Papa: superare i mali dell’Africa
andando alla verità di Dio *
"Tutte le analisi del mondo si rivelano insufficienti se non scopriamo che al fondo della corruzione e del male sta una relazione non corretta con Dio". È questo il monito che Benedetto XVI ha lanciato rivolgendo a braccio un saluto ai 244 vescovi riuniti in Vaticano per il Sinodo Africano. "Solo vedendo alla luce di Dio le colpe nostre, l’insufficienza della nostra relazione con Lui, andiamo alla verità", ha spiegato. "Se non si arriva al punto, anche tutto il resto - ha scandito - non è correggibile perchè da questo nascono tutti i vizi. Tutte le realtà dipendono dalla nostra relazione con il Creatore, dobbiamo andare alla verità che salva".
Ma, ha aggiunto il Papa teologo, "Dio non ci ha lasciato soli con i nostri peccati, con la nostra relazione disturbata con la sua Maesta. Dio non è lontano, non servono viaggi spaziali nel cielo e cose conplicate per raggiungerlo: abita nel nostro cuore, le cose della scienza e della tecnica sono costose e difficili, ma per raggiungere Dio non c’è bisogno di grandi doti: è nel cuore con la fede, sulle labbra con la confessione che ci fa evangelizzare e rinnovare il mondo". Infatti, "la fede si trasforma in carità, c’è unità di ragione e carità: Dio è da una parte ragione ma non è una ragione matematica, è fuoco, è carità".
"Nello sviluppo del mondo - ha detto ancora il Pontefice - abbiamo questa ’scalà che non è ancora finita, l’uomo dovrebbe divinizzarsi. Lo sviluppo è arrivare a questa ultima meta dove Dio, che è con noi, vuole aiutarci ad arrivare". Un percorso aperto a tutti, ha ricordato citando la parabola evangelica del Buon Samaritano che, "straniero in tutti i sensi, è per noi prossimo, supera i limiti che dividono l’umanità". Dobbiamo, è la conclusione di Papa Ratzinger alla prime sessione del Sinodo Africano, "aprire questi confini tra le tribù e le religioni. Credere diventa amore ed azione. Abbiamo il coraggio di questo Sinodo, perchè Dio non è lontano".
L’omelia alla messa di apertura di ieri. Due "pericolose patologie" stanno intaccando l’Africa: il materialismo dell’Occidente, colpevole di un "colonialismo mai del tutto terminato", e il fondamentalismo religioso. Benedetto XVI ha inaugurato con queste parole, nella Basilica di San Pietro, il Secondo sinodo speciale dei vescovi del continente africano in programma in Vaticano fino al 25 ottobre, facendo subito capire che i mali che affliggono l’Africa chiamano in causa tutto il Pianeta.
Una parte della Chiesa africana, i 244 vescovi che partecipano al Sinodo e un gran numero di religiosi e religiose che li accompagnano, ha riempito oggi la Basilica di San Pietro. Una platea di cattolici giovani, pieni di fervore, che hanno riempito le immense navate di musica, lingue, colori, accenni di danza. Una vitalità che, lo si è visto anche durante il viaggio in Camerun e Angola nel marzo scorso, strappa gioiosi sorrisi al pontefice, e dimostra, senza alcun dubbio, che l’Africa è la speranza della Chiesa, una Chiesa che vorrebbe diventare a sua volta una speranza per l’Africa, e da lì restituire futuro anche ad un Occidente spiritualmente "malato".
Ratzinger comincia la sua omelia dall’inizio di tutto, parlando della Creazione, perchè - dice - "in Africa ci sono molteplici e diverse culture, ma sembrano tutte concordare su questo punto". Dio creò la vita, un uomo e una donna in grado di generare figli: una "legge divina, scritta nella natura" e pertanto "più forte e preminente rispetto a ogni legge umana". Una prospettiva al di là della stessa morale, spiega il Papa, perchè "essa, prima del dovere, riguarda l’essere, l’ordine inscritto nella creazione". E prova, fra l’altro, che Gesù e gli uomini "provengono tutti da una stessa origine": stessa dignità, stessi diritti, a prescindere dall’etnia, dalla provenienza e dal colore della pelle.
Poi, parla dei tesori dell’Africa ma, più che alle razzie compiute dalle multinazionali occidentali denunciate nell’Instrumentum laboris del Sinodo, si riferisce al suo patrimonio spirituale e culturale, immenso "polmone" oggi intaccato dai morsi di un "colonialismo finito sul piano politico" ma, in realtà "mai del tutto terminato", e che si esprime nel "materialismo pratico combinato con il pensiero relativista e nichilista", "tossici rifiuti spirituali che contagiano le popolazioni di altri continenti, tra cui in particolare quelle africane". Nella "stessa prospettiva", quasi fosse l’altra faccia di una stessa medaglia, Benedetto XVI mette in guardia contro il secondo "virus" che potrebbe colpire anche l’Africa: il fondamentalismo religioso, mischiato con interessi politici ed economici". Moniti pesanti, anche se il Papa chiarisce poco dopo, all’Angelus, che il Sinodo non fornirà ricette ma "indicazioni pastorali", come l’invito ad un maggiore sforzo di riconciliazione tra le etnie e alla tutela dell’infanzia.
SINODO DEI VESCOVI 2008. L’ANNO DELLA PAROLA DI DIO: AMORE ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
Una riflessione sul testo "La carità che uccide" di Dambisa Moyo (Rizzoli, 2009)
di Habtè Weldemariam *
È noto che la civiltà Occidentale è permeata dalla cultura degli aiuti, cioè da quella cultura che muove dall’imperativo morale di donare a chi è svantaggiato. Questa cultura, che nei paesi occidentali ha radici cristiane, negli ultimi trent’anni si è incrociata con il mondo dell’intrattenimento: personalità mediatiche, "leggende" del rock, abbracciano con entusiasmo la filosofia degli aiuti, ne fanno propaganda e rimproverano i governi di non fare abbastanza.
Per bacchettare certi iniziative e le politiche di aiuto finora perseguite è uscito il libro-saggio dell’autorevole economista africana, Dambisa Moyo, con l’abrasivo titolo “La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo Mondo", una traduzione dal titolo peraltro non corretto rispetto a quello originale che voleva significare invece un certo modo di intendere gli aiuti: Dead Aid: Why aid is not working and how there is a better way for Africa (perchè l’aiuto non sta funzionando e qual è la strada migliore per l’Africa) .
Si tratta della storia del fallimento delle politiche allo sviluppo postbellico e postcoloniale dei Paesi occidentali nei confronti delle disastrate economie dell’Africa subsahariana. Il titolo originale "Dead Aid" richiama polemicamente il concerto di solidarietà di Geldof e Bono Live Aid del 1985, i quali "hanno solo contribuito alla diffusione di uno stato di perenne dipendenza alimentando corruzione, violenza", il cui obiettivo, sempre secondo l’autrice, non è aumentare la consapevolezza di ciò che provoca la fame e la povertà, ma "lisciare il pelo" all’emotività superficiale che porta all’elemosina. Ma la critica è anche per i miliardi di dollari trasferiti direttamente ai governi dei paesi poveri mediante accordi bilaterali o attraverso istituzioni come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale.
Non è tanto il supporto di cifre, report e quant’altro a rendere il libro davvero assertivo; è la esposizione logica e piana di un ragionamento basato sull’osservazione di sessant’anni di politiche fallimentari che hanno inondato l’Africa di fiumi di denaro - in 50 anni più di un trilione di dollari - creando solo una classe politica inefficiente e priva del senso di responsabilità. Gli aiuti provenienti dai singoli stati occidentali o dalla longa manus del capitalismo occidentale hanno soffocato sul nascere la possibilità di favorire lo sviluppo agricolo o una classe di piccoli e medi imprenditori locali, diventando così gli aiuti stessi la principale causa della tragedia africana.
Infatti, «tra il 1970 e il 1998, quando il livello degli aiuti era al suo livello massimo, il tasso di povertà del continente è passato dal 11 % al 66%. Si tratta di circa 600 milioni di africani, più della metà della popolazione del Continente, costretta a vivere sotto la linea della povertà»(p.88).
Da qui la risposta diretta e tranchant dell’autrice: gli aiuti al "Terzo Mondo", così come li abbiamo sempre intesi, fanno male! E inoltre, un certo modo di intendere la solidarietà non solo rischia di alimentare la cultura dell’accattonaggio, ma anche crea un legame vizioso tra donatore e ricevente favorendo il perpetuarsi di una logica perversa dell’auto-consolazione del donatore e un senso di gratificazione del ricevente nella propria condizione di subordinazione ed inferiorità.
La Moyo mette in luce tutti i punti deboli delle tradizionali politiche di aiuto internazionale esponendo un ragionamento molto articolato: da quando l’Occidente ha iniziato a far confluire fiumi di denaro verso il Continente ha messo in moto un circolo vizioso fatto di dipendenza dagli aiuti, di demotivazione e di uccisione del mercato locale:
La Moyo, come tanti altri africani della sua generazione, si chiede allora senza giri di parole: perché, nonostante questi miliardi, l’Africa è incapace di posare il piede sulla scala economica in modo convincente e che cosa la trattiene dal rendersi capace di unirsi al resto del globo nel XXI secolo? Perché, caso unico al mondo, l’Africa è prigioniera di un ciclo di malfunzionamento? Cosa impedisce al continente di affrancarsi da una condizione di povertà cronica? Soprattutto la Moyo ritorna con insistenza sulla domanda: se gli altri paesi ce l’hanno fatta senza aiuti umanitari perché i paesi africani non possono farcela?
La risposta, secondo l’autrice, affonda le sue radici appunto negli aiuti: quelli umanitari o di emergenza, attivati e distribuiti in seguito a catastrofi e calamità; quelli distribuiti in loco da organizzazioni non governative (ONG) a istituzioni o persone (1);quelli sistematici, ossia pagamenti effettuati direttamente ai governi, sia tramite trasferimenti da governo a governo ("aiuti bilaterali") sia tramite enti quali la Banca Mondiale (noti come "aiuti multilaterali"). Si tratta della somma complessiva dei prestiti e delle sovvenzioni, che sono poi i miliardi "che hanno ostacolato, soffocato e ritardato lo sviluppo dell’Africa". Ed è di questi miliardi che si occupa il libro.
* RIPRESA PARZIALE. Per proseguire nella lettura integrale del testo, vedi: SCRITTI D’AFRICA, 26 MAGGIO 2011
Video.
Francesco ai mauriziani: avete tante lingue, ma quella del Vangelo è l’amore *
Quella a Port Louis, capitale della Repubblica di Maurizio, sarà l’ultima tappa del viaggio del Papa in Africa, il 9 settembre, dopo quelle in Mozambico e Madagascar.
In un videomessaggio letto in italiano, il Papa sottolinea che “Sarà una gioia per me annunciare il Vangelo in mezzo al vostro popolo, che si distingue per essersi formato dall’incontro di diverse etnie, e che quindi gode della ricchezza di varie tradizioni culturali e anche religiose”. Anche se la Chiesa “parla tutte le lingue del mondo” ricorda Francesco, “la lingua del Vangelo è l’amore”.
Ecco il testo integrale del messaggio
Cari fratelli e sorelle di Mauritius!
È vicino ormai il viaggio apostolico che mi porterà anche sulla vostra bella Isola. Già da qui, da Roma vi rivolgo il mio saluto con tanto affetto, e dico un grande “grazie” perché so che vi state preparando da tempo a questo incontro.
Sarà una gioia per me annunciare il Vangelo in mezzo al vostro popolo, che si distingue per essersi formato dall’incontro di diverse etnie, e che quindi gode della ricchezza di varie tradizioni culturali e anche religiose.
La Chiesa Cattolica, fin dalle origini, è inviata a tutte le genti, e parla tutte le lingue del mondo. Ma la lingua del Vangelo - voi lo sapete - è l’amore. Il Signore, per intercessione della Vergine Maria, mi conceda di annunciarvi il Vangelo con la forza dello Spirito Santo, così che tutti possiate comprenderlo e accoglierlo.
Vi chiedo per favore di aumentare in questi giorni la vostra preghiera, mentre io già vi porto nel cuore e prego per voi. Grazie e a presto!
*Avvenire, 03.09.2019 (ripresa parziale, senza "video")
Nel laboratorio della giustizia.
Incontro con l’Africa, segno per il mondo
di Stefania Falasca (Avvenire, venerdì 6 settembre 2019)
Guardare l’Africa. Attirare l’attenzione verso questo continente nel suo insieme, sulla promessa che rappresenta, sulle sue speranze, le sue lotte e le sue conquiste per uno sviluppo umano integrale, un’equa distribuzione delle risorse e una cultura di pace che inviti a prendersi cura della nostra casa comune. È quello che papa Francesco ha inteso e intende fare anche con questo suo secondo viaggio in tre Paesi dell’Africa sub-sahariana. È quello che in molti non fanno. E non intendono fare. Perché non è comodo. Preferendo sfruttarla, l’Africa. Schiavizzarla, incendiarla e depredarla. Anche se continuare a saccheggiarla ci ripresenta sempre il conto. Salato. In termini umani, politici, sociali e ambientali. Che è proprio quello che ritorna a noi, duri ancora a comprendere che siamo tutti sulla stessa barca.
Proprio per questo oggi per noi vale quanto Francesco ha detto nella prima tappa del suo tour africano, rivolgendosi ieri alle autorità mozambicane: «Il perseguimento del bene comune dev’essere un obiettivo primario. È necessario seguire il percorso che porta al bene comune, favorire la cultura dell’incontro che conduce a cercare obiettivi comuni, valori condivisi, idee che favoriscano il superamento di interessi settoriali, corporativi o di parte, affinché le ricchezze della vostra nazione siano messe al servizio di tutti, specialmente dei più poveri». Si tratta cioè delle basi per un futuro di speranza, di dignità, di pace. Basi "urbi et orbi". E che necessariamente comprendono anche la cura della casa di tutti. «Da questo punto di vista - ha continuato quindi il Papa con un indirizzo valido non solo per il Mozambico - questa è una nazione benedetta, e voi in modo speciale siete invitati a prendervi cura di questa benedizione».
E ha aggiunto poi quanto aveva già espresso in altre latitudini all’inizio del 2018, in Perù, dando di fatto inizio al prossimo Sinodo sull’Amazzonia: «La difesa della terra è anche la difesa della vita, che richiede speciale attenzione quando si constata una tendenza a saccheggiare e depredare, spinta da una bramosia di accumulare che, in genere, non è neppure coltivata da persone che abitano queste terre, né viene motivata dal bene comune del vostro popolo». Dal Papa dunque arriva ancora una volta l’appello a una cultura di pace che implichi uno sviluppo produttivo, sostenibile e inclusivo «in cui ognuno possa sentire che questo Paese è suo, e in cui possa stabilire rapporti di fraternità ed equità con il proprio vicino e con tutto ciò che lo circonda». Del resto la visita apostolica in Mozambico, Madagascar e Mauritius si svolge, come la precedente in Kenya, Uganda e Repubblica Centrafricana, nel solco della Populorum progressio di san Paolo VI, per la quale lo sviluppo di una nazione non si riduce alla semplice crescita economica.
Perché per essere autentico lo sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire «volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo». Enciclica oggi più profetica che mai, quella firmata da papa Montini nel 1967. Nella convinzione, sulla scia della Laudato si’, che l’edificazione di un ordine sociale giusto ed equo è strettamente legata a un rinnovato rapporto con l’ambiente, che esige cambiamenti strutturali e personali rispetto a quel paradigma imperante di sviluppo votato al dio denaro che produce scarti e trasforma il mondo in una discarica. In questi Paesi dell’Africa australe la crescita economica è stata evidentemente ostacolata dalla corruzione e dallo sfruttamento rapace delle risorse naturali.
A ciò si aggiunga la piaga dell’esclusione sociale, che penalizza fortemente i ceti meno abbienti. Ma c’è da rilevare che il Mozambico, uscito da una lunga guerra civile, è - come gli altri del continente - un Paese giovanissimo: oltre il 60% della popolazione ha meno di 25 anni e per questo guarda al futuro con speranza, non foss’altro perché le giovani generazioni sono quelle che invocano l’agognato cambiamento all’insegna della concordia e del bene condiviso. Il Papa perciò è attento a segnalare e promuovere tutti quei segni di speranza che pure ci sono, quegli sforzi che si stanno compiendo per la risoluzione dei conflitti, per uno sviluppo sostenibile, per il rispetto e la cura del Creato.
«Per usare un’espressione di san Paolo VI - ha fatto notare il segretario di Stato Pietro Parolin alla vigilia del viaggio -, si può dire che l’Africa è come un laboratorio di sviluppo integrale». Sottolineare proprio questa dimensione di speranza e di sguardo nuovo verso il futuro, a partire dai tanti segni positivi che ci sono all’interno del continente, ribalta così anche l’immagine oscura e reietta che tuttora resiste dell’Africa. Guardandola nelle sue possibilità, nelle sue potenzialità di sviluppo integrale che anche noi dobbiamo ancora realizzare
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SINODO per l’Amazzonia (in Vaticano, dal 6 al 27 ottobre 2019). Il tema è «Amazzonia: nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale»
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
Quando la Chiesa amava tutti gli uomini esclusi gli africani
Il libro di un prete nigeriano svela il ruolo dei papi nella pratica dello schiavismo fino al 1839
di Rita Monaldi Francesco Sorti (La Stampa, 12.11.17
I papi hanno abusato della Bibbia per lucrare sul traffico di schiavi». Queste parole non vengono da qualche autore di thriller trash a base di scandali vaticani, ma da uno storico serio che sul tema vanta una doppia legittimazione. È nigeriano (quindi partie en cause) e soprattutto è un prete cattolico. Si chiama Pius Adiele Onyemechi ed esercita da 20 anni il suo ministero in Germania, nella regione del Baden-Württemberg.
La sua innovativa indagine The Popes, the Catholic Church and the Transatlantic Enslavement of Black Africans 1418-1839 (pp. XVI/590., €98 Olms, 2017), che tra gli storici già suscita discussioni, capovolge il vecchio dogma secondo cui il Papato è stato sostanzialmente estraneo alla più grande strage di tutti i tempi: la tratta degli schiavi. Una tragedia secolare che - come ricorda il grande scrittore danese Thorkild Hansen nella sua classica trilogia sullo schiavismo - ha seminato oltre 80 milioni di morti.
Una sorpresa
Proprio in questi mesi la prestigiosa Accademia delle Scienze di Magonza ha concluso un colossale progetto di ricerca sulla storia della schiavitù durato ben 65 anni, con la collaborazione di studiosi di primo piano come il sociologo di Harvard Orlando Patterson (egli stesso discendente di schiavi) e lo storico dell’antichità Winfried Schmitz. Quasi a suggello è arrivato il libro di don Onyemechi: una radiografia minuziosa del ruolo dei papi nel commercio di schiavi in Africa dal XV al XIX secolo, l’epoca dorata del business schiavistico.
Per la prima volta a suon di date, fatti e nomi don Onyemechi punta il dito su responsabilità morali e materiali, avviando un regolamento di conti col passato proprio nel momento in cui la Chiesa di Roma, nella sua tradizione secolare di sostegno ai più deboli, chiama alla solidarietà verso i migranti. Come riassume l’autore, i risultati «fortemente sorprendenti» venuti alla luce «affondano un dito nelle ferite di questo capitolo oscuro della Storia, e nella vita della Chiesa cattolica».
«La Chiesa», spiega il religioso, «ha abusato del passo biblico contenuto nel capitolo 9 della Genesi», in cui si afferma che tutti i popoli della terra discendono dai figli di Noè: Sem, Cam e Iafet. Dopo il diluvio, Cam rivelò ai fratelli di aver visto il padre giacere ubriaco e nudo. Noè maledisse Cam insieme a tutti i suoi discendenti, condannandoli a diventare servi di Sem e Iafet. La Chiesa allora affermò che gli africani sarebbero i discendenti di Cam. Pio IX, ancora nel 1873, inviterà tutti i credenti a pregare affinché sia scongiurata la maledizione di Noè pendente sull’Africa.
Documenti scomparsi
Nel nostro romanzo Imprimatur abbiamo reso noto il caso di Innocenzo XI Odescalchi (1676-1689), che possedeva schiavi, era in affari con mercanti negrieri e vessava i forzati in catene sulle galere pontificie. I documenti che lo provano, pubblicati nel 1887, sono poi misteriosamente scomparsi. Certo, nel Seicento i moderni diritti umani erano di là da venire, ma poi papa Odescalchi è stato beatificato nel 1956, e in predicato per la canonizzazione nel 2002.
Di simili contraddizioni don Onyemechi ne ha scovate a migliaia. Il commercio di schiavi in origine toccava Cina, Russia, Armenia e Persia; mercati internazionali si tenevano a Marsiglia, Pisa, Venezia, Genova, Verdun e Barcellona. Col tempo queste rotte sono tutte scomparse, tranne quelle africane. Come mai? Sarebbe stata la Chiesa a giocare il ruolo decisivo, raccomandando a sovrani e imperatori di «preferire» schiavi africani. Lo fecero vescovi e perfino Papi come Paolo V.
La giustificazione veniva non solo dalla Bibbia ma anche da Aristotele, per il quale alcuni popoli erano semplicemente «schiavi per natura». Una visione poi ripresa da San Tommaso e dall’influente facoltà teologica di Salamanca nel XV e XVI secolo. Padri della Chiesa come Basilio di Cesarea, Sant’Ambrogio, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo e lo stesso Sant’Agostino invece giustificavano la schiavitù come frutto del peccato originale.
Il Portogallo
A metà del XV secolo il portoghese Niccolò V concesse al suo Paese di origine il diritto di evangelizzare, conquistare e deportare «in schiavitù perenne» gli africani, bollati come nemici della Cristianità insieme ai saraceni (che in verità erano ben più pericolosi e martoriavano, loro sì, i regni cristiani). I successori Callisto III, Sisto IV, Leone X e Alessandro VI non fecero altro che confermare e ampliare i diritti concessi al Portogallo. Altri Pontefici (Paolo III, Gregorio XIV, Urbano VIII, Benedetto XIV) nelle loro Bolle ufficiali si schierarono contro la schiavitù degli Indiani d’America, ma non contro quella degli africani.
Dallo schiavismo la Chiesa ha avuto un concreto ritorno economico. Attivissimi i missionari portoghesi e soprattutto i gesuiti, che compravano gli schiavi per impiegarli nelle loro piantagioni in Brasile e nel Maryland. Oppure li rivendevano con la loro nave negriera «privata», che trasportava la merce umana da Congo, Luanda e São Tomé verso il Brasile.
Don Onyemechi cita il contratto con cui nel 1838 il Provinciale dei Gesuiti del Maryland, Thomas Mulledy, vendette 272 schiavi africani. Prezzo: 115.000 dollari al «pezzo». L’evangelizzazione consisteva per lo più nel battezzare in fretta e furia gli schiavi prima di imbarcarli. Anzi, tutto il meccanismo faceva sì che essi venissero tenuti ben lontani dalla parola di Cristo. I profitti venivano reinvestiti in nuove campagne di aggressione e deportazione.
Riconoscimento tardivo
«Solo nel 1839 la Chiesa ha riconosciuto gli africani come esseri umani al pari di tutti gli altri», ricorda lo storico di origine nigeriana. Lo sancì una Bolla di Gregorio XVI, in verità piuttosto tardiva: i commerci di schiavi erano stati già aboliti da quasi tutti gli Stati tra 1807 e 1818 e gli Inglesi ne avevano preso le distanze sin dalla fine del Settecento.
Don Onyemechi ha lavorato su fonti originali nell’Archivio Segreto Vaticano e negli archivi di Lisbona (per decifrare i manoscritti lusitani ha imparato da zero il portoghese) e ha dato un contributo duraturo (realizzato con routine teutonica ogni giorno dalle 3 alle 8 del mattino) alla ricerca della verità storica. A Roma non dovrebbe riuscire sgradito, vista l’attenzione di papa Francesco - anche lui gesuita - per i popoli d’Africa.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ABRAHAM LINCOLN E GLI STATI UNITI DI AMERICA, OGGI: LA LEZIONE DI STEVEN SPIELBERG.
UBUNTU: "Le persone diventano persone grazie ad altre persone".
"CHI" SIAMO: LA LEZIONE DEL PRESIDENTE MANDELA, AL SUDAFRICA E AL MONDO.
L’Oriente prima della Grecia
I nostri padri? Egizi e semiti
Il primato ellenico viene «costruito» solo a metà Settecento
di Pierluigi Panza (Corriere della Sera, 12.10.2011)
Nel 1987 lo studioso Martin Bernal pubblicò un libro controverso intitolato Black Athena: Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica. Sviluppava due temi: il primo riguarda lo studio dei prelievi culturali dei greci dalle civiltà egiziana e fenicia; il secondo, al quale qui accenniamo (e potrà essere approfondito sui volumi della collana), la costruzione culturale di una Grecia «ariana» come luogo d’origine della civiltà occidentale avvenuta in Europa nella seconda metà del Settecento. A parte l’«afrocentrismo» di Bernal - già criticato da Mary Lefkowitz - resta indubbio che, sino ad allora, i padri delle civiltà e della «prisca sapienza» erano ritenuti gli egiziani e i semiti. Entrambi potevano vantare le più antiche tradizioni culturali e religiose, monumenti identitari diventati archetipi (le piramidi e il tempio di Salomone) e le lingue più vicine agli dei o a Dio: i geroglifici e la lingua ebraica.
Semplificando, dal tardo Umanesimo sino a metà Settecento - quando iniziano le spedizioni degli eruditi a Levante - le grandi tradizioni culturali che si sviluppano nell’Europa colta sono fondate o legate a queste due civiltà. L’esempio più noto è quello fornito da Marsilio Ficino alla corte medicea che interrompe la traduzione di Platone per passare a quelle del Pimander e dell’Asclepius, i testi ermetici (sono compilazioni greche, ma allora ritenute dell’egiziano Ermete Trismegisto) portati in Europa dai sapienti in fuga da Bisanzio conquistata dall’islam. Tra il 1471 e il 1641 si contano 25 edizioni della traduzione ficiniana del 1463.
La pubblicazione della Hieroglyphica di Orapollo nel 1505, e l’analogo testo del Valeriano in 58 libri del 1556, rappresentano i vertici degli indefessi studi dedicati dagli eruditi alla decifrazione della lingua sacra, i geroglifici. Del resto nessuno dubita che gli egizi siano anche gli inventori delle future Belle arti: «Li Egiptii - scrive Leon Battista Alberti nel De re edificatoria - affermano bene anni seimila essere la pittura stata in uso prima che fusse traslata in Grecia».
Ovviamente anche le più magnificenti costruzioni dell’antichità sono in Egitto o nel bacino semitico. Basti pensare alla straordinaria fioritura di libri sulle cosiddette sette meraviglie del mondo tra il Cinque e il Seicento: la maggior parte degli autori che tentano di fissarne il canone le stabilisce a Levante. Sono piramidi, giardini pensili di Babilonia, Tempio di Salomone, Colosso di Rodi... Quando le si individua in Morea, queste fanno spesso riferimento a un’età anteriore a quella della Grecia classica. Le piramidi, poi, danno vita allo sviluppo di una vera e propria disciplina, la piramidografia, tesa a studiare le «esatte dimensioni» di queste architetture misteriose e sacre. Burattini e Graves ritennero di essere riusciti a misurare la grande piramide.
Ma non sono solo le piramidi a interessare gli eruditi, anche il tempio di Salomone. Due gesuiti, Prado e Villalpando, tra il 1596 e il 1604 ne tentano una ricostruzione geometrica sulla base del Libro di Ezechiele. E il tempio di Salomone, come l’Arca dell’Alleanza e quella di Noè diventano gli archetipi di una nuova tradizione artistica, quella salomonica, di cui la costruzione dell’Escorial è il vertice. Tradizione che trova il suo corrispettivo nella Storia naturale nella cosiddetta teoria mosaica dello sviluppo della terra (alla quale l’epistemologo Paolo Rossi ha dedicato insigni studi).
Non c’è Wunderkammer nel Sei-Settecento che non ambisca ad esporre rarità di naturalia o artificialia provenienti dall’Oriente o dall’Africa, dai coccodrilli del Nilo ai coralli, dai corni di rinoceronte ai mattoni della torre o delle mura di Babele. Li esibisce il più grande erudito dei Seicento, il gesuita Athanasius Kircher nel suo museo al collegio romano, tra decine di obelischi in legno, modellini di quelli che, negli stessi secoli, venivano innalzati a Roma. Uno anche in piazza San Pietro dall’architetto Domenico Fontana: un’impresa talmente eroica da scriverne un libro nel 1590.
Tutto questo cambiò dalla metà del Settecento sulla base di molteplici spinte, da quelle accademiche (nei paesi tedeschi) a quelle politiche a quelle nate sulla spinta delle prime misurazioni dei monumenti greci di Stuart e Revett nel 1764, anno in cui Winckelmann pubblicò la bibbia della rinascita greca nell’arte, la Geschichte, ovvero la Storia dell’arte nell’antichità. La Francia colta, da monsignor Mariette sino agli accademici Beaux arts, contribuirà alla costruzione del mito greco mandando in soffitta i grandi repertori sulle antichità di Caylus e Montfauçon, troppo aderenti all’antico modello.
La sconfitta di Napoleone in Egitto - nonostante il colossale sforzo documentativo della Description de l’Egypte - contribuirà ulteriormente allo spostamento d’interesse. La «liberazione» della Grecia dal giogo turco favorirà la costruzione di una idea diversa del Levante, che diventerà, per gli orientalisti europei, il luogo dell’esotico, del pittoresco e del mistero. Mentre la Grecia liberata dagli ellenisti europei, come Byron, la culla della nostra civiltà.
Un corpo di spedizione francese, in accordo con le altre due potenze (Inghilterra e Russia), invierà nell’agosto del 1828 una spedizione di studiosi, guidata da Bory de Saint-Vincent, per documentare tutte le caratteristiche della Grecia (Expédition scientifique de Morée, Parigi, 1831-1835, tre volumi). Abel Blout, che ne cura la parte relativa ai monumenti, si esalta nel «portare la civiltà» in Grecia, scrive, «patria» di quell’Europa rinnovata dalla rivoluzione del 1789. Il suo era un ideale di libertà da «esportare», nato con i libri di Volnay ed elaborato dall’ambasciatore Forbin. E vivo ancora oggi! Basta sostituire la parola libertà con democrazia.
Martin Bernal, una scossa al mito del «miracolo greco»
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 02.07.2013)
In una celebre scena del film The Train (1964) l’ufficiale nazista (Paul Scofield), proteso a portarsi via opere d’arte francesi, mentre la Wehrmacht è in rotta precipitosa, si rivolge al ferroviere francese Labiche (Burt Lancaster), abilissimo nel sabotaggio, e gli ingiunge: «Allarga i tuoi orizzonti, Labiche!». Allargare gli orizzonti molto spesso non piace: soprattutto quando sussiste una forte tradizione che è difesa da studiosi non inclini a modificare le loro categorie mentali, ed è sorretta dal «senso comune» e dalle conseguenti, robustissime, vulgate.
È il caso delle reazioni all’importante libro di Martin Bernal, Black Athena (Londra, 1987), tradotto opportunamente da Pratiche Editrice (Parma) nel 1991. Bernal ebbe il merito di dire con chiarezza e sorreggere con seria documentazione quello che alla cultura antica, da Erodoto a Diodoro Siculo, era ben noto: che cioè il cosiddetto «miracolo greco», lungi dall’essere un «miracolo», era in realtà un rilevante e originale tassello di un grande flusso di civiltà, sorto in Oriente e fervidamente operante sin dal III millennio in aree cruciali del mondo antico quali la Mesopotamia e l’Egitto.
Nel secondo libro delle Storie, Erodoto spiega distesamente la dipendenza del pantheon ellenico da quello egizio, e chiama in causa i semi-mitici Pelasgi come punto di partenza e intermediari di grandi fenomeni di trasmigrazione culturale. E ricorda anche l’imbarazzo del greco Ecateo di fronte all’antichissima realtà statale-religiosa dell’Egitto. Diodoro di Sicilia è molto più dettagliato e forse anche più divertente. Né si dimenticheranno il Crizia ed il Timeo di Platone. Attraverso la celebre metafora del «viaggio in Egitto» del legislatore ateniese Solone, Platone getta un ponte tra i Greci «fanciulli» ed il loro antefatto culturale: lì sono gli «antichissimi Egizi» ad aiutare i Greci a riscoprire un loro passato remoto e sepolto.
Come ogni «miracolo», anche il «miracolo» greco era una invenzione. Era una invenzione della cultura «ariana» sviluppatasi nell’Europa moderna del tardo XVIII secolo e affermatasi in modo sempre più fastidioso - e alla fine minaccioso - nei due secoli seguenti.
Quando apparve in italiano il bel libro di Bernal, un coltissimo outsider quale fu Beniamino Placido ne scrisse nella rivista «Quaderni di storia» (1992). E osservò efficacemente - andando al cuore del libro di Bernal - che il «modello ariano» è stato messo a punto nel momento in cui l’Europa bianca si preparava a colonizzare l’Africa nera. «E l’America anglosassone si preparava a dire "fatti più in là", con le buone o con le cattive, ai suoi indigeni dalla pelle rossa. Faceva comodo pensare che noi - noi bianchi, noi greci - siamo radicalmente diversi e definitivamente migliori».
Bernal (1937-2013), nato a Londra, aveva conseguito all’Università di Pechino nel 1960 un diploma di lingua cinese. A Cambridge, nel 1966, un PhD in «Oriental Studies». Poi era passato negli Stati Uniti alla Cornell University. Suo nonno era stato un notevole egittologo. Quando il suo libro fece scandalo e lo si tacciò di essere anti-europeo, replicò: «My enemy is not Europe, it’s purity»!
Cardinale Turckson: "Un papa nero? Dopo Obama perche no"
Il relatore ghanese a proposito dell’Aids: "Sì al condom se nella coppia c’è contagio"
Ansa, 05 ottobre, 15:53
CITTA’ DEL VATICANO - La Chiesa cattolica è senz’altro pronta ad accogliere, in futuro, un papa nero: lo ha detto il relatore generale al Secondo sinodo speciale dei vescovi per l’Africa, il cardinale ghanese Peter Kodwo Appiah Turckson, in una conferenza stampa. Rispondendo alla domanda di un giornalista, il card.Appiah ha osservato che "in fondo questa è un’esperienza già fatta in politica, con l’elezione di Obama, e potrebbe essere fatta anche dalla Chiesa cattolica, che è universale e rappresenta tutti i continenti. Perciò - ha aggiunto - non credo che si possa escludere questa possibilità, né che manchino africani all’altezza di questo ruolo". Possibilità ci sono - ha ribadito - anche se "magari dovremmo discuterne con il Papa". Comunque "non sconvolgerebbe nessuno. Abbiamo tutti una stessa origine, radici comuni, parliamo tanto di comunione, e giustizia dovrebbe dirci che possiamo guardare a questa possibilità. Non dobbiamo per questo sentirci minacciati nella nostra fede: questa - ha concluso - è una delle sfide del Vangelo: respingere i condizionamenti e i pregiudizi del passato".
L’utilizzo del preservativo (all’interno di una coppia nella quale uno dei due coniugi è contagiato dall’Hiv), insieme alla fedeltà di coppia, sono le raccomandazioni del relatore al Secondo sinodo dei vescovi per l’Africa e primate del Ghana, Peter Kodwo Appiah Turckson, per contrastare la diffusione dell’Aids in Africa. Lo ha affermato nel corso di una conferenza stampa per illustrare i contenuti della sua relazione, rispondendo alla domanda di un giornalista.
IL PAPA CHE RIDE, L’AFRICA CHE SOFFRE E LA LEZIONE DI SUOR EMMANUELLE A GIOVANNI PAOLO II.
«Razionalizzare la fede»
La vera posta in gioco
Al Sinodo sull’Africa un mini concilio
di Benedetto Ippolito (il Riformista, 07.10.2009)
Nel continente in trent’anni i cristiani sono passati da 55 a 146 milioni. Dal 1994 al 2008 sono stati uccisi 521 missionari. I 244 padri sinodali, i 29 esperti e i 49 uditori si interrogheranno soprattutto su cultura, famiglia e infanzia. Spiega padre Massimo Cenci, sottosegretario della congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, che la novità emersa dopo la decolonizzazione è che non esiste un’ostilità della cultura popolare al cristianesimo, anzi. La sfida, come dice il Papa, è liberare l’istintiva religiosità naturale dall’irrazionalità.
Si è aperta, all’inizio di questa settimana, la seconda assemblea straordinaria del Sinodo dei vescovi per l’Africa. Si tratta di un evento eccezionale nella vita della Chiesa che durerà per quasi tutto il mese di ottobre. L’assise terminerà il giorno 25, dopo ben tre settimane intense di lavori. L’arcivescovo Nikola Eterovic, segretario generale del Sinodo dei vescovi, qualche giorno fa ha spiegato, in un briefing tenuto presso la Santa Sede, che all’origine di questo secondo storico appuntamento ecclesiale vi è la rilevante espansione che la fede cristiana sta avendo, recentemente e con intensità, in tutto il continente. «Malgrado più di 521 missionari siano stati uccisi solo dal 1994 al 2008 - ha osservato il prelato - il processo di evangelizzazione è stato assolutamente straordinario, triplicando il numero dei cristiani, in poco più di trent’anni, dai 55 milioni del 1978 ai 146 milioni del 2007». Al centro degli obiettivi vi è, quindi, un’analisi e un confronto delle diverse dinamiche di questa vigorosa evangelizzazione, in paragone a quanto accade nel resto del mondo. I partecipanti sono 244 padri sinodali, quasi tutti vescovi, di cui ben 197 sono provenienti direttamente dall’Africa, mentre 47 da altri continenti. A essi si sono aggiunti, poi, 29 esperti e 49 uditori, tra uomini e donne, che assisteranno all’intero dibattito.
Si tratta di un mini concilio, il cui significato è stato spiegato con grande efficacia da Benedetto XVI domenica scorsa, durante la Messa di apertura dell’Assemblea. Il Papa ha rimarcato il peculiare ruolo di «polmone spirituale» che l’Africa rappresenta «per un’umanità in crisi di fede e di speranza». La forza straordinaria della mentalità africana è di essere, con la sua prorompente spiritualità popolare, una costante provocazione per il materialismo pratico occidentale, sopraffatto da un pensiero relativista, edonista e nichilista.
Le linee programmatiche dei lavori, tracciate dal Pontefice, sono state riprese lunedì scorso, nell’aula del Sinodo, dal cardinale Francis Arinze, prefetto emerito della congregazione del Culto divino. Egli ha ricordato le profonde novità presenti nell’ordine del giorno dell’attuale assemblea rispetto alla precedente, svoltasi nel 1994 sotto la guida di Giovanni Paolo II. Non solo, in effetti, il ruolo della Chiesa è profondamente cambiato in questo lasso di tempo, ma l’Africa stessa costituisce oggi una chiave di volta per lo sviluppo di tutto il mondo globalizzato, non solo a causa dei suoi drammi, ma anche e soprattutto per le sue immense potenzialità umane.
L’assemblea concentrerà i suoi sforzi principalmente sui tre principali aspetti dello sviluppo dell’Africa: la cultura, la famiglia e l’infanzia.
Padre Massimo Cenci, sottosegretario della congregazione per l’Evangelizzazione dei popoli, ha chiarito che «queste tre aspettative della società africana sono affiorate massimamente dopo la fine della colonizzazione, quando cioè i diversi popoli africani hanno conquistato una loro lenta e progressiva autonomia dall’Occidente». La grande novità è stata la scoperta, fatta soprattutto dai religiosi e i missionari, che non esisteva una reale opposizione della cultura popolare al cristianesimo. Men che meno, ostilità. La popolazione africana, con la propria affascinante semplicità, possiede, infatti, un’istintiva «fede in Dio creatore», che rivela una diffusissima e sbalorditiva anima religiosa di base.
D’altra parte, il risveglio della spiritualità è un fenomeno umano e sociale che si palesa di continuo un po’ ovunque a sud del Mediterraneo. In Senegal, ad esempio, «la Chiesa nazionale, che per decenni è stata teatro di missioni, è divenuta ormai da anni a sua volta missionaria, capace cioè di dare quanto ha ricevuto agli altri, espandendo la fede cristiana altrove, sia per mezzo delle tante vocazioni sacerdotali e sia mediante l’emigrazione delle persone dappertutto».
Si è consolidata una forma di «fede popolare istintiva», la quale purtroppo non riesce sempre a liberarsi con facilità dall’irrazionalità delle credenze superstiziose e delle ritualità magiche. Di qui lo sforzo, più volte ricordato da Benedetto XVI, di un efficace e perseverante impegno per «razionalizzare la fede», cercando di far emergere una riflessività culturale molto spesso sommersa e sopita dalla mancanza di istruzione e formazione.
Particolarmente indicativa, in questo senso, è la situazione del Ghana. Un collaboratore di padre Cenci, nativo dello Stato centrafricano, ha illustrato la particolare importanza che ha la famiglia monogamica per la stabilità della società. La maggior parte della comunità nazionale ha trovato nella famiglia di Nazaret un modello etico ideale, benché i cristiani non superino il 7 per cento della popolazione. Anche i musulmani, per ragioni culturali, privilegiano quasi esclusivamente relazioni esclusive uomo-donna, tendendo a non separarsi e a non risposarsi, benché possano farlo. Questa stabilità sentimentale ha garantito così una facile diffusione del cristianesimo, che è percepito come una sorta di morale naturale, ancorata al buon senso e alla pratica ordinaria delle virtù.
Un grande problema al centro degli interessi dei vescovi africani è, però, certamente la corruzione politica. Un Paese come il Congo, ad esempio, pur avendo una situazione sociale di partenza analoga alla precedente, è dissanguato da una politica antidemocratica, fortemente influenzata da interessi economici occidentali. Il conflitto dell’Ituri, ancora in corso e nato a seguito della guerra civile, ha prodotto un tragico genocidio negli anni dal 1999 al 2007, con lotte tribali fomentate dagli interessi economici delle grandi multinazionali, di cui il Governo locale si è reso complice ed esecutore militare.
Uno degli obiettivi capitali che si propone questa assemblea straordinaria, prima ancora dell’emergenza educativa e del consolidamento democratico, è l’emergenza della fame e delle epidemie. Nel primo caso, la maggioranza dei Paesi africani non può godere dell’uso di strumenti tecnologici adeguati, finendo per non consumare se non in rari casi e non vedere quasi mai distribuite tra i cittadini neanche le risorse alimentari necessarie alla sopravvivenza dei bambini. Nel secondo caso, la cura delle malattie mortali manca completamente di risorse indispensabili per fronteggiarne l’espansione. In questo frangente, le ricette occidentali, incluso l’invio di profilattici, mostrano tutta la loro debolezza e miopia. Non soltanto affezioni banali come la malaria seminano molti più morti dell’Aids, ma la vera soluzione al flagello è costituita dal rafforzamento della morale familiare, sentita da tutti come una risorsa indispensabile per la sopravvivenza. Non a caso, le parole del Papa contro l’uso dei profilattici, durante il suo recente viaggio in Africa, hanno trovato approvazione unanime dell’opinione pubblica africana, compresi i capi musulmani; mentre hanno avuto una disapprovazione da parte del Belgio, che è tra i massimi produttori di anticoncezionali nel mondo.
Una convinzione ultima, in definitiva, è particolarmente popolare nel continente, ossia che la «Chiesa vuole il bene dell’Africa». Se non altro per ciò, più di un miliardo di persone dimenticate da tutti guarderanno con speranza a questo importante ottobre ecclesiale romano che li farà essere protagonisti del mondo, almeno per una volta.