Gli Europei lo fanno meglio
di Katha Pollitt (The Nation, marzo 2007, trad. M.G. Di Rienzo) *
Ottenere qualcosa di meglio per le madri è stato in cima all’agenda femminista per decenni, anche se non verrete mai a saperlo dato il modo in cui il movimento delle donne viene sempre accusato di attaccare le donne che hanno figli.
Perciò è ironico che ciò che sta infine spingendo alcuni governi ad agire sia il desiderio di aumentare i tassi di fertilità. Lo scopo è far nascere la prossima generazione di lavoratori, e lavoratori “etnicamente corretti” per di più, non quelli problematici come i migranti.
Sharon Lerner ha fatto notare sul New York Times Magazine (“The Motherhood Experiment,”, 4 marzo) che i tassi di fertilità, cioè il numero di figli per donna, sono caduti sotto il livello di rimpiazzo in 90 paesi, inclusi quelli robustamente cattolici come l’Irlanda (1,9), la Spagna (1,3), l’Italia (1,3) e il Portogallo (1,4). Persino il molto strombazzato aumento della popolazione statunitense è per lo più frutto dell’immigrazione (l’attuale tasso di fertilità è 2,0). Mentre i politici in Giappone (1,3) sembrano fatalmente inclini a castigare le donne quali recalcitranti “macchine per fare bambini”, i governi europei hanno cominciato a chiedersi se rendere la vita migliore alle madri lavoratrici funzionerebbe meglio.
Nel mondo moderno, i modi tradizionali di produrre vaste famiglie (matrimoni precoci, mancanza di controllo sulle nascite, propaganda religiosa, pressione della comunità, negare istruzione e impieghi alle donne) non vanno tanto bene, soprattutto quando si accoppiano all’alto costo del vivere in numerosi paesi “sviluppati”. Anche in quei paesi che al confronto vengono definiti conservatori, come la Grecia (1,3), le giovani donne vanno all’università, lavorano e pospongono il matrimonio, proprio come i giovani uomini hanno fatto per anni. Sharon Lerner nota anche che i paesi con le famiglie più rigidamente patriarcali e con maggior sessismo sui luoghi di lavori sono quelli che presentano i tassi di fertilità più bassi. Questo dovrebbe dire qualcosa al Congresso mondiale delle famiglie, quando si incontrerà a maggio a Varsavia. Fondato dall’ideologo della destra Allan Carlson, propugnatore dei “valori familiari”, il Congresso inveisce contro l’interruzione di gravidanza, le unioni fra persone dello stesso sesso e il laicismo, e promuove grandi “famiglie naturali” e “ortodossia religiosa”. Non ho avuto l’impressione che le mamme lavoratrici fossero in agenda.
Se la paura del calo di popolazione risulta in congedi parentali, miglior assistenza ai bambini e più sostegno alle carriere delle madri, non sarà la prima volta che i governi fanno qualcosa di giusto per le ragioni sbagliate. Ma non è strano spingere per una crescita della popolazione nel mentre ci torciamo le mani sul surriscaldamento globale, sui danni ambientali, sull’estinzione di specie e sul diffondersi scomposto dell’urbanizzazione?
Le NU stimano che nel 2050 la popolazione mondiale raggiungerà i 9,2 miliardi! Quando pensiamo alla sovrappopolazione, l’immagine usuale che ci viene presentata è un pullulare di slum nel Terzo Mondo, e invero la maggior parte della crescita verrà dai paesi in via di sviluppo: ma è il mondo “sviluppato” che sta fregando il pianeta. Ogni americano usa tanta energia quanto 40 persone del Bangladesh, e altrettante risorse di un villaggio africano. Gli europei ed i giapponesi non sono molto distanti.
Ciò che sembra bene per una nazione o un’etnia (abbiamo bisogno di più russi! Più italiani! Più scozzesi!) potrebbe essere dannoso per la razza umana, senza menzionare gli orsi polari. Per decenni, gli esperti hanno arguito che schemi rigidi di controllo della fertilità non davano alcuna garanzia e che sanità migliore, diritti delle donne, contraccezione volontaria avrebbero fatto calare naturalmente i tassi di fertilità. Ed era vero, ha funzionato! Dovremmo esserne lieti. Sei miliardi di persone sono abbastanza. E poiché sono le donne stesse a star prendendo l’iniziativa, perché non avvantaggiarcene? C’è un limite a ciò che le politiche a favore della famiglia possono ottenere. Persino la Svezia, che ha fatto moltissimo per aiutare le madri lavoratrici, e che è sulla strada dell’incoraggiare i padri a prendere i congedi, è solo all’1,7.
Le misure che facilitano il conciliare lavoro e maternità sono semplice giustizia di genere. Ma pagare le donne per avere bambini come in Francia, dove si offre loro un anno di congedo e mille euro al mese per il terzo figlio, è solo vanità nazionalistica. Il fatto è che la decrescita dei tassi di fertilità appare praticamente inevitabile, e sempre secondo le stime delle NU nel giro di un paio di generazioni comincerà ad interessare anche l’Asia e l’America Latina, perciò, perché non imparare a conviverci? Economicamente, il problema è la covata di giovani lavoratori che paghino per i servizi di sicurezza sociale e per la cura di una popolazione che invecchia. Ma mentre i demografi si agitano sui secondi e terzi figli non concepiti, ogni paese della Terra butta via un sacco di bambini che ci sono già. Quelli poveri, per esempio. Perché non possono crescere sino a diventare persone istruite e produttive? Che mi dite dei figli degli immigrati arabi in Francia, che due anni fa protestarono contro la mancanza di lavoro e l’esclusione sociale? O degli zingari dell’Europa dell’est, i cui figli non vengono registrati alla nascita e che sono stati sterilizzati senza il loro consenso in Slovacchia e nella Repubblica Ceca?
Vladimir Putin si lagna della caduta dell’incremento nella popolazione, ma i bambini del suo paese sono ancora ammassati in orfanotrofi da incubo. Tiri quei bimbi fuori di là, o smetta di lamentarsi. I disabili, o le persone anziane che vorrebbero continuare a lavorare anche se hanno raggiunto l’età della pensione: ci sono un mucchio di aspiranti lavoratori che hanno bisogno solo di un po’ di aiuto.
Invece di lusingare o prezzolare le donne affinché concepiscano i guardiani futuri della salute della nazione, gli stati dovrebbero cominciare a tesoreggiare le persone, tutte le persone, che hanno già. E ciò include gli immigrati. Sotto la superficie cortese dei discorsi ufficiali c’è una disturbante corrente di nazionalismo e razzismo che in alcuni luoghi si sta fondendo con i cosiddetti “valori familiari” della destra religiosa.
“L’Europa è quasi perduta, a causa dell’inverno demografico e del laicismo.”, annuncia il Congresso mondiale delle famiglie, “Se l’Europa cade, la maggior parte del mondo cadrà con essa.” Per fortuna, continua il Congresso, c’è un paese che regge la fiaccola della speranza: “La Polonia ha già salvato l’Europa prima d’ora. E’ probabile che lo faccia di nuovo.” Quand’è che la Polonia ha salvato l’Europa, vi state chiedendo? Dev’essere stato nel 1683, quando l’armata polacca del re Sobieski guidò le truppe che sconfissero i Turchi durante l’assedio di Vienna, arrestando l’espansione musulmana in Europa. Le donne polacche faranno figli per Cristo? Il partito al governo del paese (“Legge e giustizia”) sta facendo la sua parte, restringendo legalmente l’accesso all’interruzione di gravidanza ed alla contraccezione. Forse dovrebbe tentare con l’assistenza e la cura dei bambini. Attuale numero di figli per donna polacca: 1,3.
* IL DIALOGO, Domenica, 01 aprile 2007
Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per averci messo a disposizione questa sua traduzione.
Katha Pollitt è giornalista, scrive per “The Nation” dal 1980, ma suoi articoli sono apparsi anche su “The New Yorker”, “Harper’s Magazine”, “Ms.” e “The New York Times”. I pezzi scritti per la sua rubrica su The Nation, chiamata “Subject to Debate”, sono stati raccolti nel 2001 in un libro dallo stesso titolo, ovvero “Soggetto di cui discutere: senso e dissenso su donne, politica e cultura”
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Dittature dell’Est contro l’Europa
di Barbara Spinelli (La Stampa, 21.05.2007)
E’ importante quel che accade lungo la frontiera Est dell’Unione, nel momento in cui a Parigi c’è un nuovo Presidente che promette di metter fine all’inedia che affligge l’Europa dal 2005, quando la costituzione fu bocciata in Francia e Olanda. È una frontiera dove stanno mettendo radice nazionalismi autoritari, che avvalendosi del diritto di veto insidiano mortalmente il farsi dell’Europa e il suo guarire. Sarkozy e il ministro degli Esteri Kouchner dicono che Parigi cambierà politica, difendendo i diritti dell’uomo nel mondo e combattendo le dittature. Ma la vera battaglia inizia in casa, se davvero la si vuol fare: il male è dentro l’Europa, ed è letale e contagioso. Le periferie dell’Est sono le nostre marche di confine, da quando la comunità s’è allargata, e questa loro condizione - l’esser baluardi orientali dell’Unione, come la Germania occidentale nella guerra fredda - le rende determinanti in politica estera e militare. Sono i governi dell’Est a decidere come e se l’Europa comincia a negoziare con il retroterra russo. Sono loro a influire sui rapporti con Washington, a meno d’un tempestivo chiarimento.
Chi vive nel cuore dell’Unione ha meno preoccupazioni politiche e strategiche di chi presidia le frontiere: questo è il dato da cui conviene partire quando si esamina quel che succede a Varsavia, Bratislava, Budapest, Bucarest, nei Baltici. I governi dell’Est hanno utilizzato questa carta (l’acuta coscienza delle marche di confine) ma col tempo il ragionamento strategico è divenuto un pretesto per insediare nazionalismi intolleranti che con le regole e la storia dell’Unione sono incompatibili. Il bisogno d’America che essi esprimono - su Iraq, sullo scudo anti-missili Usa, su ulteriori allargamenti a Est auspicati da Washington - è un mezzo per impantanare l’Europa con tre armi: il nazionalismo, l’appello al cristianesimo, la politica dei valori.
Il caso Polonia è il più significativo, ma il suo esempio fa scuola attorno a sé. Da quando i gemelli Kaczynski sono al potere, dopo le legislative e presidenziali del settembre-ottobre 2005, Varsavia è precipitata in un nazionalismo prevaricatore e religioso. Quel che conta per i due fratelli (Lech presidente, Jaroslaw premier) è opporre la democrazia al liberalismo, non solo economico ma istituzionale e dei diritti cittadini. Solo due idoli contano per loro - la legittimità popolare, i Valori - e su essi nulla deve prevalere: né le norme né la Costituzione, né le istituzioni né la divisione dei poteri. Una dopo l’altra, le istituzioni indipendenti sono state politicamente asservite (Banca Centrale, Corte costituzionale,Vigilanza sull’audiovisivo). Uno svuotamento democratico accentuato dal regolamento dei conti con la generazione dissidente, che nell’89 liberalizzò economia e politica negoziando con i comunisti (un metodo rischioso, che garantì alle nomenclature impunità e oblio del passato). Il regolamento dei conti secerne oggi la più vendicativa delle epurazioni.
La legge entrata in vigore a marzo si propone di epurare ben 700 mila persone. Secondo i calcoli fatti da Aleksandr Smolar, presidente della Fondazione Batory a Varsavia (filiale della fondazione Soros), sono 3 milioni i cittadini messi in pericolo dalla lustrazione, se si includono le famiglie dei 700 mila. Ha fatto impressione la ribellione di Geremek, leader di Solidarnosc negli Anni 80 e ministro degli Esteri fra il ’97 e il 2000: il deputato europeo si è rifiutato di firmare un’umiliante dichiarazione in cui negava d’aver collaborato con i servizi comunisti. Ma tanti si son rifiutati, perché l’epurazione non minacciava di licenziamento solo politici o giudici (come la legge del ’97) ma studenti, professori, giornalisti. La Corte costituzionale ha invalidato la legge, l’11 maggio, affermando che i governi «non regnano sulla Costituzione» e i diritti individuali. Di fatto sono forme neo-fasciste che s’installano a Est.
Un neofascismo che usa la politica dei valori per imporre società chiuse, ostili alle diversità: per colpire chi difende gli omosessuali, chi avversa la pena di morte, chi si schiera per un’Europa che i Kaczynski considerano atea, permissiva, materialista, decadente moralmente. È in nome delle radici cristiane che i gemelli si ergono contro un’Unione sovrannazionale, e legittimano l’arbitrio nazionalista: chi in Europa occidentale inalbera bellicosamente i Valori, ha interesse a vedere quel che succede qui. I grandi nemici dei Kaczynski sono la Russia ma anche la Germania accusata di furia egemonica: le due nazioni sono messe sullo stesso piano, la battaglia per i diritti umani violati da Putin è contaminata. Ambedue le potenze si spartirebbero l’Europa centrale e minaccerebbero, come in passato, la sopravvivenza polacca. Paralizzata com’è, l’Europa di oggi non ha tuttavia strumenti d’intervento: né istituzionali né culturali. Non ha neppure volontà di capire. È tormentata dal falso dibattito sulle radici cristiane, non osa difendere una laicità vitale per la democrazia polacca. Fu vigilante nel 2000, quando Haider in Austria s’avvicinò al potere, ma quei tempi son tramontati e oggi, in una situazione ben più deteriore (un’estrema destra ai vertici del potere), impensabili. La vigilanza d’allora fu ingiustamente criticata, ritenuta inefficace. In realtà l’Unione influì grandemente su Vienna. Il cancelliere democristiano Schüssel fu abile, nell’assorbire Haider invece di demonizzarlo. Ma mai sarebbe riuscito nell’impresa, senza il vigile occhio esterno dell’Unione. Oggi l’occhio è cieco.
A bloccare l’Europa è la stasi istituzionale, ingovernabile da quando l’Unione è composta di 27 Stati: sulle decisioni cruciali occorre l’unanimità, e al veto gli orientali s’aggrappano rabbiosamente, perché il diritto di nuocere e interdire dà loro lo smalto di mini-potenze. Smalto fittizio, ma pur sempre smalto. Senza che l’Unione possa impedirlo, ci sono deputati polacchi nel Parlamento europeo che impunemente elogiano Franco (uno «statista cattolico eccezionale») o Salazar. Il deputato europeo Maciej Gyertich ha pubblicato un pamphlet antisemita, edito dal Parlamento europeo (Guerra delle civiltà in Europa: gli ebrei, «biologicamente differenti», avrebbero scelto volontariamente i ghetti). Maciej è padre di Roman Gyertich, il ministro dell’Educazione che vorrebbe escludere Darwin dall’insegnamento, che avversa gli omosessuali e appartiene alla Lega della Famiglie Polacche, una formazione che governa con i Kaczynski e l’estrema destra di Lepper (partito dell’Autodifesa).
La Carta dei Diritti potrebbe essere uno strumento europeo: ma non è vincolante senza approvazione della Costituzione. È sperabile che Kouchner si batta per non estrometterla dal mini-trattato che sarà presentato in Parlamento. L’Unione è inerme: ha contato molto durante la presidenza Prodi, quando Bruxelles impose una democrazia fondata sulla separazione dei poteri in cambio dell’adesione. Ma appena ottenuto l’ingresso, i dirigenti che l’avevano voluto sono caduti: a Varsavia, Praga, Budapest, Bucarest. Lo slogan s’è fatto nichilista: adesso che siamo entrati, tutto è permesso. Jacques Rupnik, storico della Cecoslovacchia, parla di sindrome da decompressione. «Ora possiamo far loro vedere chi siamo veramente», avrebbero detto i Kaczynski. Quasi nessuno di questi Paesi entrerebbe oggi nell’Unione: né la Polonia né l’Estonia, che critica non senza motivi Putin ma che smantella provocatoriamente monumenti ai morti dell’ultima guerra e vieta alle consistenti minoranze russe (40 per cento della popolazione) una cittadinanza che dovrebbe esser normale (lo stesso accade in Lettonia).
L’Europa ha oggi bisogno di istituzioni forti, ma per edificarle dovrà capire l’emergenza veto creatasi a Est. Ha bisogno di laicità, per arrestare le proprie derive autoritarie-religiose. Ha bisogno di trattare seriamente con Mosca, e di avere una politica energetica comune anziché molte politiche e sterili veti alla trattativa. Uno straordinario articolo di Piero Sinatti, sul Sole-24 Ore, spiega bene come la Polonia rischi, bloccando il negoziato euro-russo, d’impedire che una risoluta politica comune nasca. L’emergenza veto dovrebbe ricordare qualcosa ai polacchi. Quando introdusse il liberum veto, nel XVII secolo, la Polonia preparò la propria rovina: ogni deputato della Dieta poteva interrompere sessioni e decisioni con le parole «Non permetto». Nel secolo successivo sarebbe scomparsa dal continente. È grave che oggi Varsavia usi la stessa carta per far scomparire l’Europa, nell’illusione di salvarsi come finta nazione sovrana.
Ratzinger lo ha incontrato domenica in udienza privata a Castel Gandolfo
Per gli ebrei europei l’emittente diretta da Rydzyk è "antisemita e ultraconservatrice"
Il Congresso ebraico attacca il Papa
"Ha ricevuto il direttore di Radio Maria"
Ma un anno fa Benedetto XVI la accusava di essere "antisemita" *
ROMA - Ha tutta l’aria di un incidente diplomatico quello scoppiato tra la Santa Sede e il Congresso ebraico. Colpa dell’udienza privata che Benedetto XVI ha concesso domenica scorsa a Castel Gandolfo a Tadeusz Rydzyk, direttore di Radio Maria.
"Il Congresso ebraico europeo - è scritto in una nota dell’Associazione che riunisce le comunità ebraiche di tutta Europa - è scioccato di apprendere che Papa Benedetto XVI ha ricevuto in udienza privata e nella sua residenza estiva Tadeusz Rydzyk, il direttore dell’antisemita Radio Maryja". Ejc, acronimo del Congresso ebraico, si dice "attonito del fatto che il Papa ha concesso un’udienza privata e la benedizione a un uomo e a un’istituzione che ha appannato l’immagine della Chiesa Polacca".
Radio Maria, infatti, avrebbe "largamente trasmesso le affermazioni antisemitiche di Rydzyk". La nota del Congresso ebraico arriva dopo due giorni di polemiche in Polonia tra chi accusa il sacerdote di Radio Maria di essere un antisemita e i suoi sostenitori che hanno inteso il colloquio col Pontefice come la sua benedizione alla linea ultraconservatrice della radio.
In realtà non più tardi di un anno fa proprio Benedetto XVI prendeva le distanze dall’emittente accusandola di essere "antisemita".
Domenica scorsa a Castel Gandolfo, padre Rydzyk è stato ammesso al baciamo con il Papa al termine dell’Angelus insieme ad un folto gruppo di fedeli polacchi. Recentemente, in vista delle prossima elezioni presidenziali in Polonia, gli stessi gemelli Kaczynski sono tornati a chiedere pubblicamente l’aiuto e il sostegno dell’emittente radiofonica dei cattolici ultraconservatori e del suo controverso direttore.
* la Repubblica, 8 agosto 2007
L’Italia non difende le immigrate E’ l’ipocrisia del multiculturalismo»
di Mariolina Iossa (Corriere della Sera, 01 aprile 2007)
ROMA - Sono le donne immigrate a pagare il prezzo più alto delle «bugie del multiculturalismo». Sono loro soprattutto a subire le conseguenze di un «buonismo ipocrita che fa male, non bene». Ma questo in Italia accade perché c’è «indifferenza anche da parte di molte donne italiane. Le femministe? All’inizio mi facevano arrabbiare. Ma adesso è chiaro: le femministe non ci sono più. Quelle poche rimaste hanno una certa età, altra formazione, sono abituate a parlare di cooperazione internazionale. Ci vorrebbe una nuova generazione di femministe».
Non si preoccupa di dire cose politicamente scorrette la leader delle donne marocchine in Italia, Souad Sbai. Souad fa parte della Consulta islamica, con il ministero degli Interni sta facendo un lavoro certosino che porterà alla Carta dei valori. Eppure le mogli musulmane picchiate da mariti che seguono i consigli di un imam qualunque, per lei sono pane quotidiano. Che se ne parli soltanto dopo una trasmissione televisiva non la sorprende.
Dice Souad: «La sinistra si riempie la bocca di questo multiculturalismo, del rispetto per le altre culture. Sono falsità. Destra e sinistra, è tutta una guerra per tirare ciascuno acqua al proprio mulino. E invece l’immigrazione è un problema di tutti, che va affrontato subito. O esplode».
Racconta Souad: «Un marito marocchino ha rotto la mascella della moglie ma non ha fatto neppure un giorno di galera perché il giudice ha riconosciuto che ha seguito la sua cultura e le sue tradizioni. È accaduto a Verona. Questa è indifferenza, è lavarsene le mani. Preferisco avere a che fare con i razzisti, almeno ci puoi litigare. Ma con gli indifferenti la battaglia è perduta».
Ammonisce Souad: «Mi fa rabbia quando le femministe dicono: noi abbiamo fatto il nostro ’68, i diritti vanno conquistati con le lotte. Ma io ribatto: anche le nostre madri hanno fatto il ’68 ma poi siamo tornate indietro, ci hanno messo il velo in testa e costretto a chiuderci in casa. State attente, le conquiste si possono perdere. Si può sempre tornare indietro».
Quello che, secondo Souad, nessuno capisce o fa finta di non capire è che «le donne marocchine arrivate in Italia dieci anni fa, restano ferme. In Marocco, intanto, c’è la nuova legge sulla famiglia, in sette anni l’analfabetismo femminile è sceso dall’80 al 35 per cento. Le donne vanno a scuola la sera, gli danno un chilo di farina, un litro d’olio e loro sono contente. Poi imparano a leggere e a scrivere. Le marocchine che vivono in Italia restano indietro, ce ne sono molte che dopo dieci, quindici anni ancora non sanno una parola di italiano. Gli imam dicono agli uomini: tua moglie non porta il velo? Allora non sei un vero uomo. E loro le obbligano a portare il velo quando in Marocco l’obbligo non esiste più. C’è una pressione degli imam sulle comunità dovuta a lobby estremiste finanziate dall’estero. E l’Italia che fa, non chiede niente? Non chiede conoscenza della lingua, rispetto delle leggi? Ci vuole un’ufficio dell’immigrazione con soldi e progetti. Che invece spesso sono parcellizzati».
A sentire Souad sembra di stare in un Paese lontano. Ma non è l’Afghanistan questo, è il mondo che sta dentro le nostre città. «Le donne italiane - continua - credono di essere emancipate ma la violenza sulle donne è all’ordine del giorno. Contano poco. Nel parlamento marocchino le donne sono il 13 per cento, in Italia siamo appena all’8 per cento. Le donne ministro sono senza portafoglio, che possono fare?».
Eppure quello che c’è da fare Souad Sbai ce l’ha ben chiaro nella testa. E non è un’impresa impossibile. «Scuole. La sera aprite le scuole che sono chiuse, apritele alle donne immigrate. Il permesso di soggiorno non va rinnovato se non si conosce la lingua italiana. Le leggi italiane e la Costituzione devono valere per tutti, anche per gli immigrati. La poligamia per il maschio italiano è vietata, dev’esserlo anche per i musulmani. Una bambina di 8 anni non può portare il velo, è solo una bambina. Quando ne avrà 13 deciderà come crede. Il burqa? Vietato. Gli imam che predicano la jihad vanno espulsi. Perché avete così tanta paura di assimilarci?». Assimilazione o integrazione? Forse qui sta il nodo. «Se un medico siriano dice ai pazienti musulmani che la poligamia fa bene alla prostata e nessuno fa nulla, io chiedo: che cos’è questa? Indifferenza, ecco cos’è. Assimilazione o integrazione? Io dico che non ci sono mezze misure. Chi vive in Italia deve rispettare le leggi e le regole di questa comunità. Punto e basta. Con tutti i diritti e i doveri che ne conseguono. Un ragazzo che conosco bene, da sei mesi non mi dà più la mano. "Perché sei donna", mi ha detto. È cambiato dal giorno alla notte in sei mesi. Gli hanno fatto il lavaggio del cervello. Così si mettono a rischio anche le seconde generazioni. Altro che integrazione».
Intervista a: ROSA RUSSO IERVOLINO
Per il sindaco di Napoli «le famiglie si difendono costruendo asili, non intervenendo nelle decisioni del Parlamento»
«Certi vescovi io li manderei a fare i missionari»
di Marco Bucciantini (l’Unità, 01.03.2007)
«Ringrazio il Padreterno, in cui credo, perché sono “costretta” ad occuparmi dei problemi concreti delle famiglie, e non ho tempo da perdere in discussioni su quale sia la vera famiglia...»
Sindaco Iervolino, anche i vescovi credono in Dio. E non hanno dubbi: di famiglia ce n’è una sola. Inquadrare per legge altri tipi di convivenza significa iniziare scivolare su un crinale pericoloso, fino a sprofondare nella pedofilia o nell’incesto, già permessi in Olanda e Germania.
«Come si fa ad ascoltare queste cose? Non meritano commento. Non vi do modo di titolare: la vecchia cattolica contro i vescovi. Non facciamo il fronte anti-chiesa. È un consiglio strategico: i toni accesi non chiamano toni altrettanto accesi. Sono profondamente convinta della laicità dello Stato, non la considero minacciata dalle parole dei vescovi. L’altro giorno, intervenendo ad un convegno, De Mita ha detto: la Chiesa ha il dovere di testimoniare ciò in cui crede. Noi abbiamo il dovere di scegliere quello che è il bene massimo per la comunità concretamente possibile da raggiungere. E agire di conseguenza».
Qual è il bene massimo raggiungibile?
«Trovare una casa alle famiglie, alle coppie. Tutte le coppie. Questo significa difendere le famiglie. A Napoli abbiamo problemi di edilizia popolare, che va rilanciata. E siamo senza territorio per costruire, è tutto sfruttato, la densità abitativa è già massima». Trovata una casa, c’è da mandare i figli all’asilo. «Prima che diventasse sindaco Bassolino qui nemmeno esistevano. Ne ho trovati 17, adesso sono 25 e alla fine del mio mandato ne vorrei lasciare 50. Per un milione di abitanti sono pochi».
E quando i bambini crescono?
«Vanno per la strada, si perdono, sono inghiottiti dal traffico di droga, diventano corrieri. E noi sindaci siamo senza soldi per rafforzare l’assistenza sociale. Mi piacerebbe che qualcuno battagliasse con noi su questo fronte...».
Invece per i vescovi la minaccia per le famiglie sono i Dico...
«Questi vescovi che parlano così li manderei tutti in missione, a rendersi conto dei guai che tormentano la gente».
Come si argina l’attacco della Cei?
«Sostenendo il ruolo delle Istituzioni, lo Stato dove un Parlamento può e deve lavorare per trovare le soluzioni. L’ho detto alla Moratti, scesa in piazza a Milano per chiedere sicurezza. Le leggi non si fanno con i cortei. Con i Dico-day, con i family-day si combina poco».
Perché la Chiesa ha inasprito i toni, in un crescendo che nemmeno il cambio di guardia alla Cei ha rallentato?
«E che ne so? Chiedete a loro. Ognuno adotta il proprio stile. Io vado avanti, credo nello Stato laico, nella libertà di coscienza dei cattolici».
Da “vecchia cattolica” non prova imbarazzo?
«È un secolo che ci sentiamo in difficoltà. La mia generazione è quella del Concilio. Con Tina Anselmi, Maria Eletta Martini, Sergio Mattarella siamo finiti sotto accusa per aver fatto una scelta di sinistra, per noi l’unica coerente con i i principi di giustizia che un cristiano deve perseguire».
E adesso cosa insegue un sindaco cattolico?
«Sono qui, di sabato sera, a studiare il bilancio. È un’impresa. Ne dico una: il tribunale dei minori affida ai sindaci i bambini allontanati dai genitori che non possono crescerli, o perché in carcere, o coinvolti in problemi di droga o persi in altri guai. Le case-famiglia che si occupano di questi figli per conto dell’amministrazione le ho potute pagare fino al 2005. Sono 15 mesi che non abbiamo una lira da dare loro, ma i bambini che hanno in affidamento devono mangiare tutti i giorni...».
L’inganno dei valori
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 1/4/2007)
La nota pastorale dei vescovi sulla famiglia e sul pericolo rappresentato da leggi che regolino diritti e doveri di altre forme di convivenza ha fatto molta impressione, fuori Italia, ma per motivi diversi da quelli che immaginiamo. Non hanno colpito i toni della Chiesa, meno duri a ben vedere di quelli usati dall’ex presidente della Conferenza episcopale Ruini. Hanno colpito il timore che questi toni hanno suscitato in Italia, lo smarrimento diffusosi nella classe politica, il successo ottenuto in fin dei conti dall’intimidazione. Nel testo di Bagnasco non ci sono né anatemi, né la denuncia di comportamenti sessuali che la Chiesa continua a considerare anomali, devianti. In realtà quest’ultima non ha più bisogno della durezza per imporsi: i politici e la laicità si lasciano intimidire anche con poco, per poi farsi magari sorprendere quando lo stesso Bagnasco dice che da cosa nasce cosa, paragonando l’omosessualità a incesto e pedofilia (salvo in un secondo momento precisare di essere stato male interpretato). A tal punto sono oggi deboli politica e Stato laico, incapaci di difendersi, prede d’ogni sorta di gruppo di pressione. Affermatasi lungo i secoli, l’autonomia della politica da cultura e religione vacilla.
Quest’infermità della politica e delle leggi non è un fenomeno solo italiano. Valori e religione, cultura e morale privata occupano in gran parte dell’Occidente uno spazio centrale, privatizzando e abbassando la politica. Si vincono le elezioni su questi temi, si misura la popolarità dei politici su passioni sino a ieri intime come la paura, l’amore. Assistiamo alla restaurazione di grandi colpe, grandi peccati, e alla sete di punizione che la restaurazione promette.
Colpe sessuali soprattutto, visto che politici stampa e la stessa gerarchia ecclesiastica son divenuti indifferenti a mali ben più cruciali come l’illegalità, la mafia, il rubare, il guerreggiare senza casus belli. Vengono fabbricati anche capri espiatori per questa politica intimista: lo straniero, l’omosessuale, perfino il malato. Il benefico tabù che dai tempi di Auschwitz protegge l’ebreo non vale, singolarmente, per le altre vittime dei Lager: omosessuali, zingari, malati psichici. Per quanto concerne l’Italia non è nuovo. Negli anni 60-70 fu Pasolini, il diverso da abbattere mettendo la giustizia a servizio di quello che venne definito, da un pubblico ministero nel ’63, il comune sentire della «stragrande maggioranza degli italiani che non trova voce per esprimere le proprie idee». In uno splendido saggio su quei processi, Stefano Rodotà scrive nel ’77 che Pasolini è «la somma di tutti i vizi, e incarna il sogno di chi vorrebbe il Male con una sola testa per decapitarlo con un colpo solo».
Evocare oggi quei processi aiuta a ricordare due cose. Primo, l’aureola di normalità che non da oggi circonda la famiglia. Secondo: le forze che l’hanno aureolata, complici fascisti, democristiani e comunisti. È una verità che la sinistra dimentica, quando oggi ripesca nelle proprie tradizioni la famiglia col tempo abbandonata. La cultura familistica e puritana era potentissima, in Urss come in Europa, e in Italia sfociò nell’esecrazione di Pasolini come di Aldo Braibanti, il filosofo omosessuale condannato per plagio nel ’69. Quando Pasolini fu espulso dal Pci per «indegnità morale», nel ’49, sull’Unità apparve un commento di Ferdinando Mautino, della Federazione di Udine, in cui si denunciavano «le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre, di altrettanti decadenti poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese». Se in Italia si infranse il mito del collettivo puro e incontaminato - collettivo della famiglia o del partito, le due purezze erano congiunte - lo si deve ai radicali, non alla sinistra classica. La sinistra che oggi disseppellisce famiglia e comunitarismo non disseppellisce il meglio di sé ma il più asfissiante. Riscopre il Noi che sostituisce l’Io, il collettivo contro l’individualismo borghese. Non siamo i soli in Europa, abbiamo visto. Un analogo frantumarsi della politica avviene nella sinistra francese, oggi impersonata da quella donna fervente e ammaliata da Giovanna d’Arco che è Ségolène Royal. Anch’essa riscopre i valori della famiglia, convinta com’è che la politica sia impopolare non perché impotente, ma perché neutrale su questioni di morale privata. Nelle scorse settimane ha ascoltato Sarkozy appassionarsi per l’identità nazionale e s’è messa a rincorrerlo. Ogni famiglia, ha annunciato, dovrebbe avere in casa il tricolore, e come ai vecchi tempi appenderlo alle finestre alle feste nazionali.
La politica dei valori è un termine che rispetta poco il principio di non contraddizione - per definizione la politica governa valori discordanti - e s’è insediata in Occidente dopo l’esperienza Thatcher. Cominciò a propagandarla John Major, per fronteggiare il declino dei conservatori, quando parlò di «basic values»: una bandiera ripresa dal nuovo laburismo. L’ammirazione per Blair, a sinistra come a destra, non è casuale in Europa. Senza temere di contraddirsi, le sinistre stanno appropriandosi di slogan che in Francia appartennero alle destre di Pétain: travail-famille-patrie (lavoro-famiglia-patria) sembra quasi soppiantare fraternità libertà e uguaglianza. Il politico che propone questi valori può vincere un’elezione, ma alla lunga può perdere. Così come è perdente l’opposizione che ogni sera invita il governo a dimettersi. Quel che si ottiene è una politica che fa harakiri, incapace di legiferare con spirito laico. Di laicità si discute molto, e spesso a sproposito: viene descritta come un’ideologia dello scetticismo, del relativismo. Il cardinale Scola, a Rai 1, l’ha definita così: «Somiglia a una notte in cui le vacche son tutte nere». Questa tendenza a identificare lo Stato laico con una filosofia serve lobby e disegni di potere coltivati in nome di culture religiose. Se la laicità è una filosofia come le altre, allora tutte le filosofie, religiose o no, possono governare la città, imponendo o impedendo leggi. In Germania, nei giorni scorsi, si è giunti a una vera perversione. Un giudice ha negato il divorzio rapido a una giovane marocchina picchiata dal marito musulmano, perché sposandolo doveva sapere che il Corano concede il «diritto alla punizione corporale». Le gerarchie cattoliche rischiano derive non diverse, quando chiedono che una legge sia fatta o non fatta su indicazione della Cei.
La laicità non è un’ideologia. È un metodo che consente a individui di diversa cultura, a credenti e non credenti, di convivere senza distruggersi. È lo strumento che permette di separare la politica da fede e cultura, e di evitare che la sovranità sia spartita tra i due poteri, temporale e spirituale. La diatriba è antica. Nei primi del ’600, frate Paolo Sarpi considerava tale spartizione fonte di temibili turbolenze. Difendendo la Repubblica veneziana dalle pressioni del Vaticano scriveva che non era possibile l’esistenza di due poteri eguali e indipendenti, e che per la conservazione della «quiete» - oltre che per rispettare la parola di Cristo: «Il mio regno non è di questo mondo» - occorreva che leggi e politica spettassero solo al Principe. Era colpa della politica, aver delegato alla Chiesa sovranità che non le spettavano. Era una forma di superstizione, e la Chiesa che ne profittava era accusata di petulanza.
Questa tradizione non è mai venuta meno nel cristianesimo. Jacques Maritain parlava di «principi immutabili» e della superiorità spirituale della Chiesa sul Principe, ma sosteneva che la realizzazione dei valori doveva tener conto delle circostanze e dell’autonomia acquistata dalla società politica, attenendosi al principio pluralistico e a quello del minor male. Antonio Rosmini affermava che i privilegi erano una piaga cristiana, e che una Chiesa con meno privilegi era una Chiesa più libera dallo Stato. La sinistra riscopre la famiglia, Ségolène e Sarkozy rispolverano l’identità nazionale. In realtà non s’appropriano di valori trascurati o rubati. Si adeguano a quel che immaginano essere una volontà generale, presupponendo che essa sia bene interpretata da Le Pen, di cui tutti i candidati sono mimetici figli: Ségolène quando esalta il tricolore; Sarkozy quando elogia l’identità nazionale, il centrista Bayrou quando fa sapere che la virilità è quel che sua moglie ammira in lui.
I valori diventano così qualcosa di astratto: si fanno perfino guerre, in nome di nobili invenzioni. Maritain, ancora, diceva che soggetti di diritto dovrebbero essere non entità astratte come «verità» o «errore» ma le persone umane, prese individualmente e collettivamente. Altrimenti la realtà evapora, la persona concreta si fa invisibile. Sono invisibili le unioni alternative, in aumento ovunque perché la famiglia è in frantumi. È invisibile l’Europa, quest’insieme di persone che cercano di recuperare la sovranità perduta dalle patrie. Da queste cecità scaturisce la strategia dei Valori. L’astratto furore si presenta come nobile, ma abbassando il Principe corrompe sia la politica sia i valori.