Violenze anticristiane in Malesia a proposito dell’uso del nome di
“Allah”
di Stéphanie Le Bars (con Reuters)
Le Monde del 12 gennaio 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Si può considerare la parola araba “Allah” un’esclusività musulmana? Questa domanda apparentemente semantica suscita in Malesia, dall’inizio del 2010, delle tensioni interreligiose, che hanno indotto il governo ad intervenire nel dibattito.
Domenica 10 gennaio quattro chiese e un convento sono stati bersagli di attacchi e danneggiamenti. Già nella notte tra giovedì e venerdì tre luoghi di culto (due protestanti e uno cattolico) erano stati presi di mira da bombe incendiarie. E, all’uscita dalla grande preghiera del venerdì, diverse centinaia di musulmani avevano manifestato la loro opposizione all’utilizzo del termine “Allah” da parte dei cristiani.
Queste violenze sono legate alla polemica sull’uso della parola “Allah” da parte di non musulmani. La disputa è esplosa il 31 dicembre 2009, data nella quale l’Alta Corte della Malesia ha autorizzato un giornale cattolico, Herald-The catholic Weekly, edito in quattro lingue e con una tiratura di 14000 copie, ad usare questa parola per designare Dio.
Il giornale utilizza il termine “Allah” nella sua edizione destinata ai fedeli di lingua malese dell’isola di Borneo. Questo paese di 28 milioni di abitanti, in maggioranza musulmano e malese - il 60% della popolazione - conta anche una forte minoranza di cristiani (9% della popolazione, di cui 850 000 cattolici), di buddisti e di induisti, di origine cinese e indiana. La costituzione vi garantisce la libertà di culto.
Mentre nella maggior parte dei paesi di lingua araba la parola “Allah” designa sia la parola “dio” sia il Dio dell’islam, ed è utilizzato dai non musulmani, i musulmani malesi hanno ritenute che l’uso di questo termine da parte dei cristiani fosse suscettibile di creare confusione e di favorire il proselitismo. “Allah appartiene solo a noi”, scandivano dei fedeli all’uscita dalle moschee di Kuala Lampur, venerdì.
Di fronte al rischio di scontri tra comunità, il governo ha presentato appello contro la decisione della Corte e ottenuto, il 6 gennaio, la sospensione dell’autorizzazione concessa ai cristiani dall’Alta Giurisdizione. “Si tratta di una faccenda di interesse nazionale”, ha detto il procuratore generale per giustificare questa sospensione.
Nel suo appello, il governo del primo ministro, Najib Razak, al potere dall’aprile 2008, ha fatto riferimento ad una decisione dell’Alto Consiglio nazionale della fatwa del 2008, che statuiva che la parola “Allah” potesse essere utilizzata solo dai musulmani.
Dei membri dell’opposizione, in particolare il Pan-Malaysian Islamic Party, hanno accusato il partito al potere, l’Organizzazione nazionale malese unita (UMNO), di cercare di politicizzare l’argomento. Il primo ministro ha condannato gli attacchi di venerdì contro le Chiese e ha annunciato il rafforzamento della sicurezza attorno ai luoghi di culto cristiani. Sabato si è recato in una chiesa che aveva subito danneggiamenti. “L’islam ci proibisce di insultare o di distruggere tutte le altre religioni, sia fisicamente che attaccando i luoghi di culto”, ha dichiarato. Il suo appello alla calma evidentemente non è stato ascoltato.
Eletta con la più bassa percentuale della sua storia nel 2008, la coalizione è al potere da 52 anni. Le minoranze etniche e religiose denunciano regolarmente l’islamizzazione della società e le discriminazioni sociali di cui si dicono vittime. Padre Lawrence Andrew, direttore del giornale cattolico al centro di questa polemica, ha dichiarato venerdì che, anche se non c’era “pericolo immediato”, la situazione restava “preoccupante”.
In Vaticano, Monsignor Robert Sarah, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione dei popoli, ha espresso la sua inquietudine a Radio Vaticano: “Penso che esista realmente una volontà di annientare i cristiani, di ignorarli, di rifiutare di ammettere che hanno una fede in Dio. Il fatto che sia loro proibito pronunciare il nome di Dio equivale a considerarli dei pagani che quindi devono essere convertiti all’islam.”
Per approfondimenti e note, nel sito, si cfr.:
Le fedi come le aziende aspirano al monopolio
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 12 gennaio 2010)
In principio fu Adam Smith con il suo celeberrimo trattato di economia politica La ricchezza delle nazioni (1776). Il filosofo economista scozzese per primo analizzò la Chiesa come un’entità economica e applicò ad essa le categorie che traeva dalla propria disciplina, in particolare quella di monopolio, cioè quel regime che inevitabilmente produce un aumento del prezzo e un abbassamento della qualità per il solo fatto che il mercato non è stimolato dalla concorrenza.
Discorso che vale anche per la Chiesa. Una religione «ben costituita», secondo il padre fondatore dell’economia politica, non sfugge alla regola: il prezzo del «prodotto» è più elevato e la sua qualità minore di quel che sarebbero se ci fosse libera competizione. Di più. In genere il clero «non ha altra risorsa che rivolgersi al magistrato civile perché persegua, distrugga o scacci i suoi avversari come disturbatori della pace pubblica». Fu così, osserva Adam Smith, «che il clero cattolico romano si rivolse al magistrato civile per perseguitare i protestanti; la Chiesa d’Inghilterra per incalzare i dissidenti; e che in generale ogni setta religiosa, una volta goduta per uno o due secoli la sicurezza di una istituzione legale, si è trovata incapace di difendersi efficacemente contro qualsiasi nuova setta decisa ad attaccare la sua dottrina o disciplina».
È da questo passo che prende le mosse un libro assai interessante di Philippe Simonnot, Il mercato di Dio. La matrice economica di ebraismo, cristianesimo, islam che, nella buona traduzione di Giuliano Gasparri, l’editore Fazi si accinge a mandare in libreria di qui a qualche giorno.
Nella prefazione al volume, Marco Aime avverte che l’approccio «per nulla scontato» di Simonnot può comportare accuse di vilipendio o addirittura di blasfemia che però l’autore - pur procedendo sul terreno scivoloso di un’analisi solo e soltanto economica della genesi e del consolidamento delle tre grandi religioni monoteiste del mondo mediterraneo- ha saputo evitare stando bene attento a non cedere mai al gusto della provocazione.
«A scanso di equivoci», scrive Simonnot, «qui non si tratta affatto di pretendere di spiegare la religione attraverso l’economia, né di riciclare le teorie dell’oppio dei popoli, ma più modestamente di mettere a disposizione della scienza religiosa gli strumenti dell’analisi economica». Un po’ quel che, in campo sociologico, fece August Comte nell’Ottocento. Senza aver la pretesa, ovviamente, di paragonare Comte a Simonnot.
E se L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber ha esaminato l’incidenza della religione sull’economia o la dottrina economica implicitamente o esplicitamente sottesa a una credenza, «almeno altrettanto istruttivo», afferma l’autore, «è studiare l’economia propriamente detta della religione, ossia prendere la religione come un qualcosa suscettibile di analisi economica». Così la religione viene presentata come un’«azienda» che offre «beni di credenza», la cui qualità si basa sulla fiducia riposta in chi li produce dal momento che il risultato della pratica religiosa- cioè la salvezza eterna - non è, per sua natura, né verificabile né falsificabile. E poiché il «valore» di un bene di credenza riposa interamente sulla credibilità del suo fornitore, se ne può dedurre «che difficilmente quest’ultimo tollererà la presenza di un concorrente rivale, il quale vorrà per forza mettere in dubbio la sua credibilità per affermare la propria». Ad un tempo, per entrare nel «mercato», una religione «deve apparire come molto nuova, naturalmente, per attrarre nuovi "clienti", ma anche molto antica, per rassicurarli, dato che la longevità sembra essere una garanzia di qualità di questo ramo... Così il cristianesimo del I secolo, pur essendo nuovo, ha sostenuto la propria anteriorità rispetto all’ebraismo, ricollegandosi direttamente ad Abramo; e l’islam ha fatto esattamente la stessa cosa sei secoli più tardi».
Ma perché Simonnot si concentra in questo libro sui tre monoteismi venuti da Abramo? «Quel che colpisce subito uno sguardo privo di pregiudizi», risponde lui stesso, «è che un Dio unico funziona più facilmente da mediatore finanziario per coloro che lo servono rispetto a una moltitudine di Dei che si fanno concorrenza. In primo luogo perché il Dio unico permette di risolvere più facilmente il problema centrale di ogni religione, cioè quello della sua credibilità. Certo il Dio che appare nella Bibbia si mostra spesso crudele, terribile, parziale e geloso, ma è meno imprevedibile, più affidabile degli Dei capricciosi e immorali che si trovano nello stesso momento sul "mercato". Forse era ragionevole offrire di tanto in tanto agli altari pagani dei sacrifici di cui i sacerdoti prendevano una parte, ma si poteva scegliere tra molte divinità e, se non si otteneva ciò che si desiderava, si poteva cambiare culto.
Nel monoteismo, invece, si ha a che fare sempre con lo stesso Dio. Un Dio, per giunta, universale, il cui sguardo vi può seguire dappertutto sulla terra... Per di più gli Dei non sembrano preoccuparsi degli affari umani se non in funzione dei propri interessi, mentre il Dio della Bibbia si occupa del suo popolo in modo costante».
Ma veniamo all’analisi specifica di Simonnot. A suo dire si applica bene alla religione la legge di Metcalf (da Robert Metcalf, un imprenditore statunitense, inventore di Ethernet, secondo il quale il valore di una rete di computer cresce in proporzione all’aumento dei computer connessi): il valore che un consumatore attribuisce a un bene - nel nostro caso un credo religioso - dipende anche dal numero di utenti di questo bene: una religione ha tanto più «valore» per il credente, è cioè tanto più credibile, quanto più grande è il numero dei suoi fedeli.
Per quel che riguarda, poi, il reperimento delle risorse «vi sarebbe, soggiacente a ogni società, un giacimento finanziario costituito da somme, piccole o grandi, che brave persone sono pronte a donare per la salvezza della propria anima, per la propria sanità mentale o per qualsiasi altro obiettivo; dato che la divisione del lavoro aiuta, si costituiscono "compagnie" per esplorare, trivellare e sfruttare questo giacimento. Ciò presuppone che l’economia interessata sia in grado di sviluppare un surplus. Il giacimento non è estensibile all’infinito, anche se, a condizione di non toccare il capitale, è indefinitamente rinnovabile. Ogni luogo di culto, anche la più umile parrocchia, può dunque essere considerato come una torre di trivellazione... Ogni religione cerca di allacciarsi a questo giacimento favoloso e, se ci riesce, di assicurarsene il monopolio su un dato territorio».
Ma il flusso delle donazioni non è regolabile e spesso nella storia delle religioni si nota che esso genera un’eccedenza. Mosè, secondo la Bibbia, dovette mettere fine alla colletta promossa per costruire il santuario di Yahweh dal momento che il popolo portava «molto di più» di quel che era necessario per eseguire l’opera voluta dal Signore; sulla parete sud del tempio funerario di Ramsete II a Medinat Habu (in Egitto) compare un elenco di offerte che dovevano essere portate nei diversi momenti dell’anno in quantità tale che è impossibile pensare venissero ammucchiate sull’altare.
Ed è ancora Adam Smith a osservare che «il clero non poteva trarre vantaggio da questa immensa eccedenza se non impiegandola nella più prodiga ospitalità e nella più grande carità». Stando a Smith, dunque, le due più importanti istituzioni della Chiesa nel Medioevo erano dovute non tanto a virtù evangeliche quanto alla necessità di smaltire un surplus di donazioni.
Ma torniamo al tema di partenza, che è quello del monopolio. Il monopolio, scrive Simonnot, non può esistere senza l’intervento diretto o indiretto dello Stato, il quale dispone della forza per mettere barriere all’ingresso di un mercato, «e di fatto, nella storia, ogni monopolio religioso si è appoggiato all’autorità pubblica, oppure se ne è appropriato». Ma quando, ciò che è inevitabile, il monopolio che poggia sullo Stato abuserà della propria posizione, sorgeranno dei concorrenti sia all’interno della Chiesa - chiamati riformatori, scismatici o eretici (i protestanti nel cristianesimo del XVI secolo) - sia all’esterno con la comparsa di nuove religioni: ad esempio l’islam nel VII secolo.
Di qui si potrebbe anche immaginare una sorta di «ciclo» religioso che si riproduce all’infinito: «In un mercato aperto alla concorrenza, una religione tende al monopolio; questo monopolio non può che poggiare sullo Stato; una volta che poggia sullo Stato, abusa della propria posizione; il prodotto scade; compaiono altre religioni con il che si torna alla situazione di concorrenza». E di qui riparte il ciclo. Il papato, puntellato dall’impero, in alcuni momenti della storia è stato di fatto una delle più grandi potenze finanziarie del mondo, che attirava i banchieri più influenti, scrive Simonnot: i Medici, i Fugger, i Rothschild. Per la legge di cui sopra questo gigantesco monopolio è stato, però, contestato e messo in crisi; con il che il «mercato» religioso è tornato successivamente ad essere pienamente aperto alla concorrenza.
C’è un momento, inoltre, in cui l’influenza economica dell’istituzione religiosa entra in concorrenza con quella dello Stato. Anche di questo aveva parlato Adam Smith: «L’entrata di ogni chiesa costituita», scrisse, «è una parte dell’entrata generale dello Stato che viene così distratta per uno scopo molto diverso da quello della sua difesa. La decima ad esempio è una vera imposta fondiaria che impedisce ai proprietari terrieri di contribuire alla difesa dello Stato nel modo generoso che sarebbe loro altrimenti consentito. Tuttavia secondo alcuni la rendita della terra è l’unico fondo e secondo altri il fondo principale con il quale in tutte le grandi monarchie si deve fare fronte alle esigenze dello Stato. Evidentemente quanto più di questo fondo viene dato alla Chiesa, tanto meno può essere riservato allo Stato. Si può benissimo affermare come massima certa che, a parità delle altre condizioni, quanto più ricca è la Chiesa, tanto più poveri devono essere necessariamente il sovrano da un lato e il popolo dall’altro; e, in tutti i casi, tanto meno lo Stato sarà in grado di difendersi».
Simonnot colloca il momento in cui inizia la concorrenza tra Stato e Chiesa nel XII secolo, cioè quando si stabilisce una relazione diretta tra tasse pagate al fisco e decime per la Chiesa: tanto più alte sono le prime, tanto minori saranno le seconde e viceversa. A suo avviso, «una sorta di legge fisica faceva dunque prevedere con otto secoli di anticipo quel che sarebbe avvenuto al fisco dello Stato quando le rendite del papato si sarebbero ridotte al minimo».
Se è vero che nel XX secolo il fisco ha lasciato alla Chiesa solo una porzione «congrua», si può in qualche modo asserire che lo Stato-provvidenza ha preso il posto della carità cristiana. A questo punto il potere pubblico comincia a vedere nelle Chiese e nelle sette dei rivali in materia di direzione delle anime ma anche (e, forse, soprattutto) dei concorrenti fiscali. Lo Stato, in questa nuova situazione, preferisce di gran lunga avere a che fare con «cartelli» religiosi o con un monopolio con cui può stabilire un modus vivendi piuttosto che con una moltitudine di sette incontrollabili. Ed è di qui che nascono le politiche concordatarie.
Per parte sua un monopolio religioso, se vuole durare, ha un disperato bisogno di appoggiarsi allo Stato «in quanto difficilmente può soddisfare la "domanda" di religione in tutte le sue sfaccettature». Se, proviamo a supporre, «il grosso della "clientela" è soddisfatto di una qualità media a un prezzo medio, alle estremità della scala delle preferenze religiose si trovano in "alto" dei "consumatori" molto devoti che sarebbero disposti a pagare molto più caro un prodotto di migliore qualità e in basso, al contrario, dei "clienti" che si accontenterebbero di un prodotto mediocre a un prezzo più contenuto. Questa diversità di gusti e di esigenze obbliga il monopolio, se vuole durare, ad ampliare la gamma dell’offerta per soddisfare tutti».
Così fu per la Chiesa cattolica quando si trovò in condizioni di monopolio: severi e rigorosi ordini monastici permettevano di rispondere ai clienti più esigenti, mentre i «parrocchiani della domenica» potevano limitarsi a fare la comunione a Pasqua. Ma quando l’appoggio dello Stato venne meno e il «mercato» religioso si aprì alla concorrenza, «allora questa vasta gamma fu più difficile da coprire e il vecchio monopolio venne attaccato alle due estremità». E da allora il fenomeno si è riprodotto più volte: in basso «vaghe credenze cercano di recuperare i "parrocchiani della domenica" con religioni o filosofie da ciarlatani»; in alto, «alcune sette giungono a offrire nuovi "prodotti" più rigorosi che riescono a vendere ad alto prezzo e questo prezzo, ovvero i sacrifici richiesti in tempo e denaro, diventano persino una sorta di garanzia di qualità».
In seguito le sette, «una volta piazzate nella propria nicchia cercheranno di ampliare la "clientela" abbassando insieme il prezzo e le proprie esigenze; non tutte ci riescono, naturalmente; ma quelle che arrivano ad estendersi diventano a loro volta Chiese, cercando di approfittare delle tendenze monopolistiche dell’economia locale».
Le espressioni di Simonnot sono volutamente quelle che si usano nel linguaggio economico e l’autore tiene a ripetere che in esse non c’è - o quantomeno non vuole esserci - niente di offensivo o riduttivo. Neanche quando scrive che «la nascita del cristianesimo è avvenuta, se così possiamo dire, conformemente a questo business model; la setta è diventata una Chiesa». Per poi aggiungere: «Possiamo anche immaginare che delle Chiese tornino ad essere sette, abbandonando le frange più lassiste della propria "clientela" e concentrandosi sui propri membri integralisti». Un discorso che ha molte implicazioni. Per la storia ma anche per l’oggi.
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI
NESSUNO PUÒ FARSI PADRONE DEL NOME DI DIO
di GIORGIO PAOLUCCI (Avvenire, 13.01.2010)
Quello che sta accadendo in Malaysia sull’uso della parola ’Allah’ riflette le fibrillazioni politiche e religiose presenti nel Paese, ma è anche indicativo di una certa mentalità diffusa nel mondo islamico. Come noto, con una sentenza emessa lo scorso 31 dicembre la Corte costituzionale malese ha accolto il ricorso del settimanale cattolico The Herald, edito dalla diocesi di Kuala Lumpur, che contestava il divieto imposto ai non musulmani di utilizzare il termine ’Allah’ per indicare Dio. La vittoria dei ricorrenti è stata però di breve momento: tredici ong islamiche si sono sollevate contro la sentenza e il governo ha chiesto la sospensione della sua esecutività in attesa dell’appello.
E in questi giorni, come Avvenire ha puntualmente documentato, le chiese sono state prese di mira da gruppi di estremisti musulmani. La giustificazione che accompagna gli attacchi, sostanzialmente condivisa dalle autorità di governo, è che l’uso del termine Allah «può far crescere tensioni e creare confusione tra la popolazione musulmana», fino alla ’classica’ accusa di proselitismo.
Ma la storia (e la ragione) parlano un linguaggio di tutta evidenza. Da secoli in Malaysia i fedeli islamici e cristiani, che rappresentano rispettivamente il 60 e il 10 per cento della popolazione, si rivolgono a Dio chiamandolo Allah, un termine di origine araba importato in quelle terre in seguito all’arrivo dei seguaci di Maometto. Nella lingua malese non c’è altro termine per indicare Dio. E lo stesso termine viene usato nella vicina Indonesia, il più popoloso Paese musulmano del mondo (180 milioni di abitanti), come pure nei Paesi arabi dove vivono minoranze cristiane più o meno numerose.
Lì, nelle moschee come nelle chiese, si prega Dio chiamandolo Allah. Del resto, la parola è antecedente alla nascita dell’islam. Con essa, molto tempo prima di Maometto, si indicava una delle divinità più potenti tra quelle adorate dai politeisti che popolavano la penisola arabica. E, come ricorda Samir Khalil, uno dei massimi conoscitori del patrimonio letterario arabo-cristiano, il suo uso è attestato nella poesia pre-islamica anche da autori cristiani. Dunque Allah non è affatto una ’invenzione’ di Maometto o della religione musulmana. Ma è indicativo di una certa mentalità ’esclusivista’ il fatto che i musulmani quando traducono il Corano nelle lingue occidentali, per indicare la divinità usano questa parola, rifiutando di ricorrere ai termini Dio, God, Dieu, Gott, eccetera.
Quello che sta accadendo in Malaysia è dunque in qualche modo inquadrabile in un costume più generale, che potremmo definire ’appropriazione indebita’, anche se risente della particolare situazione politica che il Paese sta vivendo. Il partito al potere da quarant’anni attraversa un momento di grande difficoltà, e secondo molti analisti la decisione di impugnare la sentenza della Corte costituzionale favorevole ai cristiani risponde al tentativo di guadagnare consensi nell’elettorato islamico, qui come altrove sempre più sensibile alle parole d’ordine del fondamentalismo. Paradossalmente il partito di opposizione, che ha radici religiose molto più forti di quello maggioritario, contesta la decisione di sospendere la decisione dei supremi giudici. E in questi giorni da alcune associazioni musulmane ’moderate’ è partita la proposta di organizzare ’ronde’ per proteggere le chiese dagli attacchi dei gruppi radicali, a dimostrazione di quanto la vicenda stia dividendo la popolazione.
La posta in gioco non è, con ogni evidenza, di tipo lessicale. Dietro la possibilità di usare la parola Allah per riferirsi a Dio sta la grande questione del rispetto della persona, dei diritti individuali e delle minoranze, che lì come altrove vede i cristiani nel mirino. E che, lì come altrove, ripropone la sfida più bruciante per un islam chiamato a fare i conti con la modernità e con la libertà.