Parmitano, il ritorno dalle stelle
“Da lassù impari ad apprezzare
la bellezza della vita sulla Terra”
L’astronauta racconta i suoi 166 giorni in orbita: -«Appena rientrato mi hanno colpito un sacco di cose all’apparenza banali: il freddo, il caldo, il vento, il Sole»
di Antonio Lo Campo (La Stampa, 09/12/2013)
“E’ bellissimo tornare in Italia. La mia missione è un esempio di come il nostro paese possa realizzare imprese importanti. Ora sono qua per raccontarvi la mia esperienza, in particolare ai giovani, che rappresentano il nostro futuro”. Luca Parmitano è in forma. A quattro settimane dal rientro a Terra dalla sua missione di lunga durata, dopo 166 giorni in orbita, è tornato in Italia.
Questa mattina ha raccontato per la prima volta ai giornalisti e alle autorità la sua esperienza, in un evento che si è tenuto presso la sede dell’Agenzia Spaziale Italiana, a Tor Vergata, alla presenza del Presidente dell’ASI, Enrico Saggese, del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare Italiana, Pasquale Preziosa, e del Direttore Programma Osservazione della Terra dell’ESA, Volker Liebig. Subito dopo il rientro, Luca ci aveva raccontato di quei primi giorni di riadattamento alla gravità terrestre, dopo i sei mesi in orbita sulla Stazione Spaziale Internazionale, e del disagio (normale e previsto) dei primi giorni terrestri, anche nel camminare. Ora, superata questa fase, scattante e in forma, sale sul palco con la sua tuta blu, pronto a far rivivere le emozioni della sua missione, iniziata lo scorso 29 maggio con un lancio notturno della Sojuz TmA-09M, ad un pubblico che comprendeva molti ragazzi, compresi i 150 del concorso “Mission X - Allenati come un astronauta” indetto dall’ESA in collaborazione con l’ASI.
“E’ stato tutto bellissimo ed emozionante” - dice l’astronauta italiano dell’ESA - “e in qualche modo è come se mi fossi sempre sentito in compagnia della mia Italia: dai collegamenti con i presidenti Napolitano e Letta, fino a tutte le centinaia di messaggi che ho ricevuto e i collegamenti effettuati da lassù, che hanno fatto sentire forte la partecipazione del paese in tutta la missione”.
“Mi piace usare la metafora del tetragono, uno dei solidi geometrici più perfetti; più larga è la base sui cui poggia, più è stabile e preciso. Noi astronauti non siamo che il vertice del tetragono, ma per arrivare così lontano serve una base molto ampia. Per questo ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile la missione”.
Parmitano, che ha partecipato alla missione “Volare” dell’Agenzia Spaziale Italiana, nei 166 giorni in orbita ha portato a termine 30 esperimenti scientifici, partecipato a tre appuntamenti e agganci con veicoli spaziali “cargo” e ha compiuto due “passeggiate spaziali”. E’ stato il primo italiano ad uscire nel vuoto spaziale: “Avevo un sacco di cose per la mente prima di uscire” - racconta - “stavo per realizzare un grande sogno. Però ero anche concentrato sul lungo e complesso lavoro che abbiamo svolto durante quella prima attività extra-veicolare”.
I problemi della seconda “passeggiata?: “Sì era una situazione seria” - conferma Luca Parmitano, che trovò improvvisamente acqua nel casco, e dovette interrompere subito la passeggiata - “e proprio di recente ho collaborato con la commissione d’inchiesta della NASA che ha fatto luce sul guasto al mio scafandro. E’ stato confermato che si è trattato di un guasto ad una pompa che separa il flusso d’aria da quello dell’aria del circuito di raffreddamento. Sono stati momenti delicati, ma che ho superato bene grazie ovviamente all’addestramento, e anche alla mia formazione come pilota dell’Aeronautica Militare”. “Nel 2005 infatti” - aggiunge - “dovetti fronteggiare un avaria con un velivolo, ero da solo, situazione critica.
Quell’emergenza, e ciò che imparai, è stata preziosa. Il guasto alla mia tuta però è servito: in futuro, in caso di guasti simili, gli astronauti avranno a disposizione una condotta per respirare l’aria che proviene dalla parte bassa della tuta”. A bordo, nel corso dei sei mesi, ha effettuato molti esperimenti scientifici, soprattutto di fisiologia umana: “Sì, ho fatto un po’ da cavia, e poi a terra, dopo il rientro, mi hanno di nuovo visitato dalla testa ai piedi e per fortuna tutto è risultato negativo...” - dice sorridendo, in riferimento ai vari test, compreso quello sullo studio della spina dorsale - “che in questo modo” - aggiunge - “non viene più realizzato tramite enormi macchinari di risonanza magnetica, ma con un apparato piccolo e portatile. Proprio come quello che ho testato in orbita”. “Abbiamo inoltre svolto un dieta in grado di diminuire la decalcificazione ossea” - spiega - “e questo potrà avere ricadute importanti per chi soffre di osteoporosi. Nello spazio infatti noi andiamo per esplorare, e compiere ricerche scientifiche di ogni genere. Molte delle quali potranno in futuro salvare delle vite, o quantomeno alleviare alcune patologie serie”.
E poi, due aneddoti curiosi. Il primo, ancora con un piccolo inconveniente relativo allo scafandro spaziale: “Prima di uscire fuori dalla stazione spaziale” - ricorda - “ho dovuto più volte modificare il mio assetto fisico nello scafandro. Dopo sei settimane in orbita, ero cresciuto in altezza di cinque centimetri ! (è un fattore conseguenziale all’assenza di peso sulla colonna vertebrale - ndr). Invece a terra, avevamo previsto una crescita di soli due centimetri... Ma alla fine sono riuscito comunque a starci bene dentro a quel gioiello tecnologico che è la tuta EMU”.
E poi, uno di tipo “alimentare”: “Mi sono fatto fare un menù particolare” - dice mostrando il menù organizzato con importanti chef italiani, per una giornata particolare e celebrativa a bordo della Stazione - “Se faccio una cosa devo farla bene: così, ci siamo dedicati a queste cose buone, compresi, come primo, lasagne alla bolognese e riso al pesto. Il guaio è che le cose buone le abbiamo finite in breve tempo, e in attesa di nuovi rifornimenti da terra, ci siamo accontentati di cibo decisamente meno appetitoso”. “Poi però un giorno” - aggiunge - “la nostra collega Karen Nyberg trova casualmente quattro tiramisù. Erano rimasti in un armadietto, ce n’eravamo dimenticati. Il suo sguardo, e il nostro, erano talmente radiosi, che se avessimo trovato dell’oro forse non saremmo stati altrettanto felici...”.
Infine, una riflessione: “Abbiamo soltanto un mondo” - dice - “ed è bellissimo. Quando sei lassù apprezzi la Terra in modo incredibile, la vedi davvero sotto un altro punto di vista. Avessi viaggiato per tutta la vita nello spazio e avessi incrociato la Terra, non avrei avuto dubbi a voler scendere subito su questo pianeta. Appena rientrato mi hanno colpito un sacco di cose all’apparenza banali: il freddo, il caldo, il vento, il Sole, il mare, la rugiada sui fiori...dobbiamo tutelarlo perché è un pianeta davvero unico”.
L’astronauta Luca Parmitano torna a casa e racconta l’Italia vista da lassù *
L’astronauta di origini siciliane, Luca Parmitano, è tornato oggi in Italia dopo il completamento della missione spaziale condotta all’interno della stazione spaziale ISS. Dopo l’atterraggio che ’11 novembre scorso fa lo ha interessato, Luca ha praticato la riabilitazione necessaria per riabituarsi alla gravità terrestre ed è ora di nuovo nel suo paese dove, per festeggiare, ha tenuto una conferenza stampa di fronte a centinaia di bambini dalla sede dell’ASI (Associazione Spaziale Italiana).
Parmitano ha iniziando descrivendo la sua attività, quella dell’astronauta: “Mi piace usare la metafora del tetragono, uno dei solidi geometrici più perfetti; più larga è la base sui cui poggia, più è stabile e preciso. Noi astronauti non siamo che il vertice del tetragono, ma per arrivare così lontano serve una base molto ampia. Voglio per questo ringraziare l’ASI, l’Aeronautica militare italiana e le istituzioni, nelle persone dei presidenti Letta e Napolitano, che mi hanno fatto sentire forte la partecipazione del Paese per tutta la durata della mia missione”.
Descrivendo l’esperienza della passeggiata spaziale che lo ha visto protagonista il 16 luglio di quest’anno, Luca ha riferito in merito al guasto a causa del quale è stato costretto a sospendere l’esperimento: “Settimana scorsa ho parlato con la commissione di inchiesta della Nasa in merito all’avaria della seconda passeggiata spaziale. Mi hanno confermato che si è trattato di un’avaria meccanica della pompa che separa il flusso d’aria da quello dell’acqua all’interno della tuta. Anziché inserirsi nel circuito di raffreddamento l’acqua si è immessa in quello di ventilazione. In caso di futuri rischi di annegamenti gli astronauti avranno a disposizione un tubo “snorkel” per respirare l’aria che proviene dalla parte bassa della tuta”, ha detto.
Sul nostro paese visto dall’alto Parmitano ha affermato: “l’Italia è un paese straordinario, in armonia. Non esistono confini tra regioni o differenze tra Nord e Sud. Mi piacerebbe che recuperassimo la stessa armonia anche nel nostro modo di vivere quotidiano”.
UN VIAGGIO IN BASILICATA --- Quando Apollo 11 sbarcò sulla Luna. Rocco A. Petrone, la tigre di Cape Canaveral.
Federico La Sala
Intervista.
Parmitano: «Torno nello spazio per guardare a Marte»
A colloquio con l’astronauta italiano che il 20 luglio, giorno del 50° anniversario del primo sbarco sulla Luna, partirà con una nuova missione. «Faremo esperimenti pensando all’uomo oltre la Terra»
di Antonio Lo Campo (Avvenire, domenica 23 giugno 2019)
Manca un mese al lancio della missione “Beyond” (“Oltre”), dell’Esa (l’Agenzia Spaziale Europea), previsto per il 20 luglio. Giusto nel giorno del 50° anniversario del primo sbarco sulla Luna dell’Apollo 11. A bordo della navicella Sojuz MS-13, sul sedile di sinistra sarà seduto l’astronauta italiano dell’Agenzia Spaziale Europea, Luca Parmitano, tornato in questi giorni in Italia, per anticipare la sua missione, parlare dell’anniversario del primo sbarco sulla Luna, e più in generale delle nuove frontiere che si stanno aprendo nell’ambito dell’esplorazione spaziale. Lo ha fatto in una conferenza stampa al centro Esrin dell’Esa (Agenzia Spaziale Europea). L’addestramento procede ed è alle fasi finali, assieme ai suoi due colleghi che prenderanno posto sulla Sojuz per la “Expedition 60/61”, Andrew Morgan della Nasa e Alexander Skvortsov (comandante) di Roscosmos. È la sua seconda missione di lunga durata sull’Iss dopo la missione “Volare” dell’Asi, del 2013.
Parmitano, nel corso della seconda parte della “Expedition”, della durata di sei mesi, sarà il primo italiano a comandare la base orbitante. Un ruolo di prestigio...
È certamente un ruolo importante, che mi fa sentire orgoglioso. Non tanto per me, quanto perché questo è un altro risultato importante per l’Italia e l’Europa in ambito spaziale. Non sarò là a dare indicazioni, ma a facilitare il lavoro dei miei compagni. Mi piace paragonare questo ruolo a quello del capitano di una squadra sportiva, dove tutti cooperano per il bene comune. Il comandante parla direttamente e costantemente con il suo staff a terra, e deve sapere assegnare al proprio equipaggio i ruoli più adatti per ognuno in modo da ottimizzare l’andamento della missione.
Dopo le due “passeggiate spaziali” della precedente missione, ne ha in programma anche per questa?
Sono previste alcune attività extra-veicolari, all’inizio e poi verso la fine della nostra missione, prevista a gennaio 2020, per andare a sostituire alcune batterie poste all’esterno della stazione, sul traliccio, con batterie di nuova generazione. Non è previsto per adesso che debba compierne anch’io, ma sono comunque addestrato, come anche i miei compagni di missione, per poter eventualmente uscire all’esterno anche in questa missione.
L’incidente capitato nel corso della sua passeggiata del 16 luglio 2013, ha portato a lei e più in generale ai progettisti, nuove idee?
È stata un esperienza preziosa per far fronte a inconvenienti, che nelle missioni spaziali vanno comunque messi in preventivo. Più in generale è servito a riprogettare il sistema di raffreddamento dello scafandro e del casco per renderlo più sicuro. Ha avuto paura? Non è vero che non ne abbiamo... Però riusciamo a gestirla e a controllarla al meglio, grazie all’addestramento. La durata? Per una missione spaziale come la nostra, la preparazione dura da due a tre anni.
Perché ha scelto il nome “Beyond” (“Oltre”) per questa sua nuova missione? Vede anche qualcosa che va davvero oltre, anche dal lato spirituale?
Perché quello che svolgiamo in orbita non è per gli astronauti o per il programma della Stazione Spaziale, ma è per tutti. Ed è l’unica strada per noi per imparare ciò di cui abbiamo bisogno in termini di scienza e tecnologia, proprio per andare oltre. E poi perché con la nostra missione svolgeremo esperimenti che guardano “oltre la Terra”, riguardanti le future missioni sulla Luna e Marte. Questa è la ragione, dove poi però ciascuno è libero di guardare davvero anche ben oltre questi confini...
La sua missione prenderà il via il 20 luglio, nel giorno dei 50 anni dal primo sbarco sulla Luna. Immagini straordinarie...
Sono le uniche sino a oggi ad avere portato gli astronauti oltre l’orbita terrestre e verso un altro corpo celeste. Quelle imprese e quegli uomini sono dei miti per tutti noi, anche se non le abbiamo vissute in presa diretta.
Di quelle imprese lunari, ce n’è una che l’ha colpito in modo particolare?
Sarebbe troppo facile dire proprio l’Apollo 11, perché dal punto di vista storico è stata, e resta, quella maggiormente ricordata e celebrata, come è giusto che sia. È stato il primo allunaggio, con maggiori rischi, ma sarebbe riduttivo nei confronti di tutte le altre missioni. Non ho una missione preferita, e le ritengo tutte importanti. Ogni esperienza ha un suo grande valore assoluto, imprescindibile da ciò che è successo. Già prima dell’Apollo 11 erano stati raggiunti risultati incredibili. Con Apollo 8, ad esempio, quando gli astronauti hanno lasciato per la prima volta la “culla” della Terra, per spingersi al di là dell’orbita bassa terrestre, per arrivare quasi a sfiorare la superficie lunare per poi rientrare. Fu, per la prima volta, il viaggio più lungo mai compiuto dall’uomo. Apollo 9 è la missione che per chi, come me, arriva dall’ambiente della sperimentazione e del collaudo, è il top perché fu carica di sperimentazioni uniche e del tutto nuove. Per la prima volta tutte le componenti dell’astronave e la manovre necessarie per i viaggi sulla Luna venivano sperimentate, e quindi quella missione ebbe un valore assoluto, perché molti di quei test e tecnologie testate con Apollo 9 sono state indispensabili per proseguire con le successive
Apollo 13 fu quella del dramma nello spazio, con il ritorno degli astronauti sani e salvi ma dopo tanta paura. Rivede un po’ quella missione con il suo problema, serio, alla tuta spaziale?
Sì, quella missione Apollo la sento a me personalmente vicina, perché un incidente così grave e così lontano dalla Terra, con difficoltà di comunicazione, con necessità di utilizzare il genio dei tecnici a terra, l’inventiva e la creatività degli astronauti a bordo per tornare salvi da un sistema in così grave avaria, un po’ mi ricordano il mio addestramento e la situazione che ho vissuto io nello spazio, quando ci fu l’avaria della mia tuta spaziale. Un problema che per me, così come all’epoca, serve per migliorare il sistema e renderlo più sicuro.
L’ASTRONAUTA E LA METAFORA DEL TETRAGONO.... *
L’astronauta Luca Parmitano sarà comandante della Iss
Nel 2019, sarà il primo italiano
di Redazione ANSA *
L’astronauta Luca Parmitano sarà il primo italiano (e il secondo europeo) al comando della Stazione spaziale internazionale (Iss). Accadrà nella seconda parte della sua seconda missione di lunga durata prevista per il 2019. Ad annunciarlo è l’Agenzia spaziale europea (Esa). Parmitano aggiunge così un nuovo primato al suo curriculum: infatti è stato anche il primo italiano ad aver effettuato una ’passeggiata spaziale’, ovvero un’attività extraveicolare fuori dalla Stazione spaziale.
"Sono onorato di essere stato scelto per questo ruolo", commenta Luca Parmitano, che sarà il terzo astronauta dell’Agenzia spaziale europea (Esa) al comando della Stazione spaziale Internazionale (Iss). "Essere il comandante delle persone più preparate ed esperte sulla Terra e fuori dalla Terra può generare timore. Il mio obiettivo sarà quello di mettere tutti nelle condizioni di lavorare al meglio delle loro possibilità. In fin dei conti, però, sarò responsabile della sicurezza dell’equipaggio, della Stazione e del successo dell’intera missione".
Nato a Paternò il 27 settembre 1976, Parmitano è Tenente Colonnello dell’Aeronautica Italiana. Selezionato come astronauta dell’Esa nel 2009, è stato assegnato nel 2011 come ingegnere di volo alla prima missione di lunga durata dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) sulla Iss. Partito il 28 maggio 2013 per la missione Volare, ha trascorso 166 giorni nello spazio, portando avanti oltre 20 esperimenti e prendendo parte a due attività extraveicolari e all’attracco di quattro navette.
* ANSA 31 maggio 2018 (ripresa parziale, senza immagini).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ASTRONAUTA E LA METAFORA DEL TETRAGONO. Luca Parmitano racconta i suoi 166 giorni in orbita
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE....
L’uomo della Luna Buzz Aldrin al Wired Next FesT: “Dobbiamo continuare a esplorare o moriremo”
Ospite del terzo giorno di Wired Next Fest, il secondo uomo ad aver calpestato il suolo lunare ha espresso idee piuttosto precise sul nostro futuro spaziale
Il video del lancio dell’Apollo 11 dalla piattaforma 39 del Kennedy Space Center emoziona a 48 anni di distanza: la partenza, l’allunaggio, il ritorno. Al Wired Next Fest 2017, Buzz Aldrin lo guarda con la stessa emozione di una sala gremita di persone lì per incontrarlo. “L’ho visto miliardi di volte - commenta l’ex astronauta - ma è meraviglioso ricordare quello che è successo. Mi riporta a rievocare quei giorni, pensando a chi ci ha spianato la via perché potessimo arrivare lì. Sia chiaro, sono anche andato al Polo Nord. Ho visto il Titanic sott’acqua. Ho visitato il Polo Sud. Sono disposto ad andare ovunque per essere utile agli altri. Al mio Paese, certo, ma in fondo all’Umanità. Dobbiamo esplorare o morire”.
Risponde così Aldrin a chi gli chieda perché uno dei prime due uomini ad aver messo piede sulla Luna, il 20 luglio 1969, non sembri fermarsi mai. Battezzato Edwin Eugene Aldrin Jr., il futuro Buzz - nome acquisito legalmente nel 1988 - è nato a Montclair, nel New Jersey, il 20 gennaio del 1930.
Figlio di un pioniere dell’aeronautica, Edwin Eugene Sr., si è presto rivelato degno erede dei genitori e per più di un motivo: il cognome della madre, Marion, era Moon.
“Un segno del destino”, ama scherzare lui - come nella recente biografia No Dream Is Too High - per quanto sul futuro delle missioni spaziali abbia idee precise e piuttosto serie: “Non credo oggi gli americani sarebbero grandi sostenitori dell’idea di tornare sulla Luna e men che meno ne sarebbero finanziatori entusiasti.
Credo tuttavia sarebbero felici di appoggiare una coalizione di stati che perseguisse questo obbiettivo. E magari volesse andare oltre, da Marte a Saturno “.
Sentirlo dire da uno dei protagonisti della cosiddetta Space Race, una competizione dal senso ben più che tecnologico, ha ancora più senso: “Quando nel 1961 John Fitzgerald Kennedy promise che entro la fine del decennio un uomo sarebbe andato e tornato dalla Luna non esistevano piani definiti per farlo, non c’era una strategia. Si andava di pari passo con la tecnologia in una corsa contro l’Unione sovietica la cui vittoria finì per richiedere troppe energie”.
Che la Storia abbia insegnato davvero? “Esatto. Anche per non sprecare risorse economiche preziose, oggi dovremmo agire da consulenti. Nessuno che si occupi di sviluppare lander spaziali o lanciatori dovrebbe essere troppo in concorrenza con gli altri. Qualcuno dovrà raccontare ai nostri leader quali strategie perseguire e gli obbiettivi dovranno essere raggiunti tutti insieme: ovviamente, negli Stati Uniti, quel consigliere si chiamerà Buzz“.
Non c’è ombra di indecisione quando l’uomo che con Neil Armstrong condivise anche l’addestramento a West Point parla. “Mi piacerebbe riferirmi non solo al mio presidente, ma anche ad altri 40 o 50 astronauti che immagino già nati: la collaborazione sarà fondamentale per allestire una squadra internazionale di esploratori del cosmo. Sia chiaro, occorreranno persone di un’età giusta, sufficientemente mature per prendere la più importante decisione della loro vita: diventare pellegrini che entrino nella storia. I primi uomini a raggiungere un altro pianeta. E non per una visita: immaginate una squadra internazionale che fra partenza, viaggio e permanenza in attesa dell’equipaggio successivo, rimanga via dalla Terra una decina d’anni. E che solo al ritorno sarà in grado di capire l’importanza di quanto fatto. Perché è al ritorno che si capiscono certe cose”.
Evidente si riferisca a se stesso: “Voglio essere utile. In passato ho dovuto affrontare momenti di depressione. Mio nonno si è suicidato, mia madre ha fatto lo stesso prima che partissi verso la Luna e io ho avuto problemi con l’alcol. Così non si può essere utili agli altri. Ed è fondamentale che lo siamo. Credo che in fondo un astronauta faccia questo”.
Un volo logico azzardato per quanto legittimo visto il personaggio: “Occorre che un astronauta combatta le cosiddette paludi della vita. E non solo in senso metaforico: dall’allunaggio in poi, questioni economiche e conflitti hanno parzialmente rallentato il nostro obiettivo: lavorare per il nostro futuro. Occorre si ricominci, dobbiamo abituarci a lavorare insieme per oltrepassare i nostri confini“.
INTERVISTA *
Luca Parmitano, astronauta: “Il futuro Cristoforo Colombo lo stiamo già addestrando”
Secondo il primo astronauta italiano protagonista di una passeggiata spaziale, nel futuro non sarebbero da escludere cosmonauti mutanti. E no, non è fantascienza
Di una cosa Luca Parmitano sembra davvero orgoglioso. Ma è difficile scovarla. E non perché l’astronauta catanese, protagonista della prima missione di lunga durata dell’Agenzia spaziale italiana, non vada fiero di quello che fa, anzi. È che complici il suo contegno militare - è Maggiore Tenente Colonnello pilota dell’Aeronautica - e soprattutto il suo carattere. Mai, nei suoi occhi o nelle sue parole, traspare l’ombra del vanto.
Per Parmitano il successo è sempre della squadra. Ogni traguardo, foss’anche Marte, diventa raggiungibile solo grazie alla collaborazione.
E questo, nonostante di risultati personali potrebbe sfoggiarne un elenco: come collaudatore ha accumulato 2mila ore di volo su oltre 40 tipi di velivoli; nel 2005 è stato decorato con la medaglia d’argento al valore per aver portato a terra il suo Amx dopo che l’impatto con una cicogna l’aveva compromesso. Selezionato dall’Agenzia spaziale europea nel 2009 è diventato il sesto astronauta italiano, il quarto ad abitare la Stazione spaziale internazionale (nel 2013, per 166 giorni) e il primo ad averci passeggiato attorno, in due attività extraveicolari, o Eva, portate a termine nonostante una grave avaria della tuta nella seconda occasione.
Nel 2014 è stato comandante della spedizione Caves, con cui l’Esa prepara gli astronauti alle missioni spaziali facendo loro trascorrere sette giorni sottoterra nella diaclasi Sa Grutta, vicino Olbia.
L’anno successivo ha partecipato, sempre come comandante, alla spedizione della Nasa, Neemo20, due settimane vissute dentro Aquarius, una stazione 19 metri sotto la superficie marina al largo della Florida.
Eppure, si diceva, è di un’altra cosa che Luca Parmitano sembra orgoglioso: è il primo europeo a fare da regista a due Eva. Il che significa comunicare direttamente con gli astronauti fuori dalla Iss per guidarli nelle procedure.
Perché, dice lui, “la conquista spaziale non è un’impresa di qualche eroe solitario. E al futuro ci si prepara insieme“.
A proposito, in che modo Neemo e Caves c’entrano con il nostro futuro nello Spazio?
“Entrambe rimandano alla componente esplorativa dei viaggi spaziali, le sono complementari. Consistono in un addestramento in condizioni estreme, come quelle che affronteremo nei prossimi lanci.
“Sottacqua abbiamo un habitat che, per molti aspetti, è come quello di un’astronave sommersa: non solo consente di simulare gravità diverse, implica anche la componente scientifica di ogni missione, con gli esperimenti nel laboratorio, e quella esplorativa grazie alle uscite nello scafandro.
“Che cosa c’entra l’esperienza sottomarina con quella cosmica? Tutto. Lo scafandro è immerso in un ambiente alieno, che consente di testare ingegneria e design degli strumenti che utilizzeremo.
“In Caves ci sono altre componenti: spostarsi dentro grotte sotterranee implica affrontare posti inesplorati e inadatti al nostro soggiorno. Senza supporto, isolati, dove tutto quello che ti serve te lo devi portare appresso. È un contesto in cui sperimentare la dimensione fisica e logistica delle missioni spaziali.
“In sintesi, Neemo e Caves insegnano come addestrare gli astronauti nel futuro. Non è un caso se a breve continuerò la preparazione a Lanzarote, nelle Canarie; quelle zone sono come un pezzo di suolo marziano sulla Terra”.
È plausibile che in tempi brevi colonizzeremo il Pianeta Rosso?
“Al momento prevediamo di raggiungerlo negli anni Trenta [a fine marzo la Nasa ha pubblicato il suo piano in 5 fasi per arrivarci nel 2033, ndr]. Ma meglio non parlare di tempi brevi quando c’è il cosmo di mezzo”.
È pessimista?
“Tutt’altro, ci arriveremo. Mi riferivo al dopo: voglio superare il concetto secondo cui la Terra sarebbe la culla dell’umanità; in questo momento ne è anche la gabbia e a nessuno piace vivere in cattività. A parte la curiosità innata, è per una questione di sopravvivenza ed espansione nel tempo. In questo senso non abbiamo fatto che un primo passo: siamo in orbita in modo continuativo.
“Ce ne sarà presto un secondo, costituito da una probabile permanenza nel sistema Terra-Luna. Questo almeno vorrebbe l’Esa, creare un ambiente adatto alla colonizzazione e allo sfruttamento locale delle risorse. Quindi procedere verso Marte. Il che imporrà si riesca ad affrontare un viaggio interplanetario.
“Non mi azzardo a parlare di terraforming, di trasformazione a nostro uso e consumo di un ambiente extraterrestre. Siamo ancora lontani da questa eventualità, ma molto prossimi a vedere da vicino com’è l’ambiente marziano”.
Poi?
“Poi la prospettiva andrebbe estesa: oggi siamo in grado di confermare la presenza di pianeti abitabili intorno a quasi tutte le stelle, miliardi di mondi in cui la vita è possibile, in cui c’è acqua, con un’atmosfera simile alla nostra. E allora credo sia il caso di pensare al futuro.
“Ecco perché il concetto di tempi brevi, se non altro inteso come un periodo compreso nell’arco della vita umana, andrebbe rivisto.
“I passaggi per effettuare un viaggio interstellare sono esponenzialmente più complessi del volo interplanetario, ma come ricordava Lao Tzu anche il cammino più lungo inizia con un passo.
“Tanto che c’è già chi parla di come inviare un microchip oltre il nostro sistema solare, lambendo frazioni decimali della velocità della luce. Come non intravedere la possibilità di arrivare prima o poi a un’astronave, ovviamente attraverso tutte le tappe intermedie, dai robot ai lander fino all’uomo?”.
L’attività sulla Stazione spaziale rientra in questa progressione?
“Come non potrebbe? Si pensi al Beam, anagramma di Bigelow Expandable Activity Module, installato sulla Stazione nell’aprile del 2016. È un modulo gonfiabile, un esperimento per verificare la resistenza fuori dall’atmosfera terrestre di un ambiente espandibile composto da vari strati, fra cui uno in Vectran, un materiale due volte più resistente del Kevlar.
“È fondamentale comprenderne l’importanza se parliamo del nostro futuro nel cosmo, visto che sarà molto difficile affrontare un viaggio interplanetario con un veicolo di grandi dimensioni.
“L’idea è allora di lanciare masse ridotte per poi espanderle, costruire in volo l’astronave di 2001: Odissea nello spazio con moduli gonfiabili in progressione”.
Adesso mi sembra troppo fiducioso. Eppure visse in prima persona gli imprevisti dello Spazio. Come affrontò l’incidente durante la sua seconda passeggiata fuori dall’Iss? E come lo concilia con il suo entusiasmo attuale?
“Ricordando che nello Spazio non c’è posto per gli individualismi. Se non capissimo noi per primi l’importanza inestimabile del lavoro di squadra, a terra e a bordo, commetteremmo un errore grave. Di quelli che possono costare cari”.
Che cosa intende?
“Il 16 luglio 2013, poco dopo l’inizio della mia seconda attività extraveicolare, l’Eva 23, per un malfunzionamento il mio casco ha cominciato a riempirsi d’acqua. In tutto l’emergenza è durata 35 minuti e per circa 8 l’avaria è stata grave, tanto da costringermi al rientro: in quel frangente ho perso ogni contatto radio oltre che sensoriale. Avevo acqua negli auricolari, nel naso, mi aveva coperto gli occhi. Faticavo a respirare, non potevo sentire né parlare, perché i sistemi di comunicazione, microfoni compresi, si erano bagnati.
“In più, una volta nell’airlock della Stazione, ho dovuto sopportare per 15 minuti la pressurizzazione con il sistema di Valsalva compromesso. È un apparato di compensazione che permette, tappando il naso, di pressurizzare le orecchie, ma essendo spugnoso e zuppo d’acqua si era strappato. Non una bella sensazione: è come scendere di colpo da 3mila metri al livello del mare senza contrastare la spinta sui timpani. Un dolore lancinante cui non ci si può opporre.
“Bene, non voglio sminuire le difficoltà di una situazione critica, fingerei. Sono momenti in cui la tua vita è a rischio. Quello che voglio ridimensionare è il merito dell’individuo.
“Oltre agli astronauti, un’Eva coinvolge numerosi collaboratori a Terra, persone che hanno scelto e curato l’addestramento, selezionato gli strumenti e concordato le procedure. Questo insieme è quello che ti permette di avere il battito cardiaco invariabile durante un’avaria, quello che ti concede l’opportunità di pensare...
“Quel 16 luglio, fuori dall’Iss e con un litro e mezzo di acqua nel casco, non ero solo: portavo con me un bagaglio di esperienze costruitomi, per mesi, da una squadra“.
Sta dicendo di non aver avuto paura?
“Certamente ne ho avuta. Ma la differenza tra una persona senza addestramento e chi è preparato consiste nella gestione dello stress. Fino a un certo livello ha effetti fisiologici positivi: il cuore pompa più forte per preparare i muscoli, l’aumento di adrenalina nel sangue stimola la reattività del cervello, la velocità di ragionamento cresce. È fondamentale imparare a utilizzare queste risposte come uno strumento e non permettere siano loro a controllarci. Proprio a questo obbiettivo punta l’addestramento”.
Qual è il problema maggiore nell’evoluzione dei viaggi spaziali?
“L’essere umano”.
Cioè?
“I nostri limiti fisiologici”.
Si riferisce, per esempio, all’esposizione alle radiazioni cosmiche durante viaggi lunghi?
“Focalizzarsi su un problema non serve. Se non ha soluzione, è un dato: saremo di certo esposti alle radiazioni. Possiamo solo aggirare l’ostacolo”.
Come?
“Tralasciamo per un momento le implicazioni etiche e chiediamoci se sia possibile stimolare un’evoluzione mirata. Sappiamo che il dna umano contiene geni di cui non si conoscono ancora proprietà o funzioni. Per esempio, condividiamo quella parte di corredo cromosomico che permette all’orso bruno di andare in letargo. È possibile attivare quel gene in modo da mandare anche l’uomo in ibernazione?
“In questa condizione il metabolismo rallenta fino quasi ad arrestarsi ed è bene ricordare che le radiazioni hanno effetto sugli esseri umani solo durante meiosi o mitosi, vale a dire quando le cellule si duplicano. Se quindi, durante un viaggio interplanetario, si è in ibernazione, il rischio che si verifichi una mutazione cellulare può essere ridotto di molto”.
Astronauti in letargo?
“Esatto. A questo punto la questione si sposta in ambito eto-biologico: è lecito intervenire sul dna degli esseri umani? O, di contro, fino a che punto è sensato escludere un’evoluzione mirata per una parte di umanità, che possa destinarla all’esplorazione del cosmo e farne il nostro prossimo gradino evolutivo: i viaggiatori interstellari.
“Ricordiamoci che l’etica è flessibile e che trattandosi di evoluzione le questioni da soppesare sono più grandi del singolo individuo.
“Detto altrimenti, se mi trovassi fra mille anni a osservare una parte evoluta della razza umana, capace di andare in letargo, quadrumane e con coda prensile - caratteristiche perfette per l’habitat spaziale -, perché dovrei pensare che è un male?“.
Insiste tanto sulla dimensione esplorativa dei viaggi spaziali.
“Perché è la sintesi di scienza e tecnologia, è l’ampliamento delle nostre conoscenze. Ripercorrendo i tempi, è bene ricordare che siamo andati sulla Luna negli anni ’60. Quel decennio costituì una breve parentesi di stimoli straordinari, capaci di spingere l’uomo a fare cose incredibili. Ma pensiamoci, che cosa abbiamo fatto? Siamo stati come i vichinghi che hanno attraversato la Danimarca, l’Oceano Atlantico, il Circolo polare artico. E arrivati in un nuovo Continente, sono tornati indietro. Un passaggio epocale, un salto nell’ignoto senza precedenti, ma anche un evento a sé stante.
“Poi, per quanto nessun vichingo si sia più avventurato attraverso l’Atlantico, nel Mediterraneo le grandi repubbliche marinare hanno sviluppato enormemente la tecnologia delle proprie imbarcazioni, migliorandone la capacità di navigazione, stoccaggio e anche la strumentazione di bordo. Ecco perché, secoli dopo, si è arrivati in America.
“Cristoforo Colombo ha contrassegnato un altro passaggio, proprio come faremo noi nei prossimi anni con la Luna e Marte. Ecco, probabilmente saremo un po’ come Colombo, nel senso che non riusciremo a rimanere per lungo tempo dove andremo. Non subito, almeno.
“Il vero salto evolutivo sarà quando, come con il Mayflower, diventeremo coloni. E per farlo, avremo bisogno di un balzo non solo tecnologico, ma anche sociale. Chi diventa colone? Quelli che in inglese sono chiamati misfits”.
Reietti?
“Piuttosto persone che non tollerano l’essere costretti in un ambiente. Uomini che hanno un bisogno quasi fisico delle difficoltà, che sono addirittura attratti dalla scomodità.
“Oggi molti vorrebbero rendere il volo spaziale più simile a quello terrestre. Si tende a un ambiente ergonomico, confortevole. Ma quelli che diventeranno i nostri coloni lunari o marziani cercheranno tutt’altro: si imbarcheranno perché hanno bisogno del Far West, di orizzonti aspri, di esperienze ruvide, di una bellezza che non è quella del design raffinato. Ma molto, molto più spartana”.
Ce la faremo a vederli?
“Una parte: forse non vedremo salpare il Mayflower, ma Cristoforo Colombo sì. Lo stiamo già addestrando“.
* WIRED, 19.05.2017 (Ripresa parziale - senza immagini).
Ue: Giannini, stretto legame scienza-società per crescita
Astronauta Parmitano dai 28. Avanti su ricerca, Med,investimenti *
BRUXELLES - L’Ue deve "considerare più attentamente" la "stretta relazione tra scienza e società" e il loro legame con investimenti di qualità in ricerca d’eccellenza e innovazione per la crescita. E’ il messaggio lanciato dal ministro dell’istruzione Stefania Giannini all’ultimo Consiglio Ue competitività sulla ricerca da lei presieduto, a cui ha invitato l’astronauta Luca Parmitano in qualità di ambasciatore del semestre di presidenza italiana dell’Ue.
La riunione dei 28 è stata dedicata al tema degli investimenti in ricerca e innovazione e Piano Juncker che, ha assicurato il commissario alla ricerca Carlos Moedas, sarà "complementare" ai fondi di Horizon 2020. I ministri si sono poi occupati dei progressi nello Spazio europeo per la ricerca e nella cooperazione con il Mediterraneo, prioritaria per la presidenza italiana, in questo ambito nei settori di acqua e cibo. i concetti chiave sono "ottimizzare le risorse finanziarie disponibili" in Europa e "dar loro un migliore orientamento" effettuando "spesa di qualità" concentrandosi "di più" sulla ricerca d’eccellenza.
"Credo che tutto questo va verso lo stesso obiettivo, il futuro, e il miglioramento di quello che facciamo sulla terra", ha testimoniato Parmitano, illustrando il concetto con la metafora del tetragono, una figura geometrica di cui per farne crescere l’altezza è prima necessario farne crescere la base. "Se in Italia siamo solo 60 milioni persone possiamo arrivare solo sino a una certa altezza, ma in Europa siamo molti di più, e insieme possiamo salire molto di più", ha raccontato. "Noi astronauti - ha concluso - per andare in alto dobbiamo coinvolgere voi alla base che, con il vostro lavoro, pazienza ed energia, ci portate su".
Recensione del libro di Federico La Sala - DELLA TERRA IL BRILLANTE COLORE - Parmenide, una ”Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica - Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 156, € 15,00
LA TERRA E LA QUESTIONE ANTROPOLOGICA
di Michele Zarrella *
Un libro di eccezionale rarità che tenta a grandi linee, di mettere in evidenza una inedita prospettiva di ricerca e una possibile via di uscita da duemila e più anni di labirinto: un’ontologia non più zoppa e segnata dalla cieca cupidigia del sapere-potere, ma chiasmatica e illuminata dal sapere-amore.
Il luogo di inizio del ’viaggio’ è dalla chiesetta di S. Maria del Carmine (monastero carmelitano dal 1561 al 1652) di Contursi Terme (SA), e dall’antica Elea (Velia, Ascea), ma subito ci si trasferisce a Firenze, a Rimini, a Siena, a Roma, e, infine, fuori dal pianeta Terra, da dove, finalmente, è possibile vedere "il brillante colore"! Il pianeta in cui viviamo non è una caverna e, con lo sbarco sulla Luna, ora tutti lo sappiamo - anche fisicamente! Siamo tutti nella stessa barca e che siamo tutti fratelli, ... è ora di cambiare strada, di riorganizzare e riformulare tutto il nostro sapere - a partire da questa nostra nuova consapevolezza acquisita”: il pianeta è un granello nell’Universo ed è necessario un cambiamento radicale di prospettiva altrimenti non riusciremo mai a capire chi siamo.
La società moderna non può più accontentarsi di una filosofia e di una scienza ancora legate alla catena della dea Giustizia-Necessità di Parmenide e ancor più non deve contare sul sapere che il Platone o il politico di turno porta a noi prigionieri nella «caverna». Abbiamo preso coscienza di dove siamo nell’Universo e non possiamo più far finta di nulla. Sarà compito nostro mostrare come è la nostra casa: non era e non è né una caverna, né un’arena per gladiatori.
Sulla base di questa coscienza l’autore ci spinge a lavorare a una nuova cultura e a una nuova scienza che siano all’altezza del nostro orizzonte. “Non è più concepibile né possibile (il rischio è altissimo - la fine della nostra avventura, quella dell’intero genere umano) seguire le tracce di Parmenide, né di Platone.”
Il nostro orizzonte si è elevato e non è più possibile pensare che: «Per lo scienziato esiste solo l’essere, non il desiderio, il valore, il bene, il male, l’aspirazione» (Einstein, 1950). La posizione einsteiniana è parziale, unilaterale, e soprattutto pericolosa, perché ci fa vedere e agire - rispetto a noi stessi e rispetto agli altri e rispetto alla natura che ci circonda e sostiene - ancora con gli occhi e la mente di chi vede il pianeta Terra ridotto a un campo di guerra ove i mortali che nulla sanno giocano le loro battaglie. La Terra è di un colore brillante: è azzurra. «La Terra è blu [...] Che meraviglia. È incredibile», esclamò Jurij AlekseeviÄ Gagarin quando, il 12 aprile 1961, la vide, primo fra tutti gli uomini, dallo spazio.
Se vogliamo migliorare non è a Parmenide che dobbiamo pensare. Ma, se si vuole, a Talete, il quale sapeva che l’azzurro circondava la Terra. E Federico La Sala, al pari di Gagarin, ci invita ad uscire fuori a guardare dalla reale prospettiva la questione della nascita nostra, del nostro pianeta, del nostro sistema solare e del nostro Universo. La Sala si pone, al pari di Talete, la domanda delle domande: qual è il principio di tutte le cose? Questi sono i problemi così nasce la filosofia, così nasce il suo bellissimo libro DELLA TERRA IL BRILANTE COLORE.
Come Talete, La Sala riporta a galla dalle profondità oceaniche dell’essere i due problemi fondamentali del sapere (tutte le cose e il principio) e soprattutto sollecita a pensarli insieme. Spesso l’uomo moderno dimentica il secondo: il principio. L’autore, sulla base delle nuove conoscenze acquisite, invita a partire, anzi, a nascere nuova-mente - da capo, guardando al nostro ombelico e a ri-pensare l’Uno a partire dal Due. Noi (ognuno e ognuna) siamo uno ma siamo nati da due: nati da un uomo e una donna, e di entrambi siamo portatori non tanto e non solo dei loro geni, quanto e soprattutto lo spirito delle loro Unità.
E allora, conclude l’autore, il problema dei problemi non è più né quello metafisico («che cosa posso sapere?») né quello morale («che cosa devo fare?») né quello religioso («che cosa posso sperare?»), ma quello antropologico («che cos’è l’uomo?»).
Il problema dei problemi è rispondere alla domanda «chi siamo noi in realtà?» (Nietzsche). A questa domanda l’autore risponde in termini di speranza e di salvezza e ci invita a guardare al nostro ombelico, a qual è la nostra origine? Riconosciamoci, come siamo, figli di un uomo e una donna, di una maternità e di una paternità alla pari e che la Terra sia il luogo del nostro fiorire e non il luogo delle nostre dualistiche contrapposizioni e scissioni.
A tale permeante domanda non può rispondere solo un genere che domina sull’altro, ma insieme con le Due metà del genere umano. Solo così, con la parità, autonomia e dignità fra uomo e donna, potremo dar vita a una nuova antropologia (e, con essa, a una nuova scienza e, ovviamente, a una nuova politica) - oltre l’edipo e oltre il capitalismo - finalmente degna del nostro pianeta dal brillante colore.
Buona lettura.
Michele Zarrella
Gesualdo, 30-09-2013