente una duplice sollecitudine: quella, più propriamente apologetica, di difendere il cristianesimo nascente (apologhía in greco significa appunto «difesa») e quella propositiva, «missionaria», di esporre i contenuti della fede in un linguaggio e con categorie di pensiero comprensibili ai contemporanei.
Giustino era nato intorno all’anno 100 presso l’antica Sichem, in Samaria, in Terra Santa; egli cercò a lungo la verità, pellegrinando nelle varie scuole della tradizione filosofica greca. Finalmente - come egli stesso racconta nei primi capitoli del suo Dialogo con Trifone - un misterioso personaggio, un vegliardo incontrato lungo la spiaggia del mare, lo mise dapprima in crisi, dimostrandogli l’incapacità dell’uomo a soddisfare con le sole sue forze l’aspirazione al divino. Poi gli indicò negli antichi profeti le persone a cui rivolgersi per trovare la strada di Dio e la «vera filosofia». Nel congedarlo, l’anziano lo esortò alla preghiera, perché gli venissero aperte le porte della luce. Il racconto adombra l’episodio cruciale della vita di Giustino: al termine di un lungo itinerario filosofico di ricerca della verità, egli approdò alla fede cristiana. Fondò una scuola a Roma, dove gratuitamente iniziava gli allievi alla nuova religione, considerata come la vera filosofia. In essa, infatti, aveva trovato la verità e quindi l’arte di vivere in modo retto. Fu denunciato per questo motivo e venne decapitato intorno al 165, sotto il regno di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo a cui Giustino stesso aveva indirizzato una sua Apologia.
Sono queste - le due Apologie e il Dialogo con l’ebreo Trifone - le sole opere che di lui ci rimangono. In esse Giustino intende illustrare anzitutto il progetto divino della creazione e della salvezza che si compie in Gesù Cristo, il Logos, cioè il Verbo eterno, la Ragione eterna, la Ragione creatrice. Ogni uomo, in quanto creatura razionale, è partecipe del Logos, ne porta in sé un «seme», e può cogliere i barlumi della verità. Così lo stesso Logos, che si è rivelato come in figura profetica agli Ebrei nella Legge antica, si è manifestato parzialmente, come in «semi di verità», anche nella filosofia greca. Ora, conclude Giustino, poiché il cristianesimo è la manifestazione storica e personale del Logos nella sua totalità, ne consegue che «tutto ciò che di bello è stato espresso da chiunque, appartiene a noi cristiani» (2 Apol. 13,4). In questo modo Giustino, pur contestando alla filosofia greca le sue contraddizioni, orienta decisamente al Logos qualunque verità filosofica, motivando dal punto di vista razionale la singolare «pretesa» di verità e di universalità della religione cristiana. Se l’Antico Testamento tende a Cristo come la figura orienta verso la realtà significata, la filosofia greca mira anch’essa a Cristo e al Vangelo, come la parte tende a unirsi al tutto. E dice che queste due realtà, l’Antico Testamento e la filosofia greca, sono come le due strade che guidano a Cristo, al Logos. Ecco perché la filosofia greca non può opporsi alla verità evangelica, e i cristiani possono attingervi con fiducia, come a un bene proprio. Perciò il mio venerato predecessore, Papa Giovanni Paolo II, definì Giustino «pioniere di un incontro positivo col pensiero filosofico, anche se nel segno di un cauto discernimento»: perché Giustino, «pur conservando anche dopo la conversione grande stima per la filosofia greca, asseriva con forza e chiarezza di aver trovato nel cristianesimo "l’unica sicura e proficua filosofia" (Dial. 8,1)» (Fides et ratio, 38). Nel complesso la figura e l’opera di Giustino segnano la decisa opzione della Chiesa antica per la filosofia, per la ragione, piuttosto che per la religione dei pagani. Con la religione pagana, infatti, i primi cristiani rifiutarono strenuamente ogni compromesso. La ritenevano idolatria, a costo di essere tacciati per questo di «empietà» e di «ateismo». In particolare Giustino, specialmente nella sua prima Apologia, condusse una critica implacabile nei confronti della religione pagana e dei suoi miti, considerati da lui come diabolici «depistaggi» nel cammino della verità. La filosofia rappresentò invece l’area privilegiata dell’incontro tra paganesimo, giudaismo e cristianesimo proprio sul piano della critica alla religione pagana e ai suoi falsi miti. «La nostra filosofia...»: così, nel modo più esplicito, giunse a definire la nuova religione un altro apologista contemporaneo di Giustino, il vescovo Melitone di Sardi (ap. Hist. Eccl. 4,26,7).
Di fatto la religione pagana non batteva le vie del Logos, ma si ostinava su quelle del mito, anche se questo era riconosciuto dalla filosofia greca come privo di consistenza nella verità. Perciò il tramonto della religione pagana era inevitabile: esso fluiva come logica conseguenza del distacco della religione - ridotta a un artificioso insieme di cerimonie, convenzioni e consuetudini - dalla verità dell’essere. Giustino, e con lui gli altri apologisti, siglarono la presa di posizione netta della fede cristiana per il Dio dei filosofi contro i falsi dèi della religione pagana. Era la scelta per la verità dell’essere contro il mito della consuetudine. Qualche decennio dopo Giustino, Tertulliano definì la medesima opzione dei cristiani con una sentenza lapidaria e sempre valida: «Dominus noster Christus veritatem se, non consuetudinem, cognominavit - Cristo ha affermato di essere la verità, non la consuetudine» (De virgin. vel. 1,1). Si noti in proposito che il termine consuetudo, qui impiegato da Tertulliano in riferimento alla religione pagana, può essere tradotto nelle lingue moderne con le espressioni «moda culturale», «moda del tempo».
In un’età come la nostra, segnata dal relativismo nel dibattito sui valori e sulla religione - come pure nel dialogo interreligioso -, è questa una lezione da non dimenticare. A tale scopo vi ripropongo - e così concludo - le ultime parole del misterioso vegliardo, incontrato dal filosofo Giustino sulla riva del mare: «Tu prega anzitutto che le porte della luce ti siano aperte, perché nessuno può vedere e comprendere, se Dio e il suo Cristo non gli concedono di capire» (Dial. 7,3).
Cari Filosofi,
Mi rendo Bene conto che, tantissimo si è detto e si dice e si dirà sulla Filosofia. Credo però, forse non abbiamo il pensiero dei Greci di 3 mila anni fa, nemmeno la Deliziosità di Platone, un Platone che dalla Potenza del suo Socrate, lui, loro, e più di altri, riescono ad essere vivi tra noi ogni giorno, come se fossero eterni, anzi, direi che lo sono davvero! tutto gira intorno a loro, come se dicessimo ad ogni istante della nostra vita: Socrate, Platone, vi amiamo, così come ha saputo descrivere Platone l’Amore e tutti i suoi Scritti che, da Gadamer e Giovanni Reale, lo teniamo stretto per non farlo andar più via. Platone! Caro! torna tra noi, comincia a farti sentire già dalla più tenera età nelle scuole tra i bambini: futuri Re Filosofi, per un Mondo Migliore, come solo tu! Mirabilmente ci hai insegnato... Platone, come Ti Amo!!!
Massimo Vertolo - massimo.vertolo@cisl.it
Caro Massimo Vertolo
apprezzo molto - cum grano salis - il tuo entusiasmo per Platone .... ma - considera - prima bisogna "uscire dallo stato di minorità" e saper dialogare (da pari a pari) con lui, se vogliamo far scoccare - "nell’anima, come una luce" - quella "scintilla di fuoco" che può illuminare la "pianura della verità" e non continuare a portare nella "caverna" (ormai diventata "a luci rosse") e "nelle scuole tra i bambini" (ancora e sempre) il "platonismo per il popolo"!!! E, per questo, non possiamo non ripartire dal presente - attuale.
Grazie per il tuo intervento! E molti saluti.
Federico La Sala