Cinema e "Arche-e/o-Logia"!!! "La X è il punto dove scavare" (Indiana Jones e l’ultima crociaya))
INDIANA JONES, 4. Steven Spielberg alla regia, Harrison Ford con cappello e frusta, George Lucas al pensatoio (Indy è creatura più sua che di Steve) hanno dato il meglio di sé, e il loro «meglio» è roba buona.
La sfida di Spielberg e Day-Lewis:
"Lincoln, il sogno che ci manca"
Incontro a Roma con il regista e il protagonista del colossal storico sul presidente Usa che uscirà il 24 gennaio. "Abbiamo reso umano il monumento americano"
di NATALIA ASPESI *
ARRIVA in Italia, nel pieno di una caotica incerta campagna elettorale, un film che racconta di un caotica incerta battaglia di 158 anni fa all’interno del Congresso degli Stati Uniti, che terminò con la più epocale delle vittorie democratiche di quel grande paese. L’approvazione del 13° emendamento alla Costituzione, che dopo 250 anni aboliva per sempre e in tutti i suoi Stati, la schiavitù. Sono a Roma il regista e il protagonista di Lincoln e ne hanno parlato con i giornalisti.
Sono Steven Spielberg e Daniel Day-Lewis: il primo, americano, 67 anni, ha diretto film di massimo incasso come I predatori dell’arca perduta e E. T., ha vinto 2 Oscar con due nobili film, Schindler’s List e Salvate il soldato Ryan, Lincoln è candidato a 12 statuette. Ha avuto due mogli attrici, alla prima ha concesso un divorzio miliardario, la seconda si è convertita all’ebraismo, ha sette figli. Il secondo, angloirlandese, 56 anni, ha vinto 2 Oscar per Il mio piede sinistro e Il petroliere. Fuori dalla bruttezza magnetica e irsuta di Lincoln, è un bell’uomo alto e sottile, capelli grigi a spazzola e un sorriso fiammeggiante. Figlio di un grande poeta angloirlandese e di una madre ebrea lituana, ha avuto un figlio dall’attrice Isabelle Adjani e due dalla moglie Rebecca Miller, regista figlia del drammaturgo Arthur Miller.
Lincoln ha la forza e la capacità emotiva di raccontare oggi, in tempi di delusione e rifiuto della politica, come invece la stessa possa essere alta, necessaria, solenne, se a gestirla è una grande, generosa personalità, mossa solo dal dovere verso il bene comune, come fu Abraham Lincoln, repubblicano, 16° presidente degli Stati Uniti, che seppe usare ogni astuzia, ogni manovra, ogni scorrettezza, per ottenere quei 20 voti che gli erano necessari per cancellare almeno davanti alla legge, la più grande delle ingiustizie, la schiavitù dei neri. Naturalmente il calvario degli uomini di colore, anche se liberi, sarebbe continuato per decenni e decenni, con l’esodo dal Sud al Nord di 6 milioni di neri dagli anni 30 ai 60 del Novecento, raccontato da Isabel Wilkerson, nel saggio Al calore dei soli lontani (Saggiatore)
Spielberg: "Ma oggi presidente degli Stati Uniti, rieletto come fu Lincoln, è Barak Obama, che non per niente ha nel suo studio un ritratto di chi liberò i neri. Nel nostro immaginario, Lincoln era diventato una specie di santo, la testona scolpita sul monte Rushmore, la faccia stravagante stampata in verde sui biglietti da 5 dollari, una figura apolitica, di tempi antichi e fumosi, e per questo buoni e puliti. Con lo sceneggiatore Tony Kushner che si è in parte ispirato al libro Il genio politico di Lincoln di Doris Kearn Godwin, abbiamo voluto, come mai era ancora stato fatto dal cinema, restituire al monumento la sua umanità, rendere contemporanea, quindi utile oggi, nella confusione e inquietudine del mondo, la sua azione politica, dettata da astuzia, ambizione, fermezza, la convinzione che per raggiungere una meta ideale, bisogna anche sporcarsi le mani: non tanto, ma un po’, certo, sì".
È ovvio che la forza del film sta anche nell’aver scelto come protagonista Daniel Day Lewis, tra l’altro coetaneo del presidente nei giorni cruciali del Congresso, della fine della sanguinosa guerra di secessione tra nordisti e sudisti, tra l’Unione e i Confederati, durata quattro anni e costata 400 mila morti. Di se stesso giovane Lincoln aveva scritto, "ero un ragazzo strano, senza amici, senza cultura, senza soldi". I suoi contemporanei l’hanno descritto come ambizioso, senza scrupoli, malinconico eppure con l’abitudine di raccontare aneddoti scherzosi per distrarre i suoi interlocutori e incomprensibili per innervosirli. Lo avevano soprannominato il Gorilla.
Day-Lewis: "Per capire l’animale politico bisognava che studiassi l’uomo. Non bastava infatti che seguendo le descrizioni d’epoca, imparassi a camminare a fatica, un po’ curvo, coi piedi piatti, tenendo le braccia lungo i fianchi, che mi avvolgessi le spalle in una coperta, che m’imponessi una voce da tenore ma forte, e un accento americano dell’Illinois. Bisognava che capissi i meccanismi della sua volontà, delle sue convinzioni e della sua genialità politica: impararne i fastidiosi silenzi, i sorrisi irritanti, le insopportabili divagazioni, capire il senso epocale dei suoi brevi discorsi pubblici.
Come uomo mi ha commosso la sua devozione di padre in tempi in cui questo legame era abbastanza fluido, l’affetto protettivo per la moglie (nel film Sally Field, ndr), donna apprensiva e fragile che di 4 figli, ne aveva presto persi due. Come uomo politico mi ha colpito l’audacia, la freddezza, con cui ha preferito non trattare la resa dei Confederati, cioè la fine del massacro, prima di ottenere la fine costituzionale della schiavitù, che con la pace forse non sarebbe stata raggiunta".
Spielberg: "Ma anche l’intelligente, calcolata pazienza, il non volere tutto e subito, il sapere stare in mezzo, opporsi agli estremismi, oggi si dice essere moderati, con la certezza della meta da raggiungere, nei tempi giusti e senza promettere ciò che non si potrà dare. Penso che queste regole siano ancora vincenti, e la consiglierei a chi come in Italia, deve convincere il popolo a votarlo. Lui non temeva i compromessi, ma anche non aveva rancore per i suoi nemici, riuscendo poi quasi sempre a farseli amici. In Le Idi di marzo il candidato presidente democratico George Clooney e i suoi avversari giocano molto sporco. Lincoln vinse il 13° emendamento senza infrangere nessuna legge, solo con la sua sapienza degli uomini e della politica".
Il settimanale Time, di Day-Lewis, tra l’altro il solo vincitore del Golden Globe per il film che aveva 7 candidature, dice, "il più grande attore vivente interpreta il più grande dei presidenti americani". A proposito di grandezza, lei ha pensato di avere qualcosa in comune con Lincoln?
Day-Lewis: "Rifiuto la responsabilità di quell’aggettivo: ci sono tanti attori straordinari e semmai sono onorato di essere considerato uno di loro. Per questo film, perché poi noi attori possiamo essere bravi o pessimi a seconda del momento, della storia, del ruolo. Forse con l’uomo, non certo col presidente, potrei avere in comune, il bisogno di silenzio, talvolta di solitudine, forse la vocazione di padre: c’è una frase di Lincoln che mi piace: "È l’amore a creare l’anello che incatena un padre ai figli"".
Durante una infuocata giornata del Congresso, un rappresentante degli stati confederati segregazionisti, grida: se libereremo gli schiavi, poi i neri pretenderanno il voto, e arriveranno a chiederlo anche le donne. Il congresso accoglie la ferale minaccia con orrore, il pubblico in sala ride. È un episodio vero?
Spielberg: "No, ce lo siamo inventati, ma le donne di quei tempi lo immaginavano, e infatti lottarono perché i neri lo ottenessero. Solo dopo, nel 1920 è stato firmato il 13° emendamento alla costituzione che estendeva il suffragio universale anche alle donne".
* la Repubblica, 18 gennaio 2013
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CINEMA, POLITICA, E FILOSOFIA. Un omaggio a Steven Spielberg ....
PAURA DELLLA GUERRA CIVILE, SCHIAVITU’, E COSTITUZIONE. Dal film "Amistad", l’arringa davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti di John Quincy Adams.
"IO HO UN SOGNO". IL DISCORSO DEL 28 AGOSTO 1963 A WASHINGTON
DI MARTIN LUTHER KING *
Oggi sono felice di essere con voi in quella che nella storia sara’ ricordata come la piu’ grande manifestazione per la liberta’ nella storia del nostro paese. Un secolo fa, un grande americano, che oggi getta su di noi la sua ombra simbolica, firmo’ il Proclama dell’emancipazione. Si trattava di una legge epocale, che accese un grande faro di speranza per milioni di schiavi neri, marchiati dal fuoco di una bruciante ingiustizia. Il proclama giunse come un’aurora di gioia, che metteva fine alla lunga notte della loro cattivita’.
Ma oggi, e sono passati cento anni, i neri non sono ancora liberi. Sono passati cento anni, e la vita dei neri e’ ancora paralizzata dalle pastoie della segregazione e dalle catene della discriminazione. Sono passati cento anni, e i neri vivono in un’isola solitaria di poverta’, in mezzo a un immenso oceano di benessere materiale. Sono passati cento anni, e i neri ancora languiscono negli angoli della societa’ americana, si ritrovano esuli nella propria terra.
Quindi oggi siamo venuti qui per tratteggiare a tinte forti una situazione vergognosa. In un certo senso, siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della nostra repubblica hanno scritto le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione d’indipendenza, hanno firmato un "paghero’" di cui ciascun americano era destinato a ereditare la titolarita’. Il "paghero’" conteneva la promessa che a tutti gli uomini, si’, ai neri come ai bianchi, sarebbero stati garantiti questi diritti inalienabili: "vita, liberta’ e ricerca della felicita’".
Oggi appare evidente che per quanto riguarda i cittadini americani di colore, l’America ha mancato di onorare il suo impegno debitorio. Invece di adempiere a questo sacro dovere, l’America ha dato al popolo nero un assegno a vuoto, un assegno che e’ tornato indietro, con la scritta "copertura insufficiente". Ma noi ci rifiutiamo di credere che la banca della giustizia sia in fallimento. Ci rifiutiamo di credere che nei grandi caveau di opportunita’ di questo paese non vi siano fondi sufficienti. E quindi siamo venuti a incassarlo, questo assegno, l’assegno che offre, a chi le richiede, la ricchezza della liberta’ e la garanzia della giustizia.
Siamo venuti in questo luogo consacrato anche per ricordare all’America l’infuocata urgenza dell’oggi. Quest’ora non e’ fatta per abbandonarsi al lusso di prendersela calma o di assumere la droga tranquillante del gradualismo. Adesso ’ il momento di tradurre in realta’ le promesse della democrazia. Adesso e’ il momento di risollevarci dalla valle buia e desolata della segregazione fino al sentiero soleggiato della giustizia razziale. Adesso e’ il momento di sollevare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale per collocarla sulla roccia compatta della fraternita’. Adesso e’ il momento di tradurre la giustizia in una realta’ per tutti i figli di Dio.
Se la nazione non cogliesse l’urgenza del presente, le conseguenze sarebbero funeste. L’afosa estate della legittima insoddisfazione dei negri non finira’ finche’ non saremo entrati nel frizzante autunno della liberta’ e dell’uguaglianza. Il 1963 non e’ una fine, e’ un principio. Se la nazione tornera’ all’ordinaria amministrazione come se niente fosse accaduto, chi sperava che i neri avessero solo bisogno di sfogarsi un po’ e poi se ne sarebbero rimasti tranquilli rischia di avere una brutta sorpresa.
In America non ci sara’ ne’ riposo ne’ pace finche’ i neri non vedranno garantiti i loro diritti di cittadinanza. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione finche’ non spuntera’ il giorno luminoso della giustizia.
Ma c’e’ qualcosa che devo dire al mio popolo, fermo su una soglia rischiosa, alle porte del palazzo della giustizia: durante il processo che ci portera’ a ottenere il posto che ci spetta di diritto, non dobbiamo commettere torti. Non cerchiamo di placare la sete di liberta’ bevendo alla coppa del rancore e dell’odio. Dobbiamo sempre condurre la nostra lotta su un piano elevato di dignita’ e disciplina. Non dobbiamo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica. Sempre, e ancora e ancora, dobbiamo innalzarci fino alle vette maestose in cui la forza fisica s’incontra con la forza dell’anima.
Il nuovo e meraviglioso clima di combattivita’ di cui oggi e’ impregnata l’intera comunita’ nera non deve indurci a diffidare di tutti i bianchi, perche’ molti nostri fratelli bianchi, come attesta oggi la loro presenza qui, hanno capito che il loro destino e’ legato al nostro. Hanno capito che la loro liberta’ si lega con un nodo inestricabile alla nostra. Non possiamo camminare da soli. E mentre camminiamo, dobbiamo impegnarci con un giuramento: di proseguire sempre avanti. Non possiamo voltarci indietro.
C’e’ chi domanda ai seguaci dei diritti civili: "Quando sarete soddisfatti?". Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i neri continueranno a subire gli indescrivibili orrori della brutalita’ poliziesca. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ non riusciremo a trovare alloggio nei motel delle autostrade e negli alberghi delle citta’, per dare riposo al nostro corpo affaticato dal viaggio. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ tutta la facolta’ di movimento dei neri restera’ limitata alla possibilita’ di trasferirsi da un piccolo ghetto a uno piu’ grande. Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i nostri figli continueranno a essere spogliati dell’identita’ e derubati della dignita’ dai cartelli su cui sta scritto "Riservato ai bianchi". Non potremo mai essere soddisfatti, finche’ i neri del Mississippi non potranno votare e i neri di New York crederanno di non avere niente per cui votare. No, no, non siamo soddisfatti e non saremo mai soddisfatti, finche’ la giustizia non scorrera’ come l’acqua, e la rettitudine come un fiume in piena.
Io non dimentico che alcuni fra voi sono venuti qui dopo grandi prove e tribolazioni. Alcuni di voi hanno lasciato da poco anguste celle di prigione. Alcuni di voi sono venuti da zone dove ricercando la liberta’ sono stati colpiti dalle tempeste della persecuzione e travolti dai venti della brutalita’ poliziesca. Siete i reduci della sofferenza creativa. Continuate il vostro lavoro, nella fede che la sofferenza immeritata ha per frutto la redenzione.
Tornate nel Mississippi, tornate nell’Alabama, tornate nella Carolina del Sud, tornate in Georgia, tornate in Louisiana, tornate alle baraccopoli e ai ghetti delle nostre citta’ del Nord, sapendo che in qualche modo questa situazione puo’ cambiare e cambiera’.
Non indugiamo nella valle della disperazione. Oggi, amici miei, vi dico: anche se dobbiamo affrontare le difficolta’ di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno. E un sogno che ha radici profonde nel sogno americano.
Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgera’ e vivra’ il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verita’ evidenti di per se’, che tutti gli uomini sono creati uguali.
Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternita’.
Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell’ingiustizia, il caldo afoso dell’oppressione, si trasformera’ in un’oasi di liberta’ e di giustizia. Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l’essenza della loro personalita’.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno, laggiu’ nell’Alabama, dove i razzisti sono piu’ che mai accaniti, dove il governatore non parla d’altro che di potere di compromesso interlocutorio e di nullification delle leggi federali, un giorno, proprio la’ nell’Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e sorelle.
Oggi ho un sogno.
Ho un sogno, che un giorno ogni valle sara’ innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sara’ rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme. Questa e’ la nostra speranza. Questa e’ la fede che portero’ con me tornando nel Sud. Con questa fede potremo cavare dalla montagna della disperazione una pietra di speranza.
Con questa fede potremo trasformare le stridenti discordanze della nostra nazione in una bellissima sinfonia di fraternita’.
Con questa fede potremo lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in prigione insieme, schierarci insieme per la liberta’, sapendo che un giorno saremo liberi.
Quel giorno verra’, quel giorno verra’ quando tutti i figli di Dio potranno cantare con un significato nuovo: "Patria mia, e’ di te, dolce terra di liberta’, e’ di te che io canto. Terra dove sono morti i miei padri, terra dell’orgoglio dei Pellegrini, da ogni vetta riecheggi liberta’". E se l’America vuol essere una grande nazione, bisogna che questo diventi vero.
E dunque, che la liberta’ riecheggi dalle straordinarie colline del New Hampshire.
Che la liberta’ riecheggi dalle possenti montagne di New York.
Che la liberta’ riecheggi dagli elevati Allegheny della Pennsylvania.
Che la liberta’ riecheggi dalle innevate Montagne Rocciose del Colorado.
Che la liberta’ riecheggi dai pendii sinuosi della California.
Ma non soltanto.
Che la liberta’ riecheggi dalla Stone Mountain della Georgia.
Che la liberta’ riecheggi dalla Lookout Mountain del Tennessee.
Che la liberta’ riecheggi da ogni collina e da ogni formicaio del Mississippi, da ogni vetta, che riecheggi la liberta’.
E quando questo avverra’, quando faremo riecheggiare la liberta’, quando la lasceremo riecheggiare da ogni villaggio e da ogni paese, da ogni stato e da ogni citta’, saremo riusciti ad avvicinare quel giorno in cui tutti i figli di Dio, neri e bianchi, ebrei e gentili, protestanti e cattolici, potranno prendersi per mano e cantare le parole dell’antico inno: "Liberi finalmente, liberi finalmente. Grazie a Dio onnipotente, siamo liberi finalmente".
* TELEGRAMMI DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO
Numero 3331 del 17 marzo 2019
Telegrammi quotidiani della nonviolenza in cammino proposti dal "Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera" di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza (anno XX)
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: -centropacevt@gmail.com, sito: https://lists.peacelink.it/nonviolenza/
George Saunders fa rivivere Lincoln nel Cimitero Monumentale di Milano (Video).
La presentazione itinerante dell’ultimo romanzo dello scrittore Usa, «Lincoln nel Bardo» (Feltrinelli). Letture tra le tombe monumentali e la conversazione con Paolo Di Paolo - di Antonio Castaldo /Corriere TV
Letture itineranti tra le tombe di un cimitero che è un museo a cielo aperto. È stato presentato così, a Milano lo scorso 12 settembre, l’ultimo libro di George Saunders, «Lincoln nel Bardo», edito da Feltrinelli. Il cimitero monumentale è sembrato agli organizzatori lo scenario ideale dove ambientare una passeggiata narrativa attraverso il polifonico racconto del narratore texano che nel nuovo romanzo evoca le frequenti visite di Abraham Lincoln al cimitero in cui era sepolto il figlio: «Con Trump alla guida siamo costretti a cercare nel passato presidenti da imitare». Le attrici Elena Russo Arman e Anna Nogara hanno letto alcuni brani del romanzo scelti e introdotti da Luca Scarlini. Un folto pubblico ha assistito all’evento, seguendo lo stesso autore all’interno del cimitero milanese. Alla fine Saunders, giunto al suo primo romanzo dopo alcune fortunate raccolte di racconti, è stato intervistato dallo scrittore Paolo Di Paolo sotto le volte costellate di tombe e monumenti marmorei del cimitero.
SPETTACOLO
Steven Spielberg premiato da Barack Obama con la Medaglia per la Libertà
Il presidente Barack Obama ha consegnato ieri al regista cinematografico Steven Spielberg, alla cantante cubano-statunitense Gloria Estefan e al produttore musicale Emilio Estefan, fra gli altri, la Medaglia Presidenziale della Libertà, considerato il massimo riconoscimento civile negli Stati Uniti. "Oggi rendiamo omaggio a delle persone straordinarie, innovatori, artisti e leader che hanno contribuito alla grandezza degli Stati Uniti", ha dichiarato Obama nel corso della cerimonia di consegna dei premi alla Casa Bianca. Obama ha consegnato la Medaglia Presidenziale della Libertà a personalità del mondo della scienza, delle arti, della politica e la lotta per i diritti umani negli Stati Uniti.
Di Spielberg, Obama ha messo in risalto non solo l’aspetto di regista cinematografico ma anche la creazione della Fondazione Shoah, che "ha dato voce ai sopravvissuti del genocidio in tutto il mondo". "Steven ci ha presentato extraterrestri, archeologi cialtroni, squali assassini. Ci ha portato all’Isola che Non C’è, al Jurassic Park, ma anche nelle spiagge della Normandia e nei campi di concentramento nazisti", ha detto Obama riassumendo le principali pellicole di Spielberg, considerato uno dei più grandi registi del globo.
Tra i premiati anche Gloria ed Emilio Estefan. "Molti pensavano che fossero ’troppo latini per gli statunitensi e troppo statunitensi per i latini’. Poi però è risultato che tutto il mondo ama ballare e fare la conga. E insieme, la fusione dei loro suoni ha venduto più di 100 milioni di dischi. E da orgogliosi cubano-statunitensi promuovono la loro eredità culturale e ispirano i loro fan in tutto il mondo", ha detto Obama. Tra gli altri personaggi famosi che hanno ricevuto la Medaglia Presidenziale anche la cantante ed attrice Barbra Streisand, "la cui voce qualcuno ha ben descritto come ’diamanti liquidi’’", ha ricordato il presidente. Ancora, hanno ricevuto il riconoscimento l’ingegnere spaziale Katherine Johnson, l’ex congressista Lee Hamilton, il giocatore di basebal Willie Mays, la senatrice Barbara Mikulski, il violinista Itzhak Perlman, il compositore Stephen Sondheim, il cantautore e chitarrista James Taylor e i funzionari pubblici Bonnie Carroll e William Ruckshaus.
Obama ha cosegnato anche alcuni riconoscimenti ’postumi’, come quello al giocatore di baseball Yogi Berra, la prima congressista afroamericana Shirley Chisholm, il leader nativo americano Billy Frank e il difensore dei diritti umani Minoru Yasui. La Medaglia Presidenziale della Libertà è la massima decorazione al merito civile che il presidente degli Stati Uniti concede a coloro che hanno dato "un contributo significativo alla sicurezza o agli interessi nazionali degli Stati Uniti, alla pace mondiale, alla cultura o con altri meriti privati o pubblici significativi".
Il premio è stato creato dal presidente Harry Truman nel 1945 come riconoscimento per gli atti compiuti durante la Seconda Guerra Mondiale. Il presidente John F. Kennedy istituì poi nuovamente la Medaglia della Libertà nel 1963. Fra coloro che hanno ricevuto in passato la Medaglia si distinguono Marlene Dietrich, Walt Disney, Madre Teresa di Calcutta, Frank Sinatra, Dick Cheney, Margaret Thatcher, Audrey Hepburn, Bill Cosby, Ted Kennedy, Muhammad Ali, Tony Blair, Álvaro Uribe, George H. W. Bush (padre), Nelson Mandela, Donald Rumsfeld, Henry Kissinger, Pau Casals, Plácido Domingo e Angela Merkel, fra gli altri. Postumo, lo hanno ricevuto John Wayne, il presidente Lyndon B. Johnson, Papa Giovanni Paolo XXIII, John F. Kennedy, Katharine Graham (editrice del "The Washington Post") e Martin Luther King, fra gli altri.
"Lincoln": la lezione politica di Spielberg
di Elena Martelli *
Che grande lezione politica, il “Lincoln”, candidato a 12 Oscar, di Steven Spielberg; che spiega, a noi che siamo caduti così in basso in quanto ad orizzonti politici, come la compravendita di voti possa ambire a qualcosa di più alto che il rendiconto personale, a qualcosa che miri a trasformare radicalmente il corso della storia. In questo caso, a far sì che venga approvato il Tredicesimo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America con cui si abolì la schiavitù. Il film, è tutto incentrato sulla raffinata macchinazione politica portata avanti con arguzia e tatticismo anche molto ironico, da Lincoln.
Il kolossal di Spielberg, più debole nella prima parte, con un inizio onestamente umilissimo, unica eccezione di un film potente e sontuoso, è quindi propriamente di parola. E’ lei a vincere, a tessere il gioco, a portare avanti l’azione che si muove al ritmo dei discorsi, dei ragionamenti, degli aneddoti. Lincoln ne racconta tantissimi. E vedrete che questo aspetto sarà parte della prossima caricatura comica in tv, se il film funziona in Italia.
Per ritornare a Spielberg: l’epica c’è ma nella tematica che ispira tutta la narrazione, però cinematograficamente parlando, viene stemperata in un film che vive di volti e dialoghi, tra l’altro bellissimi, anzi sono la vera forza della pellicola. E sono di Tony Kushner che costruisce ogni battuta come un piccolo capolavoro di oratoria e di sagacia. L’altra forza del film è il suo interprete, Daniel Day- Lewis, che ha già vinto un Golden Globe per la migliore interpretazione maschile. Il suo Lincoln è perfetto, un uomo retto che mira ad essere il protagonista numero uno della Storia, per renderla migliore: un politico abilissimo, scaltro, mosso da una forza rivoluzionaria, ecco chi è il suo Lincoln.
Che poi è anche un padre, che tra una riunione di guerra e l’altra, gioca con il figlio che, a sua volta, irrompe nella stanza dei bottoni qui raccontata nella sua semplicità regale, ben lontana dal glamour attuale. Ma poi, il presidente è anche un marito che ha sofferto della perdita di un figlio, con la propria moglie, interpretata da Sally Field, bravissima. Insomma, un uomo dentro una famiglia come tante altre dove, allegria e infelicità, hanno convissuto, formando la trama di ogni matrimonio. E, anche se non è la linea guida fondamentale del film, la relazione fra Lincoln e Molly è una delle parti più interessanti, perché descritta con molta verità e grazia.
La recitazione di Daniel Day-Lewis è possente, fortissima proprio perché spesso giocata sul sussurro. Purtroppo il doppiaggio di Pier Francesco Favino non aiuta, e ci dispiace dirlo perché Picchio è un bravissimo attore. Forse qui fuori ruolo, anche perché riconoscibile, dietro la voce. Poi, questo film parla anche con la propria fotografia, magnifica alla Visconti, bluastra, tetra, di Janusz Kaminski,.
Ed è grande anche nelle figure di contorno, come quella interpretata da Tommy Lee-Jones, un deputato democratico che lotta per l’abolizione della schiavitù per un motivo che qui è meglio non rivelare, per non togliere il gusto di scoprirlo al cinema. E’ uno delle poche astuzie narrative usate da Spielberg che qui ha fatto uno dei film più importanti della sua multiforme carriera, pensando sempre a tutti, a grandi e piccini, ma facendoli però sempre sentire parte di un tutto. Ecco, qui i grandi sono più interessati, anche se è consigliabile la visione in massa, degli adolescenti, seguita poi da dibattito, nelle scuole. Perché questo è un film da professore, del professor Spielberg.
Per la versione meno istituzionale, andate poi a vedere quella western di Tarantino. In fondo, è una simpatica coincidenza che entrambi abbiano pensato alla stessa macrotematica storica - la schiavitù - e su questa si giochino assieme la prossima notte degli Oscar.
* L’ Huffington Post, 16/01/2013 (con foto/video).
Addio James Hood, primo studente nero all’Università dell’Alabama
Insieme a una compagna sfidò il governatore. Grazie a Kennedy potè frequentare le elezioni
James Hood, che mezzo secolo fa ha contribuito a cambiare la storia degli Stati Uniti riuscendo ad essere ammesso come primo studente afroamericano all’ Università dell’Alabama, è morto ieri nella sua casa di Gadsden. Aveva 70 anni.
L’episodio che lo rese famoso risale all’11 giugno 1963. Quel giorno, determinato ad infrangere la barriera razziale nel suo stato, James Hood si presentò davanti all’ateneo a Tuscaloosa per iscriversi ai corsi, assieme ad una sua compagna, Vivian Malone, anche lei di colore.
A dispetto dell’ordine delle autorità federali di ammettere gli studenti neri, il governatore dell’Alabama, George Wallace (democratico e bianco) si oppose fisicamente all’ingresso dei due ragazzi nell’università dell’Alabama. Su ordine del presidente Kennedy, dovette intervenire la guardia federale per consentire infine ai due ragazzi di entrare e iniziare a frequentare i corsi insieme agli studenti bianchi.
Hood lasciò l’Università dell’Alabama dopo pochi mesi. Si trasferì in Michigan dove continuò i suoi studi, ma tornò a Tuscaloosa nel 1999 per conseguire il suo dottorato di ricerca.
Vivian Malone Jones, che quattro anni dopo divenne la prima laureata nera dell’Università, è morta nel 2005 a 63 anni.
* La Stampa, 18/01/2013
Clima, eguaglianza, diritti e accoglienza
Ecco la nuova era di Barack Obama
Pochi attimi dopo aver giurato nelle mani di John Roberts, presidente della Corte Suprema, Obama si è rivolto alla folla del National Mall ripetendo più volte “We, the people”, le parole con cui inizia la Costituzione
Il presidente giura e si richiama ai Padri Fondatori: «Conservare la libertà richiede le azioni di tutti»
di Maurizio Molinari (La Stampa, 21.01.2013)
Con un discorso breve ma intenso il presidente Barack Obama ha chiesto all’America di «agire» per «portare nel presente» «valori e idee» dei Padri Fondatori della Repubblica americana, sottolineando le battaglia che ritiene decisive nei prossimi 4 anni: per la difesa del clima, l’eguaglianza dei diritti dei gay, l’accoglienza degli immigrati e la difesa democrazia nel mondo.
Pochi attimi dopo aver giurato nelle mani di John Roberts, presidente della Corte Suprema, Obama si è rivolto alla folla del National Mall ripetendo più volte “We, the people”, le parole con cui inizia la Costituzione. «Ciò che distingue l’America è il credo nell’uguaglianza fra tutti gli uomini» ha esordito, ricordando che “i patrioti del 1776 non si sono battuti per sostituire un re con i privilegi di pochi” e dunque resta l’uguaglianza il timone della nazione.
Da qui l’appello ai singoli cittadini perché «conservare la libertà collettiva richiede azioni di ogni individui» a cui spetta di «agire assieme, una nazione e un popolo». L’impegno per il nuovo quatriennato che inizia sono di «cogliere le possibilità illimitate» offerte «dalla fine di un decennio di guerre e l’inizio della ripresa».
Obama è a favore della «riduzione dei costi della Sanità e del deficit» ma non vuole smantellare l’impegno dello Stato federale per i cittadini perché «Medicare, Medicaid e Previdenza ci rafforzano». Le promesse riguardano i grandi temi: «Risponderemo alla minaccia dei cambiamenti climatici», «uguaglianza per i fratelli e le sorelle gay», «un metodo migliore per accogliere gli immigrati». E sulla politica estero l’impegno è a «restare l’ancora delle alleanze nel mondo», «sostenendo la democrazia dall’Asia all’Africa, dalle Americhe al Medio Oriente» nella convinzione che «una pace durevole non richiede una guerra perenne».
Nel finale ha ricordato Martin Luther King «che ci ha guidato in questo Mall» per terminare: «Portiamo la luce della libertà verso un incerto futuro».
L’insediamento
Obama, uomo libero libera l’America
di Furio Colombo (il Fatto, 23.01.2013)
Nel suo secondo, indimenticabile discorso inaugurale, il presidente Obama, carismatico come la prima volta, forse di più perché i capelli, intanto, si sono ingrigiti, parla all’America del tempo che sta per venire come di un viaggio. Ma di quel viaggio dice cose molto più forti e più audaci della prima volta, qualcosa che non era mai accaduto. Lo testimonia il New York Times nelle pagine dedicate al nuovo “primo giorno”.
Ma poiché noi parliamo dall’Italia, chiedo ai lettori di guardare per un momento a punti più vicini a noi e più lontani da quel grande quadro di festa. Ecco che cosa si vede e si ascolta. Dovunque si riuniscano think tank e gruppi di lavoro addetti a esaminare i problemi del mondo, a immaginare di spostare truppe, di decidere chi manda chi e che cosa e quale prezzo e dove e per quale ragione (o materia prima da salvare) nelle parti di caos del mondo, si notano riferimenti prudenti ma inquieti a proposito “dell’America che tende a tirarsi indietro”.
Stando attenti a citare il meno possibile il presidente Obama e a evitare di parlare di “nuova politica degli Stati Uniti” a proposito di impegno e disimpegno, ti fanno notare che, quando si tratta di combattere “il pericolo”, “il nemico”, “il terrorismo”, la “sfida di civiltà”, “l’America non è più quella di una volta”. L’ho sentito dire, anche nei giorni scorsi, nel Parlamento italiano durante le riunioni di emergenza delle commissioni Esteri della Camera e del Senato e nella imprevista seduta della Camera del 22 gennaio (dunque a Camere formalmente sciolte) per discutere dell’invasione del Mali, dell’intervento francese, del rifinanziamento del corpo di spedizione italiano in Afghanistan. Pensiero e linguaggio sembravano fermi a George W. Bush (che non si è presentato alla festa di Obama).
MA TORNIAMO a Washington. Il fatto è che lunedì 21 gennaio, davanti a un’immensa folla di cittadini che lo capiscono e lo amano, il solo presidente americano (dopo il 1945) che non abbia iniziato alcuna guerra e che stia chiudendo a una a una quelle che ha trovato, piene di sangue e di morti nel mondo, ha aperto con una frase mai detta prima: “Questo Paese deve avere il coraggio di affrontare e risolvere con strumenti di pace differenze, diffidenze e scontri, non perché sottovalutiamo i pericoli, ma perché i pericoli più grandi sono il sospetto e la paura”. E quando ha rivolto lo sguardo a ciò che sta accadendo nella vita del suo Paese ha detto queste parole difficili da dimenticare: “Non scambiate l’assolutismo per un principio, non confondete uno spettacolo con la politica, non pensate che un insulto valga un argomento della ragione”.
Ma ecco il punto alto, caldo e unico di un discorso presidenziale destinato a segnare un prima e un dopo nella vita degli americani, non solo il Paese, lo Stato o le Istituzioni, ma nei rapporti quotidiani e continui fra cittadini. Ricordiamo che Obama ha giurato sulla Bibbia di Martin Luther King (il 21 gennaio è il giorno che l’America dedica al leader assassinato a Memphis) e su quella di Abraham Lincoln, per evocare insieme la svolta della libertà segnata dal presidente antischiavista, e la svolta dei diritti civili conquistati dal predicatore nero contro il Ku Klux Klan e la segregazione.
E infatti l’incedere della voce, se lo ascoltate, diventa quello delle chiese nere del Sud americano che erano, negli anni Sessanta, i centri di mobilitazione, aggregazione e difesa. Ha detto, in sequenza, queste tre frasi: “Il nostro viaggio non è compiuto finché non raggiungeremo il traguardo dell’uguaglianza, a cominciare dalla paga che spetta per lo stesso lavoro a uomini e donne”.
“Il nostro viaggio non è compiuto finché i nostri bambini, dalle strade di Detroit ai quieti viali di Newtown alle colline dell’Apalachia sapranno che noi ci prendiamo cura di loro e gli facciamo festa e li salviamo da ogni pericolo. Il nostro viaggio non è finito finché i nostri fratelli e sorelle gay non saranno trattati come ognuno di noi, uguali di fronte alla legge”. Ed è come un giocatore di bowling che, con un colpo solo, sbaraglia tutti i birilli. Infatti Obama può dire, subito dopo, che è giusto che vi sia marriage equality, parità dei matrimoni.
E DICHIARA, da presidente, contro la destra americana e del mondo: “Non è vero che l’assistenza medica e un minimo di sicurezza sociale sminuiscono lo spirito imprenditoriale di un Paese. Non è vero che l’intervento sociale fa di noi una nazione di cittadini che chiedono. Essi ci rendono liberi di affrontare i rischi che fanno di noi un grande Paese”. Sono le parole di un presidente libero (unbound, dicono i commentatori americani usando parole da libri d’avventure, per dire qualcuno che si è liberato dalle catene) che governerà l’America nei prossimi quattro anni. Un uomo libero che ha poco conformismo e una visione chiara, quasi profetica, che vuole condividere. È vero, come dicono nei gruppi e think tank che studiano strategia, militare o economica: “L’America (certo l’America di Obama) non è più quella di una volta”.
L’uguaglianza di Obama
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 23.01.2013)
L’eguaglianza è la grande assente nel linguaggio politico contemporaneo, nonostante la nostra sia un’età a tutti gli effetti di egemonia democratica, e la democrazia sia un sistema che fa dell’eguaglianza (civile e politica, ma anche delle condizioni di partecipazione alla vita della società) il suo fondamento e la sua aspirazione.
Nel suo epico discorso di insediamento come 44esimo Presidente degli Stati Uniti, Barak H. Obama lo ha ricordato ai suoi concittadini e a tutto il mondo. E lo ha fatto riandando alle origini del patto sul quale l’America che lo ha rieletto è nata, alla Dichiarazione di Indipendenza: “Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà, e il perseguimento della Felicità”.
A scrivere queste rivoluzionarie parole era stato Thomas Jefferson, un illuminista che credeva come i nostri Filangieri, Verri e Beccaria, che la legge dovesse occuparsi non ad opprimere o dominare ma a creare le condizioni di benessere dei cittadini. La “felicità pubblica” era un ideale importante. Dalla consapevolezza della sua importanza comincia la storia della democrazia moderna.
Il governo, secondo questa filosofia che a noi sembra desueta, dovrebbe creare le condizioni grazie alle quali le persone possono prima di tutto conoscere le loro potenzialità (a questo serve un sistema educativo aperto a tutti) e poi contare su leggi giuste e ben fatte e istituzioni trasparenti e funzionali per poter progettare la loro vita secondo il loro discernimento.
Insomma vivere, e vivere con soddisfazione per quanto possibile, e non nella sofferenza, nell’umiliazione e nella miseria. E questo è un bene per il singolo e la società. Il governo non dispensa felicità dunque. Ciò che si impegna a fare è rendere le persone davvero responsabili della loro vita; far sì che esse possano contare su se stesse, non sulla fortuna di appartenere a una buona famiglia, non sul favore delle persone potenti, non sull’elemosina di chi ha più.
La democrazia, parola per secoli vituperata per volere dare potere e visibilità a tutti, anche ai poveri e inacculturati, è stata nobilitata anche dalla Rivoluzione americana alla quale Obama si è ispirato. Essa ha inaugurato una visione evolutiva delle conquiste sociali e politiche al centro delle quali c’è la persona come valore attivo, agente di scelte, ma anche soggetto dotato di sensazioni e sentimenti, che valuta la propria vita all’interno delle relazioni con gli altri.
Nella democrazia, l’intera struttura della società, dall’etica alla politica, ruota intorno alla persona, ed è valutata in ragione del grado di soddisfazione o di felicità che riesce a procurare a ciascuno. Il benessere e la libertà degli individui sono la condizione per misurare il benessere o il progresso dell’intera società.
Rivalutando questa tradizione che dal Settecento cerca di coniugare democrazia e giustizia, si può dire che c’è giustizia soltanto quando la riflessione pubblica non evade da questi compiti, non lascia il campo alla giungla degli interessi (e quindi alla vittoria di chi è più forte) per riservarsi, eventualmente, di venire in soccorso a chi soccombe. Lo stato della democrazia non fa questo. Esso prepara il terreno all’eguale libertà invece di giungere dopo; non dispensa carità ma garantisce diritti, e per questo promuove politiche sociali.
Ecco perché il principio della libertà individuale non sta solo scritto nelle costituzioni ma diventa a tutti gli effetti un criterio che valorizza le capacità concrete e sostanziali delle persone di vivere il tipo di vita al quale danno valore. L’espansione della libertà è condizione di felicità, perché possibilità di fare, di scegliere, di sperimentare con dignità e senza subire umiliazione.
Ecco perché il tema della giustizia è un tema di risorse o di condizioni di benessere, non semplicemente di esiti e nemmeno soltanto di equo trattamento. A questa promessa di “felicità” è ritornato il presidente Obama per inaugurare il suo secondo mandato: una promessa di impegno per uno sviluppo “illimitato” come o indefinito (cioè senza limiti predeterminati) è il mondo delle nostre possibilità in quanto persone libere nei diritti ed eguali nelle opportunità.
In questo inizio secolo, il viaggio mai finito della democrazia sembra aver trovato il suo Ulisse, nocchiero di un percorso incerto negli esiti e periglioso, ma avvincente e mosso da uno scopo che dovrebbe essere alla nostra portata: vivere con dignità, apprezzando il valore della nostra libertà.