Vito Mancuso spiega perché il Papa doveva incontrare Bush, la Cassazione non giudicare Lozano e il Parlamento sospendere i processi
Al mondo è necessario l’imperio della forza
di Vito Mancuso *
Tre domande e una conclusione. La prima domanda: è giusto che il Papa riceva il presidente americano George Bush, principale responsabile di una guerra basata sulla menzogna delle armi di distruzione di massa, principale responsabile di chissà quante migliaia di morti, di famiglie distrutte, di corpi per sempre deformi e di menti per sempre impazzite, principale responsabile di una sistematica violazione della dignità della vita umana nei suoi fondamentali diritti giuridici nella base militare di Guantanamo? E’ giusto che il Papa lo riceva con onori mai concessi prima a nessun altro capo di stato tra tutti quelli passati in Vaticano?
La seconda domanda: è giusto che la Suprema corte del nostro paese stabilisca che per il soldato americano che uccise Nicola Calipari quella notte all’aeroporto di Baghdad non ci sarà mai nessun processo e che questo signore, a tutti noto per nome e cognome, possa continuare a vivere la sua vita come se nulla fosse stato?
La terza domanda: è giusto che il nostro Parlamento abbia deciso una sospensione di migliaia di processi, col risultato che chi attende giustizia da anni la debba attendere per chissà quanti anni ancora, e l’abbia fatto magari solo perché tra questi processi ve n’è uno abbastanza insidioso a carico dell’attuale capo del governo Silvio Berlusconi?
Si tratta di tre casi recenti nei quali io ho avvertito l’impero di ciò che i nostri padri greci chiamavano “ananche”, e i nostri padri latini “necessitas”, ovvero di quel ferreo meccanismo che pone l’individuo al cospetto di forze più grandi, e anche più importanti, di lui. La risposta alle tre domande infatti è, a mio avviso, un sofferto ma al contempo inequivocabile sì.
Quanto alla prima domanda io penso sia giusto che il Papa abbia ricevuto il presidente Bush, capo dello stato più importante del mondo e di una delle nazioni cristianamente più numerose, e che l’abbia fatto restituendogli le onorificenze particolari a sua volta ricevute nel recente viaggio in America. Giovanni Paolo II non l’avrebbe fatto? In molte altre cose egli era diverso, a cominciare dal colore delle scarpe e dai copricapo, ma ogni Papa è e deve essere se stesso, ed è sbagliato giudicare il pontefice di oggi sui parametri del pontefice di ieri, anche perché lo ieri della storia della chiesa è così ampio da contenere centinaia di papi, tutti legittimi successori di Pietro e ognuno diverso dall’altro, al punto che George Bush (che fa fare la guerra agli altri) risulta un dilettante rispetto a Papa Giulio II che faceva la guerra in prima persona.
Quanto alle altre due domande, essendo io sprovvisto degli strumenti giuridici per entrare nel merito dei provvedimenti, mi limito a riflettere sulla logica cui essi rimandano, anzi sulla forza che manifestano. Dietro la sentenza sul caso Calipari c’è la volontà della principale potenza mondiale di non far giudicare i suoi soldati in missione all’estero da nessuna istituzione giuridica non americana. Il diritto italiano ha dovuto prenderne atto, ancora una volta. Al di là delle motivazioni giuridiche che tecnicamente sono state esibite, è questo il nocciolo della questione. Di fronte a un’altra volontà politica tesa ad affermare un principio diverso (per esempio quello di un reale diritto internazionale con un reale tribunale internazionale), i giudici avrebbero trovato altre motivazioni, altrettanto giuridicamente fondate, per una sentenza diversa. Ciò che comanda nel mondo non è il diritto astrattamente inteso, ma è il diritto legato alla forza di chi detiene il potere.
Grossomodo lo stesso spettacolo si è prodotto nel Parlamento del nostro paese. Io sono sicuro che se tra le migliaia di processi da sospendere non ci fosse stato uno degli ennesimi processi che riguarda il presidente Silvio Berlusconi quel provvedimento non sarebbe stato concepito giuridicamente e votato politicamente. Ne sono sicuro, anche se non ho nessun elemento sostanziale per affermarlo, nessun amico nei palazzi che contano che me l’abbia suggerito, solo l’intuito di un semplice cittadino. Eppure, se fossi stato un parlamentare del centrodestra, avrei votato quel provvedimento senza rimorsi di coscienza, ritenendo anzi di servire così il mio paese. L’avrei fatto a causa della medesima logica di una forza maggiore che vi si manifesta. Io ritengo infatti che ciò di cui l’Italia abbia ora maggiormente bisogno sia un governo. Il massimo bene dell’Italia ora è di essere governata, con tutta la serietà e l’efficacia possibile: sono troppo grandi e troppo urgenti i problemi per permetterci di rimanere senza governo, per permetterci il lusso di rischiare una condanna per il capo del governo democraticamente eletto e tutte le conseguenze del caso. “Ne va del futuro dei nostri figli” si sente ripetere spesso non senza retorica, ma queste parole penso che ormai siano avvertite dai più nella loro paurosa attualità non appena si pensi alle sfide internazionali, prima di tutto economiche, che incombono sull’Italia.
Il Papa, la Cassazione, il Parlamento di fronte alla “ananche”, all’imperio della forza; anzi, non “di fronte” ma “dentro”, immersi nell’imperio della forza, plasmati dall’imperio della forza, unica condizione per plasmare faticosamente a loro volta, così come possono, il corso della storia e le nostre esistenze in esso. E’ chiaro che il pericolo insito in questa posizione è di giungere al cinismo di chi non si scandalizza più di nulla e giustifica ogni cosa, la rassegnazione di chi non ama più la giustizia al di sopra di tutto, il servilismo e l’abiezione di chi ha venduto la sua anima ai poteri di questo mondo. Si tratta della tentazione che pende sopra il capo della destra: la tentazione di sacrificare la purezza della propria interiorità al successo e alla gloria del capo, con l’inevitabile conseguenza di richiedere a propria volta tale sacrificio da parte dei propri sottoposti, generando così un sistema falso e senza dignità, una società di servi e di mercenari, spettacolo cui talora purtroppo assistiamo. D’altro lato la tentazione che pende sopra il capo della sinistra, specularmente opposta, è quella di scandalizzarsi sempre di tutto, di fare dello scandalo la categoria che segna il rapporto tra se stesso e il mondo, un singolo perennemente in rivolta, sempre infelice, che sa solo dire no, che sacrifica il bene comune a se stesso e ai suoi risentimenti più o meno ideologici, che per un senso astratto di giustizia manderebbe in rovina l’intero sistema, un singolo che non ha idea di che cosa siano, e di quanto siano necessari, l’ordine e la gerarchia.
Io penso che l’uomo spiritualmente (e politicamente) maturo debba far convivere in sé la destra e la sinistra, che ancora prima di essere categorie politiche sono categorie filosofico-teologiche (Platone e Kant sono la sinistra, Aristotele e Hegel la destra; un’affermazione buttata lì, che richiederebbe un libro per essere fondata, ma che è generata in me da anni di frequentazione di questi sommi maestri del pensiero, e della vita). L’uomo maturo continua a lottare contro le ingiustizie del mondo chiamandole col proprio nome, sa chi è Bush e come gestisce il potere e immagina come Berlusconi sia giunto alla ricchezza che l’ha portato al potere: gli imperatori e i monarchi di oggi non sono diversi da quelli di ieri. Sa com’è fatto il sistema del diritto, sa che è spesso molto lontano dal risultare effettivamente “diritto”: i giudici di oggi non sono diversi da quelli di ieri. Sa anche cos’è la chiesa, ne conosce i compromessi e gli scandali, sia del passato sia del presente, ne tocca con mano il servilismo e l’ipocrisia: i papi e i cardinali di oggi non sono diversi da quelli di ieri. Da tutto ciò, però, non si ritrae sdegnoso. Non odia il mondo, non desidera che il mondo scompaia all’insegna del “fiat iustitia et pereat mundus”, come invece vuole chi coltiva quel senso astratto di giustizia che genera un perenne conflitto, e talora odio, verso questo mondo. La giustizia, per essere veramente tale e non solo legalità, è sempre funzionale a un più alto grado di ordine del mondo: “fiat iustitia ne pereat mundus”.
Si tratta di amare il mondo, di amarlo così com’è, e per questo mondo di lavorare, cercando di immettervi un grado sempre maggiore di ordine nella lotta incessante contro l’entropia (anzitutto a partire da sé). Si tratta di essere fedeli a “questo” mondo, non a un mondo ideale che non c’è, a questo mondo che si chiama anche George Bush, e che domani, quando magari si chiamerà Barack Obama, non sarà mai “qualitativamente” diverso. Sarà probabilmente un po’ migliore, non però per merito del nuovo imperatore, ma per la logica dell’evoluzione in cui siamo immersi, la quale tende necessariamente all’accumulo dell’informazione e al progredire dell’organizzazione, un cammino verso il meglio che domina sia il mondo naturale (evoluzione delle specie) sia il mondo storico (progresso della civiltà, da intendere come tecnico, giuridico, politico e morale), e che fa sì che, non senza momenti di stagnazione e anche di regresso, complessivamente si proceda verso il meglio. Il Papa, la Cassazione, il Parlamento immersi nella “ananche”, nell’imperio della forza, in ciò che io chiamo “Principio ordinatore”. E’ esso alla guida del mondo. Alla guida del mondo non vi è né un Dio personale con la sua Provvidenza benevola (la quale esiste e agisce ma in un’altra dimensione dell’essere, quella dello spirito), né vi è un principio maligno che farebbe di questo mondo il suo regno, un regno del male e della sopraffazione, per noi solo “valle di lacrime”.
Questo nostro mondo non è né il regno di Dio, né il regno di Satana e neppure è solo una valle di lacrime: è il regno della “ananche”, di un Principio ordinatore impersonale, a cui tutti, uomini e bestie, siamo sottomessi. Ma da questa necessità, a causa della logica evolutiva che l’innerva, nasce la libertà, dalla materia nasce lo spirito, dalla logica della forza nasce la logica del bene e della giustizia. Non si tratta di una nascita indolore. Spesso la logica del bene soccombe di fronte alla logica della forza, talora si assiste anche al beffardo apparire dell’assurdo e della fatalità, e può accadere che si perda la vita una notte a Baghdad uccisi dal fuoco “amico”. Chi ospita questa dialettica nel teatro della propria anima, senza mitizzazioni ottimiste o pessimiste, giunge alla posizione più matura nel rapporto tra l’uomo e il mondo, quella che io definisco “ottimismo tragico”, peculiare di chi si impegna a favore del bene e della giustizia sapendo non solo che il successo non gli sarà garantito, ma che forse dovrà pagare di persona. E’ grazie al lavoro di persone così che il nostro mondo va avanti, faticosamente ma avanti.
di Vito Mancuso
di Federico La Sala *
Giorni fa (a Milano) con un’amica, parlando delle terre del sud italiano e in particolare del salernitano (mia terra di origine), ci siamo ricordati di Velia (Elea, città di Parmenide e Zenone) e di Novi Velia e abbiamo citato il vicino Monte Sacro o monte GELBISON.
Senza volerlo, il solo nome del monte ha subito attivato la connessione sonora con una parola simile, attualmente sulla bocca di tutti: ha rinviato il pensiero al tema dell’evento pasquale, al messaggio del "figlio di Dio" e, ovviamente, alla parola GIBSON, al film del regista Mel Gibson.
Il suono delle due parole ha aperto la strada ad altre connessioni, tanto più che "The Passion" ha ricevuto da una parte moltissime critiche da esponenti della cultura e del mondo ebraico e dall’altra addirittura l’avallo totale del papa (che, a pochi giorni dalla ’prima’, in udienza privata, ha addirittura incontrato di persona lo stesso ’Gesù’ - l’attore protagonista... e l’ha fatto sapere a tutti: io l’ho visto!) e, in particolare, del portavoce del Vaticano Navarro, che così l’ha fatto proprio e sottoscritto: "Il film è la trascrizione cinematografica dei Vangeli. Se fosse antisemita il film, lo sarebbero anche i Vangeli". La dichiarazione è stata sconcertante e lo scandalo si è dato: ma è bene che gli scandali avvengono....
Premesso questo, ora chiariamo ciò che ha portato alla luce la connessione sonora delle due diverse parole, "gelbison" e "gibson". Assumendole come parole americane o inglesi, e dividendole, innanzitutto dicono entrambe di un figlio (= son). Invece, rispettivamente, "gelb" e "gib" hanno un significato (e un’origine) diverso, e dicono appunto altro.
La parola "gelb" - la stessa presente in "Gibil-terra" - ha origini arabe [Jabal, Jebel] e significa "Montagna [di Tarik]". Ora si tenga presente che il film [di Gibson] è sulla passione di Gesù, e uno dei Suoi messaggi più forti e famosi (non citato nel film) è proprio quello delle "beatitudini", conosciuto appunto come il "discorso della MONTAGNA". Simbolicamente, la parola richiama ovviamente e decisamente la montagna del Sinai e dice metaforicamente, e in continuità, che il messaggio di Gesù - il "figlio di Dio" è, al fondo, lo stesso messaggio di Mosè - il "figlio della Montagna": la Legge della Libertà portata da Mosé e la Legge dell’Amore portata da Gesù è la Legge dell’unico Dio, del Dio dei nostri Padri, e del Dio delle nostre Madri.....
A questo allude GELBISON, ma la parola (ripetiamo, di origini arabe) dice ancora altro: significa più propriamente "Montagna dell’Idolo" (perché questa montagna era sacra già prima che i Monaci Basiliani nel X sec. fondassero sulla vetta il Santuario della Madonna del Sacro Monte: da dove, dal piazzale sommitale, si può osservare il panorama di quasi tutto il Cilento) e ci fa capire quanto lunga sia la lotta per l’egemonia e la nominazione dei luoghi tra le religioni e le culture mediterranee e quante tracce ovunque sul nostro territorio.... e ai problemi che ci ha lasciato: Quale la vera religione? Quale il vero Dio? Chi è il vero figlio di Dio? Chi è il vero Liberatore e chi il falso? Chi il Salvatore e chi l’Ingannatore? Chi il Re di Giustizia e di Pace e chi il Re della Menzogna, della Violenza e della Morte (o che è lo stesso, come ironizzava Kant, della pace perpetua)?
Lo sappiamo tutti e tutte. Con e a partire da Costantino, la Chiesa cattolico-romana è riuscita ad assicurarsi l’egemonia in Occidente, ma le sue relazioni con Atene, Gerusalemme, e la Mecca, sono state sempre altamente instabili e in bellicosissimo equilibrio....... e oggi lo stanno diventando sempre di più.
Giunta al capolinea, in uno scenario non più solo mediterraneo, e trovandosi in gran difficoltà, per cercare di stare a galla e vincere la concorrenza nel mercato delle religioni, cosa fa? Si acceca e, furiosamente, fa un passo decisivo, e all’indietro - a prima di Cristo!!! Cerca di mettere una "zeppa" (detto in inglese = gib), un "puntello provvisorio" (sempre in inglese = gib), alla casa che cade e alla barca che affonda.... e manda tutti i suoi fedeli a scuola dal regista Platone, nella caverna-cinema! E sollecita tutti, cardinali e preti, a seguire la "predica" del nuovo "cardinale" - il regista Gibson!Di chi? Sì, proprio del regista hollywoodiano che si chiama Mel Gibson.
Ma, per curiosità (e senza assolutamente alcuna offesa per la persona di Mel Gibson), che significa la parola "gib-son"? Significa proprio quello che vogliono significare le due parole messe insieme: se si vuole, "figlio-del-gatto". Vale a dire, figlio del dio-gatto, figlio del faraone... ma non più di Egitto, ma degli Stati Uniti di America.... Finalmente è iniziato il nuovo ordine e il nuovo millennio - quello americano.... nato già vecchio e "usa-to"!
Karl Rossmann (cfr.Franz Kafka, America - Il fochista) aveva visto giusto: la Statua della Libertà di N.-Y. non ha in mano la fiaccola della libertà (appunto!) e della conoscenza vera ma la spada - la spada di Brenno ("guai ai vinti!") - e l’America non è (se mai lo è stata) più l’America, ma l’Egitto, l’Egitto dei Faraoni.... e il presidente che la guida non è il Mosè del Dio del roveto ardente (= bush, in inglese e nella bibbia americana) che non brucia e porta parole di vita e verità, ma il Faraone che porta la sua volontà di menzogna, di morte e distruzione su tutta la terra - anche nel deserto!
"Il grande Teatro di Oklahoma vi chiama! Vi chiama solamente oggi, per una volta sola! Chi perde questa occasione la perde per sempre! Chi pensa al proprio avvenire, è dei nostri! Tutti sono i benvenuti! Chi vuol divenire artista, si presenti! Noi siamo il teatro che serve a ciascuno, ognuno al proprio posto! Diamo senz’altro il benvenuto, a chi si decide di seguirci! Ma affrettatevi, per poter essere assunti prima di mezzanotte! A mezzanotte tutto verrà chiuso e non sarà più riaperto! Guai a chi non ci crede!"(Franz Kafka, America).
* www.il dialogo.org, 26 aprile 2004,
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Se il mistico cristiano non ama gli ebrei
di Vito Mancuso (“la Repubblica”, 19 gennaio 2010)
Ciò che più colpisce nell’ultimo libro di Marco Vannini è la violenza. Convinto che «ai nostri giorni la religione sia tornata a essere oggetto di grande interesse», in Prego Dio che mi liberi da Dio (Bompiani) l’insigne studioso della mistica occidentale intende separare all’interno della religione la verità dalla menzogna, e lo fa sostenendo che il cristianesimo è frutto di due componenti, una buona che è quella greca e più precisamente platonica, e una cattiva che è quella ebraica. Infatti mentre «il platonismo dà il regno di Dio, ossia verità e giustizia», «la mitologia biblica dà un Dio esteriore, creatore e signore - un Dio speculare a un’idolatria del corpo, del sangue, della razza», da cui occorre liberarsi per giungere a «un cristianesimo purificato dall’eredità di Israele».
Con tale obiettivo Vannini attacca duramente la teologia, la Bibbia e ogni dimensione istituzionale: «teologie, cerimonie, sinagoghe, chiese, con le loro implicite ma non troppo implicazioni razziste di popolo eletto, comunità di santi ecc., fonte continua di discriminazione e di odio». Spesso lo fa con un livore che contrasta con quel "distacco" da lui posto al cuore dell’esperienza mistica, come quando dice che la teologia «è menzogna e peccato, anzi qualcosa di animalesco», un «prodotto della gula spiritualis con una finalità appropriativa, goditiva, golosa». Il discorso raggiunge toni da invettiva soprattutto contro la Bibbia ebraica, per Vannini «serie di falsità create per un’ideologia razziale». Vi sono persino parole che non dovrebbero essere più scritte dopo la Shoah, come quelle secondo cui «gli ebrei, dopo aver fatto uccidere Gesù, perseguitarono sin dall’inizio i suoi seguaci»; oppure quelle secondo cui «figli del demonio, che è padre della menzogna, sono chiamati i giudei da Gesù». In realtà basta leggere i vangeli con attenzione per vedere che Gesù non ha mai definito gli ebrei in quanto tali "figli del demonio", perché il testo precisa che si rivolgeva così a quegli ebrei «che avevano creduto in lui» (Gv 8,31), non al popolo ebraico in quanto tale. Né è lecito dire che furono "gli ebrei" a uccidere Gesù, perché è noto che fu l’aristocrazia sacerdotale del tempio, del partito collaborazionista dei sadducei, a consegnare Gesù al potere romano, che poi giustiziò Gesù in quanto minaccia allo status quo.
A uccidere Gesù non furono "gli ebrei", ma il potere religioso e il potere politico uniti in comuni interessi (come spesso accade nella storia). Ma come si fa, ancora oggi, a far ricadere la responsabilità della morte di Gesù su un intero popolo dicendo che "gli ebrei" fecero uccidere Gesù? E sarebbe questo il cristianesimo purificato? In realtà ripetere questi stereotipi, i medesimi dell’antigiudaismo religioso alla base dell’antisemitismo etnico che ha prodotto Auschwitz, è (come minimo) un errore, significa ignorare del tutto i risultati della più accreditata storiografia ed esegesi storico-critica.
Ma è tutta l’impostazione di Vannini a lasciare perplessi, non solo il suo sinistro antigiudaismo. Parlare di teologia, di Bibbia, di Chiesa al singolare, è sbagliato. Vi sono diverse teologie, diversi aspetti delle chiese, diversi libri biblici. E che tra queste variegate realtà ve ne siano di negative è vero, verissimo, e occorre criticarle, guai a non farlo. Ma non esercitare la sapienza della distinzione facendo di ogni erba un fascio, significa venir meno al principale compito del pensiero, significa non consegnare alla società ciò che solo il pensiero può darle, cioè la decantazione delle passioni e la luce calma dell’intelligenza. Dire che la teologia in quanto tale è «negazione della religione vera» significa ignorare la storia della teologia del ’900, nella quale vi sono stati uomini di una grandezza spirituale unica, non inferiori ai maestri medievali cari a Vannini, si pensi a Florenskij, Bonhoeffer, Teilhard de Chardin, teologi che hanno pagato con la vita (martirio rosso e martirio verde) la loro dedizione alla ricerca e al bene del mondo. Come si fa, dimenticandoli, a parlare della teologia nei modi spregiativi e sommari di Vannini?
Ma la vera radice del suo errore consiste, a mio avviso, nel concetto di spirito. Spirito per Vannini è correttamente inteso solo come opposizione ad anima, sorge solo come "distacco", come "rimozione di tutti i contenuti-legami psichici", come "morte dell’anima": perché un uomo possa vivere l’esperienza dello spirito, deve morire nella sua individualità psichica. In questa opposizione tra spirito e anima, e tra anima e corpo, rivive la tradizione dell’agostinismo radicale col suo disprezzo del mondo, in particolare della natura umana. Così Vannini: «La natura umana è la fonte da cui derivano tutti i mali dell’uomo, per cui chi si fonda esclusivamente sull’umano non può essere altro che malvagio»; e ancora, l’uomo deve sapere che «tutto quello che procede da se stesso, dalla volontà propria, è menzogna e procede dal demonio». In fondo per lui la vera menzogna, ben oltre teologia chiesa ebraismo, è la natura umana. Attualizzando il gelido pessimismo antropologico del tardo Agostino che faceva dell’umanità una "massa dannata" e collocava tutti i non battezzati all’inferno, Vannini sostiene mediante il concetto di "distacco" che si entra nell’esperienza dello spirito solo negando la natura umana.
Se il cristianesimo fosse davvero così, Nietzsche avrebbe ragione a definirlo odio verso la salute, la forza, la bellezza dell’esistenza naturale. E che vi siano elementi in tal senso è vero, l’agostinismo radicale lo mostra. Ma per Gesù l’anima non deve morire, ma deve essere salvata, custodita, coltivata; e tutto ciò va fatto in amore con il mondo e con ogni frammento di essere, non nel distacco ma nella comunione (unione-con), con la gioia della fratellanza verso ogni forma di vita, perché, come insegna la Bibbia ebraica, viviamo all’interno di «un’alleanza eterna tra Dio e ogni essere che vive in ogni carne» (Genesi 9,16).
"Io, la religione e la lettura biblica"
di Marco Vannini (la Repubblica, 26 gennaio 2010)
Repubblica del 19 gennaio, ha pubblicato un articolo di Vito Mancuso sul mio Prego Dio che mi liberi da Dio, in cui mi si accusa, tra l’altro, di antigiudaismo. È un’accusa che respingo fermamente, chiamando a testimonianza la mia intera vita di studioso, che ha passato anni a tradurre commentarii biblici: in Israele, nella foresta Giovanni XXIII-Jules Isaac, ci sono cinque alberi piantati in mio onore dall’Amicizia Ebraico-Cristiana di Roma (Keren Kayemeth Leisrael). Tale accusa si fonda infatti sul metodo di citare frasi mutile, avulse dal contesto, o addirittura di attribuire a me quelle che sono invece citazioni di ben più alte autorità. Quest’ultimo è, ad esempio, il caso della teologia definita come "animalesca": non da me, ma da Meister Eckhart (da cui il libro stesso prende il titolo), e il contesto spiega bene in che senso: bestialità in quanto ignoranza, giacché la teologia è presuntuoso discorso su Dio, che è invece al di là di ogni possibile discorso. È anche il caso del «cristianesimo purificato dall’eredità di Israele»: citazione, questa, di Simone Weil, altro punto di riferimento fondamentale del libro - e meraviglia che Mancuso lo taccia, visto che le ha dedicato un suo libro: forse teme l’accusa di "sinistro antigiudaismo"?
Mi viene soprattutto rimproverato, a proposito della condanna di Gesù, l’errore di parlare di "ebrei", senza specificare che si trattava dei soli sadducei collaborazionisti, mentre invece proprio nella riga precedente a quella incriminata si dice che Gesù fu condannato dal «potere sacerdotale ebraico, alleato di quello politico dei romani», ovvero lo stessa tesi che sostiene Mancuso. È comunque evidente da tutto il contesto che non intendo affatto attribuire assurde responsabilità storiche collettive, ma solo sottolineare che il cristianesimo si è costituito sull’affermazione della identità tra Gesù e il Padre - bestemmia, questa, per l’ebraismo, che marcava in modo netto l’opposizione tra le due religioni. Che la storia biblica sia costruita su falsità - invenzione i Patriarchi, invenzione l’Esodo, invenzione il Tempio, invenzione la Legge, ecc. - e che ciò sia stato fatto per fini politici, è un dato acquisito dalla più moderna ricerca storico-critica (nel mio libro si cita tra gli altri Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza), e che si sia così costruita «una comunità chiusa non solo per religione ma anche per razza» (ibid. p. 391), lo è altrettanto.
Perché non si tratta infatti di criticare un libro biblico piuttosto che un altro, accettando ciò che piace e rifiutando quel che dispiace, ma di riconoscere che «la vera suprema bestemmia è chiamare sacro ciò che proviene da mano umana», come diceva l’umanista Cornelio Agrippa. Nel momento in cui il maggiore editore cattolico italiano presenta la Bibbia come «via, verità, vita» attribuendo a un libro ciò che Cristo dice di se stesso, credo sia legittimo parlare di religione come menzogna, accanto a religione come verità. Di questo, e non d’altro, tratta il mio libro, che perciò rivendica l’importanza della fonte greca, e del platonismo in particolare, nella formazione del cristianesimo.
Platonismo significa il primato dell’interiorità contro l’esteriorità; significa non costruire teologie/mitologie, ma cercare di "farsi simili a Dio" nella giustizia. Significa conoscenza della malizia insita nell’io, nel suo quasi insopprimibile egoismo, e dunque della necessità di una conversione, di una "morte dell’anima", ossia di un radicale distacco dall’egoità. Significa, in conclusione, l’esperienza tanto della natura quanto della grazia, e del primato di quest’ultima - ed è su questo che il cristianesimo si è fondato - e che la mistica - unica vera erede della filosofia greca- ha mantenuto nei secoli.
Non si tratta quindi di me o di Agostino, col suo "gelido pessimismo", come vuole Mancuso, quanto e soprattutto di Cristo stesso: odiare la propria anima/vita, rinunciare a se stessi, morire a se stessi come muore il chicco di grano e esperimentare la rinascita e la nuova vita nello spirito, sono infatti i passi e i tratti essenziali del messaggio evangelico e le condizioni della sequela Christi. Se si cancellano questi, Gesù, ormai solo uomo, viene ridotto a un maestro new-age, e il cristianesimo (ma ha senso chiamarlo così?) a una melassa insulsa e insignificante.
POLITICA
Il prezzo dell’impunità
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Berlusconi andrà fino in fondo senza curarsi degli inviti del Capo dello Stato a trovare in Parlamento soluzioni condivise - almeno per materie come la sicurezza e la giustizia. Non si attarderà ad ascoltare le perplessità del suo alleato (la Lega). Non presterà alcuna attenzione alle sollecitazioni di un’opposizione moderata e ragionevole (Udc, Pd).
Non stringerà la mano tesa di una magistratura che, stanca di guerra, vuole almeno tutelare - in questa temperie - una decente funzionalità dell’amministrazione giudiziaria, un’accettabile efficacia del processo penale, la concretezza della pena. Venisse giù il cielo, Berlusconi andrà fino in fondo per due ragioni che sono indivisibili nella indefinitezza che ha sempre separato il suo privato dalla responsabilità pubblica che (legittimamente) interpreta. Deve proteggersi da un presente penale e rimuovere ogni incognita dal futuro. La sua urgenza personale (non essere processato) è diventata pubblica necessità come la diffusa percezione d’insicurezza, come la crisi della "monnezza" a Napoli. Oscurità che chiedono di essere rimosse presto, con un’immediata decisione, rapida come un lampo di luce, anche a costo di violare lo Stato di diritto - anche in quest’occasione, come nelle altre - di separare lo Stato dal diritto. Diventata estrema e improrogabile la necessità di fermare il suo processo e di scongiurare la possibilità che ce ne siano in futuro, vengono congelati per un anno i processi per i reati commessi fino al 30 giugno del 2002, in attesa di approvare un nuovo "lodo" immunitario.
Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari. È un reato rarissimo, in Italia. Si celebrano meno di due processi all’anno per quel delitto. È questa trascurabile presenza statistica che rende indispensabile fermare per un anno migliaia di processi per i più diversi reati. La decisione paralizza una macchina giudiziaria già inceppata e caccia l’esecutivo in una contraddizione irrisolvibile e irragionevole, se ci fosse ancora spazio per la ragione. Da un lato, definisce un catalogo di reati di grave allarme sociale e ne irrobustisce le pene; dall’altra, per gli stessi reati (stupro, usura, traffico di rifiuti, sfruttamento della prostituzione, omicidio colposo per i pirati della strada...) li dice irrilevanti, marginali e dappoco fino allo spartiacque del 30 giugno 2002. In nome di una personale sicurezza e impunità, il capo del governo accetta di mettere in tensione la sicurezza di tutti. Racconta di voler rendere più sicuro il Paese e lo rende disarmato. Chiede alla magistratura di fronteggiare le minacce diffuse e l’azzoppa irrimediabilmente.
Il metodo può apparire incoerente per il senso comune, per la più fragile delle decenze istituzionali. È, al contrario, ragionevolissimo per un esecutivo e una maggioranza iperpersonalizzati che presentano il premier come un sovrano, come il solo salvatore capace di risolvere i problemi del Paese, il solo uomo in cui la maggior parte degli italiani ha "fiducia". Salvare da ogni controllo di legalità Berlusconi, trasformato in icona e pietra angolare del sistema; proteggere il suo potere e - con esso - la possibilità stessa di una "decisione" libera dai consueti legacci o dai "costituzionali" contrappesi vuol dire - in questo nuovo, artificioso stato di necessità - tutelare non Berlusconi, ma il governo del Paese, la sola via d’uscita dalle molte crisi che lo affliggono.
In questo slittamento di significato dal privato al pubblico, dalle ragioni di uno alle necessità di tutti, si deve cogliere uno dei segni distintivi di questa stagione politica. Bisogna cominciare a fare i conti con gli esiti. Occorre iniziare a cogliere, dietro la retorica berlusconiana, le tecniche che la sostengono. È necessario prendere atto, oggi e innanzitutto, dello svuotamento funzionale del potere del Parlamento.
C’erano molte ragioni per una valutazione attenta del Senato dei pericoli, contraddizioni e debolezze del provvedimento con forza di legge approvato dal governo. Le circostanze aggravanti da infliggere a chi "si trova illegalmente sul territorio nazionale" rispettano il dettato costituzionale o danno vita a un doppio binario di giudizio per il cittadino italiano e lo straniero? La sospensione incondizionata dei processi migliora davvero il "servizio giustizia" nell’interesse del cittadino - sia esso imputato o vittima - o ne pregiudica in modo grave il lavoro? Un’immunità che garantisca le alte cariche dello Stato deve davvero passare attraverso lo strappo violento del precetto che rende tutti uguali davanti alla legge? C’era anche "materia" politica e istituzionale da sorvegliare dopo le aperture della Lega, le proposte di Udc e Partito democratico, le prudenti riflessioni dell’Associazione nazionale magistrati. Il Senato (e alla Camera non andrà in modo diverso) si è mostrato del tutto indifferente a ogni questione; disinteressato a ogni distinzione tra utile e dannoso, necessario e arbitrario, giusto e ingiusto; neutrale anche rispetto ai valori costituzionali interpellati dal decreto del governo e dagli emendamenti imposti dal presidente del Consiglio.
Affiora un metodo. Il Parlamento (un Parlamento non di eletti, ma di "nominati") rinuncia a elaborare "politiche", le subisce. Non le discute, le approva a occhi chiusi consegnandosi, come fosse un involucro vuoto, a una impotente autoemarginazione. Libera dalla presenza del potere legislativo, la retorica "anti-sistema" di Berlusconi potrà muoversi senza ostacoli - se quel che si è visto finora è soltanto un saggio del futuro della legislatura - lungo i confini disegnati dalle tre strategie finora messe in campo. Istituzionale: coinvolge il capo dello Stato nelle sue iniziative, salvo imbrogliarlo nel merito; mima il dialogo con le opposizioni, salvo affondarlo secondo convenienza. Extra-istituzionale: con una comunicazione manipolata e sovrattono, abusa della "fiducia" che il Paese gli concede a piene mani per compilare un’agenda di governo che ne trascura i problemi più autentici. Anti-istituzionale: aggredisce con sistematicità le istituzioni di controllo, subito la magistratura. È un’agevole previsione credere che molto presto toccherà all’informazione.
* la Repubblica, 25 giugno 2008.