La sfida ai tiranni e il bisogno di amore: il nuovo Illuminismo
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 15.09.2010)
Il volume di Giulio Giorello Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo di cui anticipiamo un brano è edito da Longanesi (pp. 232, € 15)
La più significativa differenza tra la libertà dell’ateo e il fondamento nella «carità»: soffrirà di «una crisi di leadership» (come ha detto Hans Küng), ma occorre riconoscere che Joseph Ratzinger l’ha colta con chiarezza (diversamente da vari pensatori più o meno «cattolici»): l’unica garanzia di libertà, ci dice, è «la fedeltà alla verità» (Caritas in veritate), e la libertà non può che essere «al servizio della verità». Sicché, nel mettere in guardia contro la sopravvalutazione dello sviluppo tecnologico («come elemento di libertà assoluta»), Benedetto XVI conclude che «a partire dal fascino tecnico esercitato sull’essere umano, si deve recuperare il senso vero della libertà, che non consiste nell’ebbrezza di una totale autonomia, ma nella risposta all’appello dell’essere». E se preferissimo restare «ebbri»? Siamo stanchi dei vari Pastori dell’Essere (con la maiuscola o meno).
L’autonomia è la condizione che conquistiamo per noi stessi nella fatica quotidiana - dalle scelte esistenziali alla ricerca scientifica (in tal senso oggi l’autonomia non è però «assoluta»; potrà sempre venir ampliata e rafforzata domani): per questo l’ateismo può rendere un buon servizio perfino a Dio, impedendo che venga ridotto a un oppressore (...). Per il fatto di essere prive di giustificazione teologica saranno meno significative le nostre azioni, nelle nostre singole esistenze come nella vita associata, specie se intese alla cooperazione di individui liberi con altri individui liberi? Si potrà obiettare che non sapremo mai se queste nostre azioni sono «buone»! Lo concediamo, non lo sapremo mai con certezza, e le nostre valutazioni non saranno che fallibili congetture, rivedibili e migliorabili.
Tuttavia, «il problema di come vivere, agire, lottare, morire quando non ci si può affidare che a congetture» (per dirla con Imre Lakatos) costituirà - questo sì! - la sfida per un nuovo Illuminismo, inteso non solo come uno strumento di difesa dalle forme di dispotismo con cui saremo chiamati a confrontarci ma come un buon compagno di strada anche per quelli che ancora avvertono il bisogno di amore che in passato è stato chiamato Dio.
Un fine «reazionario» quale Joseph de Maistre avrebbe bollato l’intera faccenda come la beffa ispirata da un «orgoglio feroce e ribelle». Le sue «serate» in quel di Pietroburgo, dopo il caldo estivo del pomeriggio, abitualmente si concludevano con la ritirata degli amabili conversatori nelle loro stanze, mentre cominciava a spirare il vento freddo della sera. Chissà se i suoi personaggi, ovvero il Cavaliere, il Conte e il Senatore, dormivano sonni tranquilli, non visitati dallo spettro dell’ateismo che a loro parere portava seco il germe dell’anarchia? Tutti i fondamentalisti - religiosi o politici che siano - nutrono la convinzione di potere esorcizzare quel fantasma. Ma non si accorgono (parola di Hegel) che «quanto più solido è l’edificio eretto dalla loro religione, tanto più impetuosa è la pressione della vita, per fuggire via verso la libertà».
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
Giorello, lezioni di ateismo liberale per chi rifiuta una fede intollerante
Il cardinale e il filosofo
di Armando Torno (Corriere della Sera, 15.09.2010)
Il cardinale e il filosofo. Carlo Maria Martini e Giulio Giorello. Dialogo sulla fede. Giorello non cerca di demolire con ogni mezzo l’idea di Dio, ma si ricorda come essa sia viva nell’uomo da quando è apparso sulla terra. Non fa dell’ateismo facile. Lo scopo, dice, è «liberare Dio da quelli che ne parlano troppo, anche a vanvera». Il cardinal Martini definisce le argomentazioni di Giorello utili a capire la mentalità dei non credenti.
Domani uscirà il saggio di Giulio Giorello, epistemologo ed erede di Ludovico Geymonat all’Università di Milano, Senza Dio. Del buon uso dell’ateismo. Noto per le sue tendenze laiche e, tra l’altro, per aver partecipato alla Cattedra dei non credenti istituita a suo tempo dal cardinale Carlo Maria Martini, non ha scritto un libro - se ne contano dozzine - che cerca di demolire con ogni mezzo l’idea di Dio, ma si ricorda come essa sia viva nell’uomo da quando è apparso sulla terra.
Non fa dell’ateismo basso o volgare, di quel genere che crede di liberarsi dal problema con formule o battute, cerca piuttosto - di autore in autore - una via. Nelle sue pagine vi sono figure di atei convinti quali Sade o Feuerbach, non disdegna però di mettere in gioco le proprie convinzioni con Pascal o Kierkegaard. Il filosofo a cui guarda con più simpatia è Spinoza, che non si può certo definire ateo. Questo lo pensavano Bayle - che comunque credeva alla possibilità di una società di atei diversamente da un Voltaire che riteneva necessario il vincolo religioso - e pochi altri.
L’ateismo di Giorello si basa su una scelta di vita: egli rappresenta l’uomo che non sopporta alcuna autorità sopra di sé. Accetta Dio come amico, non come padrone. Il suo è ateismo pratico. Non nasce da deduzioni epistemologiche ma da quelle - il termine è inattuale, in tal caso però vale la pena spenderlo - esistenziali. Nel quarto capitolo lo chiama «ateismo metodologico», perché prova una forte indifferenza verso ogni assoluto (in tal caso riprende uno spunto di Jean Petitot).
Si direbbe anzi che il fine a cui tende quest’opera non sia quello di liberarci da Dio, ma di liberare Dio da quelli che parlano troppo sovente a vanvera nel suo nome e, in tale veste, fanno la loro parte per dar forza agli argomenti dell’ateismo volgare. Inoltre vengono denunciate tutte le «chiacchiere» sulla religione civile, ultimo esercizio da salotto televisivo.
È altresì vero che Giorello prova una discreta dose di nervosismo anche nel sentir nominare la religione della libertà (con il dovuto rispetto a Croce). Insomma, il libro è rivolto a un mondo senza imposizioni. In esso l’ateo può essere compagno di strada del credente e diventa un fatto naturale chiedersi come si possa vivere, agire, lottare, morire quando si conta solo su se stessi. È la sfida per un nuovo Illuminismo, nel quale si avverte il bisogno d’amore a cui un tempo si dava il nome di Dio.
Da «ateo protestante» (così si è dichiarato l’autore), Giorello non cerca di dimostrare l’assenza dell’Essere Assoluto, ma di definire l’orizzonte di un’esistenza senza di esso, rifiutando rassegnazioni e reverenze, ritrovando i piaceri della sperimentazione nella scienza e nell’arte, riscoprendo infine la libertà, soprattutto quando essa appare eccessiva alle burocrazie di qualsiasi «chiesa».
Morale: Giorello spinge il lettore verso un ateismo non dogmatico, utilizzabile anche da un credente stanco dei vari fondamentalismi, gli stessi che alla Grazia del Signore hanno sostituito la repressione e l’intolleranza. Una sua battuta? «Non credo molto a slogan tipo Comunione e liberazione; se proprio devo sceglierne uno, preferisco Libertà e individualismo».
AL DI LA’ DEI FONDAMENTALISMI LAICI E RELIGIOSI: UNA SECONDA RIVOLUZIONE COPERNICANA
Un testo utile per comprendere la mentalità dei non credenti
di Carlo Maria Martini (Corriere della Sera, 15 settembre 2010)
Non condivido le opzioni di fondo dell’autore ma credo che leggere questo libro, dal titolo Senza Dio, potrebbe essere utile per capire la mentalità di un ateo. È un saggio che si fa leggere volentieri, anche per i molti richiami filosofici, letterari, scientifici ecc.
Colpisce che per lo più l’autore non presenti ragionamenti astratti ma una scelta emotiva. Egli cita molti episodi negativi tratti dalla storia del cristianesimo e delle altre religioni, ma ci sono, in due millenni di vita della Chiesa, molti elementi positivi, che occorrerebbe considerare per aver chiaro il quadro generale della vita concreta delle comunità religiose.
Il libro è quindi molto utile per far capire quale sia il modo di pensare di un ateo. Il rifiuto di Dio qui presentato appare più il frutto di una inclinazione affettiva che non del ragionamento. Si sceglie in base alle proprie opinioni più che a partire dalle prove della inesistenza di Dio.
Sono comprensibili e condivisibili molti pensieri dell’autore. Anche in una visione evangelica, l’uomo è chiamato a non fare conto dei titoli onorifici, a non rassegnarsi al male e a respingere le proibizioni immoderate, ma non è necessario portare questi sentimenti alle estreme conseguenze. Il rifiuto di Dio si basa in particolare sulla presenza del male del mondo, ma questo non giustifica il nostro rifiuto di Dio.
FLS
Milano.
Addio a Giorello filosofo della libertà
E’ morto a Milano a 75 anni il filosofo Giulio Giorello allievo di Ludovico Geymonat: era nato nel capoluogo lombardo il 14 maggio del 1945
di Simone Paliaga (Avvenire, lunedì 15 giugno 2020)
Come per il suo amato Giordano Bruno, infiniti erano i mondi che abitava Giulio Giorello, spentosi ieri all’età di settantacinque anni. Dalla matematica alla filosofia della scienza, dalla passione per l’Irlanda a quella per il fumetto, dall’hard boiled americano ai pirati dei Caraibi. Tutto si teneva insieme in lui. John Stuart Mill camminava con nonchalance a fianco di René Thom e Paul Feyerabend, James Joyce e William Faulkner potevano intrecciare le loro avventure con Tex Willer, Topolino non stonava insieme all’adorato Ezra Pound.
Con Giorello, nato a Milano il 14 maggio 1945, se ne va uno degli ultimi, autentici, intellettuali italiani ed europei. Maestro di generazioni di filosofi, a sua volta allievo di Ludovico Geymonat, è stato un battitore libero difficile da intruppare in qualche conventicola. Al dibattito, anche puntuto e acuminato, non si sottraeva mai, neppure con chi incarnava posizioni culturali e politiche lontane dalle sue. E mai ha pensato che qualcuno, a qualunque posizione politica aderisse, meritasse l’isolamento e l’esclusione. Non rientrava nel suo ideale di cultura rinchiudere le sue energie solo dentro le università. Anzi, l’Università gli andava stretta per quanto le avesse dedicato la vita.
A lui deve molto infatti l’editoria italiana, dal Saggiatore delle origini a Raffaello Cortina Editore, dove ha diretto la collana Scienza e Idee, in cui ha ospitato la pubblicazione dei testi di alcune delle Cattedre dei non credenti volute dal cardinale Carlo Maria Martini, oltre che le opere di intellettuali cattolici come Giovanni Reale e Remi Brague. Per lui laico di ferro, come dimostra il suo pamphlet Di nessuna chiesa, la libertà di pensiero non andava negata a nessuno.
L’attività culturale, per Giorello vera e propria militanza, mai ha divorziato dalla passione civile e dalla convinzione che dialogo e diffusione (e non semplice divulgazione) dei saperi avrebbero consentito crescita e libertà per gli uomini. Neuroscienze, teoria dell’evoluzione, la fisica delle particelle, astronomia, secondo il filosofo della scienza milanese, non dovevano rimanere appannaggio degli scienziati. I saperi scientifici avrebbero reso il cammino dell’uomo più consapevole e più libero. Eppure in lui la falsa distinzione tra saperi scientifici e saperi umanistici si dimostrava quanto mai inutile e inefficace. In Giorello i confini tra i due campi si liquefacevano pur conservando un meticoloso rigore.
Difficile, in poche righe, enumerare titoli accademici e titoli scientifici collezionati nel corso della sua vita. Laureatosi prima in filosofia, nel 1968, e poi in matematica, nel 1971, entra all’università come docente di meccanica razionale per poi passare alla cattedra di filosofia della scienza che era stata in precedenza proprio di Geymonat, da cui aveva cominciato a prendere le distanze negli anni Ottanta per il disinteresse dimostrato per le libertà individuali, inalienabili e irrinunciabili invece per l’allievo di un tempo. A lungo Giulio Giorello è stato presidente della Società italiana di logica e filosofia della scienza, e il suo cammino di pensiero è scandito numerosi libri, da Lo spettro e il libertino. Teologia, matematica, libero pensiero a forse quello più bello, Prometeo, Ulisse e Gilgameš. Figure del mito e da un’intensa attività pubblicistica sul Corriere della sera.
Mancherà di certo a una cultura italiana sempre più provinciale e asfittica, reclusa in dibattiti sterili e violenti, chi invece era in grado di condurre lo sguardo in alto e oltre. Forse se n’è andato sulle dolenti note di quel canto di libertà che Foggy Dew, e magari con un boom e non con un sospiro, come sarebbe piaciuto al suo amato Ezra Pound.
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 06.10.2010)
È vero, pratico il consiglio del poeta Cecil Day Lewis, alias il giallista Nicholas Blake: mai lasciarsi coinvolgere in una discussione con dei teologi. Faccio, però, un’eccezione per rispondere alle garbate critiche che dalle pagine di «Avvenire» (5 ottobre) Vittorio Possenti rivolge al mio libro Senza Dio , edito da Longanesi. In breve, non mi sarei occupato abbastanza dell’Altissimo, rischiando così di «confondere il Signore con il Dio Padrone». Ma non è «padrone» il primo significato di quel termine - dominus - cui tanta teologia ha consacrato i suoi sforzi d’intelletto e sentimento?
Possenti mostra così che ho colpito nel segno, poiché la mia idea di ateismo è quella di una provocazione continua ai credenti e ai praticanti di qualsiasi religione a chiarire i loro presupposti, nella convinzione che questo lavoro serva a tutti, credenti o non credenti: l’ateismo è soprattutto un metodo.
Possenti mi chiede: per arrivare a che cosa? Potrei ribattere con le parole di un mio «lettore»: magari per «arrivare a Dio prescindendo da Dio». Ossia da tutte le gabbie in cui i signori della teologia e della morale hanno imprigionato il Dio che ci parla in grandi testi come i Vangeli o il Corano, facendone semplicemente un pretesto per giustificare coazione o gerarchia.
Concordo con Possenti che solo nella coscienza può sorgere l’esigenza della legge morale e civile, ma non vedo proprio perché io o qualsiasi altro «libertario» dobbiamo indicarne un qualche «fondamento» a cui sottometterci con spirito di «servizio».
La possibilità di costruire un’autentica solidarietà senza «fondarla come su solida roccia» (cioè, detto senza retorica, senza imporla a chi la pensa diversamente) non è un dettaglio accademico, ma una questione cruciale per qualsiasi democrazia matura. Proposta per gli amici di «Avvenire» (e per tutti i cattolici aperti al confronto delle idee): perché non proviamo a rispondere insieme?
Il confronto. Giorello e Martini si misurano sui temi più attuali
Il pericolo. La ricerca scientifica non deve nuocere alla dignità umana
La molteplicità di fedi e culture può provocare gravi inconvenienti.
Ma va considerata una ricchezza
Libertà e dialogo per una «nuova città»
di Giulio Giorello e Carlo Maria Martini
Da oggi è in libreria “Ricerca e carità”, un dialogo tra il cardinale Carlo Maria Martini e Giulio Giorello, un confronto su scienza e solidarietà, ed. San Raffaele, curato da Damiano Modena.
Anticipiamo due estratti tratti dai capitoli “La città dell’uomo” e “Intelligenza e amore”
Corriere della Sera, 09.12.2010
GIULIO GIORELLO - Eminenza, può godere di quella «potenza trasformante» dei Vangeli anche chi ritiene che essi siano non la «buona novella», ma una tra le tante buone novelle che dal passato ci arrivano «come la luce di stelle che non ci sono più» (rubo quest’espressione a Luca Ronconi)? Tale luce a noi serve ancora, rischiara la nostra notte.
Dobbiamo riprendere tutte le buone novelle, anche quelle redatte dai miscredenti, come «l’ateo Spinoza» (così lo chiamavano i bigotti nella sua Amsterdam). Ritengo che questa sia una via praticabile per ridare senso alle parole, come lei stesso desidera. Un esempio: ho riletto di recente quei passi della Monarchia di Dante, in cui viene prospettato come grande momento nella storia dell’umanità la fondazione delle prime città. Semiramide sarà stata pure colei che «libito fe’ licito in sua legge» (Inferno V, 56), ma è anche colei che pose o custodì le mura delle grandi città assire di cui era sovrana.
Ecco cos’è una città: un elemento al tempo stesso di inclusione ed esclusione, che configura il modo in cui si costituisce l’umanità; l’uomo riconosce alcuni come compagni nella propria avventura, cioè con-cittadini ed esclude altri come estranei, se non nemici. Questo movimento di inclusione ed esclusione è sostanzialmente il processo fondativo della città, le cui mura non sono soltanto segno ostile verso il nemico; sono anche, e non a caso, l’elemento che marca il carattere di quella comunità.
La città rappresenta, allora, una mediazione tra natura e cultura; e di conseguenza l’esperienza della cittadinanza si ritrova alla base della nostra stessa modernità. In che modo, allora, un essere umano si realizza nella città? E vi può essere una città globale? Ovvero, possiamo pensare al mondo come un’unica grande città?
La città di oggi conosce, per altro, una drammatica esperienza della diversità, quella che indichiamo con vari termini (non sempre esattamente equivalenti), come multiculturalismo, multietnicità, pluralismo.
È solo un ricordo del passato il modello di convivenza e integrazione della Cordova dell’età d’oro dei musulmani in Andalusia, quando a poca distanza coesistevano la moschea, la sinagoga e la chiesa? Quale delicato equilibrio può proporsi oggi? Gli stessi mutamenti prodotti da scienza e tecnica non potrebbero essere quelli che porteranno prima o poi alla disgregazione della città armoniosa in cui diverse fedi, etnie, forme di vita potrebbero prosperare insieme? E soprattutto, si può andare oltre la mera coesistenza? (...)
Come ci dovremmo regolare con il ruolo politico delle altre religioni? Nel Corano si legge che è volontà di Dio che il Califfo intervenga quando i propri magistrati sono corrotti: questa linea è idealmente migliore del «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»?
CARLO MARIA MARTINI - Come lei sa, nei miei ventidue anni di servizio episcopale a Milano ho posto la città come uno dei cardini riflessivi. Non era un vezzo, ma la coscienza che sia nell’Antico sia nel Nuovo Testamento la città, con le sue dinamiche e le sue contraddizioni, è il luogo dove Dio dialoga con l’uomo. Gerusalemme, addirittura, è il luogo dove Dio prende dimora.
Non saprei bene come un individuo si realizzi nella città. In generale, un essere umano si realizza quando scopre in sé delle potenzialità e può esprimerle contestualizzandole in un determinato ambiente, senza contrastare l’impegno dell’altro, la sua identità, la sua libertà, la sua responsabilità. Tuttavia, il mondo intero ha in sé le stesse dinamiche positive e gli stessi peccati di una città, sicché può essere considerato come un’unica grande città.
Ma lei sottolinea il carattere drammatico della diversità all’interno della città. A me, invece, pare che ciò non sia così drammatico. La diversità è una ricchezza. Modelli nuovi di convivenza pacifica potranno essere raggiunti; anzi, sono già in atto in ogni parte del mondo, a cominciare dalla città che mi è più cara. Pochi sanno, infatti, del movimento che a Gerusalemme unisce i familiari delle vittime della guerra israelo-palestinese in momenti di dialogo e di preghiera comune molto belli e intensi. La diversità è una ricchezza non sempre compresa come tale. E la sofferenza è uguale per tutte le madri, per tutti i figli, di qualsiasi cultura, religione o Stato. Ecco quel superamento della semplice coesistenza cui lei fa riferimento! Condividere il dolore, soprattutto il dolore innocente, subito, costruisce relazioni ben più profonde dell’essere coinquilini della stessa terra. «Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città» (Eb 13, 12). L’immagine di Gesù crocefisso fuori dalle mura di Gerusalemme ci ricorda quali dolorose conseguenze possa avere l’esclusione di ciò che scandalizza, il rifiuto di chi è diverso.
Lei solleva non pochi cruciali problemi. Allora, le rispondo pensando anzitutto che cos’è una città unita: essa è un luogo dove le differenze dialogano per il bene comune, dove si cede alle convinzioni altrui se rappresentano realmente un bene maggiore per tutti. Un luogo dove la Chiesa, per ciò che le compete, e l’Autorità, per ciò che le compete, offrono ai più deboli un sostegno immediato e uno a lungo termine. Anche se non ha il compito di interferire direttamente nella vita politica, la Chiesa senza dubbio ne condiziona lo svolgimento con i suoi interventi, seppure in seconda battuta. La sua sola missione è quella di annunciare Gesù, e questi crocefisso. Non credo, tuttavia, che la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio sia così individualista come sembrano suggerire le sue riflessioni. Sarebbe giusto, se la coscienza fosse egualmente matura in tutti. Ma sappiamo che per alcune coscienze tutto è di Cesare e per certe altre tutto è di Dio. Io penso che sia di Cesare tutto ciò che riguarda il potere, il ben-essere, il ben-avere, il volere; e siano invece di Dio il servizio, l’umiltà, la povertà, l’essere, il dono, la carità. (...)
GIULIO GIORELLO - Credo che la ricerca abbia bisogno di idee, capaci di far parlare i fatti; altrimenti, come ebbe bene a dire un mio maestro, il matematico René Thom, «quel che minaccia la verità non è la falsità, ma l’insignificante». Non basta una miriade di numeri, misurazioni dopo misurazioni, dati e ancora dati: occorre un’idea che ci permetta di rendere comprensibili intellettualmente i fatti più diversi. Non è stato così, per esempio, con l’intuizione di Galileo del pendolo o con la celebre «mela di Newton» che ha mostrato come la forza che fa sì che quel pomo cada è la stessa che fa sì che la Luna non cada sulla Terra? O con la concezione evoluzionistica di Darwin, o con l’idea di Einstein della «relatività del moto»? O con la congettura di Dirac a proposito dell’antimateria?
Servendoci di un’etimologia magari fantasiosa, diciamo che intelligenza risponda a inter legere ovverossia «a scegliere fra»: alla capacità di selezionare ciò che è rilevante da ciò che è insignificante. Per questo la ricerca ha bisogno di intelligenza. Ma essa non è nemmeno distinta dalla passione. Talvolta pensiamo ai ricercatori scientifici come a persone asettiche, che si lasciano alle spalle qualsiasi riferimento al mondo della vita appena entrano in laboratorio o si siedono al computer. Non credo che questa sia una caratterizzazione completa dell’impresa scientifica; un’impresa scientifica che non portasse seco la passione del conoscere sarebbe un’impresa di scarso respiro... Ancora una volta vorrei citare un passo di Zadig riguardo alle passioni: «"Ah, quanto sono funeste", diceva Zadig. "Sono i venti che gonfiano le vele e il vascello", ribatté l’eremita, "qualche volta lo fanno affondare; ma senza di loro non potrebbe navigare. La bile rende collerici e malati; ma senza la bile l’uomo non potrebbe vivere. Tutto è pericoloso in questo mondo, e tutto è altrettanto necessario"».
Perché la passione è così importante? La passione è qualcosa che ti prende, ti rapisce, ti trascina, può essere anche un’esperienza dolorosa, il pericolo di cui parla l’eremita a Zadig, ma nello stesso tempo è qualcosa che dà colore a quanto altrimenti sarebbe un’ontologia grigia rivelata dalla scienza. Certo, occorre passione; ma passione qui vuol dire un profondo rapporto con le cose che vengono indagate. Dobbiamo amare il cielo se vogliamo esplorarlo; sentirci rapiti dalle «infinite forme bellissime» (la citazione è da Darwin) del vivente se vogliano studiarne genesi ed evoluzione. La costruzione delle teorie scientifiche, le rielaborazioni che spiegano i fatti, l’applicazione delle idee ai nostri macchinari sono tutte prove di amore per il mondo, un interesse specifico per le singole cose, collegate in un intellegere che è colligere.
CARLO MARIA MARTINI - Rispetto agli scienziati che lei cita, ci sono da fare alcune distinzioni importanti. Mentre Galileo con il pendolo o Newton con la sua leggendaria mela hanno fatto delle sperimentazioni sulla gravità e hanno mostrato appunto che c’è una forza che attrae i corpi verso il centro della Terra, le intuizioni di Darwin o quelle inerenti l’antimateria sono solo delle teorie. Altro è l’esperimento che dimostra un’intuizione teorica, altro l’intuizione non sperimentata né sperimentabile. Ancora, altro è scoprire la composizione dell’acqua, altro comporre l’acqua da un atomo di ossigeno e due di idrogeno. Uno scienziato potrebbe spiegarne bene la differenza. Ma sono d’accordo con lei che l’intelligenza non è solo leggere dentro, ma anche leggere «fra», cioè selezionare, discernere ciò che ha valore da ciò che non ne ha.
Siamo anche d’accordo sul fatto che sia necessaria una grande passione nell’ambito della ricerca. Ricordo gli anni dei miei studi sul Codice Vaticano (B) come anni di grande passione: tutte le scienze chiedono una grande passione. So di alcuni ricercatori che dimenticano di mangiare o di bere durante una fase piuttosto intensa del loro lavoro. Non c’è dubbio che lo scienziato sia tale anzitutto per l’amore appassionato verso ciò che fa e ciò che lo circonda, verso il mistero che avvolge anche le realtà quotidiane che l’uomo comune ritiene ovvie.
Davvero la conoscenza rende più ricco, vero e puro l’amore, e l’amore rende più profonda, paziente e tenera la conoscenza. E pur intuendo dove lei vuol condurmi, e cioè che un amore per essere autentico chiede di essere libero e, quindi, anche la scienza che scaturisce dall’amore per la natura chiede una libertà incondizionata, bisogna fare delle precisazioni.
La libertà, nell’amore come nella scienza, chiede di essere sempre accompagnata alla responsabilità. Il gesuita Bernard Lonergan, pensatore tra i più originali del Novecento seppure non adeguatamente conosciuto, coniuga oggettività della conoscenza e soggettività umana proprio attraverso la responsabilità, nella quale deve necessariamente confluire il processo conoscitivo. Il vincolo per la scienza è quindi che essa sia rispettosa della dignità umana e della libertà della persona. Ha idea di cosa potrebbe diventare la scienza senza nessun vincolo? Lei non crede che finirebbe con l’essere molto simile alle sperimentazioni «a fin di bene» praticate nei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale? Che alcuni diventerebbero «null’altro che» delle cavie?
Arrestare il Papa in Gran Bretagna?
di Piergiorgio Odifreddi *
Ieri Benedetto XVI è arrivato in Gran Bretagna, e ha potuto iniziare la sua visita senza essere arrestato all’aeroporto. La cosa non era così scontata, visto che la richiesta del suo arresto “per crimini contro l’umanità” era stata annunciata l’11 aprile scorso da Richard Dawkins e Christopher Hitchens, autori dei due best seller antireligiosi L’illusione di Dio (Mondadori, 2007) e Dio non è grande (Einaudi, 2007).
L’idea era di sfruttare lo stesso principio che aveva permesso di arrestare l’ex dittatore cileno Augusto Pinochet a Londra, nell’ottobre 1998, sulla base del principio generale della giurisdizione universale, e di una sentenza particolare emessa dal giudice spagnolo Baltasar Garzòn. Nel caso del dittatore, l’accusa era di violazione dei diritti umani. In quello del papa, la copertura della pedofilia ecclesiastica.
Ovviamente, mettere le mani sui potenti della terra non è facile. Pinochet rimase agli arresti domiciliari per sedici mesi, ma fu liberato nel marzo 2000. Tornato in Cile, dopo lunghe battaglie legali tornò agli arresti domiciliari nel dicembre 2004 e vi rimase fino alla morte, due anni dopo. Come si può immaginare, una delle obiezioni che i suoi avvocati avevano opposto al suo arresto era l’immunità dovuta ai capi di stato e ai senatori a vita.
Per chi non lo sapesse, questo stesso argomento è stato il motivo per cui il ministero della Giustizia statunitense chiese e ottenne, il 26 settembre 2005, di archiviare la pratica aperta contro l’allora cardinale Joseph Ratzinger dalla Corte distrettuale della contea di Harris in Texas, agli inizi di quello stesso anno, per connivenza nei reati di pedofilia e ostruzione alle indagini. La giustificazione del ministero fu che, essendo nel frattempo il cardinale diventato papa, il procedimento era “incompatibile con gli interessi della politica estera degli Stati Uniti”.
Come si vede, la pretesa immunità giudiziaria che Berlusconi rivendica per sé, ha altisonanti precedenti. Ma mentre delle sue beghe giudiziarie si è parlato fino alla nausea, su quelle della Chiesa e del papa si è taciuto fin che si è potuto. In Italia, almeno, non si sono sentiti che mormorii e sussurri, fino alla famosa puntata di Anno zero del 31 maggio 2007 sulla pedofilia ecclesiastica, la cui messa in onda si cercò in tutti i modi di impedire, e a cui ebbi anch’io la ventura di partecipare.
In realtà, lo scandalo era vecchio di decenni. Già nel 1995 aveva dovuto dimettersi il cardinale Hans Hermann Groër di Vienna, per ripetute accuse di molestia sessuale. Lo scorso maggio il cardinal Cristhoph Schönborn, successore di Groër e allievo prediletto di Ratzinger, ha cercato di addossare le colpe della copertura di questo caso al cardinal Angelo Sodano, Segretario di Stato sotto Giovanni Paolo II, invece che a Ratzinger stesso, all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Ma, in un bel volare di paramenti, è stato zittito da Sodano e dallo stesso Ratzinger.
Correttamente, perché è proprio quest’ultimo che, il 18 maggio 2001, indirizzò ai vescovi di tutto il mondo una lettera in cui confermava ufficialmente che la disposizione segreta Crimen sollicitationis, emessa nel 1962 dal suo predecessore in quella che allora si chiamava ancora Congregazione del Santo Uffizio, era tuttora in vigore. Questa disposizione ordinava di mantenere un segreto totale sugli abusi sessuali commessi dai preti, compresi i nomi delle vittime, pena la scomunica.
E’ grazie a questa lettera che Ratzinger fu indagato in Texas nel 2005, per la sua copertura dei crimini sessuali ecclesiastici. Ora che lo scandalo è scoppiato in tutto il mondo, e che ha già mandato in bancarotta varie diocesi statunitensi per i risarcimenti alle vittime, Benedetto XVI sta correndo tardivamente e timidamente ai ripari. Lui stesso ha confessato, appena arrivato in Gran Bretagna, che “sui preti pedofili non abbiamo vigilato”.
Queste parole saranno gradite agli inglesi, che adorano l’understatement. Ma la verità è che in Vaticano e nella Chiesa c’è stata una colossale operazione di copertura e di connivenza, in cui lo stesso Ratzinger ha giocato la sua bella (anzi, brutta) parte. Naturalmente, non c’è da sperare che verrà veramente arrestato. Ma sarebbe ora che i potenti della terra, e gli impotenti della nostra nazione, smettessero almeno di genufletterglisi di fronte, e di pendere dalle sue labbra quando pontifica di etica e di spiritualità.
* IL NON-SENSO DELLA VITA blog di Piergiorgio Odifreddi, 17 set 2010