La lettera
«Lucia voleva solo vivere nella sua Calabria»
GENTILE direttore, avevo deciso di scrivere questa lettera quando tutti sarebbero andati via, lasciandomi lì, da sola, ad aspettare dietro la porta della sala di rianimazione, dove mia figlia stava affrontando, tanto per usare una frase fatta che poi tanto fatta non è, la sua ultima battaglia. Non ne ho avuto il tempo... siamo stati avvertiti che l’aveva persa... o forse l’aveva vinta.
Ed ora eccomi qui. Non so cosa le scriverò, so solo il “perché”.
Non si può banalizzare e liquidare il suo gesto come un suicidio dettato dalla depressione, come ha scritto qualche giornale; merita rispetto e maggiore attenzione.
Si parla di imprenditori che ricorrono al gesto estremo, parliamo anche dei giovani: questi giovani che noi abbiamo generato, ma che non siamo in grado ora di accompagnare nel loro percorso di speranza. Mia figlia non è mai stata banale, ha vissuto il suo breve tempo alla ricerca di qualcosa che noi, NOI TUTTI, non sappiamo più offrire a chi, come lei, vive la condizione di giovane.
Lei sì, lei sì che si è sempre impegnata, fiduciosa nei nostri insegnamenti, sicura che il merito avrebbe pagato. Ha sempre dato senza mai chiedere... ecco... senza mai chiedere. E invece avrebbe dovuto farlo, avrebbe dovuto chiedere che i suoi diritti, conquistati con impegno e sacrifici, venissero onorati.
Laureata in Ingegneria gestionale, in condizioni molto difficili, con il massimo dei voti, 110/110, si è trovata a doversi accontentare di un lavoro che non era il suo, poco retribuito, si è trovata a doversi prendere cura della sua piccolina di appena due anni, affrontando tutte le difficoltà che già conosciamo noi donne... e noi donne del Sud. E’ bella come il sole, la sua intelligenza non è stata scalfita neppure dal volo liberatorio, ma era sola! Ci adorava tanto quanto noi, familiari e amici, tanti, adoriamo lei, ma era sola!
Aveva un solo difetto: portare un cognome anonimo e credere nella meritocrazia. Ingenua lei, colpevoli noi che sapevamo che le cose non vanno esattamente così... E’ sempre stata onesta, non ha mai cercato compromessi, si è sempre messa in discussione, troppo, e ci ha dato sempre il massimo... o forse no, perché, ne sono certa, se non l’avessimo uccisa, TUTTI, ci avrebbe dato di più. Perché lei è così, ha dato, sempre, senza neanche volerlo, così, naturalmente, come respirare, bere, vivere. Perché lei è così!
Cosa vogliamo fare... liquidare il suo gesto così, in maniera banale? No, non è stato un gesto da imprigionare in un trafiletto in terza pagina. E’ il gesto che ogni giovane potrebbe fare, soprattutto se giovane del Sud, questo Sud divorato negli anni - quanti 150? - da lupi famelici, da burattini - burattinai, da gente mediocre e servile, da chi chiede “per favore” ciò che dovrebbe chiedere “per diritto”, da gente incapace di governarci, da gente che bada a far quadrare i bilanci, da gente che mette al potere quei servi che dicono sempre di sì e che legano a sé con le complicità del malaffare e dei facili e lauti guadagni. No, non poteva vivere in quest’Italia asservita, e non poteva neanche allontanarsene, voleva semplicemente vivere nella sua Calabria, dov’era amata dai suoi innumerevoli amici.
E’ una colpa da pagare a così caro prezzo? Se è così, giovani, andate via, andate via e abbandonate questa Terra, noi non vi vogliamo!... E voi , mamme, non consentite che questo mostruoso Leviatano divori i nostri figli. Lottiamo insieme a loro, nella legalità, per i loro diritti, e chiediamo a testa alta ciò che è loro dovuto!
La mamma di Lucia
«SilenziosaMente»
Protesta in memoria delle vittime: 1000 solo nel 2011
Secondo l’Eures le persone più a rischio sono quelle tra i 46 e 65 anni
«Tre suicidi al giorno per la crisi» Oggi una fiaccolata per ricordare
Aumentano i suicidi al tempo della crisi: 3048 solo nel 2010. In testa la Lombardia e il Veneto.
Il picco maggiore, +44%, si raggiunge tra chi ha perso il lavoro e teme di non trovarne un altro.
di Mariagrazia Gerina (l’Unità, 18.04.2012)
Morti ammazzati dal lavoro che non c’è più. Spinti a togliersi la vita dalla disoccupazione che avanza. È una lunga scia di vittime quella che la crisi si sta lasciando alle spalle. Un suicidio al giorno, 362 in un anno, mietuti solo tra i disoccupati, 336 tra imprenditori e lavoratori autonomi. È una macabra sequenza quella scandita dall’Eures ne Il suicidio in Italia al tempo della crisi. E ancora non tiene conto delle ultime recrudescenze, visto che elabora dati relativi al 2010. Quelle che porteranno stasera in piazza a Roma imprenditori e lavoratori, raccolti al Pantheon (a partire dalle 20) per una protesta silenziosa, una fiaccolata in ricordo delle troppe vittime della crisi, lavoratori e imprenditori che si sono tolti la vita, con un ritmo impressionante dall’inizio dell’anno. Mentre già il 2011 scandiscono gli organizzatori si era chiuso con «più di mille suicidi». Quasi tre suicidi al giorno, per colpa della crisi.
La tendenza era già chiara a guardare i dati del 2010. Ci si ammazza di più in Italia al tempo della crisi: 3048 persone si sono tolte la vita solo nel 2010, il 2,1% in più dell’anno precedente, che registrava già il 5,6% in più rispetto al 2008. I suicidi sono in drammatico aumento. E il picco più preoccupante, + 44,9%, si registra proprio tra chi perde lavoro.
Ci si ammazza perché non si riesce a sostenere il peso di una malattia (74,8%), per amore (16,3%), ma, sempre più, anche per ragioni economiche (8,1%). E il momento di massima fragilità coincide proprio con la perdita del lavoro. Dei 362 disoccupati che si sono tolti la vita, 288 avevano perso il posto di lavoro, 88 in più del passato.
Guardando all’età la fascia più a rischio sembra quella che va tra i 46 ai 64 anni. La più vulnerabile di fronte alla perdita del posto di lavoro e alla disoccupazione che non a caso è cresciuta del 12,6%, e anche quella rileva lo studio dell’Eures in cui si concentra il fenomeno dei cosiddetti «esodati». In questa fascia si registra un aumento dei suicidi del 5,8% rispetto al 2009 e del 16,8 rispetto al 2008.
Gli uomini sono più a rischio: quattro volte più vulnerabili delle donne. E se tra i disoccupati, maschi soprattutto, si registrano 17,2 suicidi ogni centomila, anche tra imprenditori e i professionisti, colpiti dai ritardi nei pagamenti per beni e servizi venduti (sorpattutto da parte della Pubblica amministrazione) e dalla conseguente difficoltà di accesso al credito, il numero non scende sotto ai 10 ogni 100mila. Mentre in aumento sono i suicidi anche tra gli stranieri: 264 nel 2010 contro i 201 casi del 2006.
Da un punto di vista geografico, il maggior numero di suicidi si concentra al Nord, dove si sfiorano i sei casi (5,9) ogni centomila abitanti contro i 5,3 del Centro e i 3,8 del Sud. In Lombardia in particolare: 496 casi solo nel 2010, con un incremento del 2,9% rispetto al 2009. E a seguire, il Veneto (320), dove proprio ieri i familiari delle vittime della crisi hanno dato vita a una associazione, «Speranza Lavoro» e al governatore Zaia hanno consegnato una lenzuolata di 7 metri con i nomi delle imprese che hanno chiuso i battenti e degli ultimi nove suicidi.
Al Centro, però, i suicidi sono in più rapido aumento. Nel Lazio, in particolare, che con i 266 casi del 2010, raggiunge un preoccupante + 27,3%, da sommare al +11,2% dell’anno precedente.
«Dati drammatici» che segnalano «il clima di incertezza e scoraggiamento che c’è nel nostro Paese» e che chiamano in causa «tutta la classe dirigente», osserva il leader della Cisl Bonanni. Mentre il segretario della Cgil Susanna Camusso sottolinea che, al di là delle singole storie, «il tratto sempre più chiaro è l’assenza di prospettiva per troppe persone» e dunque la necessità di dare «una prospettiva di crescita al Paese». È quello che chiederanno oggi imprenditori e lavoratori con la loro fiaccolata, a cui aderiscono 20 sigle tra sindacati e associazioni. In cima alle ragioni della protesta i ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione. E le banche, che, nonostante gli aiuti ricevuti, non hanno allentato la stretta sul credito alle imprese. Tra le proposte anche quella di un fondo di solidarietà gestito dalle Prefetture.
Il suicidio non è di classe
di Michele Ciliberto (l’Unità, 18.04.2012)
Ci sono molte cose che colpiscono nella crisi profonda, e tragica, che sta attraversando il Paese: allarma ad esempio vedere quanto si stia estendendo l’area della miseria e della povertà. Ma soprattutto colpisce sentire, con una frequenza angosciosa, che un lavoratore oppure un imprenditore hanno deciso di mettere fine alla loro vita, suicidandosi.
La crisi ha cancellato, in modo drammatico, le distinzioni di classe: in diversa misura, e in modi diversi ovviamente, tutti coloro che sono dentro l’universo del lavoro si trovano oggi in una situazione di precarietà, di debolezza che si trasforma in una progressiva perdita di sé, di identità sia sociale che individuale.
Alla base di gesti terribili come questi c’è un senso di totale solitudine, la perdita di qualsiasi fiducia nel futuro, il sentimento di un destino di sconfitta al quale appare impossibile resistere. E c’è la persuasione lucida e intransigente che non ci siano partiti ,sindacati, associazioni, chiese alle quali si possa far appello per avere un aiuto e cercare di ritrovare una strada.
C’è insomma la persuasione che non ci siano strumenti di «mediazione» di alcun tipo, e che ciascuno sia chiamato ad assumersi, da solo, tutte le proprie responsabilità, salendo per protesta su una gru, cercando di farsi giustizia con le proprie mani, fino a decidere di togliersi la vita. Si sono spezzati i tradizionali legami di solidarietà, senza che se ne siano creati altri. Si può dirlo senza retorica: oggi ciascuno è più solo, chiuso nel cerchio ristretto della propria esistenza. Capire perchè succeda questo e perchè un uomo si senta un’isola non è facile.
Certo, si potrebbe dire che così accade perché, come diceva un grande filosofo, il lavoro è il predicato dell’uomo e con esso vengono meno i fili che tengono insieme una vita, una persona, qualunque sia il ruolo che ricopre nel processo lavorativo. Qui infatti vengono meno le differenze fra imprenditore e lavoratore, ed entrambi si trovano a misurarsi con una medesima perdita di sé, un medesimo vuoto, con la stessa insopportabile solitudine.
È questa una spiegazione necessaria, ma non sufficiente. Gli individui si disperdono perché, insieme al lavoro, viene progressivamente meno il senso del futuro, la possibilità di uno sguardo che consenta di guardare oltre la quotidianità, di legare il filo della propria esistenza a una visione, a una prospettiva in grado di generare fiducia in se stessi e nella vita. È quando si spalanca questo vuoto che si può aprire la via a decisioni ultime, irrevocabili.
Riaffermare il primato del lavoro è dunque necessario, ma non sufficiente; ed è precisamente qui che si situa il valore nel senso stretto del termine della politica, dell’agire politico. Oggi, a conferma della gravità della crisi, è diventato di moda vedere nella politica l’origine di tutti i mali fino a sostenere, come è stato fatto qualche giorno fa su un giornale che vuole essere di sinistra, che i partiti sono il cancro della democrazia. Ma è vero precisamente il contrario: senza la politica e per politica intendo la capacità di costituire legami che siano in grado di tenere insieme gli individui la società arretra, degrada, si corrompe senza distinzione di classe o di ceto.
Naturalmente c’è politica e politica: c’è la politica degli oligarchi e c’è la politica democratica; c’è la politica che, facendo l’apologia dell’antipolitica, si preoccupa solo dei suoi interessi e c’è la politica che si propone di costituire tra gli individui una nuova rete di legami, muovendo proprio dal lavoro.
Bisogna perciò saper guardare nei gesti estremi di chi si è tolto la vita e cercare di capire cosa esprimono: non sempre e necessariamente una resa, ma spesso la rivendicazione di un diritto a un destino individuale e collettivo differente. La vita è tale perché comprende in sé anche la morte. E da qui dovrebbe prendere le mosse una politica democratica che voglia fare i conti fino in fondo con la crisi attuale, in tutti i suoi aspetti, anche quelli esistenziali: da una seria riflessione su queste morti ristabilendo, proprio attraverso di esse, un nuovo legame con la vita. Oggi la politica si disgrega e perde credito perchè si è separata dalla vita chiudendosi in se stessa, in puro esercizio del potere. È l’eredità più dura e più pesante del berlusconismo, una delle epoche più cupe della recente storia italiana.
Se la politica democratica vuole avere un peso, un ruolo, un significato, deve saper ritrovare i legami con la vita degli individui, in tutte le sue forme, riuscendo a proiettarsi verso il futuro. In una parola: deve darsi una visione. Senza un’idea del futuro si precipita nella disgregazione, nella perdita di sé. Senza una visione, non c’è politica, non c’è vita.