Olimpiadi, asso del calcio indiano rifiuta di portare la torcia
Bhaichung Bhutia, capitano della nazionale, rinuncia a fare il tedoforo il prossimo 17 aprile a Nuova Delhi: "Questo è il mio modo di essere accanto al popolo tibetano"
Nuova Delhi, 1 apr. - (Adnkronos) - Il capitano della nazionale di calcio indiana, Bhaichung Bhutia, si è rifiutato di portare la torcia olimpica il prossimo 17 aprile a Nuova Delhi. "Questo è il mio modo di stare accanto al popolo del Tibet e alla loro lotta. Odio la violenza in ogni forma", ha detto al quotidiano Times of India l’asso del calcio indiano, originario dello stato del Sikkim al confine della Cina, dove vive una forte minoranza buddista.
"Ho molti amici nel Sikkim di religione buddista" - ha aggiunto Bhutia, che ha sottolineato di non aver ricevuto pressioni per rinunciare a fare il tedoforo. "Questa è una mia decisione personale. Penso che quanto stia accadendo in Tibet non sia giusto e nel mio piccolo voglio dimostrare la mia solidarietà". La rinuncia del capitano della nazionale di calcio è la prima dopo che ieri un gruppo di esuli tibetani aveva manifestato a Nuova Delhi chiedendo ai tedofori di manifestare solidarietà verso la loro causa rinunciando a portare la torcia, oppure sventolando la bandiera tibetana durante la corsa o facendo dichiarazioni per il Tibet prima di partire. La nazionale di calcio indiana non partecipa alle Olimpiadi di Pechino.
Olimpiadi, i Nobel in campo per i diritti del Tibet
di Umberto De Giovannangeli *
I Nobel si schierano. Per il rispetto dei diritti umani in Cina, per l’autonomia del Tibet, perché il mondo non accompagni con un silenzio complice l’agonia del Darfur. E lo schierarsi significa firmare appelli, esporsi pubblicamente, compiere gesti altamente simbolici. Come quello di cui si è resa protagonista Wangari Maathai, premio Nobel per la Pace 2004, che ha annunciato ieri di aver annullato la sua partecipazione alla staffetta per la fiaccola olimpica prevista per domani a Dar es Salaam, in Tanzania, unica tappa africana del suo percorso. «Sì, mi sono ritirata. Ho deciso di mostrarmi solidale con altre persone sulle questioni dei diritti umani nella regione del Darfur, in Tibet e in Birmania», spiega la premio Nobel.
I Nobel si schierano, prendono posizione, sostengono la mobilitazione non violenta contro le «Olmpiadi della vergogna». In prima fila è Desmond Tutu, premio Nobel per la Pace, simbolo, assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime segregazionista sudafricano. L’arcivescovo si è espresso a favore di un «totale boicottaggio» dei Giochi olimpici, in programma dall’8 agosto a Pechino, se la Cina dovesse continuare a mostrarsi «irremovibile» sulla questione dei diritti umani, del conflitto in Tibet e sul Darfur. «Noi in Sudafrica siamo un esempio di quanto efficace possa essere il boicottaggio dei Giochi», ha dichiarato nei giorni scorsi Tutu. «Che non abbiamo più l’apartheid in Sudafrica - ha aggiunto - ha anche a che fare con il fatto che il mondo si è unito a noi e mise al bando l’allora governo sudafricano».
I Nobel prendono posizione e nel farlo mettono a nudo le contraddizioni e la doppia morale della realpolitik. Tra i più attivi nel promuovere appelli e iniziative pubbliche è Elie Wiesel, premio Nobel per la Pace 1986. «Occorre mantenere alta la pressione internazionale finché non saranno ascoltate le voci dei tibetani e le prigioni svuotate - ha spiegato Wiesel in una recente intervista a L’Unità -. Dobbiamo estendere il campo della pace e del dialogo. È questo che oggi ci chiede il Dalai Lama di non abbassare la guardia e di sostenere con forza le ragioni del dialogo». Una tesi rilanciata con forza, sempre sull’Unità, da Adolfo Pérez Esquivel: «Il grido d’allarme lanciato dal Dalai Lama - afferma il premio Nobel per la pace argentino - va raccolto da tutti, governi, organismi internazionali, associazioni umanitarie, intellettuali. La repressione messa in atto dalle autorità cinesi è tanto più grave perché si esercita contro un movimento non violento, le cui rivendicazioni non minano l’integrità territoriale della Cina. È questo un punto centrale - rimarca Adolfo Pérez Esquivel - perché ciò che i monaci tibetani chiedono non è l’indipendenza ma l’autonomia all’interno della Repubblica popolare cinese. Chiedono il rispetto della loro identità, difendono la libertà di culto, la loro cultura secolare, e lo fanno con la non violenza. Per questo oggi io dico: dobbiamo essere a loro fianco, perché non possiamo non dirci tibetani».
È su iniziativa di Elie Wiesel che ha preso corpo un appello al governo cinese sottoscritto da 26 premi Nobel i quali hanno deplorato e condannato la Cina per la violenta repressione messa in atto in Tibet e protestato contro le autorità cinesi per la loro campagna di denigrazione contro il Dalai Lama. «Noi, sottoscritti, premi Nobel - recita il documento - deploriamo e condanniamo il governo cinese per la sua violenta repressione esercitata sui manifestanti tibetani. Sollecitiamo le autorità cinesi a fare esercizio di moderazione nel trattare con questi disarmati, pacifici dimostranti». «Protestiamo - prosegue la dichiarazione dei 26 Nobel - per la campagna ingiustificata di denigrazione condotta dal governo cinese contro il nostro collega premio Nobel, Sua Santità il Dalai Lama. Contrariamente alle ripetute affermazioni delle autorità cinesi, il Dalai Lama non reclama la separazione della Cina, ma l’autonomia religiosa e culturale. Questa autonomia è fondamentale per la conservazione dell’antico patrimonio culturale». A schierarsi non sono solo Nobel per la pace, come Wiesel, John Hume, Betty Williams, ma anche Nobel per la letteratura, come John Coetzee, Wole Soyinka, della Medicina, come Arvid Carlsson, Gunter Blobel, Paul Greengard, Eric R.Kandel, Erwin Neher, Richard J. Roberts, Phillip A.Sharp, Torsten N. Wiesel, Baruj Benacerraf, dell’Economia - Finn E.Kyland, Clive W.J.Granger - della Fisica - Alexei Abrikosov, Brian D. Josephson, H.David Politzer - della Chimica - Peter Agre, Paul J. Crutzen, Avram Hershko, Roald Hoffman, Roger Kornberg, Jens C. Skou -......
Non solo Tibet. Non solo i diritti umani in Cina. Atri dossier caldissimi riguardano Birmania e Darfur e chiamano ancora in causa la Cina. A protestare per il sostegno dato da Pechino alla giunta militare birmana sono 8 premi Nobel per la Pace - tra i quali Adolfo Pérez Esquivel, Maillad Maguire, Rigoberta Menchu e Jody Williasms. Sul Darfur, gli stessi Nobel chiedono al governo cinese di sospendere le relazioni economiche con il Sudan, ricordando che «il governo cinese acquista circa i due terzi del greggio sudanese e vende armi a Khartoum, molte delle quali utilizzate nel conflitto in Darfur, che ha causato almeno 200.000 morti e 2,5 milioni di profughi e sfollati...».
Una denuncia rilanciata con forza da Jody Williams: «Tutti noi - afferma la premio Nobel - dobbiamo dire chiaramente che la politica di “non interferenza” di Pechino non può essere tollerata. Dobbiamo svincolarci dal potere delle aziende cinesi non soltanto per la gente del Darfur, ma per i birmani, i tibetani e i congolesi, per non parlare dei milioni di cinesi cui è negato ogni genere di diritto umano». A fianco dei Nobel si sono schierate anche star del cinema, tra le quali Richard Gere. «In questa situazione - ha dichiarato l’attore americano, amico personale del Dalai Lama - se i cinesi non agiscono in modo corretto, non cambiano il loro modo di fare, non riconoscono ciò che sta succedendo e non consentono libero accesso alle comunicazioni, allora penso che dovremmo assolutamente boicottare» i Giochi di Pechino. Una prospettiva - quella del boicottaggio - che non trova il consenso di Mikhail Gorbaciov, premio Nobel per la Pace nel 1990- «Bisogna sostenere e appoggiare le Olimpadi che sono l’incontro di popoli e i giovani sono il futuro di questi popoli. Ma - afferma Gorbaciov - se dobbiamo dire qualcosa ai nostri amici cinesi, dobbiamo farlo». Mantenere alta la guardia. Non è un appello. È l’impegno che i Nobel si sono assunti. Perché, ricorda Elie Wiesel, che quella del «Tibet è una tragedia. La tragedia di un popolo pacifico che non è mai stato animato da propositi di conquista. Un popolo che non ha mai coltivato disegni di grandezza o mire espansioniste...». Un popolo da sostenere.
* l’Unità, Pubblicato il: 12.04.08, Modificato il: 12.04.08 alle ore 12.39
Quando il mondo si fa sentire
di Luigi Bonanate *
La fiaccola olimpica deve fare ancora 130.000 chilometri: se ogni sua tappa sarà come quelle di Londra e Parigi c’è da temere che non arriverà mai a Pechino per incendiare il braciere olimpico che deve ardere nel periodo delle gare. Rischia invece di incendiare le opinioni pubbliche di quei paesi ai quali il Comitato, scegliendo la Cina come sede olimpica, intendeva mostrare i progressi civili e sociali di quell’immenso e appetibilissimo Paese. Inizia ora una specie di calvario lungo ancora 130 giorni di viaggio: altro che il giro del mondo in 80 giorni di Jules Verne! Questo inutile circuito mediatico della fiaccola mira(va) a suscitare simpatia per lo spirito olimpico, che doveva a sua volta veicolare la benevolenza verso un grande Paese che sta rinnovando profondamente la sua pelle, che sta preparando un’accoglienza turistico-spettacolare che non ha precedenti nel mondo, e proprio nel Paese che un tempo si era costruito una Grande muraglia per starsene al sicuro al di là! Naturalmente le buone intenzioni degli organizzatori erano rivolte, nello stesso tempo, anche al tentativo di liberare la popolazione da certe strettoie.
Strettoie nelle quali un governo comunista/capitalista (un bel nodo!) cerca di tenere sotto controllo uno sviluppo sociale, economico e produttivo talmente impetuoso che potrebbe rivelarsi uno tsunami per chiunque cercasse di incanalarlo e regolarne il flusso. In altri termini, la Cina oggi è di fronte all’alternativa tra repressione (anche se non siamo più ai tempo dello stalinismo, né a quelli di Pol Pot) e liberalizzazione (che potrebbe rivelarsi incontrollabile travolgendo ogni governo).
La prima soluzione ha suscitato l’opposizione dell’opinione pubblica contro quei governi che vedono nella Cina uno straordinario grande magazzino nel quale tutto si può vendere e tutto si può comprare. La liberalizzazione, che è la seconda alternativa, farebbe felici tutti noi, ma creerebbe una tensione politico-sociale in Cina ingestibile dall’attuale potere, che quindi se ne tiene ben lontano. L’ha dimostrato, purtroppo, con una chiarezza che non teme smentite, con la repressione in Tibet, tanto scomposta e brutale quanto simbolica ed esemplare, avvisando tutto il mondo (ivi compresa la parte di osservanza cinese) che la Olimpiadi non potranno a nessun titolo essere trasformate in una tribuna internazionale dei diritti umani.
I dirigenti cinesi forse non sanno però che lo sport è politica (ricordate quando il mito della superiorità socialista era incarnato negli anabolizzati atleti della DDR che vincevano quasi tutto, ma morivano pochi anni dopo?), ma neppure che intrecci perversi e anche violenti tra Olimpiadi e politica hanno già seminato morte e devastazione. Basta il ricordo di Monaco 1972 per farci rabbrividire; ma anche Mosca 1980, se pensiamo che quell’Olimpiade fu boicottata dai Paesi occidentali (Italia esclusa) per condannare davanti all’opinione pubblica mondiale l’invasione sovietica dell’Afghanistan. Sembra preistoria... E ora, siamo di fronte a una suggestiva novità: di fronte ai vari governi, da quello cinese a quelli di Paesi come la Francia che promettono di partecipare ai giochi ma fingono di porre delle condizioni, si erge, con una carica di pura e semplice verità, un movimento d’opinione popolare che, di capitale in capitale, ripete la sua scoperta: gli “abiti nuovi dell’imperatore” non solo non sono nuovi, anzi non li ha neppure addosso. Sta succedendo in altri termini che la contestazione, sostanzialmente pacifica (e speriamo rimanga tale), mette in mora i governi che speravano di arrivare fino ad agosto in incognito, per così dire, facendo finta di niente; gli atleti si preparano, i dirigenti prenotano i biglietti, e poi via tutti ai Giochi.
I manifestanti stanno rompendo le uova nel paniere anche alla Cina, alla quale diventa ogni giorno più difficile tenere tutto nascosto. Dopo il Tibet, ora li aspetta un tragitto di più di centomila chilometri con 21 tappe, ciascuna delle quali può trasformarsi nel palcoscenico della contestazione della Cina e della volontà occidentale di andare ai Giochi: insomma, rischia di venirne fuori un’immensa frittata. Ma essa ci dice anche una cosa interessantissima: al black-out che la Cina si ostina a estendere a tutto il Paese fa riscontro una crescente apertura mediatica planetaria, che mostra quella è che la straordinaria forza comunicativa che le pubbliche opinioni, quando spontanee, sincere e non organizzate, hanno: esse sono la democrazia in cammino. Che cosa altro è la democrazia se non quella circostanza che vede in piazza (nella agorà greca) i cittadini (del mondo) che civilmente, ostinatamente, vivacemente espongono le loro critiche al proprio governo, a quello degli altri Paesi e anche a quello della Cina?
Un movimento democratico come questo potrebbe venir contrastato dalla Cina e dai governi dei principali Paesi con l’argomento della sicurezza: i disordini metterebbero in difficoltà gli Stati partecipanti, priverebbero di spontaneità e di gioiosità le varie gare, che dovrebbero venire blindate, nel timore di attentati, contestazioni, manifestazioni rivolte alla società cinese e non ai suoi Giochi. Insomma, non vorrete mica che l’opinione pubblica rovini i Giochi? Ma quando è in azione, la democrazia è irrefrenabile. Potremmo scoprire un bel paradosso: quanto più la Cina cercherà di calmare le acque aiutata dai governi occidentali, tanto più l’opinione pubblica internazionale si mobiliterà e alzerà la sua voce. Fino a farla sentire anche ai cinesi...
* l’Unità, Pubblicato il: 08.04.08, Modificato il: 08.04.08 alle ore 8.31
Il reportage / A McLeod Ganj, casa indiana del Dalai Lama,
le istantanee della rivolta di Lhasa che hanno aggirato la censura
In India il Muro della vergogna
le foto segrete dell’orrore in Tibet
Gli scatti provano la repressone: cadaveri e corpi deformati dalle botte dei militari
dal nostro inviato DANIELE MASTROGIACOMO *
DHARAMSALA - Le foto sono sbiadite, i colori spenti, le figure sgranate. Le hanno immortalate con il cellulare, tra le vie, gli anfratti, le case anonime di Lhasa: scatti frettolosi, rubati, mentre i reparti speciali della polizia e l’esercito cinese davano la caccia ai feriti e portavano via i morti della rivolta. Adesso sono lì, prove crude e concrete; per un mondo che prima inorridisce, s’indigna, condanna e poi, sommessamente, chiude gli occhi e rimuove, schiacciato dagli interessi economici, deciso a non alterare gli equilibri geopolitici di un’area che resta e deve restare immutata. Corpi nudi, di uomini. Corpi deformati dai colpi, dalle percosse, le bocche chiuse in una smorfia che non sai se attribuire al dolore o all’ultimo respiro di un’agonia infinita.
Cadaveri distesi pieni di sangue rattrappito, i fori dei proiettili all’altezza del viso, del petto, dei fianchi, delle gambe, della schiena, della testa. Qualcuno ha avuto la forza e il coraggio di spedirli ad altri cellulari, a siti sicuri e protetti del web in una corsa contro il tempo. Prima del black-out, dei ripetitori disattivati, del blocco delle linee telefoniche, delle tv oscurate, delle retate porta a porta, nei monasteri, nelle università, negli alberghi, negli ospedali. Prima degli arresti e del cerchio di acciaio e piombo che ha sigillato l’intero Tibet.
Le foto, stampate come un manifesto, campeggiano su un filo di naylon teso sopra il cancello d’ingresso del "Tsuglakhang complex", la residenza ufficiale in esilio del Dalai Lama immersa nel cuore di McLeod Ganj, India del nord, il villaggio-simbolo del Tibet in fuga abbarbicato sul costone di una montagna che si arrampica verso la catena dell’Himalaya. Quaranta uomini e quaranta donne del villaggio, seduti in due distinti recinti, gli uni di fronte alle altre, proseguono da tre settimane lo sciopero della fame e della sete.
Si danno il cambio ogni 12 ore. Cantano a voce bassa, pregano, sollevano provati le dita della mano in segno di vittoria. Le voci si affievoliscono con il passare delle ore, i corpi si distendono, qualcuno crolla tra coperte e giacche, teli, cartelli con gli slogan, incensi che bruciano. Davanti ondeggiano le foto, sospinte da folate di vento gelido che scende dalle vette innevate dell’Himalaya. Sono un pugno allo stomaco. Centinaia di persone le osservano, le fotografano, le filmano, le studiano da vicino. Chi per riconoscere un familiare, un amico, un conoscente.
Chi soltanto per inorridire di fronte ad una mattanza che difficilmente troverà giustizia. Nonostante le proteste di mezzo mondo, pochissimi paesi hanno insistito per sapere la verità. Il mitico "Shangri-là", il tetto del mondo, la terra nella quale il buddismo, simbolo di pace e di tolleranza, affonda le sue radici, resta chiuso agli stranieri e ai turisti cinesi. Bisognerà attendere il primo maggio, festa dei lavoratori, data scelta da Pechino con chiara valenza politica, per capire e vedere con i propri occhi cosa sta veramente accadendo dal 10 scorso a Lhasa e nelle province vicine di Sichan, Gansu e Qinghai.
Attraverso il segretario del partito comunista del Tibet, la Cina ha annunciato che da quel giorno la regione centroasiatica riaprirà i battenti al mondo. Perché l’industria turistica ha risentito del blocco e perché Pechino vuole presentarsi a testa alta all’appuntamento con le Olimpiadi di agosto.
Le voci che giungono qui raccontano di carri armati schierati nei principali incroci di Lhasa, di monasteri ancora chiusi e assediati, di pattugliamenti incessanti su tutte le strade e di elicotteri che volteggiano in cielo pronti a mitragliare il primo assembramento sospetto. Non sappiamo se sia vero. Sappiamo solo ciò che raccontano le testimonianze raccolte e riproposte ogni giorno a McLeod Ganj durante il corteo che si snoda lungo le vie del villaggio per tenere accesa l’attenzione sul Tibet.
Storie che si assomigliano tutte, per l’orrore che svelano e per il terrore di chi le racconta. Il tempo, però, tende a smorzare i sentimenti. Più passano i giorni più l’appuntamento delle sei del pomeriggio, un pellegrinaggio di monaci, sostenitori, turisti, ragazzi e ragazze venuti da ogni angolo del pianeta, le candele accese, bandiere tibetane, preghiere e slogan, sembra un rito stanco. Un ragazzo, armato di megafono, passa per tutte le vie del villaggio e invita la gente a radunarsi.
L’appello è accolto, più per forma che per sostanza. E ogni giorno la folla dei primi momenti, quando questa fetta di Tibet in esilio si radunava in massa, chiudeva negozi, bar e ristoranti e gridava la sua rabbia mista al dolore, si assottiglia sempre di più.
Resistono l’orgoglio di un popolo defraudato della sua terra, il desiderio di verità e di giustizia, una solidarietà diffusa, istintiva. Ma in giro si respira un sentimento di impotenza. Per ben quattro volte, negli ultimi dieci giorni, i vertici di India e Cina si sono sentiti al telefono: Pechino ha chiesto a New Delhi garanzie sul percorso della fiaccola olimpica che il 17 aprile passerà nella capitale e ha sollecitato una presa di posizione più decisa sul tema del Tibet.
Il premier Manmohan Singh si è detto contrario al boicottaggio dei Giochi e ha sollecitato il Dalai Lama a non svolgere alcuna attività politica anticinese fino a quando sarà ospitato. Perfino il gesto di Baichung Bhutia, capitano della nazionale di calcio indiana, considerato una vera star per aver diffuso il football in un paese che vive solo per il cricket, è caduto nel vuoto. Ha respinto l’invito a portare la fiaccola quando passerà a New Delhi. Ma è rimasto solo. Nessuna delle altre 50 celebrità dello spettacolo e dello sport coinvolte nell’operazione politico-diplomatica si è tirata indietro. Ammir Khan, stella di Bollywood a cui si era appellato lo Tibetan youth congress, si è detto "orgoglioso" di alzare la fiamma olimpica. "Nessuno rifiuta", ha motivato, "non vedo perché l’India dovrebbe rinunciare a questo onore".
Sorride nervoso il presidente della Tibetan youth congress, Tsewang Rigzin: "Da un punto di vista religioso rispettiamo le opinioni del Dalai Lama ma sul piano politico siamo favorevoli al boicottaggio. Far passare per Lhasa e piantare sulla cima dell’Everest la fiaccola è un gesto politico, non sportivo".
Anche la gente di McLeod Ganj non si rassegna. Ma la vita deve ricominciare. Riaprono i negozi, gli alberghi, i bar, le sale da tè, i ristoranti. I turisti di sempre arrivano giorno e notte, con gli autobus carichi all’inverosimile, i taxi traballanti, i treni colmi di passeggeri. Un fiume umano di donne, uomini, spesso giovanissimi, che qui cerca la soluzione ai propri affanni. Con corsi di filosofia tibetana, di magia, di massaggi, di lingua, di astrologia, di yoga e di meditazione. Tra nobile volontariato, bonzi fuggiti da un inferno, qualche cialtrone e i soliti approfittatori. La gente segue, studia, partecipa. S’immerge fino al collo in questo ambiente, rispettando alla lettera valori e usanze. Sveglia all’alba, niente alcol, fumo e cibo solo vegetariano. C’è chi rimane un mese, chi un anno, chi il resto dei propri giorni. Vanno e vengono. La comunità tibetana vive anche su questo. Sognando, da mezzo secolo, di tornare un giorno a casa.
Gruppi di ragazzi si allenano correndo sulle strade in salita del paese, altri si riscaldano con esercizi sulle terrazze dei campi coltivati a grano. Forse pensano alle Olimpiadi. Quelle vere, libere. Con la bandiera gialla, blu e rossa del Tibet che garrisce al vento.
* la Repubblica, 6 aprile 2008.
Il presidente francese pone alla Cina tre condizioni per la sua partecipazione all’apertura
"Fine delle violenze, apertura di Pechino, rilascio dei prigionieri"
Olimpiadi, monito di Sarkozy
"Dialogo con Tibet o non verrò"
Nuovi scontri nella regione cinese del Sichuan: la polizia spara, ci sarebbero 8 vittime Il Dalai lama: "Se sarò invitato, potrei partecipare all’inaugurazione delle Olimpiadi" *
PARIGI - L’apertura della Cina al dialogo con il Dalai Lama, la fine delle violenze in Tibet e un chiarimento su quanto accaduto, la liberazione dei prigionieri politici. Senza il rispetto di queste condizioni, il presidente francese Nicolas Sarkozy non parteciperà alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Pechino. Lo ha reso noto la segretaria di Stato per i diritti umani, Rama Yade, oggi a Roma. Intanto in Cina continuano gli scontri, e la International Campaign for Tibet fa sapere che almeno 8 tibetani sarebbero rimasti uccisi dopo scontri con la polizia nei pressi di un monastero del Sichuan, nella Cina orientale.
Sarkozy deciderà con la Ue. Il titolare dell’Eliseo, ha spiegato Yade, "prenderà la sua decisione in base all’evoluzione degli attuali avvenimenti, e si esprimerà dopo aver consultato i partener europei, perché in quel momento parlerà in quanto presidente in carica dell’Unione europea. Il presidente francese aveva già cercato, ma senza successo, di convincere i partner dell’Unione europea a un boicottaggio collettivo dell’inaugurazione delle Olimpiadi.
"Condizioni imprescindibili". Poste le condizioni, Sarkozy fa sapere che il loro rispetto è "indispensabile" affinché partecipi, il prossimo 8 agosto, all’apertura dei Giochi. Quanto al dialogo, esso dovrà essere "realmente costruttivo - spiega Yade - e vertere sul riconosimento dell’autonomia per la regione himalayana, e dell’identità spirituale, religiosa e culturale dei tibetani".
Nuovi scontri nel Sichuan. Almeno 8 tibetani sarebbero stati uccisi a colpi di arma da fuoco dalla polizia, durante disordini scoppiati giovedì sera nei pressi di un monastero del Sichuan, nella Cina sud-occidentale. Lo afferma la International Campaign for Tibet. Ieri l’agenzia ufficiale Nuova Cina aveva parlatio solo del ferimento di un funzionario della locale assemblea del popolo. Gli incidenti sono avvenuti vicino al monastero di Donggu, che ospita 350 monaci, nella contea di Garze. Secondo Nuova Cina, i manifestanti avrebbero "attaccato la sede del governo locale", costringendo la forze di sicurezza a reagire. Secondo la versione dell’organizzazione pro-Tibet, la polizia avrebbe aperto il fuoco su una folla di alcune centinaia di monaci e di civili, che protestavano in seguito a un incidente in cui alcuni monaci erano stati arrestati per essersi opposti alla campagna di "educazione patriottica" condotta dalle autorità cinesi.
"Dalai Lama: se mi invitano, andò a Pechino". Prove di dialogo dal governo tibetano in esilio. Il primo ministro, Samdong Rinpoche, ha dichiarato che il Dalai Lama è pronto a partecipare alle Olimpiadi se verrà invitato dalla Cina. Ma a una condizione: "Che vi sia un allentamento della repressione. La Cina deve rilasciare tutti i prigionieri e prestare cure mediche ai feriti".
Quasi un mese di proteste. L’ondata di proteste tibetane contro il governo di Pechino è iniziata il 10 marzo scorso, con manifestazioni condotte dai monaci buddisti sfociate in violenze, nelle quali sono morte 20 persone secondo la Cina e circa 140 secondo gli esuli tibetani. La rivolta si è estesa alle zone a popolazione tibetana di tre province confinanti con la Regione Autonoma del Tibet: Sichuan, Gansu e Qinghai.
* la Repubblica, 5 aprile 2008.
TIBET: CINA CHIEDE AGLI USA DI SOSTENERE POSIZIONE GOVERNO PECHINO
Pechino, 2 apr. (Adnkronos/Xin) - La Cina ha esortato oggi gli Stati Uniti a comprendere la vera natura di quella che Pechino ha definito la cricca del Dalai Lama, sostenere la giusta posizione del governo e del popolo cinesi. Questo quanto dichiarato dal ministro degli Esteri Yang Jiechi nel corso di un incontro oggi con il segretario americano al tesoro, Henry M. Paulson, rappresentante speciale del presidente George Bush, a Pechino. A riferirne e’ l’agenzia di stampa cinese Xinhua.