Monasterace. Il sindaco resiste alla ’ndrangheta «Non mi dimetto»
«Ma ho paura». L’appoggio di Bersani
di Fabrizio Caccia (Corriere della Sera, 13.04.2012)
MONASTERACE (Reggio Calabria) - Sono tutti lì ad applaudirla, in sala consiliare, le due del pomeriggio di ieri: lei ha appena ritirato le dimissioni da sindaco.
Maria Carmela Lanzetta, dopo due settimane di puro travaglio, ha così scelto di restare in trincea, a Monasterace, terra di ’ndrangheta, cosche pericolose, i Ruga, i Metastasio e i Gallace di Guardavalle. L’ha appena detto al segretario Pierluigi Bersani, il leader del Pd, arrivato apposta in Calabria per farle sentire il suo appoggio pieno e incondizionato. Si congratula da Roma pure il ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri: lo Stato c’è, lo Stato non si piega. La storia sembra avere un lieto fine. Sembra...
Perché poi basta avvicinarsi alla signora, che adesso vive con tre carabinieri di scorta 24 ore su 24 - dopo che le hanno incendiato la farmacia di famiglia e sparato tre pallettoni sulla Panda parcheggiata sotto casa - ed in quel momento t’accorgi del terrore che conserva negli occhi. Le chiedi: allora, sindaco, a quando il prossimo consiglio comunale? E lei: «Tra 5 giorni, parleremo di urbanistica». Poi fa una pausa. Lunga. Che chiude con un sospiro raggelante: «Speriamo di arrivarci, al prossimo consiglio».
Maria Carmela in fondo non chiede la luna: pretende solo che in paese tutti paghino le bollette dell’acqua o che le operaie del polo florovivaistico vengano retribuite in modo regolare. E invece qui c’è chi neppure le bollette dell’acqua vuole pagare. Chi pensava che gli fosse sempre tutto dovuto. E allora adesso s’innervosisce e spara.
La prima cosa che Maria Carmela Lanzetta ha fatto, ieri pomeriggio, salutato Bersani ripartito per Roma, è stato salire su fino a Mammola, al santuario di San Nicodemo, per chiedergli la grazia di proteggere la sua famiglia - marito e figli - e darle la forza di continuare. Una preghiera contro la ’ndrangheta.
In sala, comunque, c’è una bell’atmosfera: Bersani con gli occhi lucidi davanti a tanti uomini e donne coraggiose del centrosinistra, amministratori locali di Locri, Roccella, Ardore, Gerace, Caulonia, che sono venuti a fare il tifo per Maria Carmela.
Le hanno anche regalato una maglietta con un proverbio: «Na nuci ’nto saccu non faci scrusciu». Una noce sola in un sacco non fa rumore. «Significa che da soli non si va da nessuna parte - chiosa la Lanzetta, commossa, a beneficio dei forestieri - E allora va bene, andiamo avanti insieme». Applausi, evviva, ma il sindaco spiazza tutti di nuovo. «Ritiro le dimissioni», annuncia.
E fa un’altra lunga pausa teatrale. Poi aggiunge: «Le ritiro ma con riserva. Vorrei che tra 3 mesi si facesse qui una verifica di quello che è stato detto e stato fatto. Non è un ricatto, ma una necessità per poter continuare a lavorare bene». Chiaro il messaggio: una volta spenti i riflettori - il municipio straborda di telecamere e giornalisti venuti da fuori - la mafia e la paura non dovranno riprendere il sopravvento.
Si ascoltano storie tragiche e bellissime. Quella di Carolina Girasole, sindaco di Isola Capo Rizzuto, a cui hanno incendiato il portone del municipio e al microfono ora grida «ma noi siamo mamme e non vogliamo fermarci».
E quella di Maria Elisabetta Tripodi, sindaco di Rosarno, a cui un giorno appena insediata arrivò una lettera da un ergastolano del clan Pesce. La lettera era chiusa in un busta intestata del Comune. Come a dire: il sindaco qua sono io.
I sindaci della Locride hanno scritto a Napolitano, il 25 aprile listeranno a lutto il tricolore: «La Calabria ha bisogno di legalità e di lavoro - dice Bersani - La criminalità non deve vincere». Pasquale Miriello, ex assessore comunale all’Ambiente, socialista, applaude al discorso del segretario ma sembra molto scettico: «Voi cercate la ’ndrangheta qui. Attenti. Ormai siamo nel villaggio globale, non ha più molto senso distinguere tra Monasterace e il Cafè de Paris...».
La lezione di chi sceglie i cittadini
di Goffredo Buccini (Corriere della Sera, 13.04.2012)
Si sa, talvolta la verità ha due facce. E sarà bene guardare molto da vicino la tormentata vicenda di Monasterace, il paesino calabrese dove il sindaco pd Maria Carmela Lanzetta aveva deciso di dare le dimissioni all’ennesima intimidazione della ’ndrangheta. Dopo anni di oblio, ieri politica e istituzioni hanno fatto sentire la loro presenza attorno alla mite farmacista che, solo giocando secondo le regole, ha rivoluzionato gli affari del paese a tal punto da attirarsi addosso due attentati mafiosi in nove mesi.
La signora Lanzetta ha ricevuto la visita del segretario del suo partito, Pierluigi Bersani, ottenuto la solidarietà della Camusso (da Catanzaro) e l’attenzione della Commissione Antimafia; ha potuto dialogare col nuovo prefetto di Reggio Calabria, Vittorio Piscitelli, al quale ha annunciato il ritiro delle dimissioni, anche se con riserva: «Fra tre mesi dobbiamo fare una verifica, perché qui non si vive più», ha ammonito.
Sano pragmatismo in una terra dove anche altri primi cittadini sono stati minacciati nell’indifferenza del resto d’Italia. «Mio figlio era molto contrario: "Mamma, non pensarci nemmeno a restare sindaco", m’ha detto. Io lo faccio per quelli che si sono mobilitati», ci ha spiegato Maria Carmela in una giornata piena di abbracci e riconoscimenti.
Attendiamo, e presto, una risposta dello Stato non solo formale. Intanto, va dato a Bersani il merito di metterci la faccia, ripartendo da una sfida difficilissima in un momento di generale discredito dei partiti: «Non tutta la politica è sporca», ha detto il segretario del Pd. E ha ragione.
Ma qui si svela l’altra mezza verità della storia: la politica, mobilitandosi, aiuta la Lanzetta, certo; ma la Lanzetta e i sindaci come lei - non importa di quale partito - aiutano e molto la politica, sgobbando sul territorio sotto gli occhi dei concittadini. Una nuova legittimazione può trovarsi solo fuori dai Palazzi e lontano dai privilegi, in mezzo al popolo italiano. La lezione di Monasterace serve davvero a tutti.
SUL TEMA, NEL SITO:
M. Carmela Lanzetta
L’ex sindaca anti ’ndrangheta: «Non me lo aspettavo. Delrio mi ha chiamata cinque minuti prima e ha detto: ti va bene se ti cedo il mio posto?»
«Un riconoscimento per chi opera in mezzo alla gente»
di Federica Fantozzi (l’Unità, 22.02.2014)
Pronto, ministro Maria Carmela Lanzetta?
«Sì, scusi, è bene che mi sieda... Ancora non credo che sia vero. L’ho saputo cinque minuti fa».
Dica la verità. Impossibile che Matteo Renzi o Graziano Delrio non l’avessero chiamata per avvertirla...
«Delrio mi ha telefonato proprio pochi minuti fa: “Ti va bene se ti cedo il mio posto? Bene, allora accendi la televisione” mi ha detto».
È più contenta o preoccupata?
«Guardi, sono in farmacia (Lanzetta è farmacista, il suo esercizio è stato anche bruciato dalla ‘drangheta nel 2011) circondata dagli amici più cari che sono arrivati appena hanno saputo la notizia. Stiamo condividendo questa cosa nuova, enorme. Se fossi sola devo ammettere che avrei una paura terribile, ma con loro devo soprattutto dire: grazie Monasterace».
Monasterace, il comune della Locride in cui vive e di cui è stata sindaco per il Pd dal 2006 al novembre 2013. Si è dimessa due volte, la prima Bersani la convinse a cambiare idea, l’ultima è stata definitiva. Lanciando un durissimo j’accuse alla politica, compreso il suo partito, che ha lasciato sola lei, il territorio, i problemi del Paese: «Basta, sono stanca, schiacciata tra politica e criminalità»
Questo gesto lenisce la sua delusione?
«È un gesto molto importante. Un riconoscimento per tutti quelli che lavorano in mezzo alla gente e la ascoltano. Non servono proclami e comizi, per risolvere i problemi basta viverci in mezzo».
Sul fronte della legalità, non le sono mancati. Minacce, auto bruciata, pressioni. Il suo background la aiuterà anche a capire le regioni del Nord?
«Sì, questo microcosmo è molto difficile. Le assicuro che vivere qui serve a capire non soltanto la Locride, ma tutto il Paese. Che vive una difficoltà principale e drammatica: la mancanza di lavoro. Per i giovani, ma anche per chi a cinquant’anni lo ha perso e non sa dove andare».
Ministro degli Affari Regionali è un ruolo complicato. Molti sostengono persino che le Regioni andrebbero abolite perché hanno troppi poteri e diventano veicoli di sprechi. È prematuro parlare di programma, ma ha in mente qualche idea?
«Noi ragioneremo anche sugli sprechi e su tutto quello che ne consegue. Faremo un programma ampio e completo. Ma ne parleremo domani (oggi, ndr). Adesso non sono molto lucida...».
Lei è stata eletta con Civati. Come sarà lavorare gomito a gomito con Renzi?
«E pensare che gli ho anche votato contro in direzione. Sono stata una dei 16 no».
Adesso è uno dei 16 ministri.
«Resto civatiana, porteremo avanti le nostre istanze. Ma lavoreremo insieme per un programma rigoroso. In gioco c’è il futuro dell’Italia e non abbiamo tempo da perdere».
Le donne sindaco della Locride scuotono il Pd sulla legalità
Cinque vite sotto scorta per 800 euro al mese, sono tutte donne: Maria Carmela Lanzetta, Maria Teresa Collica, Elisabetta Tripodi, Carolina Girasole, Anna Maria Cardamone. La rabbia per i milioni accettati in Lazio: "Noi le spese le paghiamo di tasca nostra"
di CONCITA DE GREGORIO *
ROSARNO - Questi sono posti dove le teste di maiale non si indossano ai toga party, te le lasciano mozzate sullo zerbino davanti a casa. "E’ un rito arcaico della ’ndrangheta ma noi qui ci siamo nate e non ci lasciamo impressionare, lo sappiamo che è così", dice Elisabetta Tripodi, sindaco di Rosarno. Dove l’indennità da sindaco, lo stipendio, è di 800 euro al mese che diventano "411 virgola 80 centesimi perché ne lascio la metà al comune per le spese sociali". Sono paesi e città dove se il boss locale ti spara alla macchina ti danno la scorta, ma - spiega Carolina Girasole, sindaco di Isola Capo Rizzuto - "io non l’ho voluta la scorta, ho detto la scambio per due funzionari bravi per i comune, due giovani assunti per concorso. Risultato: mi hanno tolto la scorta e non mi hanno dato i funzionari". Il giornale del mattino arriva anche a Decollatura, confine con Lamezia Terme: quando il sindaco Annamaria Cardamone legge l’intervista al capogruppo Pd alla Regione Lazio Esterino Montino, suo collega di partito, che dice insomma, quei due milioni di contributi per le spese erano disponibili, non li potevamo mica dare indietro, ecco quando legge questo il sindaco mormora la cifra due volte poi dice "io le spese le pago di tasca mia, se faccio l’avvocato e compro un libro me lo pago, perché se faccio il sindaco me lo deve pagare la comunità? E’ un lavoro, fare politica, non è mica una rendita".
Le primarie del centrosinistra bisogna guardarle anche da qui, fra la Calabria e la Sicilia: sono un altro spettacolo. Con gli occhi di questi cinque sindaci che hanno tutti 40 anni tranne uno, sono tutti laureati, tutti sotto minaccia di morte. Sono tutte donne, pensate pure che sia un caso.
Tre di loro - Elisabetta Tripodi, Maria Carmela Lanzetta , Carolina Girasole - hanno avuto ieri il premio intitolato a Joe Petrosino ucciso dalla mafia. Lanzetta non è andata a ritirarlo.
"Avevo da lavorare". E’ la veterana. 57 anni, due figli di 29 e 26. Sindaco di Monasterace, nella Locride, tremila e cinquecento abitanti. Nonni contadini, madre farmacista e padre medico condotto. Liceo classico a Locri, laurea in farmacia a Bologna. "Non era una famiglia femminista, solo che le donne studiavano e basta". Non iscritta, vota Pd. Eletta sindaco con una lista civica nel 2006, rieletta nel 2011. Il 15 maggio vince le elezioni, il 26 giugno le bruciano la farmacia. Lettere con minacce di morte all’ordine del giorno, a marzo di quest’anno le hanno sparato alla macchina. Vive sotto scorta. "Questo è un paese bellissimo, sul mare. L’area archeologica magno greca più importante del mediterraneo. Facciamo teatro, presentiamo libri. Qui le donne facevano le gelsominaie, mandano avanti l’economia da secoli. Siamo indipendenti, non siamo malleabili. Per me libertà e possibilità di scegliere sono ragioni di vita. Sono calabrese ma sono italiana. Ho bisogno di sentirmi uguale a chi vive a Genova, a Padova. La Locride soffre perché ci tolgono le scuole, l’acqua costa e non ci sono investimenti per le reti idriche. Ho una grande rabbia dentro, enorme. Siamo poverissimi. Non ho i soldi per cambiare le lampadine dei lampioni per strada. I lavori di manutenzione li faccio con la mia indennità. Non chiedo, non mi piacciono i lamenti. Prima di chiedere do. Le prime vittime della ’ndrangheta siamo noi. La gente è stanca della politica, è disgustata. Le primarie, sì, ho qualcosa da dire al Pd: che sia esempio di persone sane e pulite. Che ascolti, ma ascolta? Vorrei poter votare Berlinguer. E’ bello che ci sia Laura Puppato, una donna, ma il partito ci crede? Se non ci crede bisognerà scegliere Bersani".
Carolina Girasole, 49 anni, due figlie. Sindaco di Isola Capo Rizzuto, Crotone. 16 mila abitanti. Biologa, laureata a Roma alla Sapienza, aveva un laboratorio di analisi. Comune sciolto nel 2003 per infiltrazioni mafiose, 3 anni di commissario straordinario, poi centrodestra. Vince le elezioni del 2008. "La candidata del Pd non ero io, era la presidente del consiglio comunale ma non hanno trovato l’accordo. Il giorno prima, alle nazionali, ha vinto Berlusconi. Il giorno dopo noi. Lo slogan era "E’ qui che vogliamo vivere": abbiamo detto non scapperemo. Vogliamo legalità e trasparenza. In comune quasi nessuno era entrato per concorso, tutti cooptati, inadeguati per numero e capacità. Ho riattivato i concorsi. Il controllo sugli atti. Ci siamo costituiti parte civile per riavere il patrimonio andato ai privati. Abbiamo lottato contro il business dell’eolico, ora il parco è sotto sequestro, uno dei soci era il boss Nicola Arena, è in galera. Stiamo lavorando con Don Ciotti sui terreni confiscati. Hanno bruciato tre macchine, anche quella di mio padre. Mi scrivono minacce di morte sui muri. Ho venduto il laboratorio, perso gli amici, mio marito non ha più clienti. Al posto della scorta ho chiesto due funzionari, non me li hanno dati. Ai colleghi del consiglio regionale del Lazio chiedo che vengano qui sei mesi. Che un po’ di quei due milioni di euro che loro usano per le spese a piè di lista vadano ai ragazzi di Isola, figli di genitori uccisi, o in carcere. Vorrei creare una casa della Musica, il futuro passa dai nostri bambini".
Anna Maria Cardamone, 48 anni, sindaco di Decollatura. Laureata a Messina in Economia e commercio, specializzata in Inghilterra. Iscritta al Pd dalla fondazione, eletta nel 2011. Cattolica. "Sono tornata in Calabria dopo 15 anni per amore della mia terra. Non c’era nessuna legalità amministrativa. Ho interrotto l’appalto di sempre sui rifiuti, ho lavorato alla trasparenza delle gare. Abbiamo risparmiato molto, così, e assunto 12 persone da decenni precarie sotto ricatto. C’è a chi non piace. Guadagno 1400 euro. Chi fa politica deve essere sobrio e parco, le spese di rappresentanza se le deve pagare ciascuno col suo stipendio. Serve un rinnovamento radicale. L’antipolitica nasce dalla cattiva politica. Ho paura del populismo di Grillo, non mi piace la demagogia di Renzi. Aspetto di sapere meglio di Laura Puppato, in alternativa: Bersani".
Maria Teresa Collica, 48 anni, un figlio di 5. Sindaco di Barcellona Pozzo di Gotto, 45 mila abitanti. Laureata in Giurisprudenza a Messina. Docente universitario. "Ho cominciato nel movimento civico ’Città apertà per sostenere Rita Borsellino alle regionali. Abbiamo fondato l’associazione antiracket, combattuto un mega parco commerciale per pericolo di infiltrazioni mafiose. La società faceva capo a Pio Cattafi, avvocato, indicato come terzo livello della Cosa Nostra messinese, ora agli arresti domiciliari. Abbiamo garantito la rotazione nei lavori di acquedotto e fognatura, di conseguenza quest’estate sono saltati tutti i tombini, sabotati. Abbiamo sforato il patto di stabilità e paghiamo una multa. La mia indennità è ridotta del 30 per cento, prendo 816 euro al mese. Ai dirigenti del Pd, il mio partito, dico: fatevi un esame di coscienza, i cittadini sono sfiduciati e giustamente, siamo fuori tempo massimo. La politica non sono calcoli matematici per le alleanze, serve il coraggio di fare scelte. Mi attaccano perché sono una donna. Ora per esempio dicono: è incinta. Non è vero, ma potrei governare anche se fossi incinta, no?. Credo che voterò Puppato".
Elisabetta Tripodi, 44 anni, due figli di 12 e 16. Sindaco di Rosarno, 15 mila abitanti. Avvocato, laureata a Parma. Eletta dopo il commissariamento per mafia e la rivolta dei migranti. "Sono tornata perché se tutti scappano non cambierà mai nulla, spero che più avanti i miei figli capiscano. Chiamano le donne a fare politica nei luoghi e nei momenti difficili pensando che siano più manovrabili, poi non le possono manovrare e le lasciano sole". Sotto scorta da un anno. Il boss Rocco Pesce, ergastolano, le ha inviato una lettera scritta a mano e imbucata dal carcere, la busta era di quelle del Comune. "Ci eravamo costituiti parte civile in un grande processo contro la cosca. Abbiamo confiscato la casa di sua madre e suo fratello. Pesce mi ha scritto: lei è così giovane.... Hanno incendiato macchine, tagliato alberi, fatto a pezzi animali. Ma io non posso permettermi di avere paura. Questo è anche il paese delle pentite di mafia, Giusi Pesce e Maria Concetta Cacciola. Tutte queste donne, loro ed io, stiamo combattendo per i nostri figli. Loro per sottrarli a un destino scritto, io perché voglio che restino qui. Certo che vado a votare alle primarie, anche se lo spettacolo visto da qui è desolante. La gente non si fida più di nessuno e ha ragione. Non è l’antipolitica il nostro nemico, è la brutta politica. Chissà se lo capiscono lassù a Roma che serve coraggio. Non è difficile, davvero. Venite a vedere qui da noi: ci sono donne ad ogni angolo di strada che si battono, in silenzio e da sole, come leoni".
Il paese delle donne che fanno paura alle cosche
Monasterace, dopo il sindaco nel mirino una consigliera
di Giulia Veltri (La Stampa, 02.07.2012)
La lotta alla criminalità organizzata in Calabria cammina sempre più spesso sulle gambe delle donne. Amministratrici in prima linea, le prime a pagare sulla propria pelle la violenza e le prove di forza messe in atto da mani criminali.
E’ accaduto, ad esempio, a Clelia Raspa, una signora che nella vita fa il medico all’Asp di Locri ed è anche capogruppo di maggioranza al Comune di Monasterace, piccolo paesino sulla statale ionica in provincia di Reggio Calabria. Schierata, Clelia Raspa, a fianco di un’altra amministratrice donna, il sindaco Maria Carmela Lanzetta, che si era dimessa a marzo, proprio a seguito di una serie di intimidazioni, per poi decidere di rimanere in carica.
All’alba di sabato, la parte posteriore dell’Alfa Romeo Mito del capogruppo non c’era più, risucchiata dalle fiamme appiccate da qualcuno che è arrivato a pochi metri dall’abitazione della donna, ha appiccato il fuoco e se ne è andato indisturbato.
E così torna la paura nel paese in cui si sono precipitati qualche mese fa, subito dopo le dimissioni del sindaco Lanzetta, il ministro dell’Interno Cancellieri e il segretario nazionale del Pd Bersani. Anche sull’onda di questa catena di solidarietà e di vicinanza istituzionale, a marzo, la Lanzetta ha deciso di ritornare in sella al Comune. E da allora, suo malgrado, è diventata un simbolo dell’impegno civile in terre di illegalità. Le hanno distrutto la farmacia di famiglia e la sua auto è stata tempestata di proiettili e ieri ha trascorso tutta la giornata accanto all’amica e sostenitrice politica.
Nessun dubbio sul fatto che il destinatario finale dell’intimidazione fatta al capogruppo sia il sindaco: «E’ un regalo che hanno fatto a me - dice la Lanzetta - domani (oggi per chi legge, ndr) è una giornata speciale per il paese, perché ospitiamo Salvatore Settis (storico calabrese e direttore della Scuola Normale di Pisa) per la prestazione nazionale dei quaderni della Normale, dedicati per la prima volta agli scavi archeologici di Monasterace. Mi hanno voluto fare male un’altra volta - confessa lei che oggi vive sotto scorta - ma io provo ad andare avanti, finché posso, finché ce la faccio».
E’ difficile? «Sì certo che è difficile - risponde il sindaco - abbiamo avviato una serie di progetti con il ministero dell’Interno ma è il giorno dopo giorno che tempra e richiede tanto impegno. Le stanno provando tutte per convincermi a mollare».
In prima linea, le più esposte ma non sole in una quotidiana azione di resistenza alla criminalità organizzata. Non solo il caso Monasterace racconta di una Calabria di donne e amministratici che per muoversi nel solco della legalità e del buon esempio, convivono con auto bruciate, lettere intimidatorie, messaggi di morte. Da Monasterace a Rosarno, nel cuore della piana di Gioia Tauro - sempre in provincia di Reggio Calabria - dove comandano i Pesce e i Bellocco, e qui nel 2010 è scoppiata la rivolta degli immigrati costretti a vivere in capannoni distrutti. Proprio nel 2010, qualche mese dopo gli scontri, è stata eletta Elisabetta Tripodi a capo di un’amministrazione di centrosinistra, che con il Comune si è costituita in tutti i processi di mafia e riceve continuamente lettere di minaccia.
A Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, un’altra storia di donne coraggio, con Carolina Girasole, biologa e sindaco dal 2008. Qui dove comandano gli Arena, le hanno provate un po’ tutte per convincerla a lasciare il municipio. Auto incendiate, portoni degli uffici sfondati, luoghi privati ripetutamente violati. Carolina resta al suo posto e insieme ad Elisabetta, Maria Carmela e altre ostinate e orgogliose amministratrici gira la Calabria e non solo, parlando di resistenza alle inciviltà, di buon esempio nell’agire pubblico, di determinazione e passione.
«Da Monasterace passa il riscatto del Meridione...»
La convenienza della legalità
di Antonio Ingroia (l’Unità, 16.04.2012)
Il 2012 è un anno simbolico e carico di aspettative. Simbolico perché denso di anniversari fatidici per la nostra storia. Perché si ricorda la morte, trent’anni fa, di un uomo politico come Pio La Torre che, fra i primi, aveva ben chiaro che la politica dovesse fare della lotta alla mafia la sua priorità.
E dovesse farlo non delegando alla magistratura impropri compiti di supplenza, ma nel contempo fornendole strumenti idonei per colpire della mafia la struttura militare e le risorse economiche. E si ricorda, dello stesso 1982, la lezione istituzionale e culturale di un uomo dello Stato rimasto troppo solo come il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa. Ed è anno cruciale perché si deve ricordare il ventennale dello stragismo corleonese esploso a Palermo, momento tragico della nostra storia che diede luogo tuttavia a una stagione di impegno e di riscatto.
Da allora non c’è dubbio che la lotta alla mafia ha fatto molti passi avanti, sia sul piano dei risultati repressivi che su quello della sensibilizzazione di settori sempre più ampi dell’opinione pubblica. Ma perché, oggi, sebbene sia fortemente calato il tasso di impunità dei boss mafiosi, tanto che i latitanti più pericolosi si contano sulle punte delle dita di una sola mano, e nonostante l’imponenza dei patrimoni illeciti confiscati dallo Stato, le mafie non sono affatto sul viale del tramonto? Per una ragione molto semplice. Per aver dimostrato, ancora una volta, una straordinaria capacità di adattamento.
L’esperienza della reazione repressiva post-stragista ha indotto il sistema criminale mafioso a mutare strategia, ed ecco come si spiega l’inabissamento che ha comportato la tregua armata, e nel contempo l’investimento di tutte le energie criminali nella finanziarizzazione del fenomeno e nell’espansione dell’economia mafiosa che ha avviato un processo di colonizzazione del Nord e di penetrazione e integrazione nell’economia delle regioni più ricche, che può definirsi come forma di mafiosizzazione del Paese. Mafiosizzazione, che ha trovato terreno fertile nella scarsa diffusione della cultura della legalità nei piani alti della società italiana, che si rivela nella capillarità di un sistema corruttivo, pubblico e privato, senza precedenti nella nostra storia.
E l’antimafia? L’antimafia non ha fatto tesoro di una delle lezioni fondamentali lasciata dai maestri il cui anniversario della morte si ricorda proprio in questi mesi: saper analizzare le evoluzioni del fenomeno ed elaborare nuove strategie. Contro una mafia che militarmente è in tregua non può più bastare l’antimafia della repressione. Contro una mafia che cerca convivenza occorre opporre una strategia della convenienza dell’antimafia. Che significa antimafia della convenienza?
Significa voltare pagina. Significa stimolare gli operatori economici a prendere le distanze dalla tentazione di integrarsi con i processi illegali della mafia e della corruzione. Significa premiarli con meccanismi come il rating antimafia proposto da Antonello Montante. Significa essere consapevoli che il più importante fattore di crescita, di cui ha bisogno l’economia nazionale in questo grave momento di crisi, è la crescita del tasso di legalità del Paese.
Elevare il tasso di legalità nel mondo dell’economia premiando le imprese che agiscono dentro le regole significa, infatti, metterle nelle condizioni di non essere svantaggiate rispetto a quelle che dalle relazioni privilegiate col sistema criminale della mafia e della corruzione traggono benefici. Significa ristabilire sani principi di competitività e di correttezza, ripristinare le regole del libero mercato e consentire alle aziende davvero valide e sane ad affermarsi ed emarginare le imprese che finora occultano la loro debolezza aziendale sopravvivendo ed ingrassando solo per la carica di illegalità di cui si avvalgono, che costituisce la zavorra del nostro sistema economico e quindi ne impedisce la crescita. Crescita, peraltro, che è ostacolata anche dall’immagine negativa che l’Italia si è conquistata nel mondo.
Certo è che un Paese con un tasso di illegalità così alto, con una presenza così diffusa sull’intero territorio nazionale di un’economia mafiosa e di un sistema di corruzione privata e pubblica così capillarmente diffuso, e con una giustizia così lenta e poco efficiente, non può che scoraggiare qualsiasi operatore economico straniero ad investire.
Se vogliamo riscattare la nostra immagine internazionale, che negli ultimi anni si è offuscata, non abbiamo altra strada che quella di dimostrare una seria volontà, con risultati effettivi, di liberarci del peso delle mafie e della corruzione. E per fare questo occorre una vera ed efficace riforma della giustizia, e della legislazione antimafia e anticorruzione, per rendere davvero conveniente la legalità. Proporsi nel mondo come modello di legalità. Nella storia più nobile del nostro Paese abbiamo uomini riconosciuti nel mondo proprio come modelli di riferimento. Un patrimonio ideale ed etico al quale abbiamo il dovere di attingere per progettare e costruire un Italia migliore, nel segno della convenienza della legalità.
Catanzaro
Camusso (CGIL) «In Calabria c’è un problema di democrazia»
Accuse pesanti da parte di Susanna Camusso, segretario generale della Cgil a Catanzaro per un convegno sulla legalità. La sindacalista ha attaccato la politica regionale e in particolar modo il presidente Scopelliti che «non ha attenzione ai problemi della Calabria» *
CATANZARO - Il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, rispondendo alle domande dei giornalisti a margine del convegno indetto dalla Cgil sul "Alla luce del sole. Servizi pubblici, appalti, forniture: legalità e trasparenza per liberare l’Italia e far ripartire il Sud". La Camusso ha affermato che «c’è un problema di democrazia che riguarda la Calabria ma anche tutto il Paese e anni di populismo con l’idea che si poteva scavalcare le forme di partecipazione e di rappresentanza e ruoli hanno fatto scuola costruendo un clima tra populismo e antipolitica che è esattamente il contrario della democrazia». Così Susanna Camusso a Catanzaro. «La democrazia - ha aggiunto Camusso - ha bisogno di forme di rappresentanza e di partecipazione. Le ragioni per cui stiamo criticando il presidente della Regione Calabria Giuseppe Scopelliti è esattamente dovuta a questa sua modalità di non attenzione ai problemi della Calabria e al fatto che bisogna costruire partecipazione e scelte condivise. Bisogna continuare a battersi perchè ci sia il riconoscimento della rappresentanza sociale e ci sia una nuova politica in grado di essere partecipata e rappresentata dai cittadini».
Nel frattempo è stata intitolata alle donne calabresi vittime della ’ndrangheta la sede della Cgil Calabria. Alla cerimonia ha partecipato il segretario generale del sindacato Susanna Camusso che ha scoperto una targa con inciso “al coraggio delle donne calabresi, alle vittime di ’ndrangheta e ai loro familiari». Presente il gruppo dirigente del sindacato calabrese con il segretario generale regionale Michele Gravano e don Giacomo Panizza, sacerdote a Lamezia Terme e fondatore della Comunità Progetto Sud che si occupa di assistenza ai disabili ospitata in uno stabile confiscato alla cosca Torcasio di Lamezia Terme, vittima negli ultimi mesi di ripetuti atti di intimidazione. La leader nazionale della Cgil e il gruppo dirigente del sindacato successivamente hanno raggiunto la sede della Comunità Progetto Sud contro cui anche nelle ultime ore sono stati esplosi dei colpi di arma da fuoco a scopo intimidatorio per manifestare la loro solidarietà al sacerdote, originario di Brescia ma da decenni in Calabria, e ai suoi collaboratori.
Quando uomini e dei parlavano nella lingua degli eroi Achei
Decifrata una tavoletta di bronzo che è un pezzo unico
“Così è riemersa dall’antico santuario di Kaulonia”
di Gabriele Beccaria (La Stampa /TuttoScienze, 03.09.2014)
Tutto è fragile, fragilissimo, nella città perduta di Kaulonia. Come la tavoletta riemersa da quasi 25 secoli di sonno a pezzi e pezzettini e che ora, ricomposta, ripulita e in via di decifrazione, ha ricominciato a diffondere un enigmatico messaggio di orgoglio e devozione, in cui uomini e dei intrecciano i propri destini.
Carmine Ampolo, professore di storia greca alla Scuola Normale Superiore di Pisa, racconta che questa voce congelata su una tavoletta di bronzo - alta 12 centimetri e mezzo e larga 25 - è straordinaria. Un esemplare unico e che quindi ha del miracoloso. «E’ una dedica votiva, che contiene il testo greco più lungo in alfabeto acheo mai ritrovato in tutta la Magna Grecia».
Kaulonia si trova in un angolo di Calabria, a Monasterace, e, nonostante le pietre che affiorano abbondanti, mantiene le sembianze di un miraggio. Affacciata sul mare, scavata un secolo fa da un padre dell’archeologia italiana, Paolo Orsi, oggi il suo santuario - quello di Punta Stilo - è pericolosamente in bilico e rischia di essere divorato dai crolli e dalle mareggiate, nonostante gli scavi che il team di Ampolo conduce dal 1999 (e le promesse d’intervento del ministero).
Qui, con la collega Maria Cecilia Parra, professoressa di Archeologia della Magna Grecia all’Università di Pisa, ha concentrato tutto l’high tech disponibile per gli archeologi del XXI secolo. Un drone con cui mappare la colonia che gli Achei del Peloponneso fondarono sullo Ionio, non lontano da altre città come Metaponto, Sibari e Crotone, e le immagini ad altissima risoluzione ottenute con il microscopio elettronico e tecniche di retroilluminazione, quelle che hanno fatto riemergere le 18 righe dell’iscrizione.
Diciotto righe, dove le lettere sono disposte in ordine geometrico, in senso sia orizzontale sia verticale, creando una scacchiera che gli addetti ai lavori definiscono «stoichedon» e in cui sono racchiuse tante sorprese. A cominciare dai personaggi citati. «Il committente fu Pythokritos, “figlio di Euxenos, figlio di nobile padre”, e conosciamo perfino l’autore di una statua collocata nell’agorà (o di una sua riproduzione in scala ridotta nel santuario), che si è firmato: è l’artista Apollodotos».
Una forma di protagonismo che, per la Magna Grecia e l’epoca, è un evento quasi senza precedenti. «All’inizio - spiega Ampolo - si legge l’invocazione alla divinità e segue il riferimento alla statua di Zeus eretta nell’agorà, “di cui tu, o Signore, sii lieto e concedi buona salute a Pythokritos”. Si continua poi con versi con riferimenti alle Grazie, ad Artemide, ad Apollo e alle Muse e all’accoglimento del dono e del monumento di Zeus, entrambi ricordati più volte». Uno spaccato di politeismo in un testo - aggiunge il professore - complesso e ancora da indagare, «che ci restituisce, tra l’altro, forme di devozione dell’aristocrazia di Kaulonia, a cui Pythokritos, di certo, appartenne».
Ma, mentre Kaulonia vibra con i contorni del miraggio, che cosa si potrebbe intravedere se, viaggiando nel tempo, si tornasse al 470 a.C., quando presumibilmente furono incise le 18 righe? Si passeggerebbe per una città in espansione grazie a una fitta rete di scambi commerciali (disponeva non a caso di un doppio porto) e ci si ritroverebbe davanti a un imponente tempio dorico, forse dedicato a Zeus o forse no. La tavoletta delle meraviglie era lì vicino, affissa su un sostegno, come rivelano due buchi per i chiodi alle estremità superiori. Difficile, fantasticando ma non troppo, non immaginare altre dediche e oggetti votivi in bronzo o in terracotta, uno accanto all’altro, in un’area di devozione coperta da una struttura piuttosto ricercata: si deduce - dice Ampolo - che fosse una specie di baldacchino di legno, con un tetto decorato da gocciolatoi modellati come teste di leoni.
Sotto la copertura si svolgevano riti e si deponevano offerte. Tra queste, tante armi: pezzi privilegiati, dato che nel tempo è stato ritrovato un campionario di elmi, scudi, schinieri, spallacci e spade corte, oltre a punte di lancia e di freccia. Un luogo di vita e morte, di preghiera e sangue che oggi appare come l’incrocio multicolore (secondo una perfetta logica pagana) tra la raccolta di reliquie e il museo e in cui si affollavano microstorie individuali e grande storia collettiva. La terra, purtroppo, ha riassorbito la catastrofe e digerito quasi tutto, quando intorno al IV sec. a.C. l’area di culto fu schiacciata dal crollo del tempio, abbattuto - si suppone - da un terremoto. Ma, sebbene strappata e schiacciata, la tavoletta è tra i «sopravvissuti».
Un’ulteriore sorpresa - aggiunge Ampolo - è che 16 delle 18 linee sono versi (esametri e pentametri, vale a dire una serie di distici), legati ad almeno due composizioni poetiche: «Un caso senza confronti nelle iscrizioni della Magna Grecia». E da lì emergono altri dettagli sulla religiosità degli abitanti di Kaulonia: devoti a Zeus, invocato come «Olimpio» e «Basileus», dedicavano un culto speciale anche ad Apollo (che infatti compare sulle monete cittadine). Ma - conclude l’archeologo - decifrazione e interpretazione non si possono considerare concluse. E a Kaulonia l’area da scavare resta enorme. Riemergerà prima o poi la statua di Zeus, ordinata dal misterioso Pythokritos e realizzata dall’altrettanto misterioso Apollodotos?