Basilica del Carmine:spaghetti sull’altare
Il cardinale Sepe: «È una dissacrazione»
Da diciotto giorni 348 senzatetto di Melito bivaccano all’interno della storica basilica napoletana. Nessun contatto tra loro e i frati
di Stefano Piedimonte *
NAPOLI - Dal 4 aprile ad oggi, hanno avuto modo di organizzarsi. Cucinano gli spaghetti col pomodoro sull’altare della chiesa, stendono i panni ad asciugare sulla cancellata all’ingresso, i più fortunati dormono nelle cappelle laterali, piccoli giacigli dove la cassetta per le offerte pare quasi una buca per le lettere. Ormai è da diciotto giorni che gli sfrattati di Melito sono accampati nella Basilica del Carmine, e quello che all’inizio appariva come il gesto improvvisato di 348 disperati senza tetto, assume sempre più il carattere preoccupante della permanenza: ogni cappella accoglie una famiglia, quelle che restano si sono sistemate nei locali alle spalle dell’altare.
I frati carmelitani hanno battuto in ritirata, in tutta la basilica non se ne vede uno. «Stanno chiusi là dentro - spiega l’energica portavoce del gruppo, Adele Castiello, indicando una porta sbarrata -. Li vedi uscire solo verso le due o le tre di notte». Una situazione insostenibile, che ha spinto anche il cardinale Crescenzio Sepe ad intervenire dopo venti giorni di silenzio: «Occupare una chiesa è sempre una dissacrazione - dice l’arcivescovo -. Spero che entro questa settimana possa riprendere l’attività pastorale al Carmine, una delle chiese più importanti della città. Il Comune ha dato disponibilità ad allestire per mercoledì o giovedì le case destinate ai senza tetto di Napoli».
Per gli altri, residenti nei comuni di Arzano, Giugliano, Afragola, Melito, Qualiano, Aversa e via dicendo, il problema resta, anche se secondo il cardinale «l’incontro tra il prefetto e i rispettivi sindaci consentirà di trovare una soluzione anche per loro». C’è da sperare che sia effettivamente così. La basilica, altrimenti, resta occupata. Nell’edificio di via Stadera 122 dovrebbe essere ospitata una parte degli occupanti, i quali, però, dicono che di sbaraccare non se ne parla neanche, a meno che non si trovi una soluzione abitativa per tutti i 348 senza tetto. «Siamo venuti tutti insieme e ce ne andiamo tutti insieme - dice la portavoce -. Non se ne parla proprio di lasciare qui i nostri amici e andare via. Inoltre nel palazzo di via Stadera ci entrano una dozzina di famiglie, mentre qui ce ne sono 60 di soli residenti a Napoli». Domanda legittima, dunque, quella che si pone il capogruppo provinciale di An, Luigi Rispoli: «Che cosa succederà se, pure in presenza della disponibilità della struttura comunale, gli occupanti si rifiuteranno di lasciare la chiesa fino al reperimento di una sistemazione per tutte le famiglie?».
L’assessore alle Politiche sociali del Comune di Napoli, Giulio Riccio, dice di trovarsi «d’accordo col cardinale per quanto riguarda la necessità di riprendere le attività pastorali, ma il problema di 130 famiglie sfrattate vada preso seriamente, e non scaricando sull’amministrazione comunale tutte le responsabilità: noi abbiamo dato agli occupanti una risposta, se non viene accettata cosa dobbiamo fare, ledere i diritti dei legittimi assegnatari per le case popolari?». Di simile avviso l’assessore all’Edilizia, Felice Laudadio: «La casa è un diritto per tutti, ma ci sono delle graduatorie, e chi ne è restato fuori non può sopravanzare». Stamattina i sindaci dei diciotto comuni coinvolti si riuniranno in prefettura, per discutere col prefetto Alessandro Pansa delle soluzioni possibili e delle disponibilità immobiliari di ognuno. «Il prefetto dovrebbe sbloccare l’utilizzo delle caserme abbandonate - conclude Riccio - Nel Napoletano ce n’è una completamente vuota, che offrirebbe una sistemazione dignitosa agli sfrattati». Intanto l’acqua bolle, e l’odore di pomodoro fresco arriva fino all’abside maggiore. I bimbi fanno il girotondo: ce ne sono 115, e la scuola ormai è un lontano ricordo.
Stefano Piedimonte
* Corriere della Sera, 22 aprile 2008
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ALLARME: "CAMORRA"!!!, "MAMMASANTISSIMA"!!! CAMBIARE ROTTA!!! PER L’ITALIA, PER NAPOLI....
LA VERITA’ NON E’ NEGOZIABILE...
MEMORIA DI ELIA E DEI CARMELITANI A CONTURSI TERME:
A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE .....
RINASCIMENTO ITALIANO: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Ancora cercare il tuo volto
di Angelo Casati (Il Gallo, settembre 2011)
Mi seducono, lo confesso, immagini e simboli. E sogno, tu lo sai, una chiesa che non si scosti molto da Gesú. Dalla sua arte sorprendente di parlare per immagini e simboli.
Tra le immagini a seduzione oggi vorrei evocare la caverna. Precisamente la caverna del monte di Dio, l’Oreb, in cui entrò per passarvi la notte il profeta Elia. Elia arriva al monte Oreb. Il suo non è, come uno potrebbe immaginare, un pellegrinaggio di tutto riposo. Arriva, Elia. dopo aver scannato quattrocentocinquanta profeti di Baal nelle acque del torrente Kison. Così gli sembrò si dovessero difendere i diritti di Dio. Con questo zelo. Succede! Succede anche oggi.
«Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti» risponderà al Signore che gli chiedeva «Che fai qui Elia? Che fai qui, nella caverna?».
La caverna, fin dall’antichità, è sempre stata un simbolo. Un simbolo di avvistamento del mistero e, insieme, di distanza dal mistero. Avvistamento e nascondimento: Dio c’è, e ci sono luci e ci sono ombre nella caverna.
Ed Elia prende coscienza che Dio è distante. Distante dal suo modo di immaginarlo, lontano dallo zelo, che gli aveva fatto scannare quattrocentocinquanta profeti. Pensando di onorare cosí Dio! Dio non era, come lo aveva immaginato, nei segni della potenza: non era nell’uragano, non era nel terremoto. Era -la nostra traduzione dice «nel mormorio di una brezza leggera», o meglio, come dice il testo ebraico, era «nel suono di un silenzio sottile»- il suono... del silenzio. Pensava, Elia, di trovare sul monte la conferma a una fede dal volto agguerrito. Trova un Dio che fa tacere la rabbia, l’intransigenza, l’uragano del suo cuore. È un Dio che mette silenzio, il Dio del silenzio sottile.
È un Dio che è presente non nella forza delle armi, ma nella forza mite della fede, nella forza mite della ragione. Non nella forza degli urli. Altro è lo stile di Dio.
L’immagine della caverna sul monte, terra di avvistamento, ma anche terra di piccolezza e di ombra, ha sostato a lungo nei miei pensieri in questi mesi, quasi a fugare un certo disagio patito per le molte parole proclamate da una parte e dall’altra, a proposito e a sproposito di relativismo.
C’è, e non vogliamo negarlo, un relativismo rozzo e spento, quello superficiale di coloro per i quali una cosa vale l’altra. Né vale la pena di consumare cuore e fatica nell’assurda ricerca. Quasi non esistesse luce da cui lasciarsi guidare, né preghiera che ce l’avvicini. La caverna è vuota. Ma c’è anche un relativismo cristiano. Cosí lo chiamò il cardinale Martini nell’omelia del suo venticinquesimo di episcopato nel Duomo di Milano. È il relativismo, oserei dire, della caverna. Da cui intravedi luci e rimani sedotto, affascinato. Ma mai e poi mai ti azzarderesti a dire che la caverna possiede l’intera luce dell’orizzonte. C’è il miracolo della luce, ma è quella che può filtrare da uno squarcio del monte, quasi figura di una finestra in attesa.
Sarebbe una grazia, io penso, se fossimo tutti piú consapevoli che il nostro è e sarà sempre un balbettare. Di Dio e degli umani. Se fossimo interiormente persuasi che la verità è anche Altro, è anche oltre e che Dio non può stare solo nelle nostre parole, è anche in altre parole, che Dio non può stare solo nel nostro colore, è anche in altri colori.
In un midrash della letteratura rabbinica si narra di alcuni rabbini che un giorno si misero a disputare accesamente su un punto della legge. Rabbi Eliezer produsse argomenti possibili per dimostrare il suo punto di vista. Ma gli altri rabbini non si lasciavano convincere dagli argomenti di Rabbi Eliezer. Alla fine una voce celeste sembrò confermare il pensiero di Rabbi Eliezer. Ma Rabbi Joshua súbito esclamò: «Non è in cielo!». «Che cosa significa questa citazione delDeuteronomio "non è in cielo"?». Rabbi Jirmijah spiegò: «La Torah fu rivelata sul monte Sinai. Perciò non occorre che continuiamo a occuparci di voci celesti: la Torah del Sinai contiene già il principio che è decisivo, il voto di maggioranza».
Il midrash sulla accesa disputa si conclude raccontando che quel giorno Rabbi Nathan incontrò il profeta Elia. E gli domandò: «Che cosa ha fatto Dio in quel momento?». Il profeta rispose: «Dio ha sorriso e ha detto: "I miei figli mi hanno superato!"». Incantamento e povertà delle parole
Che il Dio della Bibbia abbia il volto del Dio che sorride per i figli che mettono in campo tutta la loro arte di interrogare e di interrogarsi, e non per i figli che sonnecchiano pigri accettando tutto passivamente, è una buona notizia. È notizia di un Dio che onora ed è onorato dall’intelligenza, un’intelligenza che è incantamento davanti al mistero, che è la gioia di dire un nome e súbito percepirlo relativo, segnato da una povera misura e súbito ricorrere a un altro nome e a un altro ancora. In una gara da innamorati.
Come succede agli amanti del Cantico dei cantici, inesausti nel dare nomi all’amato, all’amata. Sembra loro di ricongiungersi, ma ecco si perdono. In un gioco che non è solo quello dell’amore, ma anche della verità. Un gioco che non è, se non per chi vive nell’asfissia dei palazzi grigi delle presunte verità, rozzezza dello spirito, ma freschezza di incantamento, un’esperienza di innamorati.
Solo uomini
cui non toccò mai
l’avventura di amare
né il brivido d’innamorarsi
oseranno dire
sempre uguale, monotono,
il racconto misterioso
del torrente dei monti.
Incantamento e, insieme, confessione della povertà delle parole a dire l’avventura che ci conduce. Noi confessiamo, non senza emozione, che Gesú è la verità, è la luce, ma le parole hanno la debolezza della nostra fragile tenda. La tenda dà ospitalità al mistero, ma riconosce anche la povera misura dei suoi teli.
Leggerezza della verità
Non tutto è nella mia tenda. L’infinito è accaduto nella tenda di Gesú, nella sua carne. Ma non sempre ci soffermiamo a pensare che nelle mani noi abbiamo non uno solo, ma quattro vangeli. Quasi a dire che una notizia cosí sorprendente, come quella della vita di Gesú, non sarebbe bastato uno a raccontarla. Ci vollero quattro voci. E forse non è cosí stravagante pensare che qualche sussulto di lui sia rimasto nell’aria, qualche voce forse al di là dei quattro vangeli. Non aveva forse detto Gesú ai discepoli: «Molte cose ho ancóra da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando poi verrà lo Spirito di verità, egli vi condurrà alla verità tutta intera»? (Gv 16, 12-13)
La verità dunque non è un muro di fine corsa, è la porta, è l’ introduzione .
La verità, si dice, è roccia di solidità. Ma l’immagine qualche volta purtroppo è stata usata nel senso della pesantezza. Giusto un anno fa, un gesuita dell’Istituto biblico di Gerusalemme, occhi chiari, ci additava le rocce del deserto, l’incanto delle loro striature e ci parlava della roccia come bellezza. La verità come pesantezza, come arroganza del possesso, ha generato profeti che scannano profeti e ancóra oggi torrenti portano il segno e la maledizione del sangue versato. Perché la verità senza amore diventa dominio, imposizione. E dove c’è dominio non c’è Dio. Dove c’è dominio, fosse pure delle coscienze, dove uno è in alto e uno è in basso, diventa sacrilegio mettere il nome di Dio. Come insegna un midrash della tradizione rabbinica.
Quando ero un ragazzino il signor Maestro stava insegnandomi a lèggere. Una volta mi mostrò nel libro di preghiere due minuscole lettere, simili a due puntini quadrati. E mi disse: «Vedi Uri, queste due lettere, una accanto all’altra? È il monogramma del nome di Dio; e, ovunque, nelle preghiere, scorgi insieme questi due puntini, devi pronunciare il nome di Dio, anche se non è scritto per intero».
Continuammo a lèggere con il Maestro, finché non trovammo, alla fine di una frase, i due punti. Erano ugualmente due puntini quadrati, solo non uno accanto all’altro, ma uno sotto l’altro. Pensai che si trattasse del monogramma di Dio perciò pronunciai il suo nome. Il Maestro disse però: «No, no, Uri. Quel segno non indica il nome di Dio. Solo là dove i puntini sono a fianco l’uno dell’altro, dove uno vede nell’altro un compagno a lui uguale, solo là c’è il nome di Dio. Ma dove i due puntini sono uno sotto e l’altro sopra, là non c’è il nome di Dio».
Dio non è nell’arroganza. Nemmeno nell’arroganza della verità. È nel suono di un silenzio sottile. È nel sussurro. Sussurro, una parola che ho ritrovato piú volte nella lettera dell’estate di una giovane amica che raccontava del cambiamento radicale della sua vita grazie al sussurro della voce di Dio: Dentro di me appena un sussurro, ma continuo, incessante. Ho passato mesi faticosi e dolorosi, ma alla fine cosí rigeneranti, di una vita nuova che non conoscevo come mia.
Ora è un’ansia continua che mi sospinge al di là di quelle che un tempo reputavo fossero barriere, adesso intravedo varchi. passi e sentieri, anche tra le mura della nostra invivibile città, ci sono vie cosí belle dietro le orme del Signore! Non sai
Non so per quale motivo Dio mi si è messo accanto con tale insistenza da farmi cambiare tutte le mie prospettive e da allentare le mie rigidità.
Da allora non mi ha mai abbandonato il sussurro. E la gioia piú grande è riuscire a condividere con gli altri la mia fede. Da quando ho incominciato a tirar fuori Dio dall’oscuro sgabuzzino in cui l’avevo rinchiuso solo per me, riesco a parlare di lui senza vergogna e timore di giudizi, e mi rende felice.
La verità non è immobilità. È la freschezza, la leggerezza, la bellezza di un cammino. Con un auspicio:
all’ultimo tornante
ancóra
cercare
il tuo volto.
Sono gli sfollati di Melito, in tutto trecentocinquanta persone
che si erano sistemati nella chiesa proprio nel cuore della città
Napoli, sfrattati all’alba dalla polizia
occupanti della basilica del Carmine
Infrante una antica balaustra e danneggiate tre cappelle. Scritte con penne e pennarelli
All’uscita scambio di insulti con sacerdoti e fedeli. Il comune ha allestito 200 posti letto *
NAPOLI - Dopo circa venti giorni di occupazione abusiva, trecentocinquanta persone, nuclei familiari sgomberati da alcune costruzioni abusive di Melito, nel napoletano, abbattute da quel Comune, sono stati mandati via dalla chiesa del Carmine nel cuore del popolare rione Mercato di Napoli. E si contano i danni.
La basilica era stata utilizzata come abitazione, impedendo il regolare svolgimento delle funzioni religiose, tra le proteste del quartiere. Lo sgombero è avvenuto senza incidenti, anche se gli occupanti sono usciti scandendo slogan contro i padri carmelitani, che amministrano la basilica, e contro la chiesa. C’è anche stato uno scambio di insulti con gruppetti di fedeli della zona del Carmine che da settimane avevano chiesto la restituzione al culto della basilica, una delle più antiche di Napoli risalente al XIII secolo. Le donne con i bambini sono state le ultime a uscire. Appena ripreso il pieno controllo della basilica, i padri carmelitani hanno riacceso le lampade intorno all’immagine della "Madonna Bruna", che è oggetto di grande devozione a Napoli.
I cittadini residenti a Napoli usufruiranno di un bonus offerto dall’amministrazione comunale che aveva tentato da giorni di risolvere la situazione. Le strutture che il comune ha destinato ad accogliere, in via provvisoria, i soli nuclei familiari residenti in passato nel capoluogo partenopeo, sono una palazzina di tre piani in Via Stadera, e l’ex Ufficio Postale di Via Cupa Santacroce.
Nei due stabili si è proceduto, nei giorni scorsi a dei lavori di adeguamento, e alla realizzazione di nuovi servizi igienici. Nei locali sono state sistemate circa 200 brandine e predisposti i servizi di prima accoglienza.
Gli sfrattati erano entrati nella Basilica della Madonna del Carmine venerdì 4 aprile, durante una messa: e qui si erano fermati, di fatto occupandola, dopo aver lasciato sei palazzine costruite e occupate abusivamente. Erano, al principio, circa 140 persone. Nel giro di pochi giorni il numero degli sfollati che hanno dormito nella chiesa, a turno, è salito a 350: donne e bambini, in particolare, hanno mantenuto il presidio, impedendo fra l’altro lo svolgimento delle funzioni religiose, e attirando così le proteste del quartiere.
Adesso nella basilica si fa la conta dei danni. Durante l’occupazione sono state infrante una balaustra in marmo antico e sono state danneggiate tre cappelle laterali. Scritte con penne e pennarelli sono state tracciate un pò dappertutto. "Ci vorranno almeno due giorni per poter riprendere le funzioni religiose - ha detto l’assessore alla vivibilità della municipalità Avvocata-Pendino, Gianfranco Wurzburger - e c’è bisogno di una radicale pulizia". Operai inviati dal Comune stanno trasportando fuori dalla basilica alcune masserizie, tra le quali alcune brandine, un televisore, coperte e cartoni utilizzati come giacigli notturni. C’è anche uno striscione del "coordinamento di lotta per il lavoro", un gruppo di disoccupati che ha appoggiato l’occupazione.
* la Repubblica, 26 aprile 2008.