Omero trasloca: epica da rivedere?
Muovendo da Pilo, la città di Nestore, l’ipotesi dello studioso Antonio Aloni è che il centro di elaborazione e l’uditorio per i cantori dell’«Iliade» e dell’«Odissea» sarebbero duplici: l’Atene dei tiranni e gli esuli di Sigeo
di Bianca Garavelli (Avvenire, 12.05.2007)
Anche Nestore, l’eroe di un tempo antico, personaggio già anziano nell’Iliade, ha avuto un passato da giovane glorioso. E attenzione ai suoi racconti di imprese e conflitti: sono ricordi di eventi reali, o meglio la loro rielaborazione poetica in funzione politica. È quel che illustra Antonio Aloni, docente di Letteratura Greca all’Università di Torino, facendoci entrare in un mondo di cui restano ben poche tracce, ma che ancora, per contro, è geograficamente rintracciabile. Così anche oggi un turista innamorato dei bei paesaggi greci potrebbe ritrovarsi senza saperlo sul percorso di Telemaco figlio di Ulisse, che in una sola notte da Itaca raggiunge la città di Pilo e la cui rotta è perfettamente ricostruibile.
Proprio la città di Pilo è il fulcro dell’indagine storica, filologica e sociologica di Aloni: città «una e trina», perché i fondatori della Pilo originaria si sparsero per il Peloponneso e ne crearono altre due con lo stesso nome, diffondendo in ogni dove il seme di Poseidone, il cui figlio Neleo era il mitico fondatore di Pilo, e padre dell’eroe omerico Nestore. Un’origine perciò decisamente illustre per uno dei più potenti clan aristocratici della Grecia classica, a cui apparteneva lo stesso uomo politico ateniese Pisistrato, il «tiranno».
Perché dunque Pilo è così citata nei poemi omerici, che poco dovrebbero avere a che fare con questa mitica città? Per una questione importante: la relazione politica fra i cantori, cioè coloro che raccontavano in poesia le storie degli eroi, e il loro pubblico. Aloni ci spiega come questi cantori, che trasmettevano i motivi di una vasta tradizione orale, dovevano essere necessariamente condizionati dal loro uditorio: quindi per assecondare gusti o competenze geografiche del pubblico cambiavano in un preciso punto il corpus della tradizione, aggiungendo una vicenda, un particolare che poteva colpire o essere apprezzato. Se il cambiamento aveva successo entrava a far parte del corpus, e anche gli altri cantori lo facevan o proprio. Dunque sembra che, tra un’esibizione pubblica e l’altra, l’insieme di episodi che hanno al centro Pilo e Nestore abbiano fatto il loro ingresso nell’Iliade e nell’Odissea, in cui il grande repertorio dei cantori è finalmente confluito.
Fin qui, non ci stupiamo ancora. Ma poi Aloni va oltre, e formula quella che definisce una teoria «temeraria», che riguarda la relazione fra i due grandi poemi omerici, i loro tempi di composizione e la società «dei tiranni» che ne stava a fondamento. Se le vicende dei discendenti di Neleo sono così importanti, è perché i clan aristocratici dei Pisistratidi e degli Alcmeonidi, che costituivano l’uditorio dei temi confluiti nell’Iliade, li riteneva fondamentali per la propria consacrazione, attraverso l’appartenenza alla mitica ascendenza di Neleo. Un po’ come avviene per l’origine divina di Roma garantita dal grande affresco mediterraneo dell’Eneide.
L’ipotesi conclusiva dello studioso, ma in realtà punto di partenza per nuove indagini che saranno certo altrettanto affascinanti, è che l’uditorio di riferimento sia duplice, e perciò due i centri di elaborazione del materiale dei cantori, come due sono i poemi omerici. Il centro promotore dell’Iliade sarebbe l’Atene dei tiranni, la prima a intuire già nel sesto secolo la possibilità dell’uso della poesia scritta in funzione politica. Mentre l’Odissea, così diversa nel tono, risalirebbe a un’evoluzione dei materiali poetici voluta dagli esuli di Atene, costretti, una volta finito il dominio dei tiranni, a fuggire nel quinto secolo a Sigeo, feudo dei Pisistratidi nella Troade. Ippia e Onomacrito per primi, ma anche i loro amici e alleati, che molto probabilmente, immagina Aloni, avrebbero ascoltato con piacere dai cantori le vicende di un nòstos, un grande, epico viaggio di ritorno.
Antonio Aloni
DA PILO A SIGEO
Poemi cantori e scrivani
al tempo dei Tiranni
Edizioni dell’Orso
Pagine 146. Euro 16,00
Circe
Quella maga che continua a sedurci
L’anticipazione Un saggio di Bettini e Franco ripercorre le tappe del mito
Dalla Grecia a oggi, tra interpretazioni e iconografie diverse, l’eterno fascino della figura usata anche da Joyce
Anticipiamo un brano da Il mito di Circe di Maurizio Bettini e Cristiana Franco (Einaudi, pagg. 402, euro 28), in uscita in questi giorni.
di Maurizio Bettini e Cristiana Franco
la Repubblica, 25.02.2010
La reazione eroica di Odisseo instaura sull’isola di Circe una dinamica che ai Greci dell’età arcaica e classica doveva apparire come giusto ordine delle cose. Prima dell’arrivo dell’eroe sull’isola, Aiaie è una terra di sole femmine - Circe e le sue ninfe ancelle - in cui il potere virile viene neutralizzato ogni volta che si affaccia all’orizzonte. Ogni uomo che passa di lì perde la propria identità di essere umano maschio libero indipendente, trasformandosi in belva sottomessa o in bestia da cortile, in ogni caso al servizio della dea.
Doveva giungere il guerriero di Itaca perché l’incantesimo si rompesse - così aveva preannunciato Hermes - e Circe, almeno una volta, fosse sottomessa a una volontà maschile. Ecco perché a Odisseo non capita quello che accadrà all’"Ulisse" di Joyce, umiliato e trasformato in donna dalla sua virilissima "Circe". Né quello che succede agli hetáiroi, ridotti a un branco di suini all’ingrasso, ammassati nel porcile e nutriti dalle mani della dea, che possono essere salvati soltanto dal «cinghiale» eroico, il loro capo, capace di affrontare e vincere Circe a spada tratta. Come Penelope, anche Circe non cede a un pretendente qualunque; come Penelope, anche Circe accetta solo Odisseo nel proprio letto. (...)
Se nel racconto omerico Odisseo finisce per rimanere da Circe un anno intero, senza mai desiderare di andarsene (sono i suoi compagni a protestare per la lunga permanenza) è proprio perché ha scelto di essere temuto, anziché disprezzato. Benché nel riassumere le proprie traversie Odisseo equipari le due esperienze presso Calipso e presso Circe, dicendo che entrambe lo avevano trattenuto volendolo come sposo, egli non è schiavo di Circe come invece poi lo sarà della ninfa a Ogigia. Ad Aiaie nessuno cerca di fermarlo: appena chiede di ripartire, Circe gli fornisce i mezzi e lo aiuta a raggiungere il suo scopo.
In questo senso, l’episodio omerico di Circe è qualcosa di più che un racconto fantastico: è insieme una scena di riconoscimento e una narrativa esemplare. La dea riconosce in Odisseo l’uomo della profezia, l’eroe destinato a sottometterla e il maschio degno del letto divino. Il lieto fine del racconto indica che l’intervento di Odisseo ha normalizzato una situazione anomala e pericolosa; per una volta, per quell’anno trascorso dall’eroe ad Aiaie, nella casa di Circe maschi e femmine, umani e animali sono stati messi al loro posto.
L’affermazione che l’Odissea sia stata composta da una donna è una provocazione che ricorre nella storia della ricezione del poema almeno fin dall’epoca di Tolomeo Chenno. Questo singolare autore dell’età imperiale (...) raccontava di come Omero avesse rubato il materiale dei suoi poemi plagiando l’opera di una sacerdotessa egiziana dal nome piuttosto significativo: Phantasia. Pochi oggigiorno sono disposti a prendere sul serio ipotesi di questo tipo, e tuttavia, a tenerla in considerazione almeno per un istante, ci si guadagna in consapevolezza di quanto varia possa essere la risposta dei lettori a un medesimo testo. Con ciò si avverte anche la necessità di abbandonare il tono impersonale del resoconto per denunciare il carattere parziale e relativo della propria lettura e i presupposti impliciti su cui essa poggia.
Nella lettura dell’episodio di Circe che ho proposto, l’assunzione di fondo è che il mondo di valori espresso dal racconto omerico possegga una sua coerenza interna e sia eminentemente androcentrico. Per lo scrittore inglese Samuel Butler, uno dei convinti assertori dell’authorship femminile del poema, proprio la lettura del passaggio su Circe era stata invece rivelatrice dello sguardo femminile nascosto sotto la finzione autoriale: quale uomo avrebbe potuto concepire una regina che regna sulla sua isola da sola, senza l’aiuto dei maschi?
In forma meno ingenua, il dubbio sul tipo di sguardo presupposto dalle figure femminili dell’Odissea è stato espresso più recentemente da altri lettori e lettrici. Si è notato, per esempio, che la celebrata fedeltà del marito di Penelope non è affatto rappresentata nel poema come supina passività, ma è piuttosto espressione di volontà, ingegnosità e capacità d’azione (e non solo per il trucco della tela con cui tiene a bada i pretendenti arroganti). Insomma le figure femminili del poema, con la loro dignità, forza e determinazione sono sembrate incompatibili con una visione del mondo oppressivamente maschile e maschilista, in cui non ci sarebbe alcuno spazio di riconoscimento per i saperi e le competenze delle donne.
Fino a qualche anno fa gli studiosi pensavano di spiegare la presenza di questi elementi come sopravvivenze di un mondo antecedente alla composizione dei poemi, ricordi fossili, ormai privi di riferimento reale, di una società in cui le donne avrebbero goduto di uno status decisamente superiore a quello loro riservato dalle più recenti culture maschiliste. Circe, in questo quadro, sarebbe stata un’ipostasi della grande dea mediterranea «Signora delle erbe», accompagnata dal paredro Helios, e venerata come potente prima dell’arrivo degli Indoeuropei. Miraggi di società matriarcali e di ordini simbolici dominati dalla Dea Madre.
Apparirà evidente che non condivido il carattere semplificatorio e autoconsolatorio di molte fra queste posizioni. Non c’è dubbio che ogni lettrice dell’Odissea sia libera di scegliere fra differenti opzioni. (...) La mia proposta presuppone che il mito di Circe, per come è raccontato, abbia un precisa funzione narrativa all’interno di quella sezione del poema e che questa funzione si illumini a partire dalla fine: la grandezza di Circe nella prima parte del racconto sta soprattutto in funzione dell’importanza e del valore del gesto dell’eroe che, al contrario dei suoi compagni, risulta oggettivamente capace di scampare l’insidia e conquistarsi l’amore e l’appoggio di una dea.
Se davvero a comporre il poema fosse stata un aedo donna, credo dovremmo meravigliarci di quanto abile sia stata costei ad assumere su Circe - e sugli altri caratteri femminili delle avventure narrate dall’eroe - lo sguardo virile del narratore interno, nonché a prestargli una certa vanità di maschio, corteggiato e conteso da mortali e dee del pari, che tutte a suo dire lo vorrebbero «fare sposo».
L’Odissea è una narrativa complessa e raffinata, non dimentichiamolo: quel che sappiamo di Circe è quello che Odisseo racconta per compiacere i suoi ospiti, convincerli del proprio prestigio e guadagnarsi così la via del ritorno. I Feaci lo prendono sul serio. E così, io credo, il poema invita a fare anche con noi.
Simone Weil la guerriera Il mito greco e l’orrore nazista
di Nadia Fusini (la Repubblica, 15.07.2008)
La filosofa francese espresse le sue idee in un saggio sull’Iliade, scritto a pochi mesi dall’occupazione tedesca di Parigi Una riflessione al femminile sui temi della forza e della ferocia. Tre esperienze diverse a contatto con la brutalità del Novecento Leggere l’opera di Omero l’aiutò: nel passato trovò principi e valori con cui rispondere all’angoscia del presente Il culto della virilità non è solo una prerogativa di Hitler ma serpeggia nel fondo ideologico delle politiche e delle società dell’Occidente
Anni fa, Angela Putino, un’indimenticabile amica filosofa troppo presto scomparsa, scriveva: «Simone Weil è una donna e il significante che la presenta al mondo degli altri è precisamente quello di "donna", che la pone in un luogo che dice della sua esperienza come un esperire che non è di ognuno». A Simone Weil Angela ha dedicato negli anni un’attenzione fervida, incarnata in interventi orali e in libri, sì che è diventata il mio ponte verso Simone.
Io leggo Simone con Angela, mai senza di lei. Insieme ci eravamo più volte interrogate sulla violenza; se e come, essendo per noi donne un’esperienza di cui siamo spesso vittime, non si produca in noi per ciò stesso un pensiero differente. Che contrasta, fessura, scarta rispetto ai luoghi comuni, ai pregiudizi, alle convenzioni.
Chi si presenta al mondo vestita di quel significante che l’abbiglia di certi carismi e doni, sa che tra quei doni e carismi c’è la vulnerabilità. Nella donna, il genere umano si coglie nella sua propria nudità di preda. E’ un sentimento di sé che una donna conosce bene; a volte, ci gioca. E fa la preda; si atteggia, come la Lulù di Wedekind, a meravigliosa belva. Ma per lo più, subisce. E ha paura.
Spesso e volentieri una donna convive con un sentimento di sé, direi alla Jane Austen, di un gentil sesso debole, quanto a equipaggiamento fisico. La sua forza la depone come fosse un seme, o un uovo, altrove: la cova o la coltiva nella sopportazione di dolori che l’uomo non conosce. E’ lei a partorire la vita e sempre lei al capezzale di chi muore.
Al contrario, l’esercizio della forza è un compito da cui la cultura, la civiltà l’hanno assolta. Non le chiedevano, almeno nel passato, di combattere. Nella tradizione, se una donna andava in guerra era per curare i feriti. Ora è vero, ci sono donne - soldato, ma l’ipocrisia vuole che quegli eserciti siano al servizio non della guerra, ma della pace. Per lo più è ancora vero che se si tratta di violare, penetrare, è piuttosto l’uomo maschio chiamato a farlo. Lui si è specializzato nella performance. E nel gusto.
Proprio per questo, tanto più interessante risulta che nel cuore del secolo scorso tre donne diverse, lontane tra loro, si siano arrischiate in una riflessione sulla violenza di un’altezza abissale. Di queste tre donne - Simone Weil, Rachel Bespaloff, Hannah Arendt - vi racconterò. Mi direte: non solo delle donne si sono interrogate in quegli anni su che cosa accadesse; anche degli uomini l’hanno fatto. E io risponderò che queste tre donne in particolare sono scese come palombare nelle tenebre del male assoluto, della violenza smisurata che segnò il cuore dei loro anni. Hitler e l’hitlerismo ponevano questioni alla mente, al cuore e alla carne, che queste tre donne seppero sostenere. Per dirlo con una bravissima studiosa di Simone Weil, Rita Fulco, seppero «corrispondere al limite». E cioè, rispondere di contraddizioni strazianti, che mettevano il pensiero di fronte all’impensabile.
Perché donne? Lo seppero fare, intendo dire, proprio perché donne? Risponderei di sì, e non per orgoglio femminista, ma perché mi torna alla mente una conversazione con un’amica psicoanalista argentina, Maria Elena Petrilli, in cui mi diceva come da parte delle bambine vi sia una precoce percezione del proprio corpo, tanto più misteriosa perché, al contrario dei maschi, non possono verificare in modo semplice e diretto l’integrità di organi interni, invisibili. E’ per questo, mi chiedevo mentre la mia amica parlava, che il corpo per una donna non è mai mero oggetto, ma sempre vita? Per dirla con Husserl, mai Körper, sempre Leib? E cioè, essere vivente? Non è così, evidentemente, per un uomo maschio, se può violentare un corpo di donna. E se lo fa, e può farlo, è perché il corpo dell’«altro», evidentemente, non lo sente, né lo pensa come il ‘suo’.
Ma chi non percepisce l’altro come essere vivente, chi addirittura arriva a pensare che la violenza corrisponde a un fantasma di godimento, una specifica joussance, o volupté femminile; chi riesce a sottrarsi alla percezione dell’altro come di sé medesimo, chi non sperimenti in sé l’estraneo, è questo un uomo? «Sperimentazione dell’estraneo», chiama Simone Weil la facoltà che più le interessa. E si chiede: perché non si interroga sul proprio perverso piacere chi nell’altro si diverte a suscitare il grido di dolore? Finché non si avrà il coraggio di andare a ‘vedere’ lo spazio cieco in cui nasce questa violenza, insiste, non si comprenderà lo sfondo spettrale e cieco della violenza tout court. Ma chi può farlo? Non certo chi la violenza la esercita. Perché in chi provoca sventura c’è una voluta ignoranza della sofferenza che provoca. Ecco perché la violenza è cieca.
Non che Simone Weil non veda la complicità tra il fantasma della forza e l’attitudine alla sottomissione, il nodo che aggioga vittima e carnefice nella medesima anestesia del corpo e della mente. Simone anzi riconosce che il culto della Forza non è solo la tabe viriloide dell’hitlerismo, ma serpeggia nel fondo ideale e ideologico delle politiche e delle società d’Occidente.
Legge la sua drammatica potenza e tragica realtà nell’Iliade, che ribattezza «il poema della forza». E proprio prima di partire per New York, onde sfuggire alla persecuzione razzista, consegna alla rivista Cahiers du Sud il saggio sull’Iliade, che comparirà a Marsiglia nel gennaio 1941, a firma di Emile Novis, anagramma di Simone Weil.
Il saggio si apre con queste parole: «L’Iliade è il poema della forza. Il vero eroe, il vero argomento dell’Iliade è la forza». E continua: «la forza è ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa». Sono affermazioni che risuonano nette come uno schiaffo, sonore, definitive. A conferma di una condanna, a cui la spinge il pacifismo radicale che la ispira. La forza, sia che la si possieda come Achille, sia che la si subisca come Ettore, distrugge. Sono paurose, insiste Simone, le visioni di violenza che si aprono nel poema omerico, dove l’essere coincide con l’essere-per-la-morte, dove è il pensiero della morte a dare agli eventi «il colore dell’eternità». La forza è l’ingiustizia, la forza è il male. Omero, né dalla parte dei Greci, né dalla parte dei Troiani, la descrive con amarezza e imparzialità.
Con la sconfitta della Francia nel 1940, l’occupazione di Parigi, e la montante barbarie nazista, inesorabile, tremenda, la storia imponeva non solo a Simone di alzare la guardia. Leggere il grande libro l’aiutò; in uno scrigno del passato trovò principi e valori con cui rispondere all’angoscia del presente. Lesse di come la violenza tenda all’annientamento della presenza umana, quanto la forza sia irreale, che cumulo di menzogne produca. La forza «de-realizza», comprese Simone: «la violenza stritola quelli che tocca», «uccidere è sempre uccidersi». Tra le pieghe del grande libro colse la visione dell’annullamento della presenza umana. Può forse il guerriero desiderare che l’altro viva? si chiese. Evidentemente no. Pure, per lei, era questo essere umani, l’unica forza a cui umanamente soccombere era quella di Amore; solo Amore fa guerra alla guerra - proclamò la «pensatrice guerriera».
Non era certo facile in quegli anni violenti trovare la forza di rinnegare ogni uso della forza ai fini della vita, proclamare la necessità dell’amore contro la necessità della forza. Di fronte all’ «irrealtà» che aveva in quegli anni il nome di Hitler l’idea di giustizia guidò l’«impolitica» Simone alla capriola finale: prese parte alla guerra, si fece per l’appunto «guerriera». Tornò dagli Stati Uniti a Londra, chiese di essere paracadutata oltre le linee nemiche. E alla fine, non potendo mettere fine alla battaglia, se la conficcò come una croce nel suo proprio cuore, e ne morì.
(1. Continua)
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In esilio con Omero. Rachel e la forza della guerra
di Nadia Fusini (la Repubblica, 18.07.2008)
Nei guerrieri greci non vede né buoni né cattivi, ma il segreto dell’esistenza. Una visione che non le bastò: morì suicida nel ’49 La pensatrice ebrea Bespaloff sbarcò a New York nel ’43, come Simone Weil. E, come lei, trovò nell’Iliade la chiave per capire le tenebre Se il conflitto distrugge ciò che tocca, restituisce alla vita suprema importanza La poesia omerica e quella biblica avevano la facoltà di ricostituire il cuore umano
Due donne negli stessi anni leggono lo stesso libro, l’Iliade. Fatto di per sé interessante, osserva Laura Sanò nel suo bel libro Un pensiero in esilio. La filosofia di Rachel Bespaloff (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici). È così: in un libro, l’Iliade, che non cancella, ma accompagna l’altro, la Bibbia, Simone Weil e Rachel Bespaloff, trovano la luce per comprendere le tenebre dei loro giorni.
Due donne, entrambe ebree, entrambi esuli, entrambe destinate a una morte precoce, entrambe in procinto di lasciare l’Europa, fissano lo sguardo su un testo che è all’inizio della civiltà e tradizione in cui le donne si riconoscono: la coincidenza, ripeto, non può passare inosservata. E la nota difatti l’amico caro Jean Wahl nella prefazione a De l’Iliade, che viene pubblicato in francese a New York nel 1943. Nel 1947 appare la traduzione in inglese On the Iliad, ad opera di Mary McCarthy, con introduzione di Hemann Broch. In italiano il testo esce per Città Aperta Edizioni nel 2004. Simone Weil e Rachel Bespaloff non si conoscono. Ma si sfiorano più volte. Nella primavera del 1938 Rachel viene a curarsi nella stessa clinica svizzera per malattie nervose, dove l’anno precedente era stata ricoverata Simone. A Ginevra entrambe sostano a lungo a una mostra di quadri di Goya.
Negli stessi giorni del maggio 1942 sono entrambe a Marsiglia in attesa di un visto per fuggire dalla Gestapo, e dunque dall’Europa, direzione New York, dove giungono nella medesima estate.
Ma non viaggiarono sulla stessa nave, né capitò loro di incontrarsi in terra americana. Simone ripartì presto per Londra, perché voleva che il proprio destino si compisse nel bel mezzo della lotta; Rachel si trasferì al College di Mount Holyhoke, dove Jean Wahl le aveva trovato un incarico di insegnamento. E lì rimarrà, fino alla morte che si diede di sua propria mano nell’aprile 1949.
Le due donne, ripeto, non si incontrano, e tuttavia una trama di coincidenze le avvicina. Prima di partire per gli Stati Uniti Simone aveva consegnato ai Cahiers du Sud il saggio su L’Iliade, poema della forza, che uscirà a Marsiglia nel numero del dic.1940-genn.1941. Aveva iniziato la stesura dello scritto nel ‘39. Nello stesso anno Rachel rileggeva l’Iliade insieme con la figlia, che seguiva con materna sollecitudine negli studi. Una passione la prese per quel libro meraviglioso, e cominciò a prendere appunti, ad accumulare note su note; sentiva in Omero il tono, l’accento della verità. Sì, l’Iliade è davvero, come la Bibbia, un libro ispirato, disse. Scoprì tardi, quando ormai il suo testo nelle sue linee fondamentali era quasi compiuto, il saggio di Simone. A spedirlo al suo indirizzo fu un amico, che lei ringrazia con impeto, grata e meravigliata. Confessa: «Vi sono intere pagine delle mie note che potrebbero sembrare un plagio». Ma non si tratta di plagio. Né di identità di vedute.
E’ qualcosa di più straordinario: è la corrispondenza misteriosa e profonda di due intelligenze e sensibilità diverse, ma della medesima qualità rabdomantica, che leggendo un testo del passato rispondono del loro presente.
Sì, anche per Rachel il mondo di Omero è il mondo della forza. Attenzione, però: la forza, così come la legge Rachel, non è né bene né male. Non si tratta di condannare né di assolvere la forza. Essa è, come la vita è. Gli eroi di Omero non sono né bellicisti né pacifisti. La forza di Ettore, come la forza di Achille sono rami del medesimo tronco. Achille e Ettore sono una sola cosa agli occhi di Zeus, come di Omero. Nel mondo di Omero, come in quello di Platone, l’ingiustizia o la si impone o la si subisce.
Non c’è in Omero, né tantomeno in Rachel, nessuna apologia della medesima; Omero, al contrario, è «il poeta dell’infelicità», dichiara Rachel. Non dei trionfi, né delle apoteosi. Amarezza, vi aveva trovato Simone: «il tono non cessa mai di essere intriso di amarezza»; proprio questo sentimento della «miseria umana», aveva dichiarato sicura, suscita un «amore doloroso» per ciò che è minacciato dalla forza. Di «tenerezza verso le cose periture» parla Rachel. Entrambe intuiscono in Omero una compassione "che conosce".
Sì, è vero, continua Rachel, l’eraclitea: Polemos è padre e re di tutte le cose. La guerra non dà tregua. Si nutre dell’infelicità degli uomini. Ha questo solo e unico appetito e di questo appetito prospera. Gode del proprio abuso. Enorme il sacrificio umano che Ares esige. Ma è anche vero che Ares è, a suo modo, imparziale, e uccide chi ha ucciso. E alla fine la guerra arriva a consumare le differenze; tanto che il vincitore assomiglierà a tutti i vincitori, il vinto a tutti i vinti. E non si può nascondere che v’è una certa qual "bellezza della forza", un suo «fascino ipnotizzante», addirittura narcotizzante, come la stessa Weil aveva riconosciuto. Si potrebbe addirittura dire, anzi Rachel lo afferma, che Omero «divinizza la sovrabbondanza di vita che massimamente rifulge nel disprezzo della morte, nell’estasi del sacrificio». Nella violenza, insomma. Ma anche: come non accorgersi nello stesso momento della fatalità che muta quella stessa forza in inerzia, in impulso cieco, maligno?
Non bisogna né stupirsi, né indignarsi, continua Rachel: non ci sono buoni e cattivi; nessuna falsa e semplicistica dicotomia servirà a rincuorarci. Chi si appassioni alla giustizia, dovrà convivere con il lutto della medesima. Si badi bene: non stancarsi di piangerla, di evocarla, ma nel riconoscimento che la vita non si lascia giudicare, misurare, condannare o giustificare dal vivente.
In altri termini, Rachel scopre (è qui che Omero le "serve") che "polemico" è il carattere costitutivo dell’essere. La realtà è polemos. La contraddizione è principio ontologico. Il dolore non è accidentale. In questo senso, la guerra tra Ettore e Achille non decreta un vincitore: l’uno non può togliere l’altro. Rachel è anti-dialettica, il suo pensiero è radicalmente tragico. Ha inoltre un temperamento melanconico. Per lei la contraddizione non potrà mai essere superata, non si darà sintesi dialettica delle differenze che Achille e Ettore sono.
Ma se la guerra distrugge ciò che tocca, al tempo stesso restituisce alla vita che divora un’importanza suprema: questo la poesia di Omero dimostra. Nella poesia di Omero si risolvono e pacificano i contrasti. E’ la poesia di Omero a trasportarci altrove, in quei momenti di smarrimento in cui avvengono le scelte morali e religiose, anche quando siano dettate dal destino, e perciò inevitabili; quei momenti, o quelle svolte della vita, quelle crisi, in cui l’uomo incontra se stesso, anche quando la decisione sia imposta. E’ in quella spazio di interiorità, in quell’istante che si manifesta per tutti e ciascuno il segreto dell’esistenza. A sorprendere questo segreto è la poesia, per Rachel: una poesia che abbia, come quella omerica, come quella biblica, la suprema facoltà di ricostituire quel cuore umano. Per Simone, era l’amore, ricordate? l’amore di Dio, naturalmente; l’amore che l’uomo prova per Dio. E di Dio per lui. Mentre per Rachel è la poesia. In quanto «la poesia rapisce alla bellezza il segreto della giustizia vietato alla Storia».
Come ho detto, Rachel non tornò dall’esilio americano. In un certo senso Rachel era Ettore: provava affetti di un’esigenza terribile che le si imponevano come a Ettore la patria; sentiva responsabilità che la legavano al paese in cui l’esilio le si confermò come un destino - "cronico" lo definì. «Vivere qui» disse «è come un’amputazione». «La guerra vista da qui non ha realtà».
Ma la guerra dové viverla dentro di sé, e la violenza l’assaporò fino in fondo, quando all’età di 55 anni si suicidò. Sigillò bene le porte e le finestre e aprì il gas. Quanto a Simone, lei era Achille. Tornò in Europa e fino alla fine dei suoi giorni non pensò ad altro, se non a come combattere l’infamia nazista. La morte le giunse per fame. Nel chiasmo della
Il segreto di Hannah
Quel che Kafka rivelò alla Arendt
Se la Weil e la Bespaloff avevano intuito il tema dello sradicamento umano, lei poté osservare l’intera parabola del totalitarismo
Durante l’esilio in America, la pensatrice affrontò "Il Castello" e capì il male radicale che stava stravolgendo il mondo
Solo la coscienza individuale può difendere il volto etico dell’esistenza
L’abuso della forza tramutava in dis-umani sia i persecutori che le vittime
di Nadia Fusini (la Repubblica, 21.07.2008)
Nell’agosto 1944 Hannah Arendt fu invitata ai colloqui di Pontigny-en-Amerique, che si svolgevano presso il College di Mount Holyhoke, nel Massachussets, non lontanto da Boston. Dal monastero circestense in Borgogna, armi e bagagli gli «Entretiens de Pontigny» si erano lì trasferiti, dopo l’invasione nazista del suolo francese, e Mount Holyhoke era diventato in quegli anni un sicuro riparo per chi di origine ebraica fuggisse dalle persecuzioni razziali. Del comitato di intellettuali esuli facevano parte Jacques Maritain, Gustave Cohen, Jean Wahl. Insieme con Jean Wahl, nel 1942 era arrivata Rachel Bespaloff. La quale dal ‘43 aveva preso a insegnare Letteratura Francese.
Rachel era senz’altro tra coloro che in quell’agosto ascoltarono il discorso di Hannah Arendt su Kafka. Partendo dal romanzo Il Castello, Hannah Arendt affrontava lo stesso tema della violenza, cui Rachel e Simone Weil s’erano appassionate leggendo l’Iliade. A partire da un testo letterario anche lei rifletteva sul presente.
Kafka era vicino, assai più vicino di Omero; era più facile, in un certo senso, leggerlo come un pensatore politico. E soprattutto profetico, perché Hannah Arendt rintraccia nel romanzo kafkiano la descrizione di una nuova forma di governo, sconosciuta - osserva - a Montesquieu; la forma che di lì a poco - Kafka scriveva negli anni ‘20 - il mondo avrebbe assunto. Anzi, aveva assunto.
Agli orecchi di chi ascoltava l’appassionata conferenza si profilò un nuovo nesso tra passato e futuro; un vincolo agghiacciante in cui il futuro investiva d’impeto il presente e non donava, semmai toglieva il passato, facendosi beffe di ogni umana, troppo umana arroganza. Ma se il futuro era alle spalle, e il presente intransitabile - che fare?
La domanda non è irrilevante per Hannah, la quale si presenterà sempre non come una filosofa: «Io non appartengo alla cerchia dei filosofi» ripeterà più volte. Ci tiene a dirlo, quasi annunciasse in tal modo la sua vocazione, che è quella di pensare: «il mio mestiere, la mia disciplina è di pensare» afferma senza mezzi termini; e prosegue qualificando il suo proprio modo di pensare come Selbstdenken. E cioè, al modo di una che pensa da sé, che pensa da sola. Così amava dire Rahel Levin Varnhagen, la giovane donna ebrea a cui all’inizio degli anni Trenta aveva dedicato la sua attenzione. Quando nel suo salotto letterario di Berlino Rachel conversava con Schlegel, con Humboldt, con Schleiermacher, Rachel proclamava: «tutto dipende dal riuscire a pensare da soli». Appunto.
Il fatto che si pensi da soli, però, non significa che i pensieri non si intreccino in una rete di stimoli, impulsi, echi, rimandi. E’ questa trama, al contrario, che io invito a cogliere tra i pensieri di Hannah, di Rachel - questa Rachel che ora Hannah ha di fronte in ascolto - e Simone.
Dopo il seminario di Mount Holyhoke Rachel Bespaloff e Hannah Arendt si incontrarono un’altra volta a una cena a cui erano presenti, tra gli altri, Hermann Broch e Mary McCarthy. I quali saranno nel tempo grandi amici di Hannah. Ed erano stati entrambi coinvolti nella pubblicazione in inglese del saggio sull’Iliade di Rachel. Se Rachel ascoltò Hannah, perché Hannah non avrebbe dovuto leggere Rachel?
Pur nelle distinzioni che rimangono tra loro, le due donne condividono esperienze che le accomunano; l’esilio, la persecuzione, e delle letture. Kafka, Benjamin, Brecht sono nomi che dicono molto anche a Rachel. La quale in quegli anni legge i romanzi di Albert Camus e rabbrividisce alla «furia di gelida violenza» che vi trova.
K. - il protagonista del Castello - spiega Hannah voleva essere un uomo come tutti gli altri. Ma scopre che la società in cui vive non è più umana; ragion per cui, la sua intenzione, all’apparenza semplice, modesta, di realizzare i diritti umani essenziali risulterà in un progetto impossibile a realizzare. Le forze di un singolo individuo possono bastare a costruirsi una camera, osserva Hannah, ma non «a soddisfare il bisogno elementare di vivere un’esistenza umana».
Ecco, il male - che Simone aveva definito «incolore, monotono, arido, noioso», e Hannah chiama «radicale», mentre più tardi, con maggiore precisione, sostituirà l’aggettivo «radicale» con «estremo». Ecco, la violenza - e cioè, la distruzione della dignità umana, l’uccisione della personalità morale, dell’unicità dell’uomo. Ecco l’«uomo-cosa». Ecco l’«irrealtà». Un uomo di buona volontà, il quale vuole solo quello che gli spetta di diritto, e cioè una casa, un lavoro, una famiglia, il diritto di cittadinanza; un uomo che non chiede mai nulla più del giusto, le cui ambizioni sono tutte qui, ripete Hannah: avere una casa, una posizione, un lavoro - viene trattato come se chiedesse l’impossibile. Gli si fa capire che potrebbe avere quel che esige, se solo lo chiedesse come un dono, come un’elargizione dall’alto; non come un diritto. K. si rende conto di qualcosa che è accaduto senza che tutti gli altri abitanti del villaggio l’abbiano compreso; anzi, proprio senza rendersene conto, l’hanno accettato. E’ accaduto che tutto ciò che secondo natura dovrebbe essere in mano all’uomo gli è stato sottratto dal potere, e gli torna dall’alto come destino, o come dono, o come una maledizione. K. non vuole accettare quel sistema di violenza, né l’ossessione della paura in cui vive il villaggio all’ombra del Castello. Morirà spossato in una battaglia che non riesce neppure a ingaggiare.
Il potere di fatto non gli riconosce la libertà, ovvero, la «capacità umana di agire», di confrontarsi in un’«amicizia eguale» con gli altri, di costruirsi la sua propria vita. Ecco il male radicale, il male estremo che soffoca l’esistenza. - argomenta Hannah. Kafka lo rivela. Coglie il segreto doloroso, ma vero, dell’esistenza umana. Che il tramite sia l’Iliade, o il Castello, chi legge il testo vi legge il mondo.
Se avvicino Hannah Arendt a Simone Weil (e a Rachel Bespaloff) non è per stringerle in una identità di vedute che le scolorisca l’una sull’altra. Sono al contrario ben avvertita del «doppio paradosso» di cui parla Roberto Esposito nel suo bel libro L’origine della politica: Hannah Arendt o Simone Weil?, uscito qualche anno fa per Donzelli: quel che le avvicina, nel loro caso, sono d’accordo, è una «lontananza approssimante», «una distanza che congiunge». Ma le risonanze contano e quello «sradicamento umano», che sia Simone sia Rachel avevano intuito nei loro anni, e ora si stava realizzando, Hannah, che sopravvisse loro, ebbe il tempo di vederlo. Simone, ricordo, morì nel 1943. Rachel nel ‘49.
Hannah nel ‘65. Erano nate Simone nel 1909, Rachel nel 1895 e Hannah nel 1906. Se le prime due conobbero la sola ipostasi nazi-fascista, Hannah potè osservare per intero compiersi la parabola del fenomeno totalitario. Ebbe modo dunque di portare a fondo un’intelligenza che si nutrì anche dell’incontro con il pensiero delle altre due donne. Anzi, con un pensiero femminile che non separava la filosofia dalla vita, né la lettura dall’esistenza.
Un pensiero la cui potenza di illuminazione cresceva in proporzione all’indignazione etica, secondo una piega che muoveva la sensibilità e l’intelligenza a prendere il punto di vista dell’altro, a mettersi nei panni del più debole.
La «forza» torna al centro della sua attenzione. Simone l’aveva detto: «non credo che si capisca molto dei rapporti umani, se non si mette al centro la nozione di forza». Hannah la segue; ma di quella forza, che Simone vede come costante universale della natura umana (della quale verità l’Iliade è «il più bello, il più puro degli specchi»), vuole descrivere l’espressione "nuova", frutto dei regimi totalitari che indaga. Nel mondo di Hannah, secondo Hannah, è accaduto qualcosa di nuovo, una degenerazione, una perversione, una mostruosità abnorme in cui l’abuso della forza tramuta in dis-umani sia i persecutori, sia le vittime.
Tutto è forza, «salvo in un punto» aveva detto Simone. In quel «punto» aveva identificato una specie di non-forza, una specie di negativo della forza, e l’aveva chiamato Amore. Amore tiene in pugno Ares, aveva detto. Rachel quel «punto» lo chiama piuttosto poesia, ovvero la capacità del poeta di mantenere viva nella parola l’avventura umana della conoscenza. La sua difesa di un luogo dell’interiorità, dove l’esistenza prende un volto etico.
Per Hannah quel «punto» è la coscienza individuale. La forza ha il potere di «congelare l’anima», aveva detto Simone. Hannah riprende l’immagine, e la modula diversamente: mai nessun potere, afferma, ha preteso l’annientamento della presenza umana, se non quello totalitario. Mai nessun potere ha voluto con altrettanta determinazione annichilire la coscienza. Qui si vuole non soltanto l’obbedienza; qui si vuole l’annientamento non solo della vittima, ma anche del carnefice. Qui si distrugge non solo l’ebreo, ma il nazista. Si annienta l’uomo. E tale degenerazione non è iscritta nelle cellule del potere; semmai, ne è l’esito perverso.
Su questo punto tra le tre donne non c’è accordo. Non si tratta di stabilire oggi, a distanza di anni chi ha torto e ragione. Ma di non dimenticare l’ascolto di cui sono state capaci proprio mettendo a tema ognuna a suo modo la loro differenza.
Perché oggi si ha l’impressione che sia necessario pensare la libertà, e ripensare la politica.
(fine - le altre puntate sono uscite il 15 e il 18 luglio)
Ulisse e Filottete: il commerciante e l’arciere
Provate a immaginare che Ulisse non sia tornato mai dal regno dei morti e che a compiere la vendetta verso i Proci sia stato in sua vece il più abile degli arcieri achei, Filottete, il quale, secondo la leggenda, usava le armi forgiate da Ercole.
E’ questa in estrema sintesi la suggestiva ipotesi su cui si basa il saggio in forma di romanzo "Ulisse, Nessuno, Filottete" di Alberto Majrani, che viene presentato giovedì 19 giugno, alle 18 nella libreria Odradek in via Principe Eugenio 28 a Milano.
L’autore ha preso spunto per il suo libro, che ha una prefazione di Giulio Giorello, da un saggio sulla geografia omerica di Felice Vinci, "Omero sul Baltico", in cui si ipotizza che il figlio di Ulisse, Telemaco, abbia ingaggiato un mercenario per impersonare Ulisse e sterminare i pretendenti alla mano della madre Penelope e quindi al trono di Itaca. Perché si sa che Penelope aveva più titoli nobiliari del lontano, o probabilmente defunto consorte, Ulisse, abile navigatore che si era arricchito con l’arte del commercio.
Fra le tante virtù di Ulisse, afferma Majrani, non comparirebbe mai nei poemi omerici quella dell’arciere, che era invece la specialità di Filottete, che la tradizione vuole abbandonato sull’isola di Lemno perché infettato a un piede da una grave ferita. I compagni lo avrebbero recuperato per vincere la guerra di Troia e fatto curare dal medico Macaone.
Filottete, secondo Majrani, sarebbe stato un amico della famiglia di Ulisse e quindi disposto a rischiare per salvare il trono al giovane Telemaco, che ormai consapevole della morte del padre avrebbe architettato lo sbarco del finto Ulisse a Itaca, anche con la complicità di Penelope.
A parte un congruo bottino, a Filottete, che come tutti i bravi guerrieri era anche narciso, ne sarebbe derivata gloria eterna. Perché parte del piano di Telemaco e dell’astuta Penelope sarebbe stato di ingaggiare il cieco poeta, Omero, per tramandare ai posteri la grande bugia. Oltre alla verità che Filottete era il più valente degli arcieri.
* Corriere della Sera - LA NOSTRA STORIA di Dino Messina, 19.06.2008.