La Santa Sede: «Si tratta di un tema affrontano più volte in passato, ma non bisogna generalizzare: la gente del posto spesso non c’entra» *
CITTA’ DEL VATICANO. Nel corso della sua odierna visita al santuario campano di Pompei il Papa non ha affrontato il tema della camorra, nonostante la sua attualità, «perchè ne ha parlato altre volte» e perchè quello di oggi è piuttosto un «pellegrinaggio»: lo precisa il vicedirettore della sala stampa vaticana.
«La parola camorra è stata esclusa di proposito dai discorsi del Papa a Pompei perchè ne ha parlato altre volte, anche l’anno scorso a Napoli, e stavolta il viaggio ha il carattere particolare di un pellegrinaggio», afferma padre Ciro Benedettini. «Ma soprattutto - aggiunge - per una forma di rispetto per le persone per bene, che in Campania sono la maggior parte». Secondo il religioso, inoltre, «la Campania non è solo questo e il Papa ha inteso incoraggiare l’impegno delle persone per bene nella difesa dei valori e nella costruzione di una civiltà dell’amore, che rappresenta certamente anche un impegno anticamorra».
"Superstizione e anticlericalismo ci sono ancora oggi"
Superstizione, pratiche spiritiche, così come anticlericalismo sono tendenze ancora diffuse: è la denuncia del Papa che ricorda la figura di Bartolo Longo. «La vicenda della sua crisi spirituale e della sua conversione - ha detto Benedetto XVI durante l’omelia di una messa celebrata sul sagrato del santuario a Pompei - appare oggi di grande attualità».
«Egli infatti, nel periodo degli studi universitari a Napoli, influenzato da filosofi immanentisti e positivisti, si era allontanato dalla fede cristiana diventando un militante anticlericale e dandosi anche a pratiche spiritistiche e superstiziose. La sua conversione, con la scoperta del vero volto di Dio, contiene un messaggio molto eloquente per noi, perché - ha spiegato - purtroppo simili tendenze non mancano nei nostri giorni».
* - La Stampa, 19/10/2008 (16:56)
L’importanza di avere Pompei. In 3D
Un documentario per immagini e (poche) parole: per capire cosa combattiamo quando difendiamo questo luogo unico
di Tomaso Montanari (il Fatto, 17.07.2014)
Si racconta che quando qualcuno propose a Winston Churchill di tagliare la spesa sulla cultura per rinforzare ancora la contraerea, il primo ministro avrebbe risposto: “Ma allora, per cosa stiamo combattendo?”. Quando ho finito di vedere, in anteprima, Pompei 3D che andrà in onda stasera alle 21.10 su Sky3D ho pensato subito a questa celebre, e probabilmente apocrifa, battuta.
Già, perché la immagini, la musica e le parole di questo piccolo capolavoro coprodotto da Ballandi Arts e Sky3D sono capaci di spiegare a chiunque per che cosa stiamo combattendo quando combattiamo per Pompei.
DI QUESTA battaglia il documentario non parla. Non parla di crolli, di finanziamenti e di personale, di trattative sindacali o di speculazioni edilizie, di ministeri fallimentari e decreti inutili, di conflitti d’interesse e concessionari onnipotenti. Non parla, cioè, di tutto ciò per cui - inevitabilmente - Pompei è quasi ogni giorno sulle pagine dei giornali italiani e stranieri. Non mostra il degrado, non grida allo scandalo: e non perché a Pompei non ci sia (anche) del degrado, e non perché non ci sia (ancora) da gridare.
Ma perché, appunto, è vitale ricordarci perché gridiamo. Ed è importante particolarmente ora, quando grazie al soprintendente Massimo Osanna e a una pattuglia di giovani archeologi e architetti a Pompei si vede finalmente una luce.
Ebbene Pompei 3D riesce perfettamente a ricordarcelo. Perché le sue straordinarie immagini (ancor più impressionanti se si indossano gli appositi occhiali) sono state girate utilizzando anche un drone sperimentale particolarmente evoluto, che ha sorvolato Pompei in varie condizioni di luce, e anche in parti degli scavi inaccessibili ai turisti, e poco o per nulla filmate. E perché le parole scelte per commentarle non sono da meno.
Si è infatti scelto di rinunciare sia alla classica, didascalica, spiegazione (disponibile per altro in contemporanea su Sky Arte, nella puntata dedicata a Pompei nella serie sulle Sette meraviglie), sia alla passeggiata dell’esperto (che fa ormai troppo Alberto Angela) o alla terribile presenza dei personaggi in costume, un escamotage tristemente vicino alla mascherata dei gladiatori al Colosseo.
Qua invece non si vede anima viva (fatti salvi due dei dolci cani che custodiscono Pompei), e tutto è affidato ad un sapiente montaggio di testi letti da una voce fuori campo. Testi - e questo è il punto - di grandissimi scrittori che hanno lasciato testimonianze di viaggio, pensieri o poesie su Pompei.
Il filo conduttore è una indimenticabile pagina di Goethe che definisce la città morta “un posto mirabile, degno di sereni pensieri”.
MA LO SPETTATORE ha il privilegio di vedere Pompei attraverso gli occhi e le parole di Giacomo Leopardi (“Torna al celeste raggio / Dopo l’antica oblivion l’estinta/ Pompei, come sepolto / Scheletro, cui di terra /Avarizia o pietà rende all’aperto”) e di Shelley, di Dumas, di Dickens (“perdo il conto del tempo, e penso ad altre cose”) e Melville (“Pompei è uguale ad ogni altra città. La stessa antica umanità. Che si sia vivi o morti non fa differenza . Pompei è un sermone incoraggiante”). E così vediamo con i nostri occhi “il segno della corda del secchio sulla vera del pozzo, la traccia dei carri sul basolato delle strade” di cui parla Dickens, e guardiamo il Tempio di Iside mentre ascoltiamo le note del Flauto magico che esso ispirò a Mozart. Nulla ci viene spiegato: ma sentiamo di comprendere tutto.
Per questo Pompei3D è un potente argomento contro coloro che, per stupidità o interesse, oppongono la qualità al successo mediatico, e considerano elitarista ogni tentativo di educare: qua le immagini ultramoderne e spettacolari dei droni convivono con il riuscito tentativo di raccontare Pompei come un pezzo della storia della cultura europea tra Otto e Novecento.
NON UNA CURIOSITÀ turistica, non solo materia per gli archeologi, non un problema amministrativo: ma una grande occasione per tornare civili e umani. Ecco perché meriterebbe di essere proiettato nelle scuole: ed ecco perché speriamo che non rimanga un episodio isolato.
E si trattiene il respiro quando si vede il calco del corpo della fanciulla che Primo Levi associò ad Anna Frank e alla scolara di Hiroshima in una poesia il cui incipit basta a spiegare perché Pompei ci sta a cuore, perché combattiamo per salvarla: “Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra”.
Il Papa ai mafiosi: «Convertitevi subito o per voi l’inferno»
di Franca Giansoldati (Il Messaggero, 22 marzo 2014)
I bagliori sinistri delle fiamme dell’inferno, luogo ultraterreno di tormenti e supplizi, lambiranno mafiosi e camorristi. Il giudizio di Dio per loro è segnato se non si convertiranno in tempo. L’anatema di Bergoglio quasi sussurrato dall’ambone della grande chiesa situata all’imbocco di via Gregorio VII, davanti ad un migliaio di famigliari di vittime di mafia, a don Luigi Ciotti fondatore dell’associazione Libera, a Giancarlo Caselli, a Pietro Grasso, a Rosy Bindi e a diversi magistrati dell’Antimafia, ha ricordato subito la condanna risuonata nella Valle dei Templi di Agrigento, agli inizi degli anni Novanta, quando Papa Wojtyla dopo le stragi di Capaci e di Via d’Amelio, urlò: «Mafiosi, verrà per voi il Giudizio di Dio».
A variare stavolta sono stati certamente i toni ma non i contenuti - durissimi, pesanti, senz’appello -, non più gridati con l’intensità sanguigna del pontefice polacco, ma esposti con la pacatezza del confessore che tenta di riportare sulla retta via individui avidi e spietati. «Per favore, cambiate vita. Convertitevi, fermatevi di fare il male. Ve lo chiedo in ginocchio, è per il vostro bene. La vita che vivete adesso non vi darà piacere, non vi darà gioia, non vi darà felicità. Il potere, il denaro che voi avete adesso da tanti affari sporchi, da tanti crimini, denaro insanguinato e potere insanguinato, non potrà essere portato all’altra vita. Convertitevi, c’è ancora tempo per non finire nell’inferno, quello che vi aspetta se continuate su questa strada. Avete avuto un papà una mamma pensate a loro, piangete un po’ e convertitevi».
SIMBOLI
All’interno della chiesa si è levato un applauso che sembrava non finire più e sui molti volti si scorgevano lacrime liberatorie. C’erano i fratelli di Pino Puglisi, il prete di Palermo ammazzato da un killer, quelli di Antonio Landieri, freddato dalla camorra, la sorella di Falcone, Maria, mescolati a persone accomunate dallo stesso destino terribile, avere pianto un fratello, un marito, un padre uccisi da killer di Cosa Nostra. Un elenco di vittime lunghissimo, quasi monotono, che include persino 80 bambini, l’ultimo dei quali assassinato alcuni giorni fa. Un computo agghiacciante che è stato letto davanti al Papa per un’ora intera. I nomi delle vittime rimbombavano: Peppino Impastato, Boris Giuliano, Piersanti Mattarella, Giancarlo Siani, Mauro Rostagno. Stefania Grasso figlia di un imprenditore calabro assassinato, punto di riferimento per le 15 mila persone toccate dal lutto, ha chiesto allo Stato di fare rispettare la legalità. Don Ciotti ha chiesto inasprimenti alle norme sul voto di scambio. Poi ha denunciato silenzi, omertà, resistenze da parte della Chiesa nel Sud.
OMERTÀ
Troppi vescovi e cardinali hanno preferito rifugiarsi in eccessi di prudenza o in parole di circostanza. L’ultimo clamoroso episodio risale a due anni fa quando sono stati celebrati i funerali di Stato per Placido Rizzotto, il sindacalista ucciso nel 1948 da Cosa Nostra. Il rito avvenuto alla presenza del Presidente della Repubblica è stato affidato al vescovo di Monreale, Di Gristina che durante l’omelia non solo ha sbagliato per due volte il nome della vittima, ma ha pure evitato di pronunciare apertamente la parola «mafia», suscitando un vespaio di polemiche e alimentando l’immagine di una Chiesa non ancora consapevole di quanto sia importante martellare sull’incompatibilità tra mafiosità e Vangelo. Papa Bergoglio, tenendo per mano don Ciotti, ha indicato la direzione giusta. Perché è tempo di voltare pagina.
Monti: “Ecco il piano salva Pompei” Il duplice impegno del governo: mettere in sicurezza il sito senza che la camorra tocchi pietra
di Francesco Grignetti (La Stampa, 06.04.2012)
Il governo farà la sua parte per il rilancio del Mezzogiorno. Si comincia con il Grande Progetto Pompei, ovvero 105 milioni di euro (63 milioni nazionali, 42 europei) investiti nei prossimi tre anni in uno sforzo straordinario di manutenzione del sito archeologico più famoso al mondo. Un intervento poderoso che necessita, però, anche di un eccezionale controllo da parte dello Stato per evitare infiltrazioni camorristiche. «Gli obiettivi - annuncia il presidente del Consiglio, Mario Monti - sono due: la messa in sicurezza di tutto il sito e che ciò avvenga attraverso lavoratori capaci e onesti, tenendo fuori la criminalità organizzata che è forte nel territorio». Di qui uno slogan che ripetono Monti, il ministro Cancellieri e il prefetto De Martino: «Non un soldo finirà alla camorra».
Eppure tutto ciò non servirà a nulla se il Sud che «soffre strutturalmente di divari gravi» non darà prova d’orgoglio. Se non troverà in sé nuove energie. Tutto sarà vano - dice il premier con piglio severo «senza un subbuglio innovativo che spinga la gran parte della classe dirigente locale a cambiare e i cittadini a domandare allo Stato non soluzioni privilegiate ma la soddisfazione di diritti collettivi».
A Napoli, a presentare il Grande Progetto Pompei, ieri s’è presentato mezzo governo: con Monti ci sono il ministro Fabrizio Barca (Coesione territoriale), Annamaria Cancellieri (Interno), Lorenzo Ornaghi (Beni culturali), Francesco Profumo (Istruzione). Il progetto non è solo un intervento in extremis per salvare la città antica. È anche una boccata di ossigeno per un’area particolarmente depressa. È una ventata di speranze.
«Pompei ragiona Monti - attira in media sei mila visitatori al giorno, con punte di venti mila. Potrebbero essere di più e soprattutto potrebbero trattenersi sul territorio anziché fuggire subito. Potrebbero spendere assai di più per prodotti di qualità. Potrebbero innescare processi virtuosi con una gioventù che soffre di una gravissima disoccupazione».
A Pompei si sperimenterà anche per altri interventi simili. È infatti al Mezzogiorno comatoso che oggi parla il premier. «Il Sud patisce la crisi in maniera più accentuata che altrove. I ritardi sono da imputare ad un minor peso dell’industria dell’export, e di divari gravi nelle infrastrutture, nella scuola, nella formazione». Esistono però delle eccezioni. «Frutto della voce dei cittadini, della capacità e determinazione di politici locali che a quella voce sanno rispondere, di azioni pubbliche di lunga lena, soprattutto di quelle promosse dall’Unione Europea». Ma le eccezioni non bastano. «Manca la massa critica». E la massa a cui pensa è quella dell’opinione pubblica meridionale.
Il Grande Progetto sostanzialmente restituisce alla Soprintendenza archeologica il suo ruolo progettuale e tecnico. Gli dà i fondi per operare. Alle sue spalle vigilerà una task force della prefettura, con una squadra speciale della Guardia di Finanza, e rappresentanti di diversi ministeri, perché la camorra non banchetti con i preziosi fondi destinati al restauro dei monumenti. «Fare in modo che nemmeno un euro finisca nelle mani della camorra», è l’impegno solenne del prefetto di Napoli, Andrea De Martino. «I nostri uffici, grazie anche alla collaborazione della Guardia di Finanza, devono tenere forte sul fronte dell’antimafia».
Tutti gli appalti, anche quelli minuti, fino alla soglia dei tremila euro, saranno passati al setaccio. Occorreranno certificazioni antimafia pure per i subappalti minori. La prefettura avrà un potere di accesso ai cantieri perché non un solo operaio o un solo mezzo acceda senza permesso. Ci sarà totale tracciabilità dei pagamenti. E per i lavori ci saranno esclusivamente bandi europei pubblicati sul sito internet www.pompeiisites.org. «L’Europa ci guarda», ammette il ministro Cancellieri.
Monsignor Mariano Crociata ha illustrato il documento che i vescovi riuniti ad Assisi
sono chiamati oggi pomeriggio ad approvare. "Occorre l’impegno di tutti"
Cei: "I mafiosi sono fuori dalla Chiesa
non c’è bisogno di scomuniche esplicite"
"Esagerato parlare di declino della democrazia. Ci sono difficiltà ma anche molte potenzialità"
ASSISI - I mafiosi e coloro che fanno parte della criminalità organizzata sono automaticamente esclusi dalla Chiesa cattolica, non c’è bisogno di scomuniche esplicite. Lo ha detto il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, in una conferenza stampa ad Assisi, rispondendo ad una domanda sul documento Chiesa e Mezzogiorno, anche in relazione alle recenti inchieste che hanno coinvolto uomini politici.
I presuli, riuniti nella loro sessantesima assemblea generale nella città di San Francesco, sono chiamati oggi pomeriggio ad approvare. "E’ evidente - spiega - che il tema della criminalità organizzata è ben presente nel documento; una realtà drammatica ma non disperata e non invincibile".
Per quanto riguarda i mafiosi o gli affiliati alle organizzazioni criminali, il segretario della Cei ricorda quanto già disse Giovanni Paolo II in una visita ad Agrigento nel 1993 sul giudizio di Dio che si sarebbe abbattuto sui criminali. "Non c’è bisogno - ha aggiunto Crociata - di comminare esplicite scomuniche perché chi vive nelle organizzazioni criminali è fuori dalla comunione anche se si ammanta di religiosità".
"Piuttosto - ha aggiunto il segretario Cei - non si risolve questo dramma sociale che si estende a tutta l’Italia, e non solo al Sud, solo richiamando l’esclusione dalla Chiesa, ma si risolve con un impegno di tutti, della istituzioni, della magistratura".
Politica. "La nostra prospettiva non è quella apocalittica: dobbiamo tutti valorizzare le risorse del Paese, sottolineare e fare emergere questi aspetti positivi, guardando con onestà alle difficoltà. Ma non serve a nulla guardare ad esse unilateralmente", afferma monsignor Mariano Crociata. "Parlare di declino della democrazia - spiega il presule - mi sembra esagerato, nel senso che la nostra situazione presenta difficoltà ma ci sono molte potenzialità di ordine materiale e valori morali e culturali: il punto non è emettere pronunciamenti senza appello sulla situazione. Questo non è utile, non va a vantaggio del Paese nè è rispondente alla realtà".
* la Repubblica, 10 novembre 2009
Raffaele Cantone, napoletano, diventa magistrato per amore del diritto
Assegnato alla Direzione distrettuale antimafia, combatte contro la camorra casalese
Giustizia, la società con lo Stato
L’uomo della legge nella terra dei boss
Vive da anni sotto scorta. Adesso racconta in un libro la sua vita in prima linea
di ROBERTO SAVIANO *
QUALCHE volta, quando non ne posso più della mia vita blindata, sento Raffaele Cantone perché vive costantemente sotto scorta non da due anni, ma da molti di più. Cantone ha scritto un libro che racconta il suo periodo alla Dda di Napoli, intitolato Solo per giustizia. Diviene magistrato quasi per caso, dopo aver cominciato a fare pratica come avvocato penalista. Diviene magistrato per amore del diritto. Ed è proprio quel percorso che lo porta a divenire un nemico giurato dei clan. Non lo muove nessuna idea di redimere il mondo, nessuna vocazione missionaria a voler estirpare il cancro della criminalità organizzata. Lo guidano invece la conoscenza del diritto, la volontà di far bene il proprio lavoro, e anche il desiderio di capire un fenomeno vicino al quale era cresciuto. A Giugliano. Un territorio attraversato da guerre di camorra che ricorda sin da quando era ragazzo.
"C’erano periodi in cui i morti si contavano anche quotidianamente, spesso ammazzati in pieno giorno e in presenza di passanti terrorizzati. Le nostre famiglie avevano paura. Per timore che potessimo andarci di mezzo anche noi, ci raccomandavano di non andare in giro per il paese, di uscire solo quando era necessario. Quindi gran parte del tempo libero la si trascorreva a casa di qualcuno dei ragazzi della comitiva. Ma quando si spargeva la voce di un omicidio, anche noi "bravi ragazzi" spesso non resistevamo alla tentazione di andare nei paraggi per sentire chi era la vittima, a che gruppo apparteneva e soprattutto se era qualcuno che conoscevamo. Perché capita così, nella provincia: anche se si appartiene a mondi diversi, finisce che ci si conosce almeno di vista o di fama. E fu proprio un ragazzo conosciuto solo di vista una delle vittime innocenti di quella faida che sembrava eterna. Era un po’ più grande di me e i sicari lo avevano scambiato per un affiliato della parte avversa, perché gli somigliava vagamente e soprattutto perché aveva un’auto di colore molto simile. Solo dopo avergli sparato si erano accorti dell’errore e si erano fermati. Ma alcuni colpi avevano raggiunto la colonna vertebrale e paralizzandolo in tutta la parte inferiore, avevano reso il giovane invalido per il resto della vita. Ancora oggi mi capita talvolta di incontrarlo, spinto sulla sua sedia a rotelle dalla moglie che all’epoca era la sua giovanissima fidanzata".
Un uomo che si forma in una situazione del genere comprende che il diritto diviene uno strumento fondamentale per concedere dignità di vita. Una dignità basilare, quella di vivere, di lavorare, di amare. Dove la regola non soffoca l’uomo ma anzi è l’unico strumento per concedergli libertà. Poco prima era stata uccisa una ragazza di poco più di diciotto anni, figlia di un collega di suo padre. L’unica sua colpa era stata quella di essere uscita di casa nel momento sbagliato. Morì al posto di un delinquente in soggiorno obbligato che più tardi sarebbe diventato uno dei capi del clan dei Casalesi, uno dei più feroci: Francesco Bidognetti, detto "Cicciott’ ’e mezzanotte".
Quel caso non ha mai avuto soluzione giudiziaria. E lentamente il ricordo si è sbiadito. I genitori sono morti entrambi di crepacuore. Anche il penultimo omicidio dei Casalesi è avvenuto proprio a Giugliano, non lontano da dove Cantone è tornato ad abitare con la sua famiglia. Quando si sono trasferiti nella casa nuova, i vicini e i negozianti hanno organizzato una raccolta di firme per mandarli via. Qualcuno ha persino lasciato una valigia al posto dove sosta la pattuglia di vigilanza: era vuota, ma doveva simulare un ordigno.
Il libro è la storia di questa quotidianità, la quotidianità di un magistrato in terra di camorra e delle ripercussioni pesantissime che questo pone anche sulla vita dei suoi famigliari. Come quando un maresciallo che in quel periodo faceva il capo scorta vuole portarlo a vedere la partita del Napoli. Cantone, sempre attentissimo a non accettare favori, continua a rimandare sino a quando l’invito viene espresso quando c’è pure suo figlio di cinque anni che è già tifosissimo. ""Papà, mi ci porti? Andiamo a vedere la partita? Ti prego!". E allora accettai, a condizione che non piovesse". La domenica il maresciallo si presenta con una persona sconosciuta che a sua volta ha portato il figlio. "Questa sorpresa mi seccò a tal punto che fui tentato di dire che avevo cambiato idea. Ma come facevo con Enrico? Non avrebbe più smesso di piangere per la delusione".
Il giorno dopo, in Procura, chiamano Cantone chiedendogli con imbarazzo se è stato allo stadio e con chi. Perché l’amico del maresciallo è stato intercettato nell’ambito di un’inchiesta sugli affari dei Casalesi mentre assicurava uno degli indagati che a questo punto il pm sarebbe stato "avvicinabile". Non ne consegue nessun danno all’indagine, ma Cantone è furioso e sconvolto. L’unica volta che per amore di suo figlio si è sforzato di abbandonare la diffidenza che il mestiere gli ha fatto divenire seconda natura, scopre che la passione innocente di un bambino è stata strumentalizzata e abusata.
La diffidenza ha dovuto impararla presto, anni prima di entrare in antimafia. È una lezione che si iscrive nella sua carne e dentro la sua anima. "Un giorno d’inverno stavo tornando a casa nel primo pomeriggio, con l’intenzione di chiudermi nello studio e guardare con calma alcune carte. Come al solito, prima di salire, mi fermai alla cassetta delle lettere per prendere la posta. Quella volta ci trovai soltanto un foglio piegato, senza busta. E ancora adesso, quando penso al gesto automatico con cui lo aprii e vidi cosa c’era scritto, risento i brividi che mi assalirono in quel momento. Era una sorta di volantino, composto da ben due pagine. In alto c’era una mia fotografia [...] Il testo era spaventoso. Un congegno osceno orchestrato con dati reali della mia vita e con calunnie gigantesche [...] Nel volantino c’era posto per tutti i miei familiari".
Cantone corre a metterne al corrente il procuratore Agostino Cordova, capendo che l’attacco è gravissimo. Però non riesce ad immaginare la portata di quella campagna di diffamazione. Il giorno dopo il volantino arriva a tutti i colleghi, a carabinieri e polizia, a molti avvocati e politici campani, a tutte le redazioni dei giornali, al Csm, persino a Giancarlo Caselli e Saverio Borrelli. Migliaia di volantini mandati ovunque. Per distruggere un semplice sostituto procuratore che stava svolgendo un’indagine su un’immensa truffa assicurativa, seguendone le tracce per mezza Europa.
Sono pagine impressionanti perché evidenziano con estrema limpidezza come funziona la diffamazione. Non ti si attacca frontalmente, a viso aperto. Cercano di isolarti mettendo in circolazione il virus della calunnia, certi che da qualche parte l’infezione attecchisca e il contagio si propaghi. E che a quel punto il danno sarà irreparabile. ""Meglio una calunnia che un proiettile in testa" era una frase che mi fu detta come sincero incoraggiamento da più di un collega. Ma di questo, sebbene sia un’affermazione di buon senso, non ero e non sono tanto certo. Io mi sentivo come se cercassero di farmi una cosa anche peggiore che eliminarmi fisicamente. Perché si può distruggere un uomo, annientarlo, senza nemmeno torcergli un capello. E paradossalmente è molto difficile che questo accada quando si uccide veramente".
È questo uno dei punti più dolenti. La diffamazione ti lascia vivo fisicamente, ma annienta tutto quello che hai fatto. Come una sorta di bomba a neutrone che lascia intatte le cose mentre cancella ogni forma di vita. La vita morale di un uomo non può mai essere distrutta così radicalmente come dalla calunnia. Per questo anche chi è abituato a uccidere spesso la preferisce al piombo.
Quando entra alla Direzione distrettuale antimafia e gli viene assegnato il Casertano, c’è chi commenta: "Come al solito, Raffae’, t’hanno fatto?". Il che in italiano si tradurrebbe con "fregato" o forse ancora meglio con "ti hanno rifilato un pacco". "La camorra casalese veniva vista come qualcosa di molto feroce e impegnativo e al tempo stesso provinciale, di scarso prestigio".
Ma il processo Spartacus aveva segnato una svolta e il libro è un omaggio a tutti i magistrati che l’avevano istruito e a tutti quelli che, come Cantone stesso, hanno successivamente portato avanti un impegno difficilissimo: Di Pietro, Cafiero de Raho, Greco, Visconti, Curcio, Ardituro, Conzo, Del Gaudio, Falcone, Maresca, Milita, Sirignano e Roberti.
Perché in certi territori la lotta per la legalità e la giustizia è una battaglia combattuta ad armi terribilmente impari. I clan hanno danaro, armi, uomini, coperture e collusioni a non finire. Dall’altra parte i mezzi sono limitati, la mole di lavoro è talmente enorme che bisogna essere disposti a fare straordinari che per molti non sono nemmeno pagati. Tutto il successo è sulle spalle di chi continua a voler far bene il proprio lavoro: magistrati, carabinieri, poliziotti, finanzieri. Uomini che rischiano la vita per senso del dovere e magari anche per lealtà verso i superiori che hanno saputo conquistarsi la loro fiducia, una lealtà primaria da soldati in trincea, e che non vengono ricordati quasi mai. E invece il libro di Cantone gli rende omaggio e gli concede visibilità. Uomini che spesso in territori marci sono il vero argine per contrastare lo strapotere delle mafie. Cantone si sente uno di loro: non un eroe, semplicemente un magistrato che ama il suo lavoro perché ama il diritto, crede nell’accertamento della verità.
Questo per i boss è incomprensibile. Non riescono a concepire che un magistrato persegua solo la giustizia, non personalmente loro. Che non tutti gli uomini sono uguali a loro. I boss sanno che non tutti ammazzano e che non tutti resistono al carcere. Ma sono certi che tutti vogliono danaro, fama, donne e potere. E chi non lo ammette, sta dissimulando, mentendo, imbrogliando. Così la pensa Augusto La Torre, il ferocissimo quanto intelligente capo del clan di Mondragone che l’impegno di Cantone ha messo in ginocchio. È il primo a pianificare un attentato contro di lui ed è anche uno dei primi a pentirsi. Durante gli interrogatori indulge con particolare precisione sui dettagli degli omicidi che ha commesso: la prima strage di extracomunitari a Pescopagano, il gesto con cui tappa col dito lo zampillo di sangue che esce dal buco sulla fronte dell’autista di un capozona dei Casalesi, lo strangolamento con un filo della luce di un piccolo affiliato soltanto sospettato di essere un "infame", mentre il boss continua a ripetergli "non ti faccio niente, non ti faccio niente".
Eppure, ragiona Raffaele Cantone con amarezza, il clan che pareva sconfitto si riforma. Meno potente, ma il territorio riprende a sottomettersi. La camorra non è possibile sconfiggerla soltanto con indagini e processi, sequestri e arresti. Raffaele Cantone oggi non lavora più alla Dda, è diventato giudice al massimario della Cassazione. Ma ha voluto dare un altro strumento per sconfiggere le mafie. Un libro in cui si racconta come si arriva a diventare uno dei principali nemici dei clan e come è fatta la vita di chi li combatte: solo per giustizia.
(2008 by Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency)
* la Repubblica, 26 ottobre 2008.
Da Gorbaciov a Tutu le prime firme a favore dello scrittore campano
Un appello allo Stato affinché intervenga per proteggerlo dalle minacce
I premi Nobel al fianco di Saviano
"La sua libertà riguarda tutti noi"
di PAOLA COPPOLA *
ROMA - I Nobel si mobilitano per Roberto Saviano. Lanciano un appello per chiedere allo Stato di intervenire, di proteggerlo dalle minacce di morte dei Casalesi e sconfiggere la camorra. Chiedono di garantire "la libertà nella sicurezza" all’autore del bestseller "Gomorra", che vive da clandestino, sotto scorta. Il caso Saviano è "un problema di democrazia", scrivono. Ma è, anche, "un problema di tutti noi".
Per questo motivo sono già sei i primi nomi autorevoli - Dario Fo, lo scrittore tedesco Günter Grass e il turco Orhan Pamuk, Nobel per la letteratura; Mikhail Gorbaciov e l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, Nobel per la pace; Rita Levi Montalcini, Nobel per la medicina - che sono intervenuti in difesa dello scrittore con un testo che sta già avendo altre adesioni e che, a partire da oggi, è possibile firmare sul sito di Repubblica, che darà voce alla mobilitazione in favore dello scrittore.
Dopo la pubblicazione di "Gomorra", Saviano è nel mirino della camorra. Ha subito pesanti minacce, le ultime pochi giorni fa, quando informative e dichiarazioni di collaboratori di giustizia hanno rivelato l’esistenza di un piano per ucciderlo da parte del clan dei Casalesi. Dal 13 ottobre del 2006 vive sotto scorta. Sempre a Repubblica alcuni giorni fa lo scrittore ha confessato il desiderio di poter tornare a una vita normale. "Andrò via dall’Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà" ha confessato. "Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale". L’intervista ha suscitato numerose prese di posizione, il presidente della Repubblica Napolitano e il premier Berlusconi hanno scritto a Repubblica per sostenere lo scrittore e assicurare il sostegno dello Stato, in tutta Italia sono scattate manifestazioni di solidarietà.
Saviano sta scontando il successo del suo bestseller che, a gennaio 2008, aveva venduto solo in Italia più di un milione e 200mila copie, è stato tradotto in 43 paesi, ha ottenuto diversi riconoscimenti e ispirato l’omonimo film del regista Matteo Garrone, candidato all’Oscar. Nell’appello dei Nobel si legge: "È minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possibilità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo paese". Saviano, dunque, è "un giovane scrittore, colpevole di avere indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, Repubblica, e di tacere", continua il testo.
Così i Nobel spendono la loro autorevolezza per chiedere allo Stato "di fare ogni sforzo per proteggerlo e sconfiggere la camorra". Ricordano che non si può liquidare il "caso Saviano" solamente come un problema di polizia, perché "è un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini", scrivono. "Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008".
L’appello dei premi Nobel
"Lottiamo per Saviano" *
Roberto Saviano è minacciato di morte dalla camorra, per aver denunciato le sue azioni criminali in un libro - Gomorra - tradotto e letto in tutto il mondo.
È minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possibilità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo Paese.
Un giovane scrittore, colpevole di aver indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, Repubblica, e di tacere.
Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo e per sconfiggere la camorra. Ma il caso Saviano non è soltanto un problema di polizia. È un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini.
Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008.
DARIO FO
MIKHAIL GORBACIOV
GUNTHER GRASS
RITA LEVI MONTALCINI
ORHAN PAMUK
DESMOND TUTU
* la Repubblica, 20 ottobre 2008
Firma per Roberto Saviano ( clicca qui di seguito -> sul rosso
Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo e per sconfiggere la camorra. Ma il caso Saviano non è soltanto un problema di polizia. E’ un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini. Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008.
Il Papa a Pompei non parla di camorra ma attacca l’anticlericalismo
di Marco Politi (la Repubblica, 20.10.2008)
POMPEI - Difendere il «ruolo fondamentale della famiglia», contrastare l’anticlericalismo attivo anche oggi. Benedetto XVI arriva a Pompei e sembra che atterri in un angolo di cielo azzurro, dove si possano esaltare le buone opere dei cristiani ignorando la criminalità organizzata. Trenta giorni fa, in questa regione, due squadre di otto killer hanno sparato centonovanta proiettili di kalashnikov per massacrare a Baia Verde e a Castelvolturno sette extracomunitari e papa Ratzinger in tre diversi interventi non pronuncia mai a Pompei la parola camorra, assassini, crimine.
Eppure il sindaco Claudio D’Alessio gli ha parlato di una terra «bella e martoriata». Il pontefice lo ringrazia per il «deferente benvenuto» e non entra in argomento. Chissà chi lo consiglia nel palazzo apostolico. C’è qualcosa di scoordinato nel lavoro di quanti in Vaticano hanno in cura i dossier preparatori dei discorsi papali. Come quando a Catania dei tifosi uccisero brutalmente l’agente di polizia Raciti e passò tempo prima che il Papa dicesse una parola.
Così succede a Pompei con la camorra. Certo, Benedetto XVI propone il Rosario come arma spirituale nella «lotta contro il male, contro ogni violenza, per la pace nei cuori, nelle famiglie, nella società, nel mondo». Ma sono espressioni senza tempo valide a Sidney come a Colonia, a Parigi, Roma o Varsavia. Il vescovo mons. Carlo Liberati non lo aiuta. Nel suo saluto parla di prodigi che «sbocciano come primule, ciclamini e iris», elenca una serie di importanti iniziative sociali cattoliche e poi, come pericolo principale, indica la «famiglia insidiata da ogni dove».
Due ore dopo la messa, celebrata dal Papa sul sagrato del santuario, il Vaticano si rende conto della situazione paradossale. E per stoppare polemiche emana di corsa una dichiarazione. Nell’omelia e nell’Angelus, spiega il portavoce padre Ciro Benedettini, il pontefice «ha escluso di proposito di pronunciare la parola camorra». Le motivazioni? La visita a Pompei sarebbe un pellegrinaggio a dimensione strettamente spirituale. Poi c’è il fatto che la maggioranza dei campani sono persone oneste e non camorristi e quindi il silenzio del Papa va interpretato come una «questione di rispetto». Infine, Benedetto XVI di criminalità organizzata ha già parlato un anno fa a Napoli.
Spiegazioni poco convincenti tanto più che Avvenire pubblica nella pagina di Caserta una drammatica lettera del vescovo mons. Raffaele Nogaro: «La criminalità organizzata sulle nostre terre sembra onnipotente. Nulla sfugge al suo controllo. Compone vere e proprie bande armate. Non meno inquietante è la camorra praticata dai colletti bianchi. Detengono l’autorità per un profitto illecito, usano la pubblica amministrazione per interessi di parte».
Dinanzi a questa coraggiosa denuncia impallidiscono le parole papali, che esortano i credenti a essere «fermento sociale e non cedere ai compromessi», combattendo ogni tipo di violenza. Per padre Benedettini, ad ogni modo, «è meglio accendere una candela che maledire l’oscurità». Proverbio cinese.
Quasi 50mila fedeli hanno partecipato alla messa con papa Ratzinger. Per lui personalmente è stato anche composto un inno da mons. Baldassarre Cuomo, per lunghi anni personalità guida del santuario. Durante il rito spuntano striscioni che chiedono di fare santo l’anticlericale Bartolo Longo, poi convertitosi, che nell’Ottocento fondò il santuario della Madonna del Rosario. Benedetto XVI nell’omelia elogia Pompei come esempio di fede che rinnova la società, assiste i poveri e riscatta il territorio. «Non è una cattedrale nel deserto». Prima della conversione, spiega il Papa, Bartolo Longo era «influenzato da filosofi immanentisti e positivisti, si era allontanato dalla fede cristiana diventando un militante anticlericale e dandosi anche a pratiche spiritistiche e superstiziose». Simili tendenze, conclude, «non mancano nei nostri giorni».