L’anima e il suo destino
di Vito Mancuso *
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36. L’anima viene dal mondo
Nella storia del pensiero teologico la teoria secondo la quale l’anima viene dai genitori è stata denominata dai suoi avversari traducianesimo, termine che deriva dalla parola latina tradux, propaggine, nel senso che l’anima dei figli sarebbe come una propaggine di quella dei genitori. Furono i pelagiani a creare il termine in polemica con i difensori del peccato originale. Però, visto che si contrappone al creazionismo, forse sarebbe meglio parlare di questa teoria come generazionismo, nel senso che l’anima è generata insieme al corpo dal padre e dalla madre, dai genitori, che proprio per questo si chiamano così, perché generano. E la cosa è evidente, perché anima e corpo all’inizio non si distinguono, sono la medesima energia primordiale, materia mater, natura naturans. Coloro che hanno sostenuto che l’anima dei figli viene gènerata dai genitori si dividono a loro volta tra chi pensa la generazione dell’anima in termini corporei e chi in termini spirituali. La differenza, ovviamente, è data dal concetto di anima che si ha in mente, se la si pensa come un corpo o sostanza separata oppure se la si pensa come una modulazione sempre più raffinata dell’unica e medesima sostanza, materiale e spirituale al contempo. Il più insigne rappresentante della prima corrente è Tertulliano, il quale pensa l’anima come corpo materiale concepito per mezzo del seme corporeo, come sua derivazione materiale: l’origine dell’anima è lo sperma paterno. Tertulliano, per il quale il cardine della salvezza non è lo spirito ma è la carne (secondo il suo noto assunto caro salutis cardo), non sa pensare Dio come spirito, né sa pensare l’anima come spirituale, è un materialista ante litteram. Della sua teoria Agostino scrisse a un collega vescovo: "Non dobbiamo stupirci che Tertulliano abbia potuto fantasticare una simile sciocchezza, dal momento che arriva persino a pensare come sostanza corporea lo stesso Dio creatore".
L’altra posizione, nota come traducianesimo spirituale, è quella alla quale aderisco. Essa afferma che la sostanza spirituale dell’anima deriva dall’anima e dal corpo dei genitori nello stesso momento della generazione del corpo. Si tratta di un punto di vista condannato da Pio IX quando in epoca moderna venne assunto da teologi quali i tedeschi Georg Kermes e Jacob Frohschammer e l’italiano Antonio Rosmini, ma che nell’epoca patristica era sostenuto da autorevoli padri della Chiesa tra cui Gregorio di Nissa. Questo grande Padre della Chiesa, uno dei fondatori della mistica cristiana, scriveva che il seme umano
"si sviluppa e si manifesta secondo l’ordine fissato, fino alla sua completezza, senza dover aggiungere a tal fine nulla che venga dall’esterno; esso progredisce da se stesso, regolarmente, verso il suo stato di perfezione. È quindi giusto dire che né l’anima esiste prima del corpo né il corpo esiste senza l’anima ma per entrambi non vi è che una sola origine. A considerare le cose su un piano superiore, questa origine si fonda sulla prima volontà di Dio; da un punto di vista meno elevato, essa ha luogo nei primi istanti della nostra venuta al mondo".
È significativo notare che questa visione oggi ritenuta eterodossa era fatta propria dalla maggior parte dei padri occidentali, come si viene a sapere attraverso san Girolamo e sant’Agostino. Agostino, infatti, si riferisce a Girolamo dicendo che "propendeva più verso il creazionismo che non verso il generazionismo", ma che "nello stesso tempo ricordava pure che l’opinione più comune nella Chiesa d’Occidente è che le anime vengano trasfuse nei figli attraverso la riproduzione generativa". È altrettanto significativo sapere che questa è la posizione oggi assunta dalla Chiesa ortodossa, la quale ritiene che "sia il corpo sia l’anima ricevono il loro inizio simultariamente e maturano insieme, e che l’anima deriva dalle anime dei genitori, così come il corpo deriva dai corpi dei genitori".
Io penso che la posizione più corretta sia quella di chi ritiene che l’anima (dotata subito di individualità, e potenzialmente di spiritualità e immortalità) viene dal mondo. In che modo l’anima viene dal mondo? Mediante la generazione umana, la stessa che da origine al corpo. Come sono all’origine del corpo, allo stesso modo i genitori sono all’origine dell’anima, il che penso risulti evidente a chi consideri i suoi genitori e il suo carattere, e poi i suoi figli e il loro carattere. La nostra dimensione psichica dipende radicalmente, così come la dimensione fisica, da chi ci ha dato la vita. E che altro è la dimensione psichica se non l’anima al livello di anima sensitiva? Ma siccome non ci sono diverse anime, ma ce n’è una sola, si deve pensare che è solo dall’educazione di quest’anima sensitiva che si può sviluppare prima l’anima razionale, poi l’anima spirituale, infine l’anima spirituale liberamente e creativamente orientata sempre e solo al bene, cioè santa. Ed è solo a quest’ultimo livvello, "il livello dell’azione della grazia che eleva la natura alla sovra-natura, che si deve pensare a un intervento diretto di Dio come azione dello Spirito santo, l’unica modalità con la quale Dio agisce direttamente nel mondo.
È esattamente ciò che pensava Rosmini, quando diceva che l’anima, da semplice anima sensitiva, viene elevata ad anima razionale e spirituale quando incontra l’essere ideale:
"Quando l’essere diventa intuibile al principio sensitivo, con questo solo contatto, con questa unione di sé, quel principio prima soltanto senziente, ora insieme intelligente, è elevato a uno stato più nobile, cambia natura, e diventa intellettivo, sussistente e immortale.
Il Decreto del Sant’Uffizio in cui compare la proposizione appena citata condanna anche quest’altra affermazione rosminiana, mirabile nella sua profondità:
"L’ordine soprannaturale è costituito da una manifestazione dell’essere nella pienezza della sua forma reale; l’effetto della cui manifestazione e comunicazione è il senso ("sentimento") deiforme, che, incipiente in questa vita, costituisce la luce della fede e della grazia, compiuto nell’altra vita, costituisce la luce della gloria.
Condannando questa proposizione il Sant’Uffizio ha condannato la dottrina della divinizzazione, cardine della teologia spirituale: incredibile, ma vero! La dottrina della divinizzazione, alla quale giunge l’anima investita dalla luce divina, stava particolarmente a cuore a Rosmini: "Per questa comunicazione che l’oggetto fa di sé al soggetto umano si può dire di lui ciò che disse sant’Agostino della natura dell’anima intellettiva che vicina est substantia Dei". Per fortuna, dopo il Vaticano II le cose sono cambiate e Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio del 1998 citava Rosmini come esempio di "fecondo rapporto tra filosofia e parola di Dio" insieme a Newman, Maritain, Gilson, Stein, Solovèv, Florenskij, Lossky (paragrafo 74). Tre anni dopo, il primo luglio 2001 (anniversario della morte di Rosmini) l’allora cardinale Ratzinger firmava la Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede nella quale si afferma che "si possono considerare ormai superati i motivi di preoccupazione e di difficoltà dottrinali e prudenziali che hanno determinato la promulgazione del Decreto Post obitum di condanna delle ’Quaranta Proposizioni’ tratte dalle opere di Antonio Rosmini". Penso sia doveroso chiedere se questa assoluzione per il pensiero rosminiano valga anche per l’origine dell’anima dai genitori.
I più grandi filosofi, penso a Platone e Aristotele per l’Antichità e a Kant e Hegel per l’epoca moderna, hanno visto che l’uomo contiene un elemento che non si spiega solo in base alla natura quale appare ordinariamente nel mondo. Platone ne parlava in termini di anima, Aristotele di intelletto attivo, Kant di sentimento morale, Hegel di spirito assoluto. La raffigurazione comune intende questo elemento al modo di una cosa, di una sostanza, di un ente particolare, ma esso va inteso, piuttosto, come una peculiare configurazione dell’unica cosa, dell’unica sostanza, dell’unico ente, che è la nostra energia. Questa configurazione particolare viene generata in noi dall’incontro con l’Idea del bene. Noi, prima di incontrare l’Idea del bene, siamo un sistema centripeto dotato di forza di gravità come ogni altro ente nell’universo. A seguito dell’incontro con l’Idea del bene subiamo una mutazione, ciò che in religione si chiama conversione, e cominciamo a poco a poco (perché è il lavoro di tutta la vita, non ci si converte nel profondo dalla mattina alla sera) a diventare un sistema centrifugo, dove l’amore e non l’egoismo, la verità e non il potere, la giustizia e non l’interesse, sono la meta. A poco a poco. E con molta fatica. Ma irresistibilmente attratti dall’Idea del bene e dalla sua luminosissima nobiltà, ciò che in teologia si chiama grazia.
Pensando così, io sostengo che l’umanità concreta può essere portatrice della spiritualità. Sostengo che l’essere che compete all’uomo, compreso il corpo, non è per nulla contrario alla dimensione spirituale, anzi è tale da generarla, se rettamente vissuto. Pensando così viene meno ogni dualismo tra lo spirito e la carne, che invece inequivocabilmente permane nella mente di chi ritiene che l’anima spirituale non possa che venire dall’alto, da fuori dal mondo.
Se l’anima spirituale viene dall’essere del mondo, il corpo e l’anima sono della medesima sostanza: il corpo è energia sotto forma di materia, l’anima è energia allo stato libero. Educata rettamente, essa da sensibile diviene razionale, poi spirituale, infine, attratta dalla grazia mediante il fascino dell’Idea del bene, diviene spirituale in modo tale da volere sempre e solo il bene e la giustizia. Come Dio.
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Indice
Una lettera di Carlo Maria Martini XIII
Ringraziamenti XV
1. Teologia di fronte alla coscienza laica 1
2. Esistenza dell’ anima 51
3. Origine dell’anima 77
4. Immortalità dell’anima 109
5. Salvezza dell’anima 149
6. Morte e giudizio 187
7. Paradiso 207
8. Inferno 231
9. Purgatorio 277
10.Parusia e giudizio universale 289
Conclusione 303
Indice dei nomi 319
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Quando il Papa parla del sesso dell’anima
di Vito Mancuso (la Repubblica, 16.09.2014)
«LA NOSTRA piccola anima non si perderà mai se continua a essere anche una donna, vicina a queste due grandi donne che ci accompagnano nella vita, Maria e la Chiesa»: così ieri nell’omelia mattutina ha affermato papa Francesco. Sono parole sorprendenti.
IL Papa sostiene forse che l’anima è una donna? Che la nostra anima cioè possiede un sesso e la sua identità è femminile? Oppure si tratta solo di un’immagine poetica, dettata dal fatto che il termine anima in italiano e nelle principali lingue occidentali (spagnolo compreso, nonostante l’articolo maschile al singolare) è femminile?
Quello che è sicuro è che nell’omelia di ieri il Papa ha affermato una delle più tradizionali dottrine cattoliche di sempre, cioè che Maria, madre biologica di Gesù, è anche la madre spirituale di ogni cristiano e che in questa prospettiva anche la Chiesa assume un volto femminile e materno. La Chiesa infatti, «quando fa la stessa strada di Gesù e di Maria», è madre, così che, ha continuato il Papa, «queste due donne, Maria e la Chiesa, generano Cristo in noi». A questo punto però, in analogia con le due donne maggiori, il Papa è giunto a parlare dell’anima umana come di una terza donna, che assomiglia alle prime due anche se è più piccola: «La nostra piccola anima non si perderà mai se continua a essere una donna». Ritorna così la questione: si tratta solo di un’immagine poetica oppure realmente l’anima va pensata al femminile?
La dottrina ecclesiastica sull’anima si può compendiare in tre precise affermazioni che ne dichiarano l’identità, l’origine e il destino. Quanto all’identità, il cattolicesimo pensa l’anima come un’essenza spirituale strettamente unita con il corpo materiale cui conferisce forma, e per questo parla di essa in termini di forma corporis (con evidente eredità aristotelica). Quanto all’origine, la dottrina cattolica sostiene che l’anima viene creata direttamente da Dio senza nessun concorso dei genitori, e che ciò avviene nello stesso istante del concepimento biologico, quando lo spermatozoo maschile feconda l’ovulo femminile (non più quaranta giorni dopo, come affermava san Tommaso d’Aquino e altri insigni teologi del passato). Quanto al suo destino, il cattolicesimo afferma che l’anima è immortale (con evidente eredità platonica), sostenendo che essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo; anzi, essa verrà di nuovo unita al corpo alla fine dei tempi quando i corpi di carne verranno richiamati in vita.
Al di là della plausibilità di queste dottrine da me indagate analiticamente nel libro L’anima e il suo destino , va notata l’assenza nella dottrina cattolica di ogni riferimento al sesso dell’anima. Anzi, essendo l’anima un’essenza spirituale, ed essendo lo Spirito al di là di ogni determinazione sessuale che consenta di parlarne in termini maschili o femminili (l’apposito termine è femminile in ebraico, maschile in latino, neutro in greco), sembrerebbe di dover concludere che l’affermazione di ieri di papa Francesco rientra nell’ambito delle immagini poetiche che i predicatori amano utilizzare nelle loro omelie senza nessuna diretta attinenza alla realtà ontologica dell’anima.
Io però ritengo che non sia così, e al contrario scorgo dietro l’intuizione papale un concetto molto importante che occorre sottolineare e su cui si dovrebbe riflettere attentamente. Per comprenderlo occorre rispondere a due domande, la prima delle quali è la seguente: quale fenomeno fisico portiamo al pensiero quando pronunciamo il termine anima?
Rispondere è decisivo, perché se non si è in grado di mostrare il fenomeno fisico per esprimere il quale è sorto il concetto di anima, tale concetto risulta nulla più che un mitico retaggio del passato. La mia risposta è la seguente: il fenomeno fisico che supporta il concetto di anima è la vita. Vita, ovvero quella particolare disposizione dell’energia che fa sì che un fenomeno fisico (un fiore, un orso) sia “animato”, a differenza di un altro fenomeno fisico (una pietra, una nuvola) che invece è “inanimato”. Il concetto di anima esprime la particolare condizione dell’energia in alcuni fenomeni fisici secondo cui il totale della loro energia non è del tutto condensanoscenze. to nella loro massa materiale, in essi rimane un’eccedenza di energia libera che consente al corpo di muoversi, di essere animato cioè vivente.
Ora la seconda domanda: qual è la logica fondamentale mediante cui si muove quel surplus di energia libera che ci fa esseri vivi e che chiamiamo anima, ma che potremmo anche chiamare vita? La mia risposta è la seguente: è la logica della relazione, dell’armonia relazionale, della cooperazione. La vita non è un fenomeno individuale, ma è da subito un fenomeno sociale, aggregativo: perché essa possa sorgere occorre l’aggregazione di quattro componenti biochimici quali proteine, zuccheri, grassi, acidi nucleici; perché essa possa evolversi occorre l’aggregazione di miliardi di cellule, e poi di tessuti, organi, sistemi di organi; perché essa possa esprimere sapienza occorre l’aggregazione di esperienze e coanche Ne viene che il nome filosofico della vita in tutte le sue manifestazioni è relazione.
E la relazione, eccoci al punto, è l’essenza della femminilità; di ciò che Goethe a conclusione del Faust denomina «das Ewig-Weibliche», l’Eterno Femminile, intendendo con ciò la logica al contempo naturale e divina mediante cui la vita si genera e si diffonde nel mondo, la medesima logica che salva Faust dal patto con Mefistofele donando alla sua anima «il perdono meritato». Anche il gesuita Teilhard de Chardin amava ricorrere al femminile per connotare la logica che muove la materia: «Il Femminino ossia l’Unitivo».
L’anima spirituale è quindi femminile, ha detto bene il Papa, lo è in quanto espressione della logica orizzontale della relazione, ben distinta dalla logica verticale dell’imposizione deduttiva che caratterizza l’archetipo del maschile. Tale consapevolezza del genere femminile della grammatica della vita spirituale si va sempre più diffondendo nel mondo, così che la Chiesa cattolica potrà uscire dalla sua crisi solo aprendosi al mondo femminile in tutte le sue strutture. Ovviamente gerarchia compresa. Il primo passo è il diaconato, e questo è possibile anche domani solo che il papa lo voglia davvero e non siano solo retorica omiletica le sue parole sulla femminilità della Chiesa. Non sarebbe ora di mettere fine al paradosso di una Chiesa che è donna, e la cui gerarchia è composta solo da maschi?
Vito Mancuso spiega perché il Papa doveva incontrare Bush, la Cassazione non giudicare Lozano e il Parlamento sospendere i processi
Al mondo è necessario l’imperio della forza
Tre domande e una conclusione. La prima domanda: è giusto che il Papa riceva il presidente americano George Bush, principale responsabile di una guerra basata sulla menzogna delle armi di distruzione di massa, principale responsabile di chissà quante migliaia di morti, di famiglie distrutte, di corpi per sempre deformi e di menti per sempre impazzite, principale responsabile di una sistematica violazione della dignità della vita umana nei suoi fondamentali diritti giuridici nella base militare di Guantanamo? E’ giusto che il Papa lo riceva con onori mai concessi prima a nessun altro capo di stato tra tutti quelli passati in Vaticano?
La seconda domanda: è giusto che la Suprema corte del nostro paese stabilisca che per il soldato americano che uccise Nicola Calipari quella notte all’aeroporto di Baghdad non ci sarà mai nessun processo e che questo signore, a tutti noto per nome e cognome, possa continuare a vivere la sua vita come se nulla fosse stato?
La terza domanda: è giusto che il nostro Parlamento abbia deciso una sospensione di migliaia di processi, col risultato che chi attende giustizia da anni la debba attendere per chissà quanti anni ancora, e l’abbia fatto magari solo perché tra questi processi ve n’è uno abbastanza insidioso a carico dell’attuale capo del governo Silvio Berlusconi?
Si tratta di tre casi recenti nei quali io ho avvertito l’impero di ciò che i nostri padri greci chiamavano “ananche”, e i nostri padri latini “necessitas”, ovvero di quel ferreo meccanismo che pone l’individuo al cospetto di forze più grandi, e anche più importanti, di lui. La risposta alle tre domande infatti è, a mio avviso, un sofferto ma al contempo inequivocabile sì.
Quanto alla prima domanda io penso sia giusto che il Papa abbia ricevuto il presidente Bush, capo dello stato più importante del mondo e di una delle nazioni cristianamente più numerose, e che l’abbia fatto restituendogli le onorificenze particolari a sua volta ricevute nel recente viaggio in America. Giovanni Paolo II non l’avrebbe fatto? In molte altre cose egli era diverso, a cominciare dal colore delle scarpe e dai copricapo, ma ogni Papa è e deve essere se stesso, ed è sbagliato giudicare il pontefice di oggi sui parametri del pontefice di ieri, anche perché lo ieri della storia della chiesa è così ampio da contenere centinaia di papi, tutti legittimi successori di Pietro e ognuno diverso dall’altro, al punto che George Bush (che fa fare la guerra agli altri) risulta un dilettante rispetto a Papa Giulio II che faceva la guerra in prima persona.
Quanto alle altre due domande, essendo io sprovvisto degli strumenti giuridici per entrare nel merito dei provvedimenti, mi limito a riflettere sulla logica cui essi rimandano, anzi sulla forza che manifestano. Dietro la sentenza sul caso Calipari c’è la volontà della principale potenza mondiale di non far giudicare i suoi soldati in missione all’estero da nessuna istituzione giuridica non americana. Il diritto italiano ha dovuto prenderne atto, ancora una volta. Al di là delle motivazioni giuridiche che tecnicamente sono state esibite, è questo il nocciolo della questione. Di fronte a un’altra volontà politica tesa ad affermare un principio diverso (per esempio quello di un reale diritto internazionale con un reale tribunale internazionale), i giudici avrebbero trovato altre motivazioni, altrettanto giuridicamente fondate, per una sentenza diversa. Ciò che comanda nel mondo non è il diritto astrattamente inteso, ma è il diritto legato alla forza di chi detiene il potere.
Grosso modo lo stesso spettacolo si è prodotto nel Parlamento del nostro paese. Io sono sicuro che se tra le migliaia di processi da sospendere non ci fosse stato uno degli ennesimi processi che riguarda il presidente Silvio Berlusconi quel provvedimento non sarebbe stato concepito giuridicamente e votato politicamente. Ne sono sicuro, anche se non ho nessun elemento sostanziale per affermarlo, nessun amico nei palazzi che contano che me l’abbia suggerito, solo l’intuito di un semplice cittadino. Eppure, se fossi stato un parlamentare del centrodestra, avrei votato quel provvedimento senza rimorsi di coscienza, ritenendo anzi di servire così il mio paese. L’avrei fatto a causa della medesima logica di una forza maggiore che vi si manifesta. Io ritengo infatti che ciò di cui l’Italia abbia ora maggiormente bisogno sia un governo. Il massimo bene dell’Italia ora è di essere governata, con tutta la serietà e l’efficacia possibile: sono troppo grandi e troppo urgenti i problemi per permetterci di rimanere senza governo, per permetterci il lusso di rischiare una condanna per il capo del governo democraticamente eletto e tutte le conseguenze del caso. “Ne va del futuro dei nostri figli” si sente ripetere spesso non senza retorica, ma queste parole penso che ormai siano avvertite dai più nella loro paurosa attualità non appena si pensi alle sfide internazionali, prima di tutto economiche, che incombono sull’Italia.
Il Papa, la Cassazione, il Parlamento di fronte alla “ananche”, all’imperio della forza; anzi, non “di fronte” ma “dentro”, immersi nell’imperio della forza, plasmati dall’imperio della forza, unica condizione per plasmare faticosamente a loro volta, così come possono, il corso della storia e le nostre esistenze in esso. E’ chiaro che il pericolo insito in questa posizione è di giungere al cinismo di chi non si scandalizza più di nulla e giustifica ogni cosa, la rassegnazione di chi non ama più la giustizia al di sopra di tutto, il servilismo e l’abiezione di chi ha venduto la sua anima ai poteri di questo mondo. Si tratta della tentazione che pende sopra il capo della destra: la tentazione di sacrificare la purezza della propria interiorità al successo e alla gloria del capo, con l’inevitabile conseguenza di richiedere a propria volta tale sacrificio da parte dei propri sottoposti, generando così un sistema falso e senza dignità, una società di servi e di mercenari, spettacolo cui talora purtroppo assistiamo. D’altro lato la tentazione che pende sopra il capo della sinistra, specularmente opposta, è quella di scandalizzarsi sempre di tutto, di fare dello scandalo la categoria che segna il rapporto tra se stesso e il mondo, un singolo perennemente in rivolta, sempre infelice, che sa solo dire no, che sacrifica il bene comune a se stesso e ai suoi risentimenti più o meno ideologici, che per un senso astratto di giustizia manderebbe in rovina l’intero sistema, un singolo che non ha idea di che cosa siano, e di quanto siano necessari, l’ordine e la gerarchia.
Io penso che l’uomo spiritualmente (e politicamente) maturo debba far convivere in sé la destra e la sinistra, che ancora prima di essere categorie politiche sono categorie filosofico-teologiche (Platone e Kant sono la sinistra, Aristotele e Hegel la destra; un’affermazione buttata lì, che richiederebbe un libro per essere fondata, ma che è generata in me da anni di frequentazione di questi sommi maestri del pensiero, e della vita). L’uomo maturo continua a lottare contro le ingiustizie del mondo chiamandole col proprio nome, sa chi è Bush e come gestisce il potere e immagina come Berlusconi sia giunto alla ricchezza che l’ha portato al potere: gli imperatori e i monarchi di oggi non sono diversi da quelli di ieri. Sa com’è fatto il sistema del diritto, sa che è spesso molto lontano dal risultare effettivamente “diritto”: i giudici di oggi non sono diversi da quelli di ieri. Sa anche cos’è la chiesa, ne conosce i compromessi e gli scandali, sia del passato sia del presente, ne tocca con mano il servilismo e l’ipocrisia: i papi e i cardinali di oggi non sono diversi da quelli di ieri. Da tutto ciò, però, non si ritrae sdegnoso. Non odia il mondo, non desidera che il mondo scompaia all’insegna del “fiat iustitia et pereat mundus”, come invece vuole chi coltiva quel senso astratto di giustizia che genera un perenne conflitto, e talora odio, verso questo mondo. La giustizia, per essere veramente tale e non solo legalità, è sempre funzionale a un più alto grado di ordine del mondo: “fiat iustitia ne pereat mundus”.
Si tratta di amare il mondo, di amarlo così com’è, e per questo mondo di lavorare, cercando di immettervi un grado sempre maggiore di ordine nella lotta incessante contro l’entropia (anzitutto a partire da sé). Si tratta di essere fedeli a “questo” mondo, non a un mondo ideale che non c’è, a questo mondo che si chiama anche George Bush, e che domani, quando magari si chiamerà Barack Obama, non sarà mai “qualitativamente” diverso. Sarà probabilmente un po’ migliore, non però per merito del nuovo imperatore, ma per la logica dell’evoluzione in cui siamo immersi, la quale tende necessariamente all’accumulo dell’informazione e al progredire dell’organizzazione, un cammino verso il meglio che domina sia il mondo naturale (evoluzione delle specie) sia il mondo storico (progresso della civiltà, da intendere come tecnico, giuridico, politico e morale), e che fa sì che, non senza momenti di stagnazione e anche di regresso, complessivamente si proceda verso il meglio. Il Papa, la Cassazione, il Parlamento immersi nella “ananche”, nell’imperio della forza, in ciò che io chiamo “Principio ordinatore”. E’ esso alla guida del mondo. Alla guida del mondo non vi è né un Dio personale con la sua Provvidenza benevola (la quale esiste e agisce ma in un’altra dimensione dell’essere, quella dello spirito), né vi è un principio maligno che farebbe di questo mondo il suo regno, un regno del male e della sopraffazione, per noi solo “valle di lacrime”.
Questo nostro mondo non è né il regno di Dio, né il regno di Satana e neppure è solo una valle di lacrime: è il regno della “ananche”, di un Principio ordinatore impersonale, a cui tutti, uomini e bestie, siamo sottomessi. Ma da questa necessità, a causa della logica evolutiva che l’innerva, nasce la libertà, dalla materia nasce lo spirito, dalla logica della forza nasce la logica del bene e della giustizia. Non si tratta di una nascita indolore. Spesso la logica del bene soccombe di fronte alla logica della forza, talora si assiste anche al beffardo apparire dell’assurdo e della fatalità, e può accadere che si perda la vita una notte a Baghdad uccisi dal fuoco “amico”. Chi ospita questa dialettica nel teatro della propria anima, senza mitizzazioni ottimiste o pessimiste, giunge alla posizione più matura nel rapporto tra l’uomo e il mondo, quella che io definisco “ottimismo tragico”, peculiare di chi si impegna a favore del bene e della giustizia sapendo non solo che il successo non gli sarà garantito, ma che forse dovrà pagare di persona. E’ grazie al lavoro di persone così che il nostro mondo va avanti, faticosamente ma avanti.
di Vito Mancuso
Se il mistico cristiano non ama gli ebrei
di Vito Mancuso (“la Repubblica”, 19 gennaio 2010)
Ciò che più colpisce nell’ultimo libro di Marco Vannini è la violenza. Convinto che «ai nostri giorni la religione sia tornata a essere oggetto di grande interesse», in Prego Dio che mi liberi da Dio (Bompiani) l’insigne studioso della mistica occidentale intende separare all’interno della religione la verità dalla menzogna, e lo fa sostenendo che il cristianesimo è frutto di due componenti, una buona che è quella greca e più precisamente platonica, e una cattiva che è quella ebraica. Infatti mentre «il platonismo dà il regno di Dio, ossia verità e giustizia», «la mitologia biblica dà un Dio esteriore, creatore e signore - un Dio speculare a un’idolatria del corpo, del sangue, della razza», da cui occorre liberarsi per giungere a «un cristianesimo purificato dall’eredità di Israele».
Con tale obiettivo Vannini attacca duramente la teologia, la Bibbia e ogni dimensione istituzionale: «teologie, cerimonie, sinagoghe, chiese, con le loro implicite ma non troppo implicazioni razziste di popolo eletto, comunità di santi ecc., fonte continua di discriminazione e di odio». Spesso lo fa con un livore che contrasta con quel "distacco" da lui posto al cuore dell’esperienza mistica, come quando dice che la teologia «è menzogna e peccato, anzi qualcosa di animalesco», un «prodotto della gula spiritualis con una finalità appropriativa, goditiva, golosa». Il discorso raggiunge toni da invettiva soprattutto contro la Bibbia ebraica, per Vannini «serie di falsità create per un’ideologia razziale». Vi sono persino parole che non dovrebbero essere più scritte dopo la Shoah, come quelle secondo cui «gli ebrei, dopo aver fatto uccidere Gesù, perseguitarono sin dall’inizio i suoi seguaci»; oppure quelle secondo cui «figli del demonio, che è padre della menzogna, sono chiamati i giudei da Gesù». In realtà basta leggere i vangeli con attenzione per vedere che Gesù non ha mai definito gli ebrei in quanto tali "figli del demonio", perché il testo precisa che si rivolgeva così a quegli ebrei «che avevano creduto in lui» (Gv 8,31), non al popolo ebraico in quanto tale. Né è lecito dire che furono "gli ebrei" a uccidere Gesù, perché è noto che fu l’aristocrazia sacerdotale del tempio, del partito collaborazionista dei sadducei, a consegnare Gesù al potere romano, che poi giustiziò Gesù in quanto minaccia allo status quo.
A uccidere Gesù non furono "gli ebrei", ma il potere religioso e il potere politico uniti in comuni interessi (come spesso accade nella storia). Ma come si fa, ancora oggi, a far ricadere la responsabilità della morte di Gesù su un intero popolo dicendo che "gli ebrei" fecero uccidere Gesù? E sarebbe questo il cristianesimo purificato? In realtà ripetere questi stereotipi, i medesimi dell’antigiudaismo religioso alla base dell’antisemitismo etnico che ha prodotto Auschwitz, è (come minimo) un errore, significa ignorare del tutto i risultati della più accreditata storiografia ed esegesi storico-critica.
Ma è tutta l’impostazione di Vannini a lasciare perplessi, non solo il suo sinistro antigiudaismo. Parlare di teologia, di Bibbia, di Chiesa al singolare, è sbagliato. Vi sono diverse teologie, diversi aspetti delle chiese, diversi libri biblici. E che tra queste variegate realtà ve ne siano di negative è vero, verissimo, e occorre criticarle, guai a non farlo. Ma non esercitare la sapienza della distinzione facendo di ogni erba un fascio, significa venir meno al principale compito del pensiero, significa non consegnare alla società ciò che solo il pensiero può darle, cioè la decantazione delle passioni e la luce calma dell’intelligenza. Dire che la teologia in quanto tale è «negazione della religione vera» significa ignorare la storia della teologia del ’900, nella quale vi sono stati uomini di una grandezza spirituale unica, non inferiori ai maestri medievali cari a Vannini, si pensi a Florenskij, Bonhoeffer, Teilhard de Chardin, teologi che hanno pagato con la vita (martirio rosso e martirio verde) la loro dedizione alla ricerca e al bene del mondo. Come si fa, dimenticandoli, a parlare della teologia nei modi spregiativi e sommari di Vannini?
Ma la vera radice del suo errore consiste, a mio avviso, nel concetto di spirito. Spirito per Vannini è correttamente inteso solo come opposizione ad anima, sorge solo come "distacco", come "rimozione di tutti i contenuti-legami psichici", come "morte dell’anima": perché un uomo possa vivere l’esperienza dello spirito, deve morire nella sua individualità psichica. In questa opposizione tra spirito e anima, e tra anima e corpo, rivive la tradizione dell’agostinismo radicale col suo disprezzo del mondo, in particolare della natura umana. Così Vannini: «La natura umana è la fonte da cui derivano tutti i mali dell’uomo, per cui chi si fonda esclusivamente sull’umano non può essere altro che malvagio»; e ancora, l’uomo deve sapere che «tutto quello che procede da se stesso, dalla volontà propria, è menzogna e procede dal demonio». In fondo per lui la vera menzogna, ben oltre teologia chiesa ebraismo, è la natura umana. Attualizzando il gelido pessimismo antropologico del tardo Agostino che faceva dell’umanità una "massa dannata" e collocava tutti i non battezzati all’inferno, Vannini sostiene mediante il concetto di "distacco" che si entra nell’esperienza dello spirito solo negando la natura umana.
Se il cristianesimo fosse davvero così, Nietzsche avrebbe ragione a definirlo odio verso la salute, la forza, la bellezza dell’esistenza naturale. E che vi siano elementi in tal senso è vero, l’agostinismo radicale lo mostra. Ma per Gesù l’anima non deve morire, ma deve essere salvata, custodita, coltivata; e tutto ciò va fatto in amore con il mondo e con ogni frammento di essere, non nel distacco ma nella comunione (unione-con), con la gioia della fratellanza verso ogni forma di vita, perché, come insegna la Bibbia ebraica, viviamo all’interno di «un’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne» (Genesi 9,16).
"Io, la religione e la lettura biblica"
di Marco Vannini (la Repubblica, 26 gennaio 2010)
Repubblica del 19 gennaio, ha pubblicato un articolo di Vito Mancuso sul mio Prego Dio che mi liberi da Dio, in cui mi si accusa, tra l’altro, di antigiudaismo. È un’accusa che respingo fermamente, chiamando a testimonianza la mia intera vita di studioso, che ha passato anni a tradurre commentarii biblici: in Israele, nella foresta Giovanni XXIII-Jules Isaac, ci sono cinque alberi piantati in mio onore dall’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma (Keren Kayemeth Leisrael). Tale accusa si fonda infatti sul metodo di citare frasi mutile, avulse dal contesto, o addirittura di attribuire a me quelle che sono invece citazioni di ben più alte autorità. Quest’ultimo è, ad esempio, il caso della teologia definita come "animalesca": non da me, ma da Meister Eckhart (da cui il libro stesso prende il titolo), e il contesto spiega bene in che senso: bestialità in quanto ignoranza, giacché la teologia è presuntuoso discorso su Dio, che è invece al di là di ogni possibile discorso. È anche il caso del «cristianesimo purificato dall’eredità di Israele»: citazione, questa, di Simone Weil, altro punto di riferimento fondamentale del libro - e meraviglia che Mancuso lo taccia, visto che le ha dedicato un suo libro: forse teme l’accusa di "sinistro antigiudaismo"?
Mi viene soprattutto rimproverato, a proposito della condanna di Gesù, l’errore di parlare di "ebrei", senza specificare che si trattava dei soli sadducei collaborazionisti, mentre invece proprio nella riga precedente a quella incriminata si dice che Gesù fu condannato dal «potere sacerdotale ebraico, alleato di quello politico dei romani», ovvero lo stessa tesi che sostiene Mancuso. È comunque evidente da tutto il contesto che non intendo affatto attribuire assurde responsabilità storiche collettive, ma solo sottolineare che il cristianesimo si è costituito sull’affermazione della identità tra Gesù e il Padre - bestemmia, questa, per l’ebraismo, che marcava in modo netto l’opposizione tra le due religioni. Che la storia biblica sia costruita su falsità - invenzione i Patriarchi, invenzione l’Esodo, invenzione il Tempio, invenzione la Legge, ecc. - e che ciò sia stato fatto per fini politici, è un dato acquisito dalla più moderna ricerca storico-critica (nel mio libro si cita tra gli altri Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza), e che si sia così costruita «una comunità chiusa non solo per religione ma anche per razza» (ibid. p. 391), lo è altrettanto.
Perché non si tratta infatti di criticare un libro biblico piuttosto che un altro, accettando ciò che piace e rifiutando quel che dispiace, ma di riconoscere che «la vera suprema bestemmia è chiamare sacro ciò che proviene da mano umana», come diceva l’umanista Cornelio Agrippa. Nel momento in cui il maggiore editore cattolico italiano presenta la Bibbia come «via, verità, vita» attribuendo a un libro ciò che Cristo dice di se stesso, credo sia legittimo parlare di religione come menzogna, accanto a religione come verità. Di questo, e non d’altro, tratta il mio libro, che perciò rivendica l’importanza della fonte greca, e del platonismo in particolare, nella formazione del cristianesimo.
Platonismo significa il primato dell’interiorità contro l’esteriorità; significa non costruire teologie/mitologie, ma cercare di "farsi simili a Dio" nella giustizia. Significa conoscenza della malizia insita nell’io, nel suo quasi insopprimibile egoismo, e dunque della necessità di una conversione, di una "morte dell’anima", ossia di un radicale distacco dall’egoità. Significa, in conclusione, l’esperienza tanto della natura quanto della grazia, e del primato di quest’ultima - ed è su questo che il cristianesimo si è fondato - e che la mistica - unica vera erede della filosofia greca- ha mantenuto nei secoli.
Non si tratta quindi di me o di Agostino, col suo "gelido pessimismo", come vuole Mancuso, quanto e soprattutto di Cristo stesso: odiare la propria anima/vita, rinunciare a se stessi, morire a se stessi come muore il chicco di grano e esperimentare la rinascita e la nuova vita nello spirito, sono infatti i passi e i tratti essenziali del messaggio evangelico e le condizioni della sequela Christi. Se si cancellano questi, Gesù, ormai solo uomo, viene ridotto a un maestro new-age, e il cristianesimo (ma ha senso chiamarlo così?) a una melassa insulsa e insignificante.
Eckart, un mistico nel vuoto di Dio
di Giorgio Montefoschi (Corriere della Sera, 14 dicembre 2012)
Meister Eckhart - scrive Marco Vannini, il suo massimo studioso, nell’introduzione al «Commento alla Sapienza» contenuto nel volume in cui sono raccolti i Commenti all’antico Testamento (Bompiani, pp. 1548, € 35) - non ha mai pensato alla mistica, né tanto meno di essere un mistico, laddove per misticismo si intende un’esperienza intuitiva, segreta, del divino.
Il padre domenicano nato attorno al 1260 in Turingia, priore nel convento di Erfurt, professore di teologia a Parigi, processato per eresia nel 1326, morto presumibilmente nel 1328, pensava che l’unico cammino possibile dell’uomo verso la verità che è Dio fosse il cammino della ragione. La ragione: l’intelletto è l’universale che è nell’uomo; il Logos generato da Dio che è nel mondo e all’interno di ogni uomo: di un pagano come di un cristiano, di un musulmano come di un ebreo.
Per poterlo conoscere, l’uomo giusto deve distaccarsi dal determinato, da quello che vede con i suoi occhi, pensa con il suo pensiero, ama con la sua volontà e insegue con il suo desiderio. Deve distaccarsi dal tempo e dal proprio io e pervenire a quel «fondo dell’anima» dove è assoluto silenzio e nulla, ma dove finalmente zampilla ciò che abbiamo di più profondo. «A stento valutiamo le cose terrestri, a fatica scopriamo quelle davanti agli occhi? Ma chi può rintracciare le cose del cielo?», recita la Sapienza in uno dei suoi versetti più sublimi. Le «cose del cielo», risponde Eckhart, ci appaiono quando un silenzio le avvolge; quando l’anima riposa dal tumulto delle passioni e dalle occupazioni mondane, tutte le cose per essa tacciono ed essa tace per tutte. «Lì», dice Agostino, il più citato da Eckhart, «è il luogo della quiete che non conosce turbamento», ed è lì che l’uomo deve porre la sua dimora. Dice Giobbe: «In visione notturna, quando cade il sopore sugli uomini e si addormentano sul giaciglio, allora apre i loro occhi e li ammaestra».
Se vuole le «cose del cielo», e sentire la piena unione con Dio che vive nel nostro cuore, l’uomo deve annullarsi al di là di ogni possibile concezione umana dell’annullamento. Non si tratta soltanto di non invocare Dio con immagini terrene e del tempo; anche la sola invocazione muta, il solo desiderio di essere in comunione con Dio ci fa piombare nella determinazione e nelle cose finite. Dio, invece, è indeterminabile, non numerabile, Uno. Epperò è nel nostro cuore: è in noi. Quindi, come Lui genera e crea la Parola che prende forma nel mondo, anche noi generiamo e creiamo, continuamente - una idea immensa - purché ogni sapere umano sia rimosso. È un punto fondamentale.
Se si domanda perché Dio abbia creato tutto, cioè l’universo - dice Eckhart - bisogna rispondere: «Perché fosse». Dio fece tutte le cose perché fossero, cioè perché avessero l’essere all’esterno, nella realtà naturale, sebbene fossero in lui (come le idee di Platone) dall’eternità. Dunque, il fine è l’essere. E la generazione - ne consegue - è amore. Quindi noi proseguiamo l’amore.
Non esiste pensatore occidentale più implacabile di Meister Eckart. Se leggiamo i suoi testi (i Commenti all’Antico Testamento e anche i meravigliosi Sermoni tedeschi) abbiamo la sensazione di attraversare un vuoto immenso. Le pagine più estreme di Giovanni della Croce o di Teresa d’Avila ci sembrano timbrate da un suono confidenziale, al suo confronto. Eppure Dio è con noi, ci ripete continuamente Eckhart; molto più vicino di quanto immaginiamo, essendo nel nostro cuore. Ma esso, per quanto cerchi di spossessarsi, batte; e, fino all’ultimo, riconosce la sua persona, donatagli da Dio.
«Nella divinità - scrive Eckhart - nasce sempre il Figlio» e anche nel Cristo in quanto uomo non c’è alcun altro essere oltre a quello divino. E il Figlio in carne e ossa, il Figlio del Getsemani, è quello che, pure annullandoci, continuiamo ad avere davanti ai nostri occhi mortali