LETTERA APERTA
ALLA SOPRINTEDENZA per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Salerno e Avellino
CH.MO SOPRINTENDENTE
Egr. dott. Miccio
Le scrivo, in riferimento allo stato della Chiesa di Maria SS. del Carmine di Contursi Terme. Del restauro di questa chiesa (convento carmelitano dal 1561 al 1652), dopo il terremoto del 1980, se ne sono occupati i tecnici della Soprintendenza, il dott. Domenico Palladino e la dott.ssa Maria Giovanna Sessa: i lavori furono conclusi nel 1989 (scheda restauro - pdf, in fondo).
Purtroppo, dopo molti anni di totale incuria, la sua situazione ora sta precipitando paurosamente. Solo per darle un’idea, Le ho qui allegato una foto relativa allo stato attuale del tetto (si veda, qui, in fondo).
Uno scenario orribile: non sono cresciute solo erbacce che intasano il corretto deflusso delle acque e che poi vanno ad infiltrarsi nel muro (con conseguenti danni - già disastrosi ed evidenti all’interno), ma si è avviato anche il cedimento dell’orditura che tiene l’intero manto delle tegole!!!
All’interno, la parete sinistra (ormai fradicia di umidità e sempre più ricoperta di muffe verdeggianti) sta perdendo tutti i suoi preziosi affreschi (12 Sibille) portati alla luce dai lavori di restauro.
Tenga presente che le Sibille presenti sono 12 (al contrario della volta della Cappella Sistina di Michelangelo, ove ne sono rappresentate solo 5 con 7 profeti) e che questa grande novità ovviamente non è di poco rilievo per la storia dell’arte e della storia culturale e religiosa italiana.
Sulle "decorazioni parietali di modesta fattura e complessa lettura" (come accennato dai dott. Palladino-Sessa nella loro relazione), si veda la documentazione presente nel mio lavoro: Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore. Note sul "Poema" rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989), Pref. di Fulvio Papi, Edizioni Ripostes, Salerno-Roma 1996.
In particolare, è bene ricordarlo: "Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale che colloca la filosofia e la teologia pagana in sequenza con il Cristianesimo".
Il mio unico desiderio è che il prezioso lavoro fatto dalla stessa Sovrintendenza non vada assolutamente perduto! E che questa bandiera della cultura tardo-rinascimentale piantata nell’area salernitana non ricada per sempre nell’oblio (o, diversamente, nel fango).
Mi auguro che Ella possa intervenire quanto prima, per sollecitare e contribuire a salvare il salvabile.
La ringrazio vivamente della sua attenzione e La saluto
Federico La Sala (12.03.2012)
*
La foto nel titolo è di Orazio Marotta.
Foto dello stato attuale del tetto della Chiesa, fatta con il telefonino il 20.02.2012:
STATO DEL TETTO (20 FEBBRAIO 2012) |
DOC. ALLEGATI:
Monastero della B.V. del Carmine
e
documentazione fotografica
dello stato della Chiesa
(agosto del 2016)
di
Antonio Siani
di Valentina del Pizzo *
Dalle pagine della rivista online “La voce di Fiore”, si è levato un accorato appello rivolto sotto forma di missiva, a cura di Federico la Sala, indirizzata al Soprintendente per i Beni architettonici della Provincia di Salerno, Gennaro Miccio, perché intervenga al fine di salvaguardare la Chiesa di Contursi dedicata a Maria Santissima del Carmine.
Intitolata probabilmente al patrono di Contursi, San Donato Vescovo, la fondazione della Chiesa, in principio una cappella, risale ad un periodo antecedente il XV sec.: composta da un’unica navata culminante in un’abside a pianta quadrata, la chiesa è stata di recente restaurata dalla locale Soprintendenza. Questi lavori hanno consentito di mettere in luce le decorazioni a tempera che adornano le pareti interne delle dieci cappelle in muratura, decorate con stucchi e cornici, che si aprono lungo le pareti laterali: si sono potute così distinguere delle Sibille i cui diretti confronti sono nella Cappella Sistina di Michelangelo o con gli affreschi di Raffaello nella Chiesa romana di Santa Maria della Pace, secondo un motivo iconografico caro al Rinascimento italiano e che data i nostri al pieno XVI sec.
I lavori di restauro architettonico hanno interessato il consolidamento generale della struttura e delle murature che versavano in cattive condizioni. Il tetto è stato sostituito da una nuova copertura in pianellato di cotto ed orditura di legno, sovrapposta a capriate lignee, con l’inserimento di elementi strutturali di ferro.
L’intervento, resosi necessario a seguito del terremoto del novembre 1980, si sono conclusi nel 1989, tuttavia oggi la chiesa versa in uno stato di abbandono, con erbacce che intasano il corretto deflusso delle acque e che vanno ad infiltrarsi nelle pareti provocando danni già disastrosi ed evidenti all’interno, nonché favorendo l’avvio del cedimento dell’orditura che tiene l’intero manto delle tegole.
Problemi non del tutto risolti di umidità non rassicurano sulla conservazione delle decorazioni parietali, rischiando di sottrasse alla fruizione da parte della comunità e dei potenziali visitatori delle dodici Sibille rinascimentali e del loro messaggio di Rivelazione. Queste infatti dalla Sibilla Cumana alla Sibilla Aegyptia, di modesta fattura e di complessa lettura, si susseguono fino all’altare, dietro il quale sorge una pala del 1608 di Jacopo de Antora, raffigurante il Profeta Elia, il profeta Giovanni Battista ed in alto, su una nuvola, Maria con il Bambino, mentre alle loro spalle svettano le colline del Carmelo, con chiese e grotte, ed un’iscrizione che menziona il committente Paolo Pepe, nipote di Paolo Antonio Pepe, alla cuimemoria l’opera è dedicata: un patrimonio fondamentale per il quale urgono interventi urgenti di recupero e consolidamento affinché non si perda del tutto l’effettodel restauro dello scorcio degli anni ottanta, determinando così un doppio spreco, delle opere e di risorse impiegate in passato.
Una curiosità: i Pepe sono gli antenati dei Rosapepe, noti oggi per gli stabilimenti termali e chissà se non fossero disponibili ad assumere anche il ruolo di Mecenati, finanziando, in tempi di magra, per la gestione e la manutenzione del nostro patrimonio culturale, un restauro degno di un paesino che ha fatto dell’industria turisticalegata agli stabilimenti termali, il proprio vanto.
Valentina Del Pizzo
* Fonte: “UNICO Settimanale”, n. 11, 24.03.2012, PAG. 18
(di Margherita Siani, Il Mattino.Salerno, 26.03.2012)
Aspettando Francesco I
di Giovanni Colombo (“Il Margine”, febbraio 2012)
"Attonito sbigottimento" disse nel settembre scorso il Cardinal Bagnasco, Presidente dei vescovi italiani, di fronte alle ultime convulsioni del governo Berlusconi. "Attonito sbigottimento" vien da ripetere di fronte alle ultime vicende vaticane.
L’ inizio di febbraio è stato micidiale. Prima la pubblicazione delle lettere di fuoco scritte dall’attuale nunzio apostolico negli Stati Uniti, Mons. Carlo Maria Viganò, quand’ era segretario generale del Governatorato (l’ ente che gestisce lo Stato della Città del Vaticano), al Papa e al Cardinal Bertone, contenenti accuse di corruzione negli appalti e di malagestione dei soldi, affidata a banchieri che "fanno di più il loro interesse che i nostri" e che "hanno mandato in fumo in una sola operazione finanziaria nel dicembre 2009 due milioni e mezzo di dollari". Mons. Viganò si aspettava di diventare Cardinale e presidente del Governatorato e invece è stato mandato in America. La Santa Sede si è difesa con un lungo e dettagliato comunicato: "il Governatorato non è in balìa di forze oscure".
Poi le notizie riguardanti lo Ior, il forziere del Vaticano. Sta proseguendo con il coinvolgimento di 4 preti - l’ inchiesta della Procura di Roma sul trasferimento di 23 milioni, attraverso il Credito Artigiano, alla JP Morgan Frankfurt e alla Banca del Fucino. Secondo i giudici il trasferimento è avvenuto in violazione della normativa antiriciclaggio. Pare inoltre che, a seguito di questa inchiesta, lo Ior abbia deciso di spostare gran parte delle proprie attività finanziarie dalla banche italiane a quelle tedesche. Sempre lo Ior continuerebbe ad opporre resistenza all’ AIF (Autorità di informazione finanziaria, presieduta dal Cardinal Nicora) sulla piena applicazione delle nuove norme vaticane in tema di trasparenza.
Infine la fuga di notizie dalla Segreteria di Stato che ha reso pubblico un memorandum anonimo, presentato dal Cardinale colombiano, Darìo Castrìllon Hoyos, circa le confidenze che avrebbe fatto un altro Cardinale, Paolo Romeo, arcivescovo di Palermo, durante un viaggio in Cina del novembre scorso. Nel testo si legge che "Benedetto XVI avrebbe solo altri 12 mesi da vivere" e che "si starebbe occupando in segreto del suo successore: il Cardinale Scola". La gendarmeria vaticana sta indagando per scovare la "talpa".
L’ attonito sbigottimento fa tornare alla mente il testo scritto nel 2005 dall’ allora Cardinal Joseph Ratzinger per la via crucis del Giovedì Santo. Nona stazione, Gesù cade per la terza volta: " ... Ma non dobbiamo pensare anche a quanto Cristo debba soffrire nella sua stessa Chiesa? ... Quante volte celebriamo soltanto noi stessi senza neanche renderci conto di lui! Quante volte la sua Parola viene distorta e abusata! Quanta poca fede c’è in tante teorie, quante parole vuote! Quanta sporcizia c’ è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza!" Parole dure come pietre, che forse hanno contribuito a spingerlo verso il soglio di Pietro. Ma adesso cosa sta succedendo? Siamo sempre lì, alla nona stazione, o la via crucis è andata avanti? In termini più mondani: stiamo assistendo ad una delle solite partite di potere, giocate con stile cattivo, dalle fazioni opposte d’ Oltretevere, di cui la storia della Chiesa è piena fino alla nausea, oppure questi episodi dicono qualcosa di più: la frana di un impianto ecclesiastico millenario, in moto da anni e anni, ma che ora ha preso la discesa con velocità sempre più crescente? Motus in fine velocior. Il 18 febbraio scorso mia moglie ed io abbiamo deciso di andare a vedere di persona com’ è la situazione. Siamo scesi a Roma per partecipare al concistoro. Fra i 22 nuovi cardinali c’ è pure lui, il prete che ha celebrato le nostre nozze e battezzato i nostri figli. Quindi non potevano assolutamente mancare al grande appuntamento.
Alle 9.30 attraversiamo Piazza San Pietro dove l’ 8 dicembre 1965 Paolo VI, chiudendo il Concilio Vaticano II, disse che quello che conta è l’homo integer, l’ uomo completo, quello che cammina eretto. Eretti entriamo nella Basilica di San Pietro dove l’ 11 ottobre di 50 anni fa Giovanni XXIII l’ aprì, il Concilio, con il celebre discorso Gaudet Mater Ecclesia, in cui criticò i profeti di sventura. Alle 10.30 gli squilli di tromba danno inizio alla cerimonia e la mia mente s’ eleva ad Deum, pardon inizia a svolazzare per la navata e a farsi una serie di domande.
Perché sono tutti maschi?
Metà della Basilica è occupata dal Collegio cardinalizio e da molti vescovi. Son tutti maschi. Non è una novità. Ma si può continuare a vivere così? Si può continuare a tenere lontane le donne? Ormai, a cinquant’ anni, posso confermarlo per esperienza: gli uomini hanno paura delle donne. Non so quando inizi il timore, forse inizia proprio all’ inizio, appena ci si accorge che si è rotta per sempre la fusione originaria con la propria madre. Questa paura accompagna noi uomini tutti i giorni e crediamo di scacciarla coi giochi di seduzione o mostrandoci forti nelle guerre e nel lavoro. Ma non la superiamo mai realmente e così ci condanniamo a non conoscere quasi nulla di noi stessi, a non gustare quasi niente della vita e di Dio. Perché sono molto vicini: la donna, la vita e Dio. Le Chiese, tutte le Chiese, essendo fatte da uomini, cercano di addomesticare le donne - e la vita e Dio - definendo bene le posizioni. Uomo è colui che ha la presidenza, che sta sopra, al suo posto d’uomo, che vi sta con gravità, con serietà, ben al caldo della sua paura. Donna è colei che sta sotto, anzi non sta da nessuna parte, non occupa altro posto se non quello, sempre mobile e marginale, del servizio e della cura. Questa differenza è stata praticata per millenni ma può essere superata in un istante. Basta un movimento, un semplice movimento fuori dal posto, dalle gerarchie imposte dalla legge o dal costume, senza più l’ ossessione di cadere e di diventare nessuno. E finalmente s’ avvia la relazione, quella relazione sempre negata ( o praticata di nascosto in qualche breve momento subito interrotto), in cui non si capisce più chi sta sopra e chi sta sotto ma in cui si capisce molto bene quello che sta avvenendo: l’ aiuto reciproco a conoscersi e a vivere in pace e in Dio. La Chiesa di Roma, a differenze di altre Chiese, fa riferimento al Cristo e vuole rimanere fedele al Cristo, lo sta ripetendo anche adesso il Papa durante l’ omelia: ma nessuno più del Cristo ha fatto saltare le posizioni e ha rivolto il suo viso verso le donne, come ci si china sull’ acqua di un fiume per attingervi forza e volontà di proseguire il cammino. Le donne nel Vangelo sono altrettanto numerose degli uccelli. Sono là all’ inizio e sono là alla fine. Sono le apostole della resurrezione. E come mai non se ne vede neanche una tra questi marmi?
Perché son tutti vecchi?
Anche questa non è una novità. Sono i vecchi quelli che guidano la Chiesa. La vecchiaia è sinonimo di saggezza. Ma proprio in tema di saggezza, quanta ce n’è in quel proverbio indiano che parla dei quattro stadi nella vita di un uomo! Nel primo stadio si impara. Nel secondo si insegna e si servono gli altri, mettendo a frutto quello che si è imparato. Nel terzo si va nel bosco, a far silenzio e meditare su quant’ è successo. Nel quarto si impara a mendicare. Lasciamo stare per un momento quest’ ultima fase. La mendicità, il dipendere dagli altri, se da una parte è il sommo della vita ascetica, dall’ altra è l’ infimo che non vorremmo mai sperimentare (ma che spesso viene, e al quale bisogna prepararsi per tempo). Fermiamoci ai primi tre. In quale stadio si dovrebbero trovare queste neo berrette rosse e la stragrande maggioranza degli altri celebranti? Direi nel terzo. E lo stadio buono per il ritiro nel bosco, dove riordinare i ricordi e ripensare con gratitudine a tutte le cose ricevute e a tutte le persone incontrate. La fase in cui tornare a rileggere la Bibbia con calma, senza lo stress di dover preparare la predica perfetta. La fase in cui mettersi a disposizione per il colloquio con l’altro: noi siamo colloquio e il colloquio è l’ esperienza umana-divina per eccellenza. Invece in molti hanno ancora incarichi assai importanti, da secondo stadio, che non mollano, come se il mollare fosse il segno di una qualche infedeltà. Alcuni addirittura dimostrano un attaccamento al proprio posto e un dinamismo tale nell’ interpretare il proprio ruolo da far invidia a un quarantenne.
Ma se il calendario segna i settanta e passa è tempo di vivere un sereno distacco dalle scene di questo mondo. Non serve più a niente aspirare ad ulteriori livelli di carriera. Ora la prossima ascensione, per la quale prepararsi a puntino, è unicamente verso il Cielo. Non possiamo fare qualcosa di più per seguire la saggezza del proverbio indiano? In termini mondani: la responsabilità, la dirigenza dai 45 ai 65 anni, poi ministra Fornero permettendo - in pensione. In termini ecclesiastici, idem: l’ episcopato, con ruoli di governo, dai 45 ai 65 anni, poi nel bosco. E per quanto riguarda i cardinali... ma son proprio necessari? Il Concilio Vaticano II non dedica loro neppure una riga. E allora noi cosa ci facciamo qui?
Perché son (quasi) tutti grassi?
Li guardo, i cardinales, guardo i loro corpi. E il corpo a mostrare, è il corpo a parlare più di un’ enciclica. E il corpo la nostra guida costante, troppo spesso lo dimentichiamo e non lo ascoltiamo anche là dove le decisioni non riguardano azioni banali ma scelte decisive per il nostro destino. Ritrosie, silenzi, malattie, mancamenti, entusiasmi, vibrazioni: sono tutti i segni di una saggezza più profonda delle nostre ragioni consapevoli, diceva Nietzsche e confermano i dottori olistici. Con tutta probabilità questi Cardinali sono cresciuti con un’ altra impostazione, in cui il corpo è soltanto un asino, un mezzo di trasporto. Francesco d’ Assisi lo chiamava proprio così: fratello asino . Ma conviene sempre ascoltarlo, l’ asino, o meglio l’ asina, come nel caso di Baalam. Nella pagina biblica l’ asina parla. Racconta la visione dell’ angelo, per tre volte la volontà di Dio d’ impedire a Baalam il compimento del suo infame disegno. E alla fine Baalam comprende e rinuncia. Chissà cosa starà dicendo ora l asina su cui stanno seduti questi principi della Chiesa. Forse parole del genere: sono grassa perché sto ferma tutto il giorno nelle sacre stanze. Sono grassa perché accumulo senza bruciare. Sono grassa perché non ti sei mai occupato di me. Anche se ormai son vecchia, non ho perso la voglia di andare, quando vado sputo veleni e incamero pensieri, bevo il doppio e mangio la metà, sperimento un lavacro rigeneratore. Dài, facciamo come nostro padre Abramo, che non ebbe paura di accogliere l’ invito: Lekh lekhà, vattene. Partiamo come lui, verso l’ inedito. E preghiamo che sia lunga la via, colma d’ avventure, colma di conoscenze.
Perché sono vestiti così?
Certo che camminare vestiti in questa maniera non è mica facile. Premetto che non ho nessuna competenza di paramenti liturgici. So per esperienza umana che il vestito è importante. Lo sanno tutti gli innamorati. Mi son fatto bello, per andare bello da un bello , dice Socrate nel Simposio. Io devo assomigliare a chi amo. Faccio il maggior numero possibile di cose come l’ altro, di più voglio essere l’ altro, voglio che lui sia me, uniti, rinchiusi nel medesimo sacco di pelli. Il vestito non è altro che l’ involucro che esprime il mio immaginario amoroso. Do per scontato che anche il vestito del papa e dei cardinali siamo vestiti d’ amore per il nostro Dio e non strumenti per darsi importanza agli occhi del mondo. Ma non basterebbe in questo caso una bella veste bianca di bucato? Questi paramenti pesanti sembrano il retaggio di una visione di Dio potente e avvolgente, fin troppo potente, fin troppo avvolgente, tanto da ridurre il corpo dei suoi seguaci in prigionia. Il corpo di questi cardinali è fasciato, appesantito dalle vesti, sacrificato. Forse per qualcuno va bene così, non avverte il problema, anzi potrebbe rispondere irritato: "Queste vesti sono belle, belle anche se pesanti, perché bello, bello anche se pesante, è il nostro Dio" . Ma in generale il discorso non dovrebbe prendere una piega diversa? Se è il nostro Dio è vento sottile e sua salvezza la nostra liberazione, non dovrebbero saltare le cinture e scomparire le sottane?
L’ attuale vestiario non solo appare fin troppo debitore delle usanze rinascimentali e barocche ma soprattutto sembra trasmettere un visione distorta del rapporto con l’ Amato. Può esser utile domandarsi com’ erano vestiti gli apostoli. Non andavano in giro mezzi nudi? E Gesù? Non mise né la pianeta, né la casula, nè il camice, né la berretta, né l’ anello d’ oro. Nel momento decisivo si mise un grembiule.
Perché non risparmiamo sulla luce?
Stamattina affari doro per l’ Enel. C’ è tanta, troppa luce, dentro la Basilica sembra acceso un sole artificiale. E perché invece di essere contento mi viene da dire alla Conrad "nessuna gioia nello splendore del sole" ? Non è che il problema di questa Chiesa è di volere, con la sua dottrina e la con la sua presenza, una visibilità totale? I contorni devono essere sempre ben definiti, altrimenti potrebbero intrufolarsi pensieri eretici e immagini pericolose. Si pensa di trasmettere più nitidamente i significati e di realizzare la comunicazione perfetta della verità non lasciando nessun intervallo tra gli spazi. Però se tutto viene occupato da quello che arriva dall’ esterno, ciò che risiede all’ interno è costretto a rimanere inespresso. In linguaggio psicoanalitico: repressione. Diventiamo prigionieri dei riflettori, alla mercé degli occhi. Gli occhi possono diventare entità persecutorie. Non a caso gli dei crudeli hanno gli occhi sempre aperti senza palpebre: non li chiudono mai, non dormono mai. Ma coloro che vedono sono ciechi e solo i ciechi possono vedere... Le meditazioni vanno fatte al buio, così con il favore delle tenebre posso apparire timidamente le creature che popolano le nostre foreste e i nostri mari. Le cerimonie hanno bisogno di nuvole e nebbie, che gentilmente velino le alogene. L’ hanno già detto in tanti nel corso della storia, anche tanti santi e tanti papi, eppure fatichiamo a crederci. La verità è sempre al di là del visibile. Scorre sotterranea, dimora nell’ oscurità coperta dalla nebbia, circondata dal silenzio. Spegniamo dunque la luce e chiudiamo gli occhi e mettiamoci in attesa. "Ascolta, mio cuore...ascolta l’ ininterrotto messaggio che dal silenzio si crea. Ecco fruscia qualcosa ... e viene a te" (Rilke).
Il Papa sta bene?
Vedendolo dal vivo direi di sì. Lo trasportano in pedana. La sua faccia è un po’ stanca. Però è lucido e presente. La predica lo dimostra. E lo conferma la sua agenda, che prevede, per il prossimo 23 marzo, la partenza per il viaggio apostolico in Messico e a Cuba, poi, a giugno, la presenza a Milano per il VII Forum mondiale delle famiglie e, a settembre, la visita in Libano. E se qualche malvagio volesse ucciderlo, secondo la "profezia" del memorandum? Le misure di protezione sono altissime e dovrebbero dare garanzia assoluta.
Certo, Benedetto XVI compirà tra poco 85 anni, ha cinque bypass al cuore, ha sulle spalle sette anni di pontificato, quindi è arrivato alla sera del suo lungo giorno. E la sera è fatta per pregare (vedi quanto detto sopra per i vecchi). Se a questo punto il Papa diventasse preghiera mollando tutto il resto? Quello che doveva scrivere come teologo l’ ha scritto, quello che doveva dire come pastore l’ ha detto. Silenzio, il Papa prega! Pensate che messaggio spiazzante per questo mondo che si agita con il suo fare sconclusionato. E non ci sarebbe modo migliore per spiegare ai nostri figli che significhi davvero "non di solo pane vive l’ uomo". Col pane campiamo. Ma è di ben altro che viviamo. Noi viviamo di quel Vento che ci fa costantemente rinascere.
Mi piacerebbe vedere il Papa esposto senza sosta al Vento a invocare il rinascimento. "Devi rinascere dall’ alto", è una delle più belle parole dette da Gesù nel Vangelo. L’ invito, rivolto a Nicodemo, vale in ogni epoca sia per i singoli sia per la Chiesa intera. Questa Chiesa superaccessoriata e pesante come il marmo è chiamata a perdere potere, sicurezze, abitudini per rinascere leggera, con il volto migliore.
Arriverà Francesco I ?
Sì. Dopo tanta preghiera del Papa e, modestamente, anche di noi laici, si può star sicuri che arriverà. Sarà lui il volto migliore. Non conosciamo ancora il colore, se bianco o nero (per il giallo stanno lavorando in tanti, c’è un proliferare di viaggi di ecclesiastici in Cina, ma la questione pechinese ha tempi troppo lunghi perché si risolva prima dell’ avvento desiderato). Però conosciamo già il nome. Si chiamerà Francesco. Sarà Francesco I.
Il giorno dopo l’ elezione, affiderà all’ Unesco, quali siti artistici e turistici, i Palazzi Vaticani, metterà in vendita Castelgandolfo, chiuderà lo Ior affidando i soldi alla Banca popolare etica. Abiterà per lunghi mesi a Assisi e scenderà a Roma - in treno - per celebrare i riti principali nella "vera" cattedrale del vescovo di Roma, quella di San Giovanni in Laterano. Molte cerimonie le farà all’ aperto, sul Monte Subasio o su culmini di colline dove non s’ innalza alcun tempio. Inviterà a sedersi rispettosamente sull’ erba. A prendersi le mani tra sconosciuti per storie personali ma ben noti per comune origine. Ad adorare in spirito e verità. Ridurrà la struttura istituzionale al minimo, con una drastica diminuzione del terziario ecclesiastico (il Concilio Vaticano II voleva snellire la Corte papale ma da allora l’ Annuario pontifico ha triplicato le sue pagine). Toglierà il celibato obbligatorio: più piacere, meno ipocrisie. Ordinerà le donne, ma le donne lo vorranno? Non è per nulla scontata la loro disponibilità, dovrà riconquistarle. Darà le dimissioni a 80 anni. Abolirà definitivamente i cardinales. D’ ora in poi i grandi elettori del Papa saranno i rappresentanti delle conferenze episcopali. Scriverà un’ unica enciclica dal titolo: In nuditate, Domine. In essa chiederà perdono di tutte le volte che il cattolicesimo è stato potere persecutorio su coscienze coartate, finzione autoritaria e violenta della verità, pretesa di non errare smentita incessantemente dai fatti. Nel testo elencherà i dogmi, le norme morali e i canoni del Codice di diritto canonico da gettare nel biondo Tevere. Tolto il fasullo, tolto l’inutile, Gesù di Nazareth tornerà ad affascinare. Sarà di nuovo possibile incontrarlo e seguirlo. Nudus nudum Christum sequi.
Finisce la cerimonia, finiscono le domande. Sono sette, sette come i colli di Roma, sette come i vizi capitali, sette come le opere di misericordia spirituale che sommate a quelle di misericordia corporale fanno 14 come l’ora in cui riusciamo finalmente ad abbracciare il neo-porporato. Felicitazioni vivissime. L’ affetto ha il sopravvento e cancella ogni altra elucubrazione. Volete sapere chi è? No che non parlo, non faccio la talpa, io. E non voglio stroncargli la carriera accomunandolo con un extra-vagante come me. Però, a pensarci bene, più in alto di così dove può arrivare? Non insistete, il cognome non ve lo dico. Ma provate a chiamarlo Francesco e vi risponderà.
A CONTURSI TERME (SALERNO), IN EREDITA’, L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE .....
RINASCIMENTO ITALIANO: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Sul tema, la prefazione di Fulvio Papi al lavoro di Federico La Sala
Donne e ministeri da segno dei tempi a indice di autenticità
di Lilia Sebastiani
in “Viandanti” (www.viandanti.org) del 10 marzo 2012
Nell’enciclica ‘conciliare’ Pacem in terris di Giovanni XXIII (1963) al n.22 l’ingresso crescente delle donne nella vita pubblica veniva annoverato tra i segni dei tempi, insieme alla crescita delle classi lavoratrici (n.21) e alla fine del colonialismo (n.23).
Ricordare l’enciclica è doveroso, per il valore storico di questo semplice e cauto riconoscimento: infatti è la prima volta che un documento magisteriale rileva la cosiddetta promozione della donna senza deplorarla - anzi come un fatto positivo. I segni dei tempi sono ancora al centro della nostra attenzione, ma per quanto riguarda le donne la questione cruciale e non ignorabile è ormai quella del loro accesso al ministero nella Chiesa, a tutti i ministeri.
Venerande esclusioni
Certo il problema dei ministeri non è l’unico connesso con lo status della donna nella Chiesa, ma senza dubbio è fondamentale; guardando al futuro, è decisivo. Non solo e non tanto in se stesso, ma per la sua natura di segno.
In questo momento nella Chiesa la donna è ancora esclusa dai ministeri ecclesialmente riconosciuti: non solo da quelli ordinati (l’Ordine sacro, cioè, nei suoi tre gradi: episcopato, presbiterato, diaconato) ma anche da quelli istituiti, il lettorato e l’accolitato. Questi ultimi, chiamati un tempo “ordini minori” e considerati solo tappe di passaggio obbligatorie per accedere all’ordinazione, furono reintrodotti nel 1972 da Paolo VI (Ministeria quaedam) come “ministeri istituiti” - per distinguerli da quelli ordinati, mantenendo però l’elemento della stabilità e del riconoscimento ecclesiale - e furono aperti anche a laici non incamminati verso l’Ordine; tuttavia si specificava chiaramente che tali ministeri erano riservati agli uomini, “secondo la veneranda tradizione della chiesa latina”.
Un po’ più recente l’istituzione dei “ministri straordinari dell’Eucaristia”: con prerogative non molto diverse da quelle degli accoliti, questi possono essere anche donne. E di fatto sono più spesso donne che uomini. Un passo avanti, forse? Certo però la dichiarata ‘straordinarietà’ sembra messa lì a ricordare che si tratta di un’eccezione, di una supplenza..., di qualcosa che normalmente non dovrebbe esserci.
A parte i servizi non liturgici ma fondamentali, come la catechesi dei fanciulli, quasi interamente femminile, e le varie attività organizzative e caritative della parrocchia, le letture nella Messa vengono proclamate più spesso da donne che da uomini; ma si tratta sempre e comunque di un ministero di fatto, che in teoria sarebbe da autorizzare caso per caso, anche se poi, di solito, l’autorizzazione viene presunta.
Il Concilio e l’incompiuta apertura
Il problema dell’accesso femminile ai ministeri è diventato di attualità nella Chiesa nell’immediato post-concilio, nel fervore di dibattito che caratterizzò quell’epoca feconda e rimpianta della storia della Chiesa. Il Vaticano II aveva mostrato una notevole apertura sulle questioni che maggiormente sembravano concernere il problema della donna in generale e della donna nella Chiesa in particolare. Sulle questioni più specifiche e sul problema dei ministeri i documenti conciliari erano generici fino alla reticenza, ma senza chiusure di principio. Ciò autorizzava a sperare nel superamento, non proprio immediato ma neppure troppo lontano, di certe innegabili contraddizioni che persistevano sul piano disciplinare. Inoltre altre chiese cristiane avevano cominciato da qualche anno, certo non senza resistenze anche aspre, a riconsiderare e a superare gradualmente il problema dell’esclusione (a nostra conoscenza, la chiesa luterana svedese fu la prima ad ammettere donne al pastorato, nel 1958)
.Una chiusura fragile
Nel decennio che seguì il Concilio, il dibattito in proposito fu intenso. La Chiesa ufficiale mantenne però una posizione di cautela e di sostanziale chiusura sempre più netta, che culminò - volendo chiudere la questione una volta per sempre - nella dichiarazione vaticana Inter insigniores, che è della fine del 1976, ma resa pubblica nel 1977.
In questo documento l’esclusione delle donne dal ministero ordinato veniva ribadita con caratteri di definitività vagamente ‘infallibilista’, ma anche con un significativo mutamento di argomentazione, che ci sembra importante poiché dimostra che l’esclusione è un fatto storico-sociologico in divenire e non un fatto teologico-sacramentale. Non si dice più, come affermava Tommaso d’Aquino, che la donna è per natura inferiore all’uomo e quindi esclusa per volere divino da ogni funzione implicante autorità; si richiama invece l’ininterrotta tradizione della Chiesa (che è evidente, ma è anche evidentissimo portato della storia e delle culture) e soprattutto la maschilità dell’uomo Gesù di Nazaret, da cui deriverebbe la congruenza simbolica della maschilità del prete che, presiedendo l’assemblea, agisce in persona Christi.
Quest’ultimo argomento fragile e sconveniente è stato lasciato cadere, infatti, nei pronunciamenti successivi: questi si rifanno solo alla tradizione della Chiesa e a quella che viene indicata come l’esplicita volontà di Gesù manifestata dalla sua prassi.
Anche questo argomento non funziona. Gesù, che non mostra alcun interesse di tipo ‘istituzionale’, alle donne accorda, con naturalezza, una piena parità nel gruppo dei suoi seguaci. Sembra insieme scorretto e pleonastico dire che “non ha ordinato nessuna donna”, dal momento che, semplicemente, non ha ordinato nessuno. Non vi è sacerdozio nella sua comunità, ma servizio e testimonianza, diakonìa non formalizzata - eppure rispondente a una chiamata precisa - che, prima di essere attività, è opzione fondamentale, stile di vita, sull’esempio di Gesù stesso “venuto per servire”.
Nel Nuovo Testamento di sacerdozio si può parlare solo in riferimento al sacerdozio universale dei fedeli (cfr 1 Pt 2,9; Ap 1,6), negli ultimi decenni tanto rispettato a parole quanto sfuggente e ininfluente nel concreto del vissuto ecclesiale; oppure in riferimento all’unico sacerdote della Nuova Alleanza - sacerdote nel senso di mediatore fra Dio e gli esseri umani -, Gesù di Nazaret (cfr Ebr 9), il quale nella società religiosa era un laico, oltretutto in rapporti abbastanza conflittuali con il sacerdozio del suo tempo.
Un’esclusione che interpella tutti
Vi sono due fatti, molto modesti ma significativi, che aiutano a tenere viva la speranza. Il primo, che i pronunciamenti dell’autorità ecclesiastica volti a chiudere ‘definitivamente’ la questione sono diventati abbastanza ricorrenti, il che dimostra che non è poi tanto facile chiuderla. Il dibattito è aperto e procede. Il secondo, che l’argomentazione teologica sembra cambiata ancora: felicemente sepolto l’infelicissimo argomento della coerenza simbolica, già pilastro dell’Inter insigniores, si richiama solo la prassi ininterrotta della chiesa romana e sempre più spesso si sente riconoscere, anche dalle voci più autorevoli, che contro l’ordinazione delle donne non ci si può appellare a ragioni biblico-teologiche.
No, non si tratta di banali rivendicazioni. L’esclusione interpella tutti: nessuna/nessun credente adulto può disinteressarsi di questo problema chiave finché le donne nella chiesa non avranno di fatto le stesse possibilità degli uomini, la stessa dignità di rappresentanza.
E’ necessario ricordare che vi sono donne cattoliche di alto valore e seriamente impegnate - tra loro anche alcune teologhe - che a una domanda precisa sul problema dei ministeri istituiti rispondono o risponderebbero più o meno così: no grazie, il sacerdozio così com’è proprio non ci interessa. E’ un atteggiamento che merita rispetto: almeno in quanto manifesta il timore che insistere troppo sul tema dell’ordinazione induca ad accentuare l’importanza dei ministri ordinati nella Chiesa (mentre sarebbe urgente semmai ridurre quell’importanza, insomma ‘declericalizzare’).
Ma dobbiamo ricordare che il “sacerdozio così com’è”, nella storia e nella mentalità corrente, si fonda proprio sulla ‘separazione’, sullo spirito di casta, sul sospetto previo e sul rifiuto nei confronti della donna, che nella chiesa di Roma si esprime in una doppia modalità: l’esclusione delle donne dalle funzioni di culto, di governo e di magistero, è parallela all’obbligo istituzionale di essere “senza donna” per coloro che le esercitano. Il divieto per le donne di essere ministri ordinati el’obbligo per i ministri ordinati di restare celibi sembrano due problemi ben distinti, mentre sono congiunti alla radice. E ormai sappiamo che potranno giungere a soluzione solo insieme.
Segno dei tempi, certo. Segno di trasformazione, segno contraddittorio, segno incompleto, proprio come il tempo in cui viviamo. Per quanto riguarda la chiesa cattolica, però, non solo segno, ma indice di autenticità. Non temiamo di dire che sulla questione dei ministeri, che solo a uno sguardo superficiale o ideologico può apparire circoscritta, si gioca il futuro della chiesa.
Lilia Sebastiani
Teologa
COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA.
L’ART. 9 DEI "PRINCIPI FONDAMENTALI":
La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.
PER LA COSTITUENTE DELL’ITALIA INTERA!!!
CARO AMICO
AL MIO PAESE (COME AL TUO, E IN TUTTA ITALIA) ABBIAMO UNA BATTUTA-PROVERBIO CHE SUONA COSI’ (SENZA NESSUNA OFFESA PER GLI ASINI E LE ASINE): "QUANDO L’ASINO NON VUOLE BERE, E’ INUTILE CHE FISCHI".
Pieni come siamo della nostra stupidità, preferiamo non sentire e non vedere e vivere come poveri "analfabeti seduti su un tesoro". "Il tasso di analfabetismo funzionale ha raggiunto livelli di guardia. O l’azione di Governo - come ha scritto (Armando Massarenti, "Il Sole-24 Ore/Domenica", 11.02.2012) -sarà in grado di far fronte all’emergenza o per l’Italia il declino è certo". E questo vale per Contursi Terme - per la mia Città (così per decreto del Presidente della Repubblica), come per Roma - la Città del Presidente della Repubblica (e di tutti i cittadini e le cittadine d’Italia)!
Nonostante tutto, io ho fiducia nel mio Paese - da sempre!!!
Molte grazie per la tua attenzione
Federico La Sala
Noi, analfabeti seduti su un tesoro
di Armando Massarenti (Il Sole-24 ore/Domenica, 11 marzo 2012)
Due dati dovrebbero impressionarci come italiani, se vogliamo vederci (anzi, diciamo pure, venderci) come cittadini del mondo. Il primo è quello che riguarda la strepitosa immagine positiva che ancora siamo in grado di diffondere all’estero. Chiunque di noi si presenti come italiano in un qualunque ambiente di New York, Parigi, Tokyo, Pechino, Singapore, non riceverà che elogi e espressioni di ammirazione.
Perché? Perché nonostante tutto il nostro brand va fortissimo. E di che cosa è fatto questo brand? Vi sembrerà strano ma la parola che lo riassume è una sola: Cultura. Noi siamo il Paese della Cultura. Ovunque nel mondo. Nel mondo che conta e che si arricchisce. Lo dico con un’enfasi che non è la mia (e neppure l’uso disinvolto di parole del marketing come brand lo è, ma è per intendersi), perché non amo la retorica e per me cultura è anche tante altre cose assai più piccole (è anche ingegnosità minuta, fumetti, videogiochi, grafica, artigianato) e anche meno piccole ma in genere poco amate dagli umanisti: scienza, diritto, economia. Ma c’è poco da fare: è quello il brand che, quando siamo bravi, riusciamo a vendere, e dobbiamo andarne fieri. Anche nelle piccole cose: nel nostro design, nelle nostre automobili, nel nostro abbigliamento, nei nostri orologi di lusso, nei nostri mobili, in tutto il made in Italy c’è un riverbero della nostra gloriosissima storia, in un’immagine in cui lo straniero vede tutta la grandezza dell’antica Roma e del nostro Rinascimento, che condisce con i nostri musicisti, gli inventori dell’Opera lirica, i poeti, i grandi navigatori, i fondatori della scienza galileiana, cioè di quel metodo che è alla base del prodigioso progresso tecnico-scientifico degli ultimi quattro secoli in Europa e nel mondo. Ma di questo si parla nelle pagine centrali di questo numero, dove si può vedere bene, dati alla mano, che nei casi migliori la cultura «fattura», anche al nostro interno, nelle nostre regioni e province.
Passiamo dunque al secondo dato che dovrebbe impressionarci. Anzi, in questo caso, allarmarci. Noi italiani appariamo come primi ‐ primi assoluti! ‐ in una ben poco encomiabile lista. Tutto il mondo la può leggere e stupirsene. È pubblicata nella voce «functional illiteracy» di Wikipedia (la voce corrispondente «analfabetismo funzionale» non c’è nella versione italiana di Wikipedia, qualcuno la allestisca!), e dice che il 47 per cento degli italiani dai 14 ai 65 anni ha forti deficienze nella semplice comprensione di un testo. All’Italia seguono il Messico (43,2%), l’Irlanda (22,6%), Gran Bretagna (21,8), Usa (20), Belgio (18,4) giù giù (anzi su su) fino alla alfabetizzatissima Svezia (7,5%!).
Il 47 per cento di analfabeti vi sembra un’esagerazione? Prima di allarmarci potremmo provare a consolarci in due modi. Primo: obiettare che i dati della voce di Wikipedia si fermano al 2003. Magra consolazione. Il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ci ha ricordato, nel suo recentissimo Investire in conoscenza e sul Sole 24 Ore-Domenica di due settimane fa, che negli anni successivi gli analfabeti funzionali sono saliti all’80%! E un allarme simile è confermato da uno dei nostri massimi linguisti, Tullio De Mauro. Anche la tv, dopo aver fortemente contribuito alla crescita e unificazione linguistica del Paese, ora sta assecondando il movimento opposto.
Secondo modo di consolarci: si tratta di «analfabetsimo funzionale» e non di analfabetismo tout court, dal quale siamo usciti con un grande sforzo collettivo con la ricostruzione del secondo dopoguerra. Magra, magrissima consolazione anche questa, alla quale si può rispondere con la famosa battuta di Eugenio Montale, che aveva già capito tutto: «Il rapporto tra l’alfabetismo e l’analfabetismo è costante, ma al giorno d’oggi gli analfabeti sanno leggere». Sanno leggere ’tecnicamente’, nel senso che per lo più riconoscono i caratteri, e sanno maldestramente far di conto. Peccato che nell’80 per cento dei casi non capiscano quello che leggono e non dispongano di quel minimo di attrezzatura intellettuale utile a orientarsi nel mondo. Non sono in grado per esempio di capire e compilare un modulo in cui vengano richieste non solo informazioni anagrafiche, ma anche riguardanti la propria posizione professionale, previdenziale o fiscale. E se nei paesi civili la media dei cittadini di questo tipo si assesta sul 20%, da noi le percentuali sono invertite!
Dove può andare il Paese più ricco di opere d’arte del mondo, che futuro può immaginare per il suoi giovani, per la qualità della vita, per riattivare quel «circolo virtuoso tra conoscenza, ricerca, arte, tutela e occupazione», se parte da questa miserevole dotazione di capitale umano?
Mettendo insieme le due immagini ‐ quella del brand e quella dell’analfabetismo ‐ viene da pensare al grande illuminista tedesco Ephraim Lessing, il quale suggellò il suo Grand Tour con una favola in cui i moderni italiani che si vantano di discendere dagli antichi romani vengono paragonati a vespe che uscendo dalla carogna di un cavallo esclamano: «Da quale nobile animale abbiamo tratto origine!». Quanto gli italiani sappiano diventare boriosi proprio in ragione della loro storia e al loro patrimonio lo ha poi ribadito un altro filosofo. «Il tratto principale del carattere nazionale degli Italiani - annotava Arthur Schopenhauer in un Taccuino del 1823 - è un’assoluta spudoratezza. Che consiste in questo: da un lato non c’è nulla di cui non ci si ritenga all’altezza, e quindi si è presuntuosi e arroganti; dall’altro non c’è nulla di cui ci si ritenga abbastanza esperti, e quindi si è codardi. Chi ha pudore, invece, è troppo timido per alcune cose, troppo orgoglioso per altre. L’Italiano non è né l’uno né l’altro, bensì, a seconda delle circostanze, o è pavido o è borioso».
Oggi dobbiamo avere l’umiltà di ricominciare da capo, di ripensare i saperi e le competenze, e acquisire piuttosto la consapevolezza di essere degli analfabeti seduti sopra un tesoro, sempre di più privi di quegli strumenti di base che ci permetterebbero non solo di capire, ma anche di far fruttare i formidabili talenti che ci circondano.
Smettiamola, con il nostro turismo d’accatto, di presentarci come degli straccioni che a un certo punto scoprono di avere il Colosseo (oggi usato come una specie di rotatoria per le automobili) e cercano di mungerlo il più possibile, senza aggiungerci nulla in termini di innovazione, intelligenza, conoscenza, capitale umano. Totò che vende la fontana di Trevi a un turista americano è un’altra immagine appropriata, e ancora attuale. Ci fa ancora ridere. Ridiamoci pure sopra. Ma allarmiamoci anche, perché Totò ci sta dicendo ancora la verità. Abbiamo capito che quell’opera ha un valore inestimabile, ma ne capiamo sempre meno il significato, mentre è proprio questo che gli altri Paesi civili ed emergenti comprendono e apprezzano, e spesso sfruttano economicamente, con maggiore lungimiranza, al nostro posto.
Ecco allora il vero senso di emergenza che il nostro Manifesto per la cultura vuole imprimere ai decisori pubblici attuali, e al Governo intero, che non possono sottrarsi a questa enorme responsabilità storica solo perché da trent’anni i loro predecessori lo hanno fatto. Il senso dell’urgenza sta in quei dati agghiaccianti, in quel misero 20% di italiani (8 milioni circa) che dispone di strumenti di lettura e scrittura minimi indispensabili. Siamo in gravissimo ritardo nel quadro internazionale e nell’ambito di una società globalizzata cosiddetta della «conoscenza». Se poi aggiungiamo i dati relativi ai ragazzi di 15-16 anni dei famosi test Pisa c’è da allarmarsi ancora di più.
Dunque prima ancora che dalla Cultura, partiamo dalle sue basi, dall’istruzione, e ripensiamola nei termini dell’unico possibile investimento per il nostro futuro dopo la crisi. Prendiamo il coraggio ‐ e i dati ‐ a due mani e diamoci da fare. Io sono certo, con la maggior parte di voi, che impegnandoci un po’ possiamo tranquillamente dimostrare che Lessing e Schopenhauer avevano torto.
UN VIAGGIO:
SUI LUOGHI DELLA METAFISICA. IN COMPAGNIA DI DON GIUSEPPE DE LUCA **
Tutte le volte, e non furono tante, che io son tornato nella casa dove nacqui (è in un paese montano, sul margine di faggete eterne che mai nessuno ha traversato, nel cuore più nascosto della Basilicata; e sì che vi si è a distanza pari, lassù, tra l’Adriatico, lo Ionlo, ll Tirreno, e io fanciullo coi pastori spiavo se, di tra una radura e l’altra della sommità più alta, si vedessero in lontananza scintillare insieme le tre marine); tutte le volte che sono tornato a casa, dicevo, giungendovi da Salerno per il Vallo di Diano, non appena oltrepassato il crinale che il Vallo separa dalla vallata del Pergola, d’ún subito scoprivo, là sulla costa di fronte, il mio paese nel sole, e poco più giù sulla destra il camposanto, dove dorme colei che, dando in cambio la vita sua per la mia, mi fece uomo; e accanto ad essa, dorme il prete che fece me prete.
Voi direte: il Pergola, peuh! gran fiume che è! e poi anche la valle di cotanto fiume, e poi... Adagio, lettore. Da quei monti dietro il mio paese, da quelle faggète, scende il Melandro; il Melandro per ùna matassa lenta di andirivieni va a riversarsi nel Pergola, il Pergola nel Tanagro; e così, dolce dolce, una valle appresso all’altra ora costeggiando l’uno ora.l’altro paese, antiquos subterlabentia muros, quei magri fiumi si gettano alla fine nel Sele
[nei pressi della stazione ferroviaria del Comune di CONTURSI, fls], e il Sele entra nel mare a Pesto, dove I’acqua del mare serba ancora una sua certa luce: poco più su insomma dell’antica Elea, dove nacque un giorno la metafisica, come sullo Ionio a Metaponto, ora coltivata ma sempre solitaria, nacque un giorno la filosofia religiosa.
Lettor mio, vuoi proprio levarti la voglia e il gusto di darci di “area depressa”? Padrone. Io pure, rintronato sin da fanciullo tra nomi come Melandro, Tanagro, Sele, Palinuro, Elea, Metaponto, anche io mi sento quando perplesso e quando depresso. Non forse in quel senso che dici tu, ma è un fatto, sento che mi opprime, quasi un peso troppo grande, il peso di tre millenni continuati nella luce della civiltà; e se non ti dispiace, mi sento turbare tutte le volte da quelle terre, quei cieli,.quei boschi, quelle acque, quei luoghi senza gloria, così poveri e antichi. Tutte le volte. Te ne accorgerai tu pure, un giorno non lontano *.
*
Questo è il paesaggio in cui si trova Contursi Terme, e questo è il sorprendente avvio dell’articolo, intitolato Ballata alla Madonna di Czestochova (“Osservatore Romano”, 25.2.1962), scritto da don Giuseppe De Luca (su invito di Giovanni XXIII, in occasione della visita a Roma del primate polacco, il cardinale Wyschinski), a meno di un mese dalla sua repentina morte avvenuta il 19.3.1962 (cfr. “Bailamme”, nn. 5-6, 1999, pp. 11 e sgg.). Egli era nato a Sasso di Castalda, in provincia di Potenza, il 15.09.1898, da una famiglia contadina. Della sua instancabile e preziosa attività culturale, degna di nota (per i problemi qui trattati) è la cura e la risrampa, accresciuúa con ricchi dati bibliografici, della dissertazione del 1907 di Angelo Roncalli su Il Cardinale Cesare Baronio. Per il terzo centenario della morte, cfr. Angelo Roncalli, Il Cardinale Cesare Baronio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1961.
** Cfr. Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore. Note sul “poema” rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989), Prefazione di Fulvio Papi, Edizioni Ripostes, Salerno-Roma 1996, pp. 14-15.
La Commedia di ognuno di noi
di Carlo Ossola (Il Sole -24 Ore, 18 marzo 2012)
Siamo stati formati dalla critica a pensare alla Divina Commedia come «viaggio a Beatrice» (così suona il titolo del celebre saggio di Charles S. Singleton, Journey to Beatrice, 1958). Il fedele d’Amore mantiene la promessa che chiudeva la Vita nova: «Appresso questo sonetto apparve a me una mirabile visione, ne la quale io vidi cose che mi fecero proporre di non dire più di questa benedetta infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei». Beatrice appare nel Paradiso Terrestre, al sommo della montagna del Purgatorio, ivi trionfa e ivi nomina, per la prima volta nella Commedia, Dante: «Quando mi volsi al suon del nome mio, / che di necessità qui si registra» (Purg., XXX, 62-63). La teoria romantica che da Rossetti a Gourmont ha ispirato la lettura del poema trova qui il suo sigillo.
Ma molti ostacoli presenta tuttavia una lettura siffatta: il primo ed evidente è che Dante si fa lì nominare per essere aspramente rimproverato da Beatrice: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada» (Purg., XXX, 55-57). Anche a voler ammettere che Dante si pieghi a un gesto di umiltà, e poi ascenda gloriosamente con Beatrice al Paradiso, sul più bello - come si dice in maniera colorita ma calzante - Dante si fa poi abbandonare da Beatrice: «Uno intendëa, e altro mi rispuose: / credea veder Beatrice e vidi un sene / vestito con le genti glorïose» (Par., XXXI, 58-60).
La guida al mistero e alla visione finale sarà san Bernardo: su questo "transito" Jorge Luis Borges ha scritto pagine finissime e non resta che rinviare ai suoi Nove saggi danteschi. L’ipotesi romantica rimane monca e toglie anzi grandezza al «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par., XXV, 1-2), toglie spessore alla lettura allegorica del testo che Dante difende spiegando, nell’Epistola a Cangrande, e citando nel poema il salmo In exitu Isräel de Aegypto (Purg., II, 46).
Occorre prendere sul serio il testo e ritornare a una ipotesi già avanzata dal Boccaccio e dai primi commentatori e ripresa nel Novecento da Ezra Pound: «In un senso ulteriore è il viaggio dell’intelletto di Dante attraverso quegli stati d’animo in cui gli uomini, di ogni sorta e condizione, permangono prima della loro morte; inoltre Dante, o intelletto di Dante, può significare "Ognuno", cioè "Umanità", per cui il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell’umanità nell’ascesa fuor dall’ignoranza verso la chiara luce della filosofia» (E. Pound, Dante, in Lo spirito romanzo, 1910). Se il protagonista del viaggio è «Everyman», non è più necessario attribuire a Dante viator l’esperienza eccezionale di una visione mistica, ma di riconoscere in lui il volto di Ognuno: per questo «la Commedia di Dante è, di fatto, una grande sacra rappresentazione, o meglio, un intero ciclo di sacre rappresentazioni» (ivi).
La lettura di Pound incontra, dicevamo, la chiosa che il Boccaccio propone sin dall’apertura delle sue Esposizioni sopra la Comedia di Dante, estrema opera della sua vita, suggerendo che non solo da Beatrice Dante si faccia nominare, ma soprattutto da Adamo al sommo del Paradiso: «L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: "Dante, la voglia tua discerno meglio", eccetera».
Ora precisamente Boccaccio adotta una lezione, per Par., XXVI, 104, trádita dai più antichi codici (il Landiano, 1336, il Trivulziano, 1337, e molti altri) e confermata dagli antichi commentatori, da Pietro Alighieri, alle Chiose ambrosiane, a Francesco da Buti; lezione che cambia profondamente il senso del poema, poiché ora - nominato da Adamo - Dante non è più solo il fedele d’Amore, ma è il «novello Adamo» di un’umanità redenta, come riassume, nel suo commento, Pietro Alighieri e, con raffinata pertinenza, ribadiscono le «Chiose ambrosiane» (da situare intorno al 1355; traduco dal bel latino): «Dante - Qui il poeta si fa nominare dal primo uomo che impose il nome a tutte le cose e senza quella excusatio alla quale ebbe a ricorrere nel Purgatorio ove disse: "Che de necessità qui se registra". Nota quindi che il poeta mai volle essere nominato nell’Inferno, e neppure nel Purgatorio nei luoghi ove si purgano i vizi, ma concesse di farsi nominare fuori dalle cornici dei vizi, sebbene dovendosi scusare (tamen cum excusatione). Ma in Paradiso senza doversi scusare, come appunto qui - essendo l’opera ormai quasi compiuta - e dopo che, esaminato, aveva fatto professione delle virtù teologali».
Quando parallelamente si osservi il comportamento di Boccaccio copista, in particolare nell’esemplare «Chigiano L VI 213 (= Chig), di mano del Boccaccio, che lo trascrisse non molto avanti la nomina a lettore di Dante, nell’agosto del 1373» (G. Petrocchi, I testi del Boccaccio, in La Commedia secondo l’antica vulgata), si dovrà concludere che anche lì un codice Chig «il quale si impone sugli altri con la qualifica di edizione ultima e definitiva del testo dantesco» (Petrocchi) mantiene la lezione «Dante, la tua voglia discerno meglio» (nel ms. a p. 330; ringrazio di cuore Rudy Abardo per il prezioso riscontro filologico e Marisa Boschi Rotiroti per la sollecitudine) con perfetta coerenza alle ragioni enunciate nelle contigue Esposizioni.
Si tratta dunque di ritornare alle origini, non solo agli autorevolissimi manoscritti che inscrivono: «Dante» o «da- te» e non «da te» (lezione minoritaria), come ha adottato il Petrocchi e con lui - snervando il vigore del testo - le edizioni moderne della Commedia («Indi spirò: "Sanz’essermi proferta / da te, la voglia tua discerno meglio"»); e di riconoscere che - nell’eliminare Dante nominato da Adamo - non si è fatta solo una "rimozione" a favore di una lettura meramente amorosa del poema, ma si è privato il testo stesso di quella grandiosa e universale coralità che Dante voleva conferire al proprio viaggio. Poiché, qui, Dante non è più il poeta della Vita nova, ma l’autore del «poema sacro»; egli è ormai, e per sempre, Everyman, il "novello Adamo" dell’umanità redenta, sì che dal «padre antico» (Par., XXVI, 92) possa ricevere la più alta consacrazione.
Occorre insomma pensare alla Commedia, come a «l’albero che vive de la cima» (Par., XVIII, 29); che si compie nella "nuova Genesi" del Paradiso di Gloria, come ben vide Giovanni Getto, sin dal 1947, sottolineando «cotesto epos della vita interiore come esultanza delle spirito elevato verso le cime vertiginose della partecipazione al Dio della gloria e dell’eterno» (Poesia e teologia nel «Paradiso» di Dante, in Aspetti della poesia di Dante); ma anche come partecipazione dell’umanità tutta alla speranza della Resurrezione della carne della storia e dei corpi, che ansiosamente i beati in Paradiso attendono («Come la carne glorïosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta», Par., XIV, 43-45).
Così dunque, in questa quotidiana coralità di Everyman, è da proporre al XXI secolo la Divina Commedia, bene comune non dell’Italia soltanto, ma dell’umanità intera; e sempre così è stata intesa, dai primi commentatori al Boccaccio, come il poema al quale bussare e attingere per avere accoglienza, ospitalità, conforto. Lo testimonia ancora, al portale di un palazzo di Cannaregio il battente dantesco, e i tanti uomini che in nome di Dante, e leggendo il suo poema, hanno sfidato la barbarie, da Osip Mandel’štam a Primo Levi. Ogni giorno, Dante è davvero tutti noi.