PER ESSERE GIUSTI E GIUSTE CON IRIGARAY, E NON SOTTOVALUTARE LA PORTATA DEL SUO DISCORSO PORTATO AVANTI DA MOLTI ANNI E ANCHE IN QUESTO SUO ULTIMO LAVORO, da cui sono state riprese le pagine qui sotto riportate, mi sia consentito invitare a pre-leggere il seguente articolo sul tema della "creatività" ->:
Il silenzio di Maria
[di Luce Irigaray] *
Nella cultura occidentale parlare è più valutato che non tacere. Chi parla manifesta le sue capacità mentre chi tace dimostra la sua impotenza o la sua sottomissione. Il valore della parola rispetto al silenzio è inverso in certe tradizioni, per esempio orientali. Per un filosofo come Hegel, la fine del nostro cammino dovrebbe essere una sintesi di tutti i discorsi possibili, e il nostro Dio è colui che detiene la chiave del senso della parola. Invece Budda è il saggio capace di pervenire al silenzio. In un caso è alla parola che dobbiamo mirare, nell’altro al silenzio. Il silenzio, allora, non significa un’assenza di un qualcosa, specialmente di vocaboli, ma il compimento di sé, la realizzazione di una perfetta interiorità. Certe rappresentazioni di Budda esprimono l’attuazione di un tale silenzio sbocciando in un sereno raccoglimento dell’intero essere. Budda appartiene a una cultura meno maschile della nostra, in cui il fare, il creare o il dire al di fuori da sé è più apprezzato che non un cammino interiore.
Il silenzio di Maria è spesso interpretato in modo negativo, in particolare dalle donne. Un simile giudizio è determinato da valori occidentali in prevalenza maschili. Il silenzio di Maria può essere inteso in un altro modo. Può significare un mezzo di preservare l’intimità con sé, l’auto-affezione, per non perdersi, segnatamente in un discorso che non è il proprio.
Il silenzio che accompagna le labbra che si toccano l’un l’altro non è necessariamente negativo ma può rappresentare, al contrario, un luogo privilegiato di custodia di sé mediante un ri-toccarsi che segna la soglia fra il dentro e il fuori, le mucose e la pelle. Giungere le labbra - come giungere le mani, ma anche le palpebre - è una via di adunare le due parti di sé per raccogliersi, e dimorare o tornare in sé.
Provare un simile raccoglimento di sé con sé, attraverso le due parti di sé che si toccano l’un l’altra è necessario affinché sia possibile vivere un affetto nella relazione con l’altro senza perdervi se stessa. E’ essenziale partire da, e tornare a, l’unione fra le due parti di sé prima di essere capace di vivere la relazione in due con un altro differente. In mancanza di una tale auto-affezione, di questo raccoglimento di sé con sé, esiste continuamente il rischio di confondere l’altro con una parte di sé o di confondersi, almeno in parte, con l’altro.
Nella mitologia greca possiamo osservare un’evoluzione negativa della posizione delle labbra nelle sculture della giovane dea Korè fra il momento in cui è un’adolescente vergine e il momento in cui è rapita e sposata per forza al dio degli inferni: le sue labbra sono armoniosamente chiuse, toccandosi l’un l’altro, prima del rapimento di Ade, poi sono deformate e, infine, la bocca non si richiude completamente, le labbra rimanendo aperte. Korè-Persefone ha perso l’intimità con se stessa, la possibilità di tornare a sé dopo il suo rapimento.
Il ruolo delle labbra chiuse per custodire un raccoglimento con se stessa spiega anche la reazione di rifiuto della giovane Dora quando il signor K. vuole baciarla allorché stanno assistendo insieme al passaggio di una processione. Freud interpreta un tale gesto come una manifestazione nevrotica quando, invece, mi appare come una volontà del tutto legittima e sana di preservare un’intimità con se stessa - in particolare al momento di un evento religioso - rispetto a un uomo che intende costringere la ragazza ad amarlo, affermando che lei lo desidera senza volerlo riconoscere. Cosa che equivale a una maniera di costringerla, di violentarla, non solo a livello fisico ma anche a livello psicologico, spirituale.
L’importanza del conservare le labbra chiuse, che si toccano l’un l’altro, ci è anche insegnata dalla sillaba sacra om. L’ultima lettera di questa sillaba, la cui pronuncia richiede che le labbra si chiudano, è supposta salvaguardare ciò che non si è ancora manifestato, e si dice che essa corrisponda al colore nero. Il silenzio di Maria non è, quindi, necessariamente assenza di parole ma riserva di parole o eventi futuri la cui manifestazione è ancora sconosciuta. Maria - come ogni donna? - sarebbe colei che porta in sé il mistero del non ancora accaduto, al di là di ciò che è già apparso. Cosa che sarebbe vera non solo a livello di una generazione naturale ma anche di una generazione spirituale. Partorire un bambino divino significa portare alla luce una nuova epoca della storia dell’umanità. E a una donna che colui che designiamo con il nome di Dio chiede di compiere una tale opera.
Una simile interpretazione è possibile ed essa affida alla donna un ruolo fondamentale nell’incarnazione del divino sulla terra. Molte donne, nella nostra tradizione, sono incapaci di riconoscere che hanno un compito privilegiato da assumere per l’avvento del divino nel mondo. Il carattere molto maschile della nostra cultura le impedisce di valutare a loro ruolo fondatore nel divenire spirituale dell’umanità, un ruolo che trascurano, e perfino disprezzano, in favore di un incarico ecclesiale, più sociale e più visibile, che spetta piuttosto agli uomini.
(Luce Irigaray. Il mistero di Maria, Paoline 2010, pp. 26-32)
«L’angelo apre l’attenzione di Maria al fatto che lei non può generare un bambino divino senza impegnarsi a essere fedele alla verginità del suo respiro, cioè a preservare una riversa di soffio, di anima, capace di accogliere e condividere con, un altro, pur essendo fedele alla propria vita spirituale»
* Fonte: CNOS - Centro Nazionale Opere Salesiane
Note sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
"DUE SOLI": COME MARIA, COSI’ GIUSEPPE!!!
FLS
Silvia Vegetti Finzi: «Non facciamo più figli, stiamo vivendo un’eutanasia culturale»
La psicologa tra maternità (disimparata) e virilità oggi intesa come violenza
di Roberta Scorranese (Corriere della Sera, 18 settembre 2020)
Non facciamo più figli.
«Ma la colpa è anche nostra».
Si spieghi meglio.
«Io ho ottantadue anni, sono entrata nel movimento femminista tardi, nel 1980, ma sono poi stata molto attiva. E la mia generazione ha sbagliato a non proporre una nuova idea di maternità alle giovani donne di allora, oggi ultra quarantenni».
Avete insistito troppo sulla realizzazione professionale?
«Vi abbiamo insegnato ad essere figlie e non madri. A fare carriera e non a costruire un nuovo modello di maternità. Vi abbiamo spinto a cercare madri simboliche, da Virginia Woolf ai modelli più attuali, cercando di tenervi sempre in una condizione “filiale” e non “generatrice”. Non vi abbiamo passato il libretto delle istruzioni. Così oggi ci sono migliaia di quarantenni che non hanno avuto figli e quando chiedo loro il perché di questa scelta la risposta è quasi sempre “Perché c’erano altre priorità”».
Non solo. Negli anni Ottanta c’è stata una corrente di pensiero che ha provato a demolire la maternità.
«Che grave errore che abbiamo commesso, è il momento di riconoscerlo».
Però si deve a voi se oggi tante ragazze non hanno paura di confrontarsi con i colleghi uomini a scuola, all’università e sul lavoro.
«Certo, ma sappiamo quello che succede: sono bravissime negli studi, si laureano meglio e prima degli uomini, magari cominciano a lavorare presto ma poi? Poi, scompaiono. Spariscono nel percorso della carriera e nella crescita professionale. Spesso per il cosiddetto «soffitto di cristallo», ma spesso anche perché non riescono a conciliare la maternità con il lavoro. Quello che avremmo dovuto fare è elaborare una maternità migliore, non cancellarla».
Così, mentre l’idea di famiglia in qualche modo si recupera - pensiamo alle famiglie allargate o a quelle costruite sul senso di comunità -, la maternità è difficilmente recuperabile nella sua natura simbolica.
«Esatto. È una perdita anche culturale. Pensiamo solo all’Italia: siamo il paese delle madri, dalla forma più discutibile come il “mammismo” a quella più nobile, cioè quella delle grandi rappresentazioni iconografiche della maternità religiosa. Eppure la sa una cosa? Ogni volta che ho proposto alle femministe una riflessione sulle annunciazioni nella pittura, mi hanno risposto molto freddamente».
Le annunciazioni sono uno scrigno di simboli materni: la paura, il coraggio, la dedizione, la crescita personale.
«Aggiungo una cosa. In molte rappresentazioni mariane non c’è solo Gesù, c’è anche il piccolo Giovanni. I due bambini vengono raffigurati come coetanei ma fisicamente diversi: il Cristo è delicato e angelico, Giovanni è materico, ricciuto, a volte vestito di pelli di animali. Io ci vedo un messaggio di profondità straordinaria: il bambino del giorno e il bambino della notte. Quello reale e vissuto e quello non vissuto e non elaborato. Pensi quanto sarebbe importante per il femminile studiare ed assimilare tutto questo. Invece nulla. E allora che cosa vediamo? Maternità conflittuali, difficoltà ad integrare i ruoli e, per riflesso, una paternità debolissima».
Il «mammo»?
«Che errore. Noi abbiamo bisogno di padri, non di mammi. La dissimmetria è un valore, io amo l’altro non il mio simile. Ma d’altra parte questo è il risultato di una maternità confusa. Il padre, simbolicamente, non esiste finché la madre non lo indica come tale. È sempre la madre che definisce la figura paterna e, al tempo stesso, ne trae forza. Bisogna capire che distilliamo potenza dalla differenza».
Lei lo ha sempre detto: sposiamo il padre ideale per i nostri figli, quello che cambia i pannolini e che cucina, ma poi non lo desideriamo più.
«Mettiamola così: molte donne sposano l’uomo che non è proprio l’oggetto del desiderio ma è grazie a lui che tante mogli potranno, come Rossella O’Hara, continuare a desiderare “l’altro”. Io e mio marito siamo stati assieme per sessantadue anni perché abbiamo riconosciuto le differenze ma ci siamo sforzati entrambi di integrarle. Ci siamo adattati alle stagioni della vita senza pretendere di rimanere nello stadio iniziale dell’incanto. Lui ha accettato di fare, qualche volta, il principe consorte accompagnandomi per convegni e io ho fatto altrettanto».
Perché ha anteposto il cognome di suo marito (Vegetti) al suo?
«Perché all’epoca era obbligatorio firmare così nei documenti pubblici, ci siamo sposati nel 1960. Poi ho mantenuto il doppio cognome. Un po’ come era obbligatorio, per una coppia sposata, esibire il certificato di matrimonio al momento di prenotare una stanza d’albergo. Di passeggiare mano nella mano non si parlava, ma pensi che una volta, era il 1963, fui costretta a scendere da un tram a Milano: indossavo un abito senza maniche. Oggi tutto questo sembra assurdo, ma quando mi sono iscritta all’Università Cattolica, nel 1963, il bidello dovette prestarmi la sua giacca perché una donna non poteva entrare in segreteria con le braccia scoperte».
È vero che c’erano due corridoi distinti, uno per gli uomini e uno per le donne?
«Certo, e così facendo si erotizzava tutto, anche la cosa meno pruriginosa come camminare per un corridoio universitario. Ma quello che non dimenticherò mai è uno specchio: recava la scritta “La donna che si depila le sopracciglia è una donna che mente”. Lo aveva voluto lo stesso padre Gemelli».
Il Sessantotto cambiò tutto?
«Sì, ma non è che nel Sessantotto le donne ebbero questo grande ruolo di protagoniste in Italia. Facevano le fotocopie dei volantini e nacquero così gli “angeli del ciclostile”. Poi vede, non era facile. Se una donna prendeva la parola in un’assemblea con centinaia di persone lo sguardo maschile era molto più presente e condizionante di quanto lo sia oggi. E lo sguardo maschile - ricordiamocelo - è sempre giudicante. Con una sua logica binaria: vecchia/giovane, brutta/bella, ribelle/docile. È stato difficilissimo affermarsi».
Soprattutto per una donna che si occupava di psicoanalisi, disciplina che in Italia venne ostacolata sia dal marxismo che dalla Chiesa cattolica.
«Mi dispiace dirlo ma il momento in cui la psicoanalisi divenne un vero fenomeno culturale coincise, in Italia, con le lezioni di Armando Verdiglione. Un personaggio molto discusso ma finalmente nei suoi incontri la psicoanalisi diventava il canale attraverso il quale leggere la cultura e il nostro tempo. Oggi io penso che solo con Massimo Recalcati questa disciplina assume un peso culturale che va oltre il mero significato terapeutico. Sono grata a Recalcati per questo, me lo faccia dire».
È d’accordo con la lettura che Recalcati ha fatto dell’assassinio di Willy Monteiro Duarte a Colleferrro (violenza contro la «parola di pace» che Willy tentava di portare in una rissa, ndr.)?
«Sì, anche se io l’avrei incentrata di più sul femminile».
Cioè?
«Penso che questi parossismi di mascolinità siano una reazione alla paura della femminilità. Donald Winnicott nei primi anni Trenta sosteneva che in ogni società persiste una grande paura delle donne. Si spiega con la dipendenza che si prova nei primi due anni di vita: senza una madre un neonato non sopravvive. E in questo mancato “grazie” alla madre risiede una violenza che tenta di abbattere quella dipendenza. E così, senza un’adeguata educazione, la virilità in molti casi cambia pelle, si confonde con la durezza e alla fine con la violenza. Specie contro le donne».
Alla base, dunque, c’è sempre una paura di essere sopraffatti.
«Winnicott poi lega questo ragionamento alla politica e dice che le tirannie sono il risultato di questa paura: diventiamo devoti ad un essere che non dipende da nessuno, un tiranno, appunto, un potere assoluto».
Torniamo ad una mancata - o monca - elaborazione della maternità.
«Lo dico da sempre: se dessimo alla maternità il giusto peso, saremmo molto più liberi».
Professoressa, lei è nata il 5 ottobre del 1938: esattamente un mese dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia.
«Sì, con un padre ebreo e una madre cattolica. Pensi che beffa: per i nazisti io avrei potuto rientrare nei “gentili”, ma per i fascisti no. Però la nostra origine ebraica non venne elaborata in famiglia, nessuno mi aveva mai detto che io ero ebrea così da bambina sentivo montare una paura folle quando ascoltavo certe dichiarazioni senza che l’oggetto della mia paura fosse ben chiaro. Una cosa terribile».
Nel suo libro Una bambina senza stella lei dipinge una non-madre.
«Mia madre è stata durissima con me. Ho vissuto a modo mio l’isolamento, il sentirmi invisibile e un’identità incerta. Però qualche anno fa sono stata invitata ad una serata dalle sue ex alunne, oggi anziane, che mi hanno dipinto una donna completamente diversa: una maestra dolcissima, amorevole, che si prendeva cura “delle sue bambine”. Le do atto di questo, devo farlo. Però con lucidità devo anche riconoscere che non sono stata amata. Fa bene fare i conti con il proprio passato».
Oggi qual è il suo rapporto con la fede?
«È strettamente legato al riconoscimento dei miei limiti. Vorrei fare tante cose ma non riesco, vorrei capire ma non ce la faccio. È allora che entro in un territorio diverso, quello del sacro. La fede per me è capire che siamo destinati alla finitezza».
E se si guarda indietro che cosa vede?
«Tanti errori, primo tra tutti quello di aver troppo spesso fornito “soluzioni precotte” ai miei figli, quando avrei dovuto lasciarli andare. Ma trovo anche tanta ricchezza: di amici, colleghi, dell’amore di mio marito. E mi lasci dire una cosa per chiudere: credo che oggi la vera grande povertà non sia quella dello spirito, la vera miseria è il tempo che ci manca e che non riusciamo a trovare mai».
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
Silvia Vegetti Finzi, Mettere al mondo il mondo ( Festival di Filosofia, Modena 16 settembre 2017)
ANTROPOLOGIA E SOCIETA’. COME SONO NATI I NOSTRI "GENITORI".... *
Scheda editoriale
Luce Irigaray
Nascere
Genesi di un nuovo essere umano
Traduzione di Antonella Lo Sardo
Bollati Boringhieri, 2019, pp. 183, 15 e.
Il libero respiro e la tecnologia
La genesi di un nuovo essere umano nell’ultimo libro di Luce Irigaray
di Giorgia Salatiello (L’Osservatore Romano, 11 giugno 2019)
Sarebbe molto difficile, e forse anche inutile, cercare di fare una classica recensione dell’ultimo libro di Luce Irigaray, Nascere. Genesi di un nuovo essere umano (Torino, Bollati Boringhieri 2019, pagine 192, euro 15), in considerazione della molteplicità e della complessità dei temi che vi si intrecciano, condensando tutti i motivi più rilevanti delle opere precedenti.
Sembra, quindi, più utile stabilire una specie di dialogo con l’autrice, incentrando la riflessione intorno ad alcune parole-chiave che ritornano spesso in quella che si può definire come una fenomenologia della vita umana, dal suo inizio fino alla sua compiuta fioritura.
La prima parola è quella che compare anche nel titolo, ovvero “nascere”, e qui il pensiero della Irigaray rivela tutta la sua profondità e la sua articolazione perchè per lei la nascita non indica solo il preciso istante del venire al mondo, ma tutto quel lungo e faticoso percorso che dovrebbe consentire ad un essere umano il suo pieno sviluppo, ma che quasi sempre la nostra cultura occidentale blocca e distorce.
Sulla scorta delle sue conoscenze delle filosofie e delle religioni orientali l’autrice attribuisce importanza centrale al respiro (ecco un’altra parola-chiave) che consente di uscire da sé, ma anche di rientrare nell’intimità di se stessi e, su questo punto, forse, le si potrebbe chiedere di distinguere di più tra le differenti dimensioni, quella corporea, quella psicologica e quella spirituale della quale parla, ma che dovrebbe essere ulteriormente specificata nella sua peculiarità.
Compaiono, quindi, le due parole più significative di tutto il libro cioè quelle del desiderio e dell’amore, nella loro chiara distinzione, ma anche nella loro indispensabile congiunzione. Il desiderio e l’amore ai quali Irigaray si riferisce sono, innanzi tutto, le due fondamentali risorse che consentono alla vita umana di non decadere al livello del vegetale o, addirittura, dell’essere inanimato, ma essi sono, nella loro più genuina specificità, legati all’attrazione reciproca di uomo e di una donna, dotata di un forte potenziale generativo che non si esaurisce nella sola riproduzione biologica.
Se tutto il volume, come si è detto, è una fenologia della vita umana, qui ci si trova di fronte ad una vera e propria fenomenologia dell’amore che non è appiattito soltanto su alcune delle sue componenti, ma è indagato in tutta la sua ricchezza. La fioritura che l’amore consente, tuttavia, nella nostra cultura, ed ecco altre due parole chiave, è sempre minacciata dalla tecnica e dalla tecnologia che impongono i loro ritmi e le loro finalità all’esistenza. È degno di nota che, a questo proposito, Luce Irigaray non proponga un impossibile e nostalgico ritorno al passato, ma inviti alla riappropriazione del nostro destino umano sul quale la tecnica e la tecnologia non devono avere il sopravvento.
Si giunge, così, all’ultima parola, trascendere, che ritorna lungo tutto il testo rivelando il suo spessore, ma anche la sua ambiguità che pone al lettore un preciso interrogativo. Da una parte, infatti, e questo è pienamente condivisibile, il trascendimento è quel movimento che porta continuamente al di là di se stessi, impedendo la chiusura ed il ripiegamento solipstico, ma non si trova traccia della netta distinzione tra il trascendimento solo orizzontale, verso gli altri e verso il mondo, e quello verticale che può aprire l’essere umano all’assoluto ed, ultimamente, a Dio. Certamente, questo secondo tipo di trascendimento esula dalla prospettiva della Irigaray che, anzi, è molto critica verso tutte quelle che indica come proiezioni in un mondo sovrasensibile, prodotto dal soggetto medesimo.
Tuttavia, proprio in questo risiede il limite della pur valida e significativa proposta dell’autrice, perché solo un trascendimento verticale potrebbe realmente garantire quell’apertura e quel respiro libero, dei quali avverte profondamente l’esigenza per dare all’umanità il suo vero volto, spesso soffocato da una cultura e da un pensiero opprimenti e riduttivi.
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SUL TEMA, NEL SITO, SICFR.:
DAL "CHE COSA" AL "CHI": NUOVA ERMENEUTICA E NUOVO PRINCIPIO DI "CARITÀ"! DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE.
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
EUROPA: EDUCAZIONE SESSUALE ED EDUCAZIONE CIVICA. ITALIA "NON CLASSIFICATA"!!! Per aggiornamento, un consiglio di Freud del 1907
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
NASCERE. Costruire una cultura adatta alla nostra incarnazione...
Non vi è alcun dubbio che una certa epoca della nostra cultura sia al termine: quella della metafisica, che alla fine si è incarnata in un’era tecnica e scientifica che da allora in poi è la nostra. In effetti, o l’umanità e il mondo in cui dimora sono destinati a scomparire, o noi troviamo il modo di tornare o ritornare a ciò che significa essere umano per riflettere a fondo su di esso, in quanto primo agente del nostro destino, e sulla possibilità di giungere a una parola di cui la tecnica e le tecnologie non possono privarci, riducendoci a una sorta di meccanismo meno performante di quelli che siamo in grado di fabbricare.
È in noi stessi, in quanto esseri umani incarnati, che possiamo trovare un modo di pensare come sfuggire al dominio della tecnica e delle tecnologie senza sottovalutarne i vantaggi. Invitandoci a liberarci dalla soggezione a ideali sovrasensibili, Nietzsche ci indica, almeno in parte, verso quale direzione volgerci. Ma il suo insegnamento è innanzitutto critico, ed è quello che ha ispirato la decostruzione della metafisica occidentale portata avanti, dopo di lui, da Heidegger e dai suoi seguaci. Se Nietzsche ha intuito giustamente che dobbiamo ricominciare da zero, iniziando in particolare dalla nostra appartenenza fisica per passare dal vecchio uomo occidentale a una nuova umanità, egli non ha avuto il tempo di aprire il cammino o di costruire il ponte per raggiungere questo obiettivo. Temo che anche la «volontà di potenza» e l’«eterno ritorno», in un modo o nell’altro, rimangano nell’orizzonte della nostra logica passata. Agiscono come strumenti della sua interpretazione, ma forniscono una prospettiva che ci consente di liberarci da essa. Tuttavia, le «intuizioni ispirate» di Nietzsche, come le chiama Heidegger, non ci forniscono la struttura di cui abbiamo bisogno per costruire una cultura adatta alla nostra incarnazione.
Questa struttura - Heidegger talvolta la chiama «ispezione» -, che rende possibile l’avvento di una nuova epoca della verità e della cultura, d’ora in poi deve risiedere nel nostro corpo, dal momento che è una struttura adatta a esso, tramite la quale può dirsi di nuovo fin quando il mondo e tutti gli elementi che vi prendono parte sono coinvolti. Questo tipo di struttura esiste e si esprime già, anche in modo inconscio, nella nostra concezione passata del reale e del linguaggio che ne parla - corrisponde alla sessuazione della nostra identità. In quello che è stato chiamato «essere umano» è rimasto ignorato un aspetto che ne determina la natura e che contribuisce a sottrarlo a una neutralità disincarnata che non gli permette di manifestarsi così com’è, e che riemerge, sebbene la presunta verità del mondo e delle cose non gli corrisponda.
Il rischio rappresentato dalla neutralizzazione degli umani in quanto esseri viventi adesso sta diventando evidente a causa della trasformazione in robot di diversi elementi del mondo, tramite l’organizzazione prodotta dalla mente umana a partire dal potenziale di meccanismi, di cui, però, è diventata schiava, esiliata dalla sua appartenenza vivente. Qualunque sia il loro potenziale performativo, gli esseri umani eccedono già quello della macchina a diversi livelli. La loro salvezza può venire soltanto dalla percezione del rischio e dalla maniera di superarlo, attribuendogli significato, e tramite un ritorno al proprio essere come specifici esseri viventi. Per superare una concezione del mondo dominata da un modo di pensare e di agire tecnico, dobbiamo trovare un’altra configurazione o struttura grazie alla quale gli esseri umani possano sfuggire a tale dominio riconoscendo e interpretando la natura del suo potere. Dobbiamo liberarci dal predominio tecnico e scientifico sulla nostra epoca e garantire la salvaguardia del significato tramite una nuova incarnazione dell’essere.
*Luce Irigaray, "Nascere. Genesi di un nuovo essere umano", TecaLibri.
FILOSOFIA DELLA RIVELAZIONE. "L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE": "GENERARE DIO". L’immaginario del cattolicesimo romano....
Narciso e l’arte di restare a galla: una lezione di Massimo Cacciari
di Luisa Muraro *
Narciso non sapeva niente di narcisismo. Il pastorello vanitoso si sporge per specchiarsi, casca nello stagno e annega. Doveva venire in Italia a imparare dai nostri uomini di spicco. Specchiarsi e, soprattutto, restare a galla, è un’arte. Per esempio, come fa il narciso italiano quando succedono cose notevoli che lo mettono ai margini? Aspetta un po’ che passino ma se non passano, come sta succedendo con il femminismo?
Massimo Cacciari, intervistato sul suo ultimo libro risponde con una lezione esemplare.
Il suo libro è di argomento teologico ed è il giorno di Natale. Il Professore si vanta di aver fatto una scoperta filosofica, teologica e politica su Maria di Nazareth. L’intervistatore, Nicola Mirenzi, è ammirato ma mostra incredulità. L’intervistato ammette di non essere stato il primo e fa il nome di un grande teologo del passato. L’intervistatore chiede: come mai neanche le femministe si sono dedicate a pensare la grandezza di Maria? Neanche loro, conferma il professore. Dice il falso ma lui non teme che la verità gli secchi la lingua perché non la sa, lui di femminismo non ha mai voluto saper niente con un minimo di precisione. L’ignoranza, però, non basta più con i tempi che corrono, ci vuole un tampone e Cacciari l’ha pronto. Ripete un elogio del femminismo fatto da altri (sempre lo stesso, “ultima vera rivoluzione” ecc.). Intanto pensa: nessuno può lontanamente aver visto quello che ho visto io! E a voce alta dice: le femministe “sono rimaste vittime della lettura maschilista dell’incarnazione, hanno guardato Maria come una figura servile, totalmente oscurata dal rapporto tra padre e figlio, non riuscendo a scorgere quello che c’è oltre”. Questa è la mossa classica dell’intellettuale italiano: s’inventa una posizione “femminista” fasulla, che gli pare verosimile e che trova facile da eliminare.
Termina così l’intervista; la trovate su Huffington Post, che in seguito ha pubblicato l’intervento di Nadia Lucchesi su questo argomento; lo trovate anche qui.
Inventarsi un femminismo finto, dopo quasi mezzo secolo di un movimento che sta modificando i tratti di una civiltà, e uno studioso di chiara fama che crede di poterlo fare impunemente, tutto questo non sarebbe possibile senza la complicità dei suoi pari e dei mass-media che vanno per la maggiore. È questo un andazzo che è durato troppo e danneggia il nostro paese. Da notare però anche, in questo caso, un certo desiderio maschile di mettersi alla luce della differenza femminile. Nadia Lucchesi e le sue amiche sono intervenute a smentire il Professore con molta serenità, come se, sotto le sue arie da grande pensatore, riconoscessero uno dei pastori che andarono alla grotta di Betlemme. (Luisa Muraro)
Il commento di Nadia Lucchesi e amiche all’intervista di Massimo Cacciari
Se i filosofi hanno ignorato Maria, le filosofe ne hanno invece valorizzata la figura, liberandola dagli stereotipi e dalle incomprensioni della tradizione. Penso, per nominarne alcune, a María Zambrano, a Simone Weil e a Edith Stein. Le femministe hanno guardato ben oltre la lettura maschilista dell’incarnazione: come scriveva Luisa Muraro nel 2011 «Data la scarsa conoscenza del femminismo, dovuta più alla novità delle idee che all’ignoranza delle persone, vi capiterà di leggere che noi femministe eravamo contro la figura di Maria. No, non solo la mariologia fu un terreno di coltura del femminismo cattolico, ma anche le agnostiche si sono dedicate a strappare Maria alla devozione di tipo patriarcale. Penso al Magnificat di Rosetta Stella (Marietti)... Di Maria si è enfatizzato il protagonismo, la mobilità, l’autonomia. La sua verginità è stata interpretata in termini d’indipendenza simbolica dagli uomini. Fondamentale è stato l’apporto di Luce Irigaray, che, dagli anni Ottanta, ha contribuito a diffondere un nuovo linguaggio religioso...» (Maria. Il latte della Vergine, Madre di Dio e Dio lei stessa, Il manifesto - Alias, 24 dicembre 2011).
Infatti, Luce Irigaray ha pubblicato nel 2010 «Il mistero di Maria» (Edizioni Paoline, 2010), mentre nel 2002 Nadia Lucchesi aveva dato alle stampe «Frutto del ventre, frutto della mente: Maria, madre del Cristianesimo» (Luciana Tufani, Ferrara 2002).
Nel 2014 si è svolto a Venezia il convegno «Rivisitazione di Maria. Per una teologia in lingua materna», a cura di Laura Guadagnin e Grazia Sterlocchi delle associazioni Settima Stanza e Waves in collaborazione col Centro Donna, mentre a Roma, all’interno del progetto speciale culturale Biblioteche di Roma 2014 «Presenza e mistero di Maria», Annarosa Buttarelli e Suor Michela Porcellato sono intervenute sul tema: «La sovranità di Maria di Nazareth».
Raffaella Molinari e Monica Palma, relatrici di un intervento dal titolo «Maria della Sororità, Nostra Signora Nostra Sorella» continuano il lavoro straordinario di Ivana Ceresa, fondatrice della Sororità, un ordine religioso posto sotto l’autorità di Maria, concepita come figura di donna potente.
Da più di cinquant’anni, inoltre, Angela Volpini diffonde un’immagine di Maria che rappresenta l’umanità realizzata e ci insegna la “via della felicità sulla terra”.
Non parlo dei tantissimi contributi delle teologhe cattoliche e non, che hanno interpretato in modo non tradizionale la figura della Vergine, della Maestra di Sapienza: cito, per nominarne solo una, Elisabeth Schüssler-Fiorenza, teologa statunitense, femminista cattolica, autrice di due opere fondamentali: «In memoria di Lei» (Claudiana, Torino 1990) e «Gesù, figlio di Myriam, profeta della Sophia» (Claudiana, Torino 1996).
* www.libreriadelledonne.it, 19 gennaio 2018
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EREDE: IL PESO DEI PADRI (ATEI E DEVOTI). UN’EREDITA’ ANCORA PENSATA ALL’OMBRA DELL’"UOMO SUPREMO" E DEL "MAGGIORASCATO". Una riflessione di Massimo Cacciari su "cosa significa ereditare il passato"
UOMINI E DONNE. LA NUOVA ALLEANZA di "Maria" e di "Giuseppe"!!! AL DI LA’ DELL’ "EDIPO", L’ "AMORE CONOSCITIVO". SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITA’, OGGI. In memoria di Kurt H. Wolff.
Federico La Sala
Teatro Valdoca
Comune di Cesena
CIÒ CHE CI RENDE UMANI
poesia filosofia arti
18 ottobre - 11 novembre 2012
Cesena
Domenica 28 ottobre 2012 alle ore 18 presso la Sala Conferenze del Palazzo del Ridotto di Cesena continua con un’ospite internazionale la rassegna CIÒ CHE CI RENDE UMANI, organizzata dal Teatro Valdoca insieme al Comune di Cesena, con il contributo di UniCredit.
Lo spazio, allestito teatralmente da Cesare Ronconi come cavea per l’ascolto, accoglierà Luce Irigaray, direttrice di ricerca in filosofia presso il Centre national de la recherche scientifique di Parigi, filosofa francese tra le più note esponenti del pensiero della differenza di genere, in cui nella costruzione di una cultura a due soggetti, il maschile e il femminile sono portatori di valori differenti ma di equivalente importanza per l’elaborazione di legami e di civiltà.
Linguista e psicoanalista, legata al movimento femminista degli anni Settanta, nella sua formazione multidisciplinare ha avuto un ruolo fondamentale negli ultimi trent’anni la pratica dello yoga.
L’incontro sarà introdotto da una breve lettura in versi di Mariangela Gualtieri e presentato da Lorella Barlaam, giornalista e intellettuale vicina al Valdoca.
È nella pratica dell’ incrociare una cultura del respiro con una cultura dell’amore che Luce Irigaray vede una possibile via per un’evoluzione positiva dell’umanità.
Così afferma: “La nostra cultura troppo spesso ha fatto dell’amore un imperativo morale o religioso e non il mezzo e il luogo più determinanti perché l’umanità possa sbocciare. È accaduto perché non ci siamo abbastanza preoccupati di coltivare la vita, anzitutto la nostra vita umana, a cominciare dalla linfa che l’alimenta, che le permette di crescere e di fiorire. Questa linfa risulta da un’energia al contempo naturale e spirituale che si acquista proprio mediante la coltivazione consapevole del respiro... La pratica dello yoga mi ha rivelato un modo di amare che la tradizione occidentale non mi aveva insegnato”.
L’ingresso all’incontro è libero e gratuito. In caso di pubblico eccedente verrà allestita una proiezione in diretta all’interno dell’Aula Magna di Vicolo Carbonari 2.
All’interno della Galleria Comunale d’Arte, nella sala sottostante del Palazzo del Ridotto, sarà possibile visitare la mostra De Visu dell’artista cesenate Erich Turroni, anch’essa inserita all’interno del programma di Ciò che ci rende umani, curata da Marisa Zattini e organizzata da IL VICOLO - Sezione Arte.
La rassegna continuerà domenica 4 novembre con Massimo Cacciari in De Anima e durante la settimana, il 30 e 31 ottobre e l’1 novembre con il laboratorio Scuola temporanea sul corpo sottile - How to grow a lotus, condotto da Francesca Proia.
Studi su Maria nell era del post-patriarcato
di Annarosa Buttarelli (il manifesto, 23.10.2010)
In un delizioso libriccino da tenere in tasca come quelli destinati alla meditazione quotidiana, Luce Irigaray scrive una delle tappe più significative della sua ricerca intorno al divino di segno femminile. Il testo, un’intensa riflessione su Maria di Nazaret e madre di Gesù, scritto con la semplicità accurata di chi vuole arrivare al cuore di molti e di molte, si muove per soccorrere un’umanità che ha fatto a pezzi sé e il pianeta dove vive, che non ha quasi più la capacità di alimentare lo spirito e di conservarsi un accesso alla trascendenza, prima ancora di una qualche confessione religiosa.
Con Il mistero di Maria, la filosofa incoraggia l’accelerazione di un processo di rispiritualizzazione dell’umano, proponendo un cambiamento generale della forma mentis occidentale verso una «cultura della saggezza».
Si può provare la tentazione di attribuire questa mossa alle sue personali ricerche in ambito buddista e induista, ma rimane lo stupore per la finezza con cui queste ricerche mirino a collocare Maria di Nazaret al centro della nostra vita politica e spirituale. Riprendendo il suo fondamentale Sessi e genealogie, Irigaray ci chiede di mettere al cuore del cambio di civiltà in corso la Madonna cristiana cattolica, in modo da avvalerci della sua opera di «co-redentrice del mondo», insieme a suo figlio Gesù.
Se il senso profondo di questa proposta fosse già stato recepito, potremmo tirare un respiro di sollievo: significherebbe che l’intelligenza generale ha registrato che ci troviamo in pieno postpatriarcato, un tempo che non ha più punti di orientamento, che ha bisogno di un nuovo ordine simbolico da condividere, per il quale occorre trovare immagini, metafore vive, creatività, nuove dimensioni narrative, e perfino mitologiche.
Qui da noi, il cristianesimo popolare e femminile ha seguitato a coltivare il culto di Maria come virgo potens e come figura storica che merita e sostiene tutte le meravigliose attribuzioni contenute nelle Litanie lauretane. La dottrina istituzionale della Chiesa invece, scrive Irigaray, ha scelto di coltivarne la memoria come archetipo di maternità esemplare al servizio di Dio-padre e del suo progetto. La cosa non è rimasta senza conseguenze, né per la nostra cultura, né per la politica, tanto è vero che, in pieno cristianesimo realizzato (?), «di Maria non sappiamo quasi nulla», scrive Irigaray, che è da leggersi anche come un «delle donne non sappiamo e non vogliamo sapere quasi nulla».
La pretesa di Irigaray è alta: mostrare l’evidenza di una correzione teologica improcrastinabile. Colei che è cara a chi «ha fame e sete di giustizia» può essere la figura di una nuova era, di un pensiero incarnato, così come lo è stata per l’inizio dell’era cristiana con il suo consenso a concepire il messaggio d’amore incarnato in suo figlio Gesù. Dice Irigaray che Maria è protagonista consapevole di una novità: il concepimento di una nuova umanità non può essere solo emotivo o fisico (Maria non è mai solo corpo materno), ma accade se si trovano parole nuove, se si parla con l’angelo.
Ci viene ricordato che ogni concepimento è simultaneamente nel corpo, spirito, pensiero e parole e che ogni nuovo inizio ha bisogno di parole vere incarnate e sessuate. Correggendo l’incauto errore di Eva, Maria insegna che non si può pretendere di diventare divini prima di avere portato a compimento la propria umanità, prima di assumerla avendola accettata.
L’autorità simbolica di Maria viene dalla sua misteriosa verginità, fraintesa dalla Chiesa al punto che Luce Irigaray la accusa di minare «i fondamenti stessi del cristianesimo» - ma forse le è sfuggito che già uno dei nomi della Madonna sia «Spirito Santo».
Tuttavia la filosofa respinge la teologia della mediazione dello Spirito Santo (nel mettere incinta Maria, n.d.r) che rappresenta l’amore tra il Padre e il Figlio della Trinità cristiana. «Maria avrebbe concepito senza partecipare!».
La cifra della verginità di Maria (non la castità) starebbe invece a significare che, alle radici stesse del cristianesimo, il legame diretto delle donne con Dio, non è mediato da alcun uomo, né da alcunché di maschile.
Maria appare così anche l’affrancamento, fin dall’origine, dall’identificazione con lo stato di natura in cui la cultura filosofica occidentale ha invitato le donne a rincantucciarsi. Il suo «gesto etico» non consiste solo «nel rispettare, ma anche nel dare» la vita, a un altro differente da lei, mostrando la capacità femminile di «rispettare la trascendenza dell’altro, di cui pochi uomini sono effettivamente capaci». In continuità con la sua ricerca sui «trascendentali sensibili» nella vita di relazione (Etica della differenza sessuale), Irigaray presenta Maria come «la prima figura divina del tempo dell’incarnazione».
Fatta eccezione per la mistica, l’autrice polemizza con l’esito di una cultura cristiana anestetizzata, che considera trascendente solo ciò che «sfugge alle nostre percezioni sensibili, solo ciò che è disincarnato». Maria, concependo e crescendo nel suo corpo l’invisibile divino, mostra la realtà del divino dentro l’umano e testimonia la necessità di coltivare le percezioni sensibili interiori ed esteriori, una «cultura del toccare» sensibile e carnale versus le politiche dell’immunizzazione, dell’astrazione e dell’indifferenza.
Luce Irigaray, Il mistero di Maria, Paoline, pp. 58, Euro 11,50