di Furio Colombo *
Bello, e ricco di cose nuove il tempo in cui il Papa, capo della Chiesa di Roma, ti parla di speranza, il Dalai Lama sta per venire a Roma a raccontare la sua speranza di poter tornare a vivere con la sua religione nella sua terra, e intanto nella stessa città due leader politici opposti e rivali si incontrano per concordare che insulti, diffamazioni, aggressioni, controllo arbitrario delle notizie non sono la politica ma una deformazione pericolosa da abbandonare subito.
Bello. Ricco di cose nuove. Ma non è ciò che è accaduto in questi giorni. Il Dalai Lama, come sapete, nonostante la sua parte di fede e di speranza non lo vuole vedere nessuno perché una potenza economica ha fatto sapere a tutti i poteri, spirituali, politici e aziendali di non provarci neanche. E tutti i poteri spirituali, politici e aziendali hanno realisticamente accettato.
Il Papa ha aperto un grande dibattito ad un livello molto alto: fare o sperare? La scienza è solo insufficiente a nutrire l’immenso impulso a volere, cercare, aspettare di più, o è anche la negazione del di più (la speranza) e dunque pericolosa? La medicina e la preghiera sono da usare insieme, come sussurrava una volta il cappellano negli ospedali, o la medicina (per esempio il preservativo) è in sè un male? Il dibattito è (sarebbe) grandioso perché grandioso è il tema. Ma non c’è alcun dibattito.
La complessa lettera del Papa viene fatta spiegare a vescovi-teologi nei telegiornali. Sono vescovi colti e predicatori efficaci. Ma sono anche una grande lastra di pietra che blocca ogni tentativo di dialogo, conferma, certifica. Impossibile non ricordare la raccomandazione, da autorità benevola ma anche da esperto intellettuale, quando ha affidato alla critica il suo libro su Gesù dicendo «naturalmente siete liberi di criticare». Le critiche ci sono state, se ricordo bene con la cautela e il rispetto dovuto non tanto a un Papa quanto a un accademico accreditato tra i suoi pari (credenti e non credenti). Ma quel libro è entrato in biblioteche e scaffali di diversissime case come un testo di cui tener conto nel mondo della cultura.
Questa volta è diverso. Certo, il tema è di insegnamento al vertice della Chiesa cattolica. Ma come dare senso, interpretazione nello spazio (tutto lo spazio, non solo la Chiesa e i fedeli) e in relazione al peso anche secolare e politico di ciò che dice il Papa?
Inginocchiarsi al passaggio dell’Enciclica testimonia della scrupolosa osservanza e disciplina di chi esegue prontamente l’atto di omaggio. Ma non offre una parola, un contributo, una osservazione, uno spunto di pensiero diverso, l’impronta di un mondo libero a cui importa discutere ciò che - proprio perché conta molto - merita di essere discusso. Penso al breve commento (50 secondi) affidato a Silvia Ronchey nel corso del Tg3 (ore 19.00 del 30 novembre). Ha colto di sorpresa, iniziando con la parola «reazionario». Ha detto, giocando anche sulla immagine femminile che autorizza una apparente leggerezza: «Deliziosamente reazionaria l’Enciclica del Papa». Segue, da storica, da competente, una recensione breve e benevola. Ma la definizione iniziale, che può anche essere intesa come lode, resta in sospeso. Non c’è e non seguirà dibattito, assecondando il famoso timore del miglior cinema di costume italiano («il dibattito no!»). Il dibattito segue la mattina dopo (1 dicembre) dalle pagine del Corriere della Sera, dove il filosofo Giovanni Reale, debitamente schierato, anzi scelto perché schierato, solennemente afferma: «Semmai c’è del reazionario in certe critiche». Il tal modo getta tutto il suo peso - che è rilevante anche per i non specialisti - sull’unico guizzo di vita, presenza, ascolto da svegli - con cui Silvia Ronchey ha proposto inutilmente di prendere sul serio una Enciclica papale. Come si farebbe nel mondo della cultura, con un autore a cui si presta attenzione e rispetto.
«Chi pensa che questo sia un atteggiamento contro la scienza e la ragione non ha capito nulla. Il Papa non condanna la ragione né la scienza né la libertà. Quella del Papa è una critica alla scienza che si fa idolo e cade nello scientismo», incalza il filosofo Reale, voce autorevole (e proprio per questo preoccupante perché rifiuta di confrontare la vita con le parole) e voce unica sul più grande quotidiano italiano.
In un periodo della storia in cui 31 Stati americani vietano per legge l’insegnamento dell’evoluzionismo darwiniano, il presidente degli Stati Uniti proibisce - come in Italia - l’uso dei fondi pubblici per le ricerche sulle cellule staminali, mentre aumenta - ci dicono lo stesso giorno, gli stessi giornali e telegiornali - il contagio dell’Aids nel mondo, lo stesso mondo in cui la stessa Chiesa e lo stesso Papa vietano come immorale l’uso dei preservativi, ci può dire il professor Reale dove, quando si imbatte nella «scienza come idolo»? C’è mai stata dopo Galileo, un’epoca in cui religione e opportunismo politico si sono battuti insieme così accanitamente per frenare, umiliare, accantonare la scienza?
Un altro filosofo - Massimo Cacciari - frena un poco il tributo corale del Paese al Papa (un Paese presunto unanime che applaude il Papa prima che parli e poi va a caccia di Rom da espellere subito da questa terra cristiana, e se qualcuno vuole pregare con un’altra fede in Italia gli si rovescia addosso orina di maiale). Chiedono a Cacciari: «Teme che questa nuova Enciclica possa generare ulteriori divisioni tra credenti e non credenti?». Cacciari risponde: «Non lo temo perché il Pontefice torna a ribadire un concetto antico di fede che risale a S. Paolo: la speranza basata sulla fede rivelata. Nonostante una sostanziale banalizzazione di temi complessi come marxismo e illuminismo, questa Enciclica potrà contribuire a stimolare la riflessione tra fede e ragione».
Come farà, visto che la ragione abita - secondo il Papa - solo le strade infide del marxismo, dell’illuminismo, della scienza-idolo, e perciò viene indicata come l’alternativa inaccettabile a un’unica fede, quella cristiana nella versione “romana”? Alla fine dobbiamo renderci conto che l’Enciclica papale attraversa come un potente soffio di bora la pianura italiana, mentre dai sistemi di comunicazione e di vita sociale è stato rimosso ogni appiglio o mancorrente a cui ci si possa appoggiare per dire: no, ragioniamo. O è come dite voi o è la fine della speranza, dunque la fine di ogni convivenza possibile?
* * *
Vorrei adesso riferirmi a un fatto non religioso e molto più piccolo, però esemplare, di una nuova pedagogia che è: rimuovere gli appigli a cui appoggiarsi (come ai mancorrenti sui vagoni della metropolitana in corsa) per proporre obiezioni o argomenti diversi. Citerò non l’equivoco trionfalismo di Berlusconi, che sembra al momento accettare tutto perché, come ha già più volte dimostrato, niente lo vincola, non la coerenza, non la parola data, non l’impegno preso in pubblico. Se necessario negherà di aver mai avuto lo storico incontro di Montecitorio.
Mi interessa e mi mette in ansia, però, una frase di Veltroni che, giustamente soddisfatto del buon risultato della sua iniziativa, dice: «Penso che abbiamo introdotto qualcosa di molto importante: la fine del clima di rissa, di odio, di contrapposizione ideologica. Ora chi lo vuole riproporre se ne assumerà la responsabilità. Ma si è sperimentato che è possibile il dialogo, come nelle grandi democrazie del mondo». (Conferenza stampa alla Camera dopo l’incontro con Silvio Berlusconi, 30 novembre).
Ora basta avere ascoltato tutta la prima parte dell’ormai celebre e indimenticabile monologo di Benigni su Rai 1 per sapere che dieci milioni di italiani hanno riso fino alle lacrime ascoltando la storia vera, grottesca, incredibile dell’Italia sotto Berlusconi. È la stessa storia che, invece, tutti i telegiornali, sotto la sorveglianza di Berlusconi hanno raccontato come gloria, storia e successo. Si ride da star male alla narrazione di una Commissione parlamentare con poteri giudiziari, consulenti miliardari e spie assassinate, detta Commissione Mitrokhin, avente come unico scopo di dichiarare - in periodo pre-elettorale - che l’allora capo dell’opposizione Romano Prodi era spia del Kgb. Si ride da star male ma era vero. Come era vero che giornalisti e magistrati (che dovevano essere «disarticolati») erano costantemente spiati dal servizio italiano di spionaggio militare (il Sismi). Ovvero noi, spiati dal nostro Stato.
Si ride fino alle lacrime nel riascoltare da Benigni la storica giornata del «discorso del predellino» (persino il dettaglio è falso: nessuna auto, dal 1969, ha più un predellino su cui salire come Jean Gabin mentre faceva fuoco sulla polizia nei vecchi film francesi). Ma è vero che in un giorno il nostro interlocutore si è inventato il “Partito del Popolo” mentre era proprietario del “partito Forza Italia”.
Domanda: noi con chi abbiamo parlato e con chi abbiamo deciso di spegnere ogni polemica, con il Partito del Popolo o con Forza Italia, con Brambilla o con dell’Utri? E da dove viene e come si è manifestato «l’odio» che adesso finalmente è finito? Spiegherò perché mi mettono a disagio e un po’ mi disorientano queste parole dette dal leader che ho eletto e in cui, come milioni di italiani (gli stessi che hanno riso e pianto con Benigni, credo), ho fiducia.
Una prima ragione è che lo scambio tra la parola “odio” e la parola “critica” - una trovata pubblicitaria che abbiamo subìto da quando Berlusconi «è sceso in campo» - comincia ad essere una lunga storia. Enzo Biagi (che viene ricordato lunedì sera al Teatro Quirino dagli amici e colleghi di Art. 21) era odio o vittima dell’odio? E Sabina Guzzanti? E l’Unità accusata di tutto e rigorosamente privata di pubblicità? Renato Ruggiero sarà stato cacciato da ministro degli Esteri di Berlusconi perché odiava o perché criticava la disinvoltura d’affari del governo di cui era parte? Forse è storia passata.
Ma il conflitto di interessi e l’infezione che un potere multimiliardario porta nella politica è un argomento da sospendere nel tentativo di fare una buona legge elettorale o dobbiamo lasciar perdere adesso, anche dopo, per non dare l’impressione che il tentativo di normalizzare e legalizzare la vita italiana non è altro che odio e vendetta contro Berlusconi?
I lettori sanno che basta scrivere queste cose (che sono una mite e generica versione di ciò che i Senatori americani Hillary Clinton e Barack Obama dicono ogni giorno del loro presidente e delle loro controparti repubblicane) perché il Senatore italiano che le scrive su questo giornale sia aggredito nell’aula di quel ramo del Parlamento con insulti e calunnie che solo l’immunità parlamentare (ma anche il modesto livello culturale e umano) di chi conduce quell’aggressione protegge dalla denuncia penale. Però accade. Accade adesso.
È giusto, è urgente costruire una via d’uscita. Ma sgomberare l’orizzonte da ogni sia pur piccola barriera, da ogni riferimento storico e politico a cui aggrapparsi quando tornano (e tornano!) le aggressioni è ragionevole? E quanti giorni passeranno da oggi, 2 dicembre 2007, prima che Berlusconi neghi e sconfessi tutto?
* l’Unità, Pubblicato il: 02.12.07, Modificato il: 02.12.07 alle ore 14.43
Su questi temi, nel sito e in rete, si cfr.:
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO ... DEI "DUE SOLI". IPOTESI DI RILETTURA DELLA "DIVINA COMMEDIA".
RIPENSARE L’ EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU - ROPEUO".
Enciclica Spe Salvi
La liberazione nella sofferenza
di Gianni Vattimo (il manifesto, 01.12.2007)
Non si fa dell’ironia gratuita se si dice che anche questa ultima enciclica di Benedetto XVI dedicata appunto alla speranza, non riesce ad apparirci solo come un ennesimo documento proveniente da una cattedra di conservazione sociale, di banalizzazione delle aspettative etiche, di sostanziale ipocrisia, tratti che troppo spesso siamo legittimati ad attribuire all’insegnamento della Chiesa post e anticonciliare dei nostri giorni. Ogni volta rinasce in noi la speranza che appaia un segno di cambiamento capace di ridarci il gusto di appartenere alla chiesa di Cristo. L’enciclica pubblicata oggi poteva essere una grande occasione di risuscitare questa speranza
Abbiamo subito pensato agli anni trascorsi del prof. Ratzinger a Tubinga quando vi insegnava, se non sbagliamo, anche Ernst Bloch, autore di quel monumentale Principio Speranza che Benedetto XVI non ricorda affatto nelle sue numerose citazioni, del resto prevalentemente riferite ai Padri della chiesa e accuratamente prive di ogni richiamo alla teologia contemporanea. Illusione e delusione, dunque, sono le prime impressioni che ricaviamo dalla lettura che abbiamo potuto fare del testo. Ammiriamo sempre l’aspetto dotto, quasi «scientifico», dei discorsi teologici che possono giovarsi di una tradizione testuale e interpretativa così vasta, che non possiamo mai ridurre alla semplice «astuzia dei preti», come farebbe qualche autore ateo di successo. Quelle pagine e quegli autori sono tracce di esperienze autenticamente vissute e spesso di vere e proprie vite di santità che non riusciamo a banalizzare.
Ma allora perché delusione? Si riassume nella già notata assenza di Bloch - che potremmo anche accettare, visto che non è un teologo cristiano. Ma che dire dell’assenza della teologia della liberazione, o di autori come Moltmann e altri che hanno cercato di dare un contenuto non puramente «spiritualistico» alla dottrina cristiana della speranza? Qui si tocca il senso stesso della trattazione ratzingeriana. Che mette subito le mani avanti, nel paragrafo 4 del testo, dove dice che «il cristianesimo non aveva portato un messaggio sociale-rivoluzionario come quello con cui Spartaco, in lotte cruente, aveva fallito». Non si esagera se si vede in questa frase, compresa la sua conclusione, la vera e propria cifra del discorso papale. Importa sottolineare la conclusione. Che la speranza portata da Gesù al mondo non possa e debba essere letta in termini di rinnovamento politico-sociale - come verosimilmente fu letta anzitutto da coloro che se ne vollero sbarazzare mettendolo in croce - è come dimostrato dal fallimento storico di rivolte come quella di Spartaco.
Più avanti (per esempio, paragrafo 21), sarà questa la ragione per rifiutare il messaggio rivoluzionario di Marx, al quale viene rivolta l’obiezione, invero ormai piuttosto frusta, per la quale il comunismo sarebbe una pretesa di realizzare il regno di dio sulla terra, impresa evidentemente (?) impossibile e quindi destinata fatalmente a degenerare in violenza. Nelle stesse righe in cui si obietta a Marx di aver dimenticato l’uomo, «che rimane sempre uomo» (e cioè imperfetto e incapace di uscire dallo stato di imperfezione: la ballata del vescovo di Ulm di Bertolt Brecht!), si dice anche che Marx ha ispirato bensì il rovesciamento del vecchio ordine, ma non ha indicato come procedere oltre, sicché il povero Lenin dovette rassegnarsi a sperare che lo stato si dissolvesse da sé.
Già, sia detto di passata: ma quali indicazioni pratiche ci sarebbero nella «vera» speranza cristiana? La preghiera, lo sguardo al giudizio finale dove dio ristabilirà la giustizia, e «agire e soffrire come luoghi di apprendimento della speranza». Anche in queste pagine conclusive - dove forse una grande novità ci sarebbe, nel senso che il papa dà buone ragioni per non credere più alle fiamme dell’inferno e nemmeno all’eternità della pena per i dannati (un inferno «pugatorizzato», diremmo, paragrafo 47) - si risente il limite di puro spiritualismo che conferisce un senso del tutto astratto e forse retorico alla dottrina ratzingeriana della speranza. Agire e soffrire sono esercizi di speranza, e di speranza condivisa, in quanto il cristiano soffre con il prossimo e non si sente mai solo. Ma non sarebbe giusto accentuare un po’ di più l’agire, oltre al soffrire? E’ invece su quest’ultimo che si pone sempre l’accento, secondo una linea che del resto domina la tradizione cristiana nella quale - ma ormai non pochi teologi cominciano a dubitarne - Gesù soffre in croce perché è la vittima capace di soddisfare l’ira del Padre a causa del peccato originale.. Di qui l’esaltazione della sofferenza come merito. E agire con gli altri e soffrire con loro non ha mai - come dovrebbe - il senso di una lotta comune contro ciò che produce sofferenza. Anche se il solo esempio evangelico di giustizia divina che il papa cita è quello del ricco Epulone che dovrebbe espiare la sua tracotanza e il suo attaccamento ai bei terreni, non è nemmeno sfiorato dal sospetto che bene e male abbiano da fare con l’ineguale distribuzione delle ricchezze e del potere. Dimenticare Bloch non è stata effettivamente una buona idea.
Avanti...verso il passato
di Rosario Amico Roxas
La mancanza di idee porta alla ricerca di ciò che è stato, come rifugio da una realtà che non si capisce o non si vuole accettare; così si prosegue “avanti...verso il passato”.
Le istituzioni, che dovrebbero pilotare il popolo verso una integrazione con la nuova realtà, in un itinerario di ri-socializzazione, preferiscono talune certezze ormai passate per evitare il confronto con le ipotesi del futuro.
Tra passato e futuro si vive un presente di incertezze, di rabberciate condizioni che non soddisfano nessuno e generano malcontenti, proteste, quasi anticipazioni di rivolte di palazzo.
Così viene reinventato il più nuovo e più moderno approccio alle mutate condizioni di vita.
Ma come?
In campo laico ci pensa Berlusconi, dopo avere constatato il fallimento dello scontro muro contro muro; arrampicandosi sugli specchi tenta di ri-presentare la sua immagine come quella del messia del nuovo millennio, creando, con uno slancio mediatico dall’alto di un predellino di autovettura, quel “nuovo” partito che dovrebbe gestire le sorti nazionali “per i prossimi decenni”.
Caspita !!!!
Dov’è la novità del terzo millennio?
Starebbe nel capovolgimento della piramide; non più una base che elegge un vertice e poi lascia fare, ma una base chiamata “popolo della libertà” che vive le sue scelte e vi partecipa attivamente.
Si tratta di un appello populista finalizzato ad avere una solida base su cui edificare un nuovo castello incantato dei sogni ad occhi aperti. Ma l’appello populista lo fecero in tanti, con esiti disastrosi; fu appello populista quello di Hitler, quello di Mussolini, quello di Stalin e Lenin; furono ipnotiche illusioni i bagni di folla e l’esaltazione collettiva, generando lo spettacolo di una vocazione plebiscitaria al suicidio collettivo.
Un populismo chiamato a raccolta in nome della LIBERTA’, la quale, a sua volta, condiziona l’UGUAGLIANZA fra tutti i cittadini, cementata dal sentimento della FRATELLANZA che dovrebbe accumunare i popoli.
Sbaglio oppure ho già sentito questo trinomio ? E’ tutta qui la novità del terzo millennio che dovrebbe gestire i prossimi decenni ?
In campo religioso le novità sono ancora più accentuate. Con la sua prima enciclica !”Deus est Caritas”, Benedetto XVI ha esaltano la CARITA’ , ma più per stimolare un moto emotivo di partecipazione alle altrui esigenze, che per riconoscere “i diritti dei poveri” e delle nazioni sfruttate e violentate per sottrarre loro le materie prime di cui dispongono, come già aveva fatto Paolo VI e aveva proseguito a fare Giovanni Paolo II.
La seconda enciclica è dedicata alla SPERANZA, che sarebbe il solo viatico nell’itinerario verso DIO. Attendiamo la terza enciclica che parlerà certamente della FEDE, così abbiamo completato la trilogia delle “novità” del terzo millennio !
Mi pare proprio che siamo precipitati nella più fondamentalistica restaurazione, con un triplice salto mortale all’indietro, e lo tocchiamo con mano.
Da parte del Vaticano di Ratzinger il Concilio Ecumenico Vaticano II appartiene ad un passato troppo recente per essere tenuto in considerazione; risulta più efficace riproporre le formulazioni tridentine anche nella esteriorità delle funzioni sacre; così l’appello viene rivolto a Pio V , il pontefice santificato per non identificati meriti.
· Infatti, dopo i primi anni di regno, scacciò le cortigiane dalle stanze vaticane (ma se le scacciò vuol dire che c’erano ! E cosa ci facevano nella Casa di Dio ?).
· Punì con grandissima severità il peccato di fornicazione, comminando esemplari punizioni corporali pubbliche, e per i recidivi il purificatore rogo, ma non risulta che mai un prelato, un monsignore, un vescovo, un cardinale, abbia subito i rigori delle legge, anche se nelle stanze vaticane bivaccavano le cortigiane.
· Proibì, con bolla papale, alle monache di tenere nei conventi cani di sesso maschile per evitare peccaminosi incontri contro natura.
· Punì con il rogo anche menestrelli colpevoli di scrivere versetti nei quali stigmatizzavano le manchevolezze pontificie.
· Fu il più grande persecutore degli ebrei che scacciò da tutti i ghetti dello Stato Pontificio, tranne a Roma dove dovettero stiparsi in un unico quartiere e rendersi riconoscibili. A Bologna gli ebrei dovettero fuggire portandosi appresso i cadaveri esumati dei loro cari, perché l’ordinanza prevedeva la distruzione di tutto ciò che poteva ricordarli. Anche a Milano il cardinale Borromeo impose agli ebrei un timbro giallo sulla pelle, ben visibile ,prima di scacciarli dalla città. Meraviglia solo come mai Hitler non abbia pensato a indicare San Pio V come protettore della gestapo.
· Quindi culminò il suo papato organizzando le città marinare e il governo di Spagna in una alleanza temporanea per assaltare i turchi che si erano insediati nell’Asia minore, con la motivazione di voler liberare i luoghi santi e annetterli allo Stato Pontificio (cosa che non gli riuscì) e massacrandoli nella battaglia marinara di Lepanto, il tutto nel nome di Cristo, come se Cristo fosse venuto sulla terra a propagandare il “Dio degli eserciti”.
Così incombe la Restaurazione, ma per incapacità di reggere il confronto con un modo cresciuto, sviluppato, che necessita di dialogo e di integrazione fra i popoli e, innanzitutto, di un itinerario di ri-sociliazzazione, per prendere atto di una evoluzione che anticipa il futuro ed esserne attivamente partecipi.
Rosario Amico Roxas