Giuseppe Cacciatore |
Il “luogo d’inizio” di questo libro* di Federico La Sala (filosofo originario di Contursi e docente per oltre un ventennio in un liceo milanese) è la piccola chiesa di S. Maria del Carmine a Contursi. Qui sono stati riportati alla luce alcuni affreschi che raffigurano le sibille, profetesse annuncianti, già in era pagana, l’avvento del Cristo. E’ da questo spunto che s’origina e si articola il discorso antropologico, storico-religioso e filosofico di La Sala.
Sullo stile di pensiero e di scrittura (filosofica innanzitutto, ma anche storica, artistica, estetica) di Federico La Sala ha detto in maniera efficace Fulvio Papi, nella sua breve e intensa prefazione.
Parto da essa perché, con sagace intuizione, Papi coglie un aspetto, solo apparentemente didascalico-espositivo, che pone il lavoro di La Sala in una benefica distanza dalle scritture teoretico-essenziali, capaci di riscrivere le grandi filosofie di Platone e Aristotele, di Ficino e Bruno, di Vico e di Kant, di Hegel e di Nietzsche, e così via elencando, senza mai citare un testo e men che mai un riferimento alla letteratura critica.
Così, l’apparente sovrabbondanza di citazioni ed eserghi ha solo lo scopo, è ancora Papi a scriverlo, di ricercare la “risonanza” della parola che il lettore si dispone ad accogliere, sfuggendo così al “sospetto” suscitato dalle “architetture filosofiche” fin troppo impegnate a rappresentare concettualmente “qualsiasi forma dell’essere”.
Il ritrovamento del vero e proprio “poema pittorico” degli inizi del secolo XVII, scoperto durante i lavori di restauro della chiesa di S. Maria del Carmine, induce La Sala a mettere in pratica un difficile e tuttavia interessante esercizio di analisi compiuta a più livelli: storico-artistico, letterario, filosofico, teologico, allegorico-simbolico.
Il livello storico-filosofico e poi anche teologico - accompagnato, tra le altre citazioni a mò di esergo, da una lunga e profetica pagina di Eugenio Garin sull’onda lunga della cultura del Rinascimento e della sintesi platonico-cristiana riversatasi sui secoli successivi - interpreta la narrazione figurativa (le 12 sibille pagane e i profeti ebraici Elia e Giovanni Battista) come trascrizione di un viaggio iniziatico ed ermetico che conduce il pellegrino ideale da Maria madre del Cristo al figlio che accede al regno dei cieli.
La filosofia si annuncia a partire dai frammenti dell’opera parmenidea, là dove il viaggio-guida dell’uomo è tracciato dalle dee-fanciulle che indicano la via. Sono le “figlie del sole” che, lasciate le “case della notte” spingono “il carro verso la luce” fino ad arrivare alla porta che divide i sentieri della notte e del giorno. Oltre la porta la dea indicherà al viandante le vie della ricerca tra le quali dovrà scegliere: quella dell’essere, il sentiero della persuasione, e quella del non-essere, cioè della indicibilità e inesprimibilità.
Quello che, tuttavia, a me interessa molto del percorso interpretativo attivato da La Sala, è la funzione non solo simbolica e iconografica dell’immagine, ma anche e soprattutto filosofica, gnoseologica ed etica.
Resto convinto che si debba ancora oggi discutere filosoficamente il problema dell’immagine, nel senso di una sua inaggirabile valenza che è in prima istanza mentale e neuroscientifica, per diventare poi fatto antropologico ed etico-politico. Ed è proprio il lavoro svolto negli ultimi decenni dalle scienze cognitive e dalle neuroscienze a confermare ciò che già Vico ad esempio aveva intuito, e cioè che l’immaginazione non è più relegabile nel mondo separato della res cogitans.
Spinoza, Vico Kant, ognuno per suo conto e anzi con diverse modalità di pensiero, hanno sostenuto che ogni atto di coscienza, e persino ogni percezione, si presenta come un’esperienza creativa - il poietico che si fa poetico - ed anche i meccanismi e gli atti della memoria non sono solo fenomeni scientificamente descrivibili e misurabili, ma anche ed essenzialmente prodotti immaginativi.
Ho citato Vico perché La Sala è autore di una serie di interessanti osservazioni sul pensiero e l’opera del filosofo napoletano. Ho già avuto modo di esprimere privatamente il mio interesse per talune sue analisi, anche se, come ho già avuto modo di dirgli in una mia lettera, io resto, per formazione e struttura mentale e disciplinare di storico della filosofia, legato all’organizzazione sistematica del discorso più che al pur rispettabile stile dell’aforisma e del frammento.
Ho anche io - in molte pagine dedicate a Vico - insistito sulla centralità che nella sua opera ha l’idea di una metafisica della mente umana commisurata alla debolezza delle passioni e alla finitudine del fare umano.
La Sala parla nelle sue incursioni nell’opera vichiana di “mente accogliente” (che è anche il titolo di un suo libro che, non a caso, si apre con la famosa immagine della dipintura che fa da premessa iconologica e sinottica al capolavoro di Vico).
La “dipintura” allegorica (progettata da Vico e realizzata dal pittore Domenico Antonio Vaccaro), è la straordinaria summa figurativa di una profonda intuizione filosofica.
All’immagine si accompagna un’introduzione in forma di spiegazione, dove si ragiona sul significato simbolico assegnato ai molteplici segni che, nel loro insieme, costituiscono la dipintura, e dove si staglia in una posizione di centralità la donna dalle tempie alate, la metafisica. Questa, anche per la posizione significativa di medium concettuale e iconologico, non si limita a contemplare Dio “sopra l’ordine delle cose naturali”, ma osserva anche il mondo delle menti umane.
Ciò è importante perché conferma che Vico non nega in alcun modo il ruolo della Provvidenza nella vita degli uomini, ai quali tuttavia spetta un margine di autonomia, di facere individuale. Proprio per questo il globo posto ai piedi della donna è poggiato su un solo lato dell’altare, e simbolicamente rappresenta il fatto che avendo i filosofi “contemplato la divina provvedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamente dimostrato una parte”, trascurando quella “ch’era già propia degli uomini, la natura de’ quali ha questa principale propietà: d’essere socievoli”.
La Sala ha ripreso e sviluppato, dal suo punto di vista questi temi in un commento alla recente edizione Bompiani del capolavoro vichiano che raccoglie insieme le tre edizioni della Scienza nuova (1725, 1730, 1744).
Ma torniamo ai contenuti del libro che a me pare convergano su una lettura classica della tradizione umanistica neoplatonica (a partire da Gemisto Pletone) incentrata in modo particolare sull’idea di Prisca Theologia e di profetismo preparatorio al Cristianesimo, visibile in quella tradizione ermetica così sapientemente studiata dalla Yates.
È in questo contesto che si inserisce la ricerca di La Sala sulle tracce di alcuni esempi di arte figurativa raffiguranti motivi profetici dell’avvento del Cristianesimo (com’è il caso dei mosaici nella cattedrale di Siena che ritraggono Ermete Trismegisto e le sibille). Ancora più significativo è il caso degli affreschi del Pinturicchio nell’appartamento Borgia, commissionati da Alessandro VI che fu convinto difensore di Pico della Mirandola e della sua astrologia filosofica. In essi ritroviamo le dodici sibille che profetizzano l’avvento di Cristo e i dodici profeti ebraici, ma poi ricompare anche il Trismegisto.
Fu, tra gli altri, Fritz Saxl, come ricorda la Sala, a considerare quegli affreschi come la manifestazione evidente di una tendenza che intendeva dimostrare che la storia del Cristianesimo cominciava prima di Cristo come attestavano le testimonianze profetiche ebree e pagane. E gli esempi di raffigurazione di profeti e sibille citati da La Sala continuano: la cappella della Madonna dell’acqua di Rimini; la cappella Sistina con la mirabile rappresentazione di uno schema narrativo che va da Dio alla Sacra Famiglia, con le sibille e i profeti.
Ma io vorrei tornare ai contenuti filosofici del libro di La Sala. Questi si mostra giustamente convinto - come lo sono alcuni dei filosofi che hanno segnato la riflessione sulla crisi della modernità - della necessità di un radicale mutamento di paradigma rispetto a ciò che la tradizione dei padri ci ha trasmesso.
Ma il passaggio non è facile, perché come acutamente osserva il nostro autore, una nuova teoria, come già sapeva Kant, nasce, come un nuovo sistema solare, solo dopo una lunga gestazione e da una primordiale nebulosa, quasi come il raggio divino della dipintura vichiana che rompe l’oscura notte di tenebre delle origini del mondo. Per questo, sostiene La Sala, occorre impegnarsi per una nuova cultura che sappia porsi “all’altezza del nostro presente storico”.
Fin qui il mio pieno accordo con La Sala, ma nel passare dall’enunciato alla sua chiarificazione e praticabilità, confesso di essermi disperso - probabilmente per limiti miei di comprensione - nei tanti, e sicuramente interessanti, rivoli della sua fantasmagorica argomentazione che trova il suo nocciolo - se ho ben capito - nel saper pensare insieme la molteplicità delle cose e il Principio. Così dopo un percorso apparentemente intricato si torna al vero padre fondatore della filosofia moderna e, per me, e lo dico provocatoriamente, anche di quella post-moderna: Emanuele Kant.
Dunque, la fine della storia - come dice La Sala - comincia proprio quando la ragione kantiana ha compiuto la grande svolta filosofica e antropologica: l’unione di terrestrità e cielo stellato, coscienza sensibile e coscienza intellegibile, entrambe racchiuse nell’unità del corpo-soggetto (vere duo in carne una).
Già a partire da Kant veniva messa in discussione l’idea di una ragione pura, metafisica e assoluta e venivano poste le premesse della ragione impura, storica, civile, cosmopolitica, capace ancora una volta di pensare corporeità e intellegibilità, differenza (anche sessuale) e identità.
Concludo con due citazioni. La prima è tratta dalla Sacra Famiglia di Marx e Engels (ed è uno degli eserghi scelti da La Sala). “Come poteva la soggettività assoluta, l’actus purus, la critica pura, non vedere nell’amore la sua bête noire, il Satana in carne e ossa, come poteva non vedere ciò nell’amore, che per primo insegna veramente all’uomo a credere nel mondo oggettivo fuori di lui, che non solo trasforma l’uomo in oggetto, ma perfino l’oggetto in uomo”. E mi verrebbe da dire: alla faccia del nuovo realismo!
La seconda citazione è di La Sala: “L’indicazione di Kant non è affatto trascurabile, né sottovalutabile: è carica di teoria come di futuro: E’ un’intenzione e un invito a ricominciare da capo, senza tornare al di qua o andare al di là dell’orizzonte critico, e senza abbandonare il corpo e la Terra (...) Dopo Schopenhauer, dopo Feuerbach, dopo Marx, come dopo Nietzsche e Freud, oggi, forse, siamo finalmente più preparati e pronti per rispondere. Riusciremo a portare a compimento la rivoluzione copernicana e ad abitare la terra serenamente?”.
GIUSEPPE CACCIATORE
*
DAL SITO DEL COMUNE DI CONTURSI TERME (SALERNO), MATERIALI SULLA
Presentazione del libro di
Federico La Sala
DELLA TERRA IL BRILLANTE COLORE
Parmenide, una ”Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barberi (1481) e la domanda antropologica
Prefazione di Fulvio Papi
Edizioni Nuove Scritture, Milano 2013, pp. 156, € 15,00
Allegato. DOC. (senza le foto) sul tema:
LETTERA APERTA [Federico La Sala, 12.03.2012] *
ALLA SOPRINTEDENZA per i Beni Architettonici e Paesaggistici per le province di Salerno e Avellino
CH.MO SOPRINTENDENTE
Egr. dott. Miccio
Le scrivo, in riferimento allo stato della Chiesa di Maria SS. del Carmine di Contursi Terme. Del restauro di questa chiesa (convento carmelitano dal 1561 al 1652), dopo il terremoto del 1980, se ne sono occupati i tecnici della Soprintendenza, il dott. Domenico Palladino e la dott.ssa Maria Giovanna Sessa: i lavori furono conclusi nel 1989 (scheda restauro - pdf, in fondo).
Purtroppo, dopo molti anni di totale incuria, la sua situazione ora sta precipitando paurosamente. Solo per darle un’idea, Le ho qui allegato una foto relativa allo stato attuale del tetto (si veda, qui, in fondo).
Uno scenario orribile: non sono cresciute solo erbacce che intasano il corretto deflusso delle acque e che poi vanno ad infiltrarsi nel muro (con conseguenti danni - già disastrosi ed evidenti all’interno), ma si è avviato anche il cedimento dell’orditura che tiene l’intero manto delle tegole!!!
Anche se non sono un tecnico, è facile supporre che la situazione andrà peggiorando anche da un punto di vista strutturale con pericolo per la privata e pubblica incolumità. All’interno, la parete sinistra (ormai fradicia di umidità e sempre più ricoperta di muffe verdeggianti) sta perdendo tutti i suoi preziosi affreschi (12 Sibille) portati alla luce dai lavori di restauro.
Entrando, e avanzando verso l’altare a Sx: 1. Sibilla PERSICA, 2. Sibilla LIBICA, 3. Sibilla DELFICA, 4. Sibilla CUMEA [CHIMICA], 5. Sibilla ERITREA, 6. Sibilla [SAMIA]
a Dx: 7 Sibilla CUMANA, 8. Sibilla LESPONTICA, 9. Sibilla FRIGGIA,10. Sibilla TIBURTINA,11. Sibilla E[V]ROPEA, 12. Sibilla EGIPTIA
In alto, dietro e sopra l’altare, una Pala del 1608 di Jacopo de Antora, con - sotto a sx, - il Profeta Elia, - e a dx, il profeta Giovanni Battista, in alto, sulla nuvola, - Maria con il Bambino, e alle loro spalle, - le colline del Carmelo, con chiese e grotte... (si veda, in fondo, tavola sinottica)
Tenga presente che le Sibille presenti sono 12 (al contrario della volta della Cappella Sistina di Michelangelo, ove ne sono rappresentate solo 5 con 7 profeti) e che questa grande novità ovviamente non è di poco rilievo per la storia dell’arte e della storia culturale e religiosa italiana.
Sulle "decorazioni parietali di modesta fattura e complessa lettura" (come accennato dai dott. Palladino-Sessa nella loro relazione), si veda la documentazione presente nel mio lavoro: Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore. [...].
In particolare, è bene ricordarlo: "Le Sibille di Contursi hanno parentele più celebri nella Cattedrale di Siena, nell’appartamento Borgia in Vaticano, nel Tempio Malatestiano di Rimini, nella Cappella Sistina di Michelangelo. La pittura disegna l’ eclettismo ermetico-cabalistico-neoplatonico rinascimentale che colloca la filosofia e la teologia pagana in sequenza con il Cristianesimo".
Il mio unico desiderio è che il prezioso lavoro fatto dalla stessa Sovrintendenza non vada assolutamente perduto! E che questa bandiera della cultura tardo-rinascimentale piantata nell’area salernitana non ricada per sempre nell’oblio (o, diversamente, nel fango).
Mi auguro che Ella possa intervenire quanto prima, per sollecitare e contribuire a salvare il salvabile.
La ringrazio vivamente della sua attenzione e La saluto
Federico La Sala (12.03.2012)
*
http://www.ildialogo.org/cultura/AppelliInterventi_1331650525.htm
LA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO IN EUROPA E LA RAPPRESENTAZIONE DELLA FIGURA DI "MARIA MADDALENA":
ARTE E STORIOGRAFIA NELL’EPOCA DELLA RIFORMA PROTESTANTE E ANGLICANA E DELLA CONTRO-RIFORMA CATTOLICA.
CONSIDERANDO LE DIFFERENZE DI RAPPRESENTAZIONE ARTISTICHE tra l’Europa del Nord e l’Europa del Sud, con la diversa atmosfera religosa" e politica dell’uno e dell’altro "campo", resta da meglio precisare, storiograficamente e artisticamente, che il rinascimento ha una onda lunga, che va almeno dalla seconda metà del Quattrocento al primo decennio del Seicento (#Shakespeare, #Cervantes, #Garcilaso El Inca de la Vega - 1616). All’interno di questo orizzonte, in cui la figura della #Maddalena (come quella delle #Sibille) è da vedersi quasi una come una cartina di #tornasole teologico-politica di "storia sociale dell’arte" (vedere, sul tema, le #MariaMaddalena del pittore olandese, chiamato "#Maestro delle Mezze-Figure Femminili"), forse, è da considerare con attenzione l’opera di Federico Barocci, noto per lo straordinario "#presepe" (con un forte tono "apocalittico") della "Madonna della #gatta", per consonanza, anche il quadro dedicato a "Cristo e la Maddalena (Noli me tangere)", del 1590, e, successivamente, del 1609.
LETTERATURA E #FILOLOGIA. In un periodo storico con forti tensioni teologico-politiche, degna di nota, da associare alla produzione artistica dell’epoca sulla figura di Maria Maddalena, è "La Maddalena penitente" (1599), un’opera di grande successo di Paolo #Silvio (ristampato a cura di Felice Pagnani Raele, nel 2022), un letterato e scrittore originario di #ContursiTerme (e, probabilmente, legato anche a #Fabriano, dove agli inizi del Seicento #Orazio #Gentileschi realizzò un quadro in onore della santa, "#Apostola degli #Apostoli").
MICHELANGELO, I #PROFETI, LE SIBILLE, E LE "STREGHE" DI BENEVENTO: #CONTRORIFORMA E #CONTRORINASCIMENTO.
ANTROPOLOGIA CULTURALE #ARTE E #STORIA. A lume di #antropologia storica e "#immaginazione sociologica", si può ben pensare che Michelangelo (associandosi al santo patrono di Benevento, all’apostolo Bartolomeo, con la "#sindone" del suo "#autoritratto": ), nel #GiudizioUniversale, protestava "cristianamente", contro la #gerarchia di un #cattolicesimo istituzionalizzato (assetato di potere, all’ombra e al servizio del dio "#Mammona", incapace di accogliere le sollecitazioni della #Riforma Luterana e Anglicana), che aveva rifiutato la proposta di far camminare insieme profeti e sibille, come da chiara indicazione ecumenica e "francescana, nella "Volta" della #CappellaSistina e nel "#presepe" del #TondoDoni) e contro l’equiparazione di #janare e #sibille (come da tradizione "cattolica", delle "streghe", che si riunivano presso l’antico albero di "noce di benevento", per il famoso "concerto" sabbatico.
IL DIO "VERTUMNO", IL "CORPO MISTICO" DELL’IMPERATORE "GIARDINIERE". LA LUNGA ONDA DEL RINASCIMENTO E IL SOGNO DELLA TEOLOGIA-POLITICA DI RODOLFO II D’ASBURGO. Appunti sul tema:
A) - "LA CITTA’ DEL SOLE" (TOMMASO CAMPANELLA) E L’IDEA DEL "PARADISO TERRESTRE" DELLA "MONARCHIA" (DANTE ALIGHIERI): "[...] La curiosità per il pomodoro e le altre piante in arrivo dal Nuovo Mondo è evidente nel fantasioso, emblematico, spiritoso e ormai famoso ritratto che Giuseppe Arcimboldo fece all’imperatore Rodolfo II. In questo quadro, dipinto nel 1560, Arcimboldo ritrae l’imperatore nei panni di Vertumno, il dio romano dell’abbondanza e dell’alternanza delle stagioni. Le opere di Rodolfo vengono rappresentate sotto forma di frutti maturi, fiori e ortaggi. Il labbro inferiore dell’imperatore è formato da due pomodorini a ciliegia. Un’altra pianta nuova, il mais, forma l’orecchio e due peperoncini rossi adornano il suo mantello. Rodolfo aveva ereditato un vastissimo giardino dal nonno, Ferdinando I. Di quel terreno, che doveva essere un «teatro del mondo», un’enciclopedia vivente di alberi e piante, era stato fatto un giardino all’italiana per opera di un grandissimo esperto, Mattioli, che l’aveva anche curato. Rodolfo condivideva con il nonno la fascinazione per la natura, la scienza e la magia. Aveva una raccolta di «curiosità» provenienti da tutto il mondo conosciuto, famosa per la sua varietà e il suo valore. Il milanese Arcimboldo era stato il «ritrattista di corte» di suo padre e di suo nonno, anche se il ruolo che occupava effettivamente andava ben oltre l’incarico ufficiale. Rodolfo si affidava ad Arcimboldo come suo agente, e negli anni Ottanta l’aveva mandato in Germania a caccia di opere d’arte e di oggetti rari. Quindi, non c’è da sorprendersi se Arcimboldo ha inserito dei prodotti del Nuovo Mondo nel suo fantasioso ritratto. Quest’opera è simile alle varie serie delle Quattro stagioni che Arcimboldo aveva iniziato a dipingere quasi tre decenni prima. Ma facendo maturare tutti i frutti, i fiori e gli ortaggi insieme, Arcimboldo ci presenta un’allegoria del potere imperiale, ricordandoci le pretese di dominio globale di Rodolfo, oltre a prospettare il ritorno di una «età dell’oro» sotto il suo governo. "(DAVID GENTILCORE, "LA PURPUREA MERAVIGLIA. Storia del pomodoro in Italia", Garzanti, 2010, pp. 36-37).
B) - RODOLFO II, ARCIMBOLDO, E IL DIO "VERTUMNO": "[...] Giuseppe Arcimboldi o Arcimboldo ( 1526-1593 ). Figlio del pittore Biagio che era stato in contatto con Bernardino Luini e quindi con la scuola di Leonardo, lavorò all’inizio con il padre in opere decorative come pannelli d’organo, vetrate, cartoni per arazzi, Dopo essersi fatto conoscere ed apprezzare si trasferì alla corte di Praga al servizio del principe Massimiliano divenendo artista ufficiale di corte. Dopo aver realizzato composizioni antropomorfe con frutti e vegetali che ebbero subito grande successo ( le Quattro stagioni dal 1563 al 1577 ) , lasciò la corte imperiale del principe Rodolfo a cui prestava servizio dopo la morte di Massimiliano, per tornare nel 1587 a Milano dove si stabilì definitivamente. Qui dipinse il Ritratto dell’imperatore in veste di Vertunno databile intorno al 1589-90. Le composizioni di Arcimboldo erano definite al suo tempo illusionistiche ed erano costituite, se così possiamo dire, da figure umane con un insieme di prodotti di mercato e cucina: il personaggio raffigurato era composto dall’insieme degli elementi naturali che costituivano il suo mestiere, così, per esempio, un ritratto di cuoco, era formato dai cibi collocati dalla testa ai piedi. Un aspetto delle figure "illusionistiche" comico-grottesche di Arcimboldo è la reversibilità nel senso che possono essere viste sia in forma antropomorfa che, rovesciate, in forma vegetale pur essendo composte, entrambe, degli stessi elementi naturali.
Dovendo omaggiare l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo, pensò di creare, nel 1590, un proteiforme ritratto frontale a mezzo busto in cui appariva come il dio Vertumno, dio delle stagioni, formato dalla straordinaria giustapposizione di frutti, ortaggi e fiori. Si trattava del punto di arrivo delle sue opere destinate alle stagioni che qui si riassumevano in un insieme delle quattro, ricche di tutti i prodotti della terra. L’opera naturalmente era elogiativa, voleva essere un’esaltazione dell’abbondanza che sotto il regno di Rodolfo si godeva in tutte le stagioni dell’anno, come in una nuova età dell’oro. L’ammasso ordinato e composito dei frutti, ortaggi e fiori non sminuiva l’impatto che doveva fornire l’imperatore: l’impressione di vigore fisico e potenza politica, né ne sviava l’interpretazione accentuando il senso del grottesco o del comico, ma invece ne forniva una vera e propria potenza figurativa che dava proprio quell’idea di floridezza e abbondanza che un sapiente e regolato governo sapeva dare. [...]" (cfr. Giangiacomo Scocchera, "La Sindrome di Stendhal Due": Il primo tempo: Musici, fioriere e fruttiere...).
Federico La Sala
IL "SAPERE AUDE" (#ORAZIO), LE "FRUTTIFERE" OPERE DELL’IMPERATORE RODOLFO (ARCIMBOLDO), E LA "PACE PERPETUA" (#KANT): #ARTE, #LETTERATURA, TEOLOGIA-POLITICA E... "PARADISO PERDUTO" (JOHN #MILTON)?!
STORIA E #STORIOGRAFIA. Dopo la lezione (incompresa) di Arcimboldo (5 aprile 1527 - 11 luglio 1593), l’umanità (tutta) non ha ancora capito nulla della vita sulla #Terra e dell’importanza di aver #cura dell’edenico #giardino terrestre, e cosa fa?: continua a #pestare acqua nel #mortaio, e, si prepara a trasformare il paradiso (il giardino) sempre più in un #deserto "marziano"! Boh e bah?!
UNA #HAMLETICA #QUESTIONE ANTROPOLOGICA E TEOLOGICO-POLITICA: "L’#ULTIMA #CENA"?!. NON è forse meglio riprendere l’indicazione oraziana sul "#sàpere aude" e interrogarsi criticamente con Immanuel Kant (1784) e #MichelFoucault (1984) sul "prendete e mangiate" (sul #corpomistico, ateo e devoto) e sulla "#piramide" androcentrica della fattoria del "Sapiente" (1510) #Bovillus e smetterla di continuare a #impestare la Terra con l’acqua del bellico "mortaio"!
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LA LUNGA ONDA DEL #RINASCIMENTO, IL SOGNO "UTOPICO" DEL GIARDINO, E IL "CORPO MISTICO" DELL’IMPERATORE RODOLFO II D’ASBURGO...
LA LEZIONE DI ARCIMBOLDO ( https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Arcimboldo ): UN GRANDE INVITO AD AVERE L’ORAZIANO (E KANTIANO) CORAGGIO DI ASSAGGIARE E A FARE UN BUON USO DELLA PROPRIA FACOLTÀ DI #GIUDIZIO.
NOTE:
FRANZ KAFKA, IL #BAMBINO DI PRAGA, E UNA "ARCHAICA" PREMESSA DI CIVILTÀ".
UNA NOTA di ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT2024), SULLO STORICO PRESENTE DELL’#EUROPA:
"[...] Sull’orlo dell’abisso, non ci resta che venir fuori dallo stato (cartesiano-hegeliano) di sonnambulismo: seguire il filo del corpo (l’ombelico!), riacchiappare il senso della vita, e riattivare la memoria delle origini. Con Kant, con Feuerbach, con Marx, con Nietzsche, con Freud, con Rosenzweig, con Buber, e con Kafka ... si tratta di capire il significato della “spada” impugnata dalla “statua della Libertà”, ritrovare “la fotografia dei genitori” (cfr. America) e riconciliarci con lo spirito di quei due esseri umani, di quei due io, che hanno fatto UNO e dato il via alla più grande rivoluzione culturale mai verificatasi sulla Terra - la nascita di noi stessi e di noi stesse e dell’intero genere umano - e riprendere il nostro cammino di esseri liberi e sovrani, figli della Terra e dello Spirito di D(ue)IO. Camminare eretti, senza zoppicare e con gli occhi aperti, è possibile. Non è un’utopia. Milano,20.01.2001 d.C».
NOTE:
L’EUROPA DEL 1616, LA "GIORNATA DEL LIBRO SPAGNOLO" (1926/1931), LA MEMORIA DI SAN GIORGIO E LA ROSA. STORIA, STORIOGRAFIA E ANTROPOLOGIA...
LA LUNGA ONDA DEL #RINASCIMENTO. SE "Nel lontano 23 aprile 1616 morirono tre maestri della scrittura mondiale come William #Shakespeare, Miguel de #Cervantes e il peruviano Inca Garcilaso de la #Vega ", forse, è ALTRETTANTO VERO CHE IN EUROPA SI CHIUDEVA UN’EPOCA di grandi e difficili tentativi di realizzare una visione unitaria: paradossalmente, nel #RegnodiNapoli, vicereame spagnolo, ai confini del feudo del "#Principe di #Eboli", collaboratore di Filippo II, e amico di Teresa d’Avila, nel 1613, a #Contursi Terme (#Salerno), i Carmelitani Scalzi dedicano una Chiesa a "Maria S.S. del Carmine" e affrescano la chiesa con le figure di 12 Sibille.
PURTROPPO, COME SI SA, nel 1618 fino al 1648, prende il via la Guerra dei Trent’Anni, e, "PROSEGUENDO", all’indomani della #GrandeGuerra, la #Prima #GuerraMondiale, e al diffondersi delle ideologie totalitarie, "il 6 febbraio 1926 re Alfonso XIII promulgó un decreto con cui veniva istituita la Giornatadel libro #spagnolo. La data prescelta fu il 7 ottobre, ma dal 1931 è stata spostata al 23 aprile, festa di san Giorgio. Nel giorno di san Giorgio ogni uomo dona una rosa alla sua donna. Così ancora oggi i librai della Catalogna usano regalare una #rosa per ogni libro venduto il 23 aprile." (Ruggiero Doronzo).
IL LUTTO
Morto il professore Giuseppe Cacciatore *
Ordinario di Storia della Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, aveva 77 anni
Cultura in lutto. E’ morto oggi, all’età di 77, dopo una lunga malattia, il professore Giuseppe Cacciatore. Ordinario di Storia della Filosofia presso la Facoltà di Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, di cui tra il 1990 e il 1995 è stato anche presidente del Corso di Laurea. Dal 2001 al 2007 è stato direttore del dipartimento di filosofia "Antonio Aliotta" dell’Università federiciana.
Laureatosi in Filosofia presso l’Università degli studi di Roma "La Sapienza" nel 1968, ha collaborato nei primi anni settanta in qualità di assistente con Fulvio Tessitore nell’Università di Salerno, dove ha anche avviato la sua carriera accademica.
Accademico dei Lincei, professore emerito di Storia della Filosofia presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, Cacciatore è stato insigne studioso di Kant, Hegel, Giordano Bruno e moltissimi altri filosofi ed una costante del suo pensiero di ricerca è stata la sinergia tra la politica e la filosofia (tra le sue pubblicazioni sull’argomento si ricordano "Ragione e speranza nel marxismo. L’eredità di Ernst Bloch", e a "Sinistra socialista nel dopoguerra"). È stato anche presidente della Sfi (Società filosifica italiana) e della Società salernitana di Storia Patria. A dare notizia della sua scomparsa la dottoressa Michela Sessa, Segretaria della Società salernitana di Storia Patria suscitando tristezza sgomento e Cordoglio nel mondo accademico e intellettuale salernitano.
Stefano Pignataro
#FILOLOGIA
E
#STORIA.
#PILATO
(#Ecce Homo gr.: «idou ho #anthropos»),
#SAN PAOLO
(1Cor. 11, 3: "di ogni #uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’#uomo [gr. ἀνήρ]"),
#GIUSEPPEFLAVIO
("Egli era il #Cristo")
IL TEMPO E LE IDEE
La Costituzione non resti sulla carta
Il paragone tra il fascismo mussoliniano e il nazionalismo sovranista di Salvini è certamente, dal punto di vista storico e politico, improprio, ma i presidi democratici hanno bisogno mai come oggi di "guardiani", alla luce dell’attacco costante, in nome di una insistita e rozza idea di sicurezza, del ministro degli Interni
di Giuseppe Cacciatore (Salerno-Sera, 14 Maggio 2019)
Continuo a pensare che il paragone tra il fascismo mussoliniano e il nazionalismo sovranista di Salvini sia, dal punto di vista storico e politico, improprio. Su che cosa baso questa mia convinzione? Sul fatto che, malgrado i tentativi, alcuni dei quali fortunatamente non riusciti, di deturpare o radicalmente modificare i pilastri fondamentali della nostra Costituzione, questa rimane, insieme al Presidente della Repubblica, alla Corte Costituzionale, al Consiglio Superiore della Magistratura, ad una forte ed autonoma presenza dei sindacati confederali e a un sempre più crescente movimento di opinione pubblica e di autonomi movimenti di protesta contro le organizzazioni neofasciste e i partiti che ne favoriscono e proteggono le attività, una ancora solida barriera protettiva per la nostra democrazia. Non sfugge però una preoccupazione.
Fin quando reggerà questa opposizione democratica e civile e fin quando sarà possibile resistere a una cancellazione, fatta pezzo dopo pezzo, del nostro ordinamento democratico-costituzionale? Faccio solo qualche esempio: la riforma elettorale (di gran lunga peggiore della legge Acerbo che consegnò il Parlamento al partito di Mussolini) voluta fortemente dal PD e da Renzi e che ha consegnato come effetto boomerang la maggioranza ai partiti populisti e sovranisti; la legge Minniti che elimina dall’iter processuale contro i migranti il secondo grado di giudizio; la riforma della cosiddetta autonomia differenziata delle Regioni che è in aperta violazione degli articoli della Costituzione che garantiscono l’unità nazionale e la paritaria utilizzazione delle entrate fiscali. E adesso arriva il cosiddetto decreto sicurezza bis, che Salvini minaccia di portare subito all’approvazione del Consiglio dei ministri, malgrado l’opposizione dei grillini e le perplessità di Conte. Altre forzature e attacchi al principio di legalità da parte del ministro Salvini con l’annunciato nuovo decreto sicurezza
Basta dare un rapido sguardo ai contenuti del decreto per capire che si tratta di un attacco inaudito, incostituzionale e persino in netta collisione con le norme del codice penale. La solidarietà verso i migranti e le loro drammatiche peripezie diventa reato punibile con la somma che va dai 3.500 ai 5.500 euro per ogni essere umano che abbia trovato accoglienza e rifugio sulle navi alle quali, se italiane, verrà sospesa o revocata la licenza. Il decreto, con atto tipico di prepotenza dittatoriale, toglie al Ministero dei Trasporti la competenza sulla limitazione o sulla chiusura delle acque territoriali a tutte le navi che hanno migranti a bordo. E non è finita: vengono trasferite alle Direzioni distrettuali antimafia le competenze sulle inchieste per associazione a delinquere e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Vi è poi l’aspetto ancora più inquietante: l’abolizione delle attenuanti per chiunque si opponga a un pubblico ufficiale e si introducono pene più pesanti per chi commette reati di resistenza e oltraggio alle cosiddette forze dell’ordine. Guai poi a chi si illude che possano ancora svolgersi manifestazioni e cortei, giacché si prevedono condanne sino a 4 anni non solo per i violenti saccheggiatori di macchine e vetrine (com’è giusto che sia) ma anche per quelli che si oppongono alla polizia con oggetti di protezione passiva. Mi pare del tutto evidente che la manovra del ministro degli interni sia tutta volta ad accrescere il consenso elettorale in vista del voto europeo e in previsione di una più che probabile crisi di governo all’indomani delle elezioni. Ho detto all’inizio che il paragone col fascismo è storicamente improprio e ne ho spiegato la ragione primaria: l’esistenza di una carta costituzionale democratica e garantista verso i deboli, gli esuli, gli immigrati, i senza lavoro.
Ma la Costituzione non può restare sulla carta o come libro sul quale ritualmente si giura nei tribunali. Essa ha bisogno di guardiani: dalle supreme cariche dello Stato alle forze politiche sinceramente democratiche, dalle organizzazioni dei lavoratori ai movimenti studenteschi, dalle donne in lotta contro la violenza ai movimenti in difesa dell’ambiente, da tutti coloro, infine, che non hanno dimenticato cosa sia il valore della solidarietà umana. Il fascismo vinse con la violenza omicida e la sopraffazione, ma anche grazie alla complicità di un re fellone che doveva essere il garante dello Statuto e alla debolezza dei partiti democratici e socialisti, intenti più a litigare tra loro che a trovare la forza e l’unità di opporsi alle camicie nere.
DELLA TERRA, IL BRILLANTE COLORE. Due note ...
A)
L’opera s’inquadra in una antropologia filosofica, che ritiene urgente riproporre la domanda capitale “che cos’è l’uomo?”, a partire da un complesso di filologiche e dotte Note sul "poema " di un ignoto Parmenide carmelitano ritrovato a Contursi Terme, Salerno, nel 1989. Siamo nei luoghi dove la metafisica è nata, con la sua primazia dell’Essere e dell’Uno, nei luoghi degli enigmi parmenidei e della loro sapienza unilaterale; e qui in particolare nella cappella dedicata alle dodici Sibille, che il frate carmelitano del primo Seicento accosta, nel suo poema pittorico, all’alleanza di Dio Padre con la Figlia, Maria mediatrice di nuovo pensiero profetico per l’uomo nuovo, ma ribadendo, nell’assetto figurale, una volta di più l’esclusione della Donna dalla creazione, dal sacro e dal Pensiero che è solo Padre, e onnipotente Maschio-Padrone.
Da questo viluppo di grecità e cristianesimo l’autore riesamina globalmente nel suo excursus filosofico, che solca anche l’eclettismo ermetico- cabalistico-neoplatonico rinascimentale, le radici del pensiero moderno ritrovando fin nell’uomo del presente quella mutilazione della comunione complessa e assolutamente originaria Uomo-Donna. Padre-Madre, che ha mutilato il pensiero e l’esperienza dell’uomo stesso, che storicamente non ha potuto costruirsi e gioire di ciò che veramente è : un Terzo cui ha dato nascita un Due, un Padre e una Madre e un Figlio, generatore a sua volta in armonia circolare di nuova storia debitrice pariteticamente sia alla Madre che al Padre.
Occorre, di conseguenza, nel pensare, oltre che in ogni esperienza vitale, compiere un salto : quel salto che, accantonando grecità esclusiva e cattolicità esclusiva, e traendo l’uomo dal suo stato di minorità, permetta di riconoscere la filosofia (e le religioni) come maschile e femminile, patema e materna, e così la terra come l’armonia movente e commovente che congiunge le donne e gli uomini e i figli e le figlie.
R. G.
"BIBLIOGRAPHY OF PHILOSOPHY" (Vol. 44 Fase. 1 p. 14, PARIS 01/03-1997).
B)
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
E. C.
MEMORIA, STORIA, E FILOLOGIA. Per un rinascimento senza toga...*
* SUL TEMA, CFR.: IL "PADRE NOSTRO" E IL "CRISTO RE": IL REGNO DI DIO-MAMMONA ("CARITAS") O DI DIO-AMORE ("CHARITAS")!?
Federico La Sala
CRISTO ED EDIPO: LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Un omaggio al lavoro del prof. Romeo De Maio e del prof. Giuseppe Cacciatore...
Recensioni editoriali
Enigma per due: si dice Sfinge, si pensa a Cristo *
È molto presente e non se ne fa accorgere. Sta nelle cattedrali, sui frontespizi degli edifici delle istituzioni, nei dipinti e nelle sculture, nelle illustrazioni dei codici, della Bibbia, nei poemi, nell’inafferrabilità delle migliori musiche. È la Sfinge, questo essere che noi umani chiamiamo mostruoso perché ha artigli al posto delle mani e lo sguardo non sfuggente. Ti guarda, lei, trapassandoti in un attimo, ti consegna al mistero, ai suoi abissi che si fanno domanda, e probabilmente fu proprio quell’attimo che, dieci anni fa, colse lo storico Romeo De Maio nella cattedrale di Bari quando, per la prima volta, si accorse della Sfinge rappresentata sulla finestra absidale del Duomo. C’era stato molte volte, lì, non l’aveva scorta mai. Dietro di lei, raffigurata sopra un carro, i simboli dell’eucarestia. Fu una folgore. Che cosa univa il pagano al sacro? E perché?
Cominciò in quel momento, per lui, “un’esperienza molto simile al poeta Theodor Däubler, che andò in Egitto per la Sfinge e le trovò Cristo accanto”. I risultati di quell’esperienza sono il libro “Cristo e la Sfinge - la storia di un enigma” (Mondadori, 350 pagine), in libreria. Negli ultimi dieci anni De Maio è andato in giro per il mondo (occidentale soprattutto) alla ricerca delle testimonianze che affiancano la Sfinge al Cristianesimo.
Perché? ” Il motivo fu l’impressionante creazione-incisione di Nicolas Poussin, pittore francese dimorato a Roma, per la copia della Bibbia destinata al re di Francia, nel 1642. Il pittore la intitolò “Chiesa e Sinagoga”, e raffigura il Dio Padre che benedice il Vecchio e il Nuovo Testamento. Sulla Bibbia tenuta in mano dal Vecchio c’è, distesa, una Sfinge che guarda da tutt’altro lato, verso est, dove sorge il sole”.
È solo un esempio dei migliaia ritrovati dall’autore. Testimonianze che non si riferiscono all’ufficialità dei documenti nel senso di rogiti, nel senso di carte bollate, nel senso di trattati con le firme apposte in calce. È questo uno dei rari casi in cui si elevano a documento storico, e dunque attendibili come una data con sopra il timbro dell’ufficialità, le espressioni degli artisti. Pittori, scultori, architetti, poeti. Teologi. Musicisti. Dicono la Storia, i suoi limiti, le sue possibilità. Le fanno i connotati.
Donatello, Bernini, Michelangelo, Klimt, De Chirico, Purcell, Giovanbattista Marino, Oscar Wilde, Mantegna, Stravinskij, Kirker, Pico della Mirandola, Cocteau, Mozart, l’abate Kirker, Flaubert. “L’artista - dice De Maio - ha la visione, l’intuizione al pari del Vate. Queste sono indispensabili, fondamentali per la conoscenza. Io ho sottoposto le creazioni artistiche alle regole della filologia e al rispetto dell’esperienza mistica”. In loro la Sfinge non è mai elemento ornamentale. Sia essa alla base di un trono gestatorio, sia riferimento poetico, sia nella scenografia di una rappresentazione teatrale. Così le madonne vegliate dalla Sfinge, da essa protette, i volti spesso uguali: i rimandi poetici, le allusioni cromatiche, la disposizione degli elementi. “Quando gli artisti la dipingono, anche su commissione papale, è per far aprire gli occhi agli ecclesiastici. Per svolgere un mistero, avviare una conoscenza non dogmatica”.
Più di tremila testimonianze ha trovato De Maio, ignorate dalla Chiesa in questi tremila anni. Come dire: volutamente non considerate. Perché è pericoloso ammettere quelle che oggi il linguaggio contemporaneo definirebbe contaminazioni. Perché il Potere Temporale, la sua Legge, non ammette altro Dio. Come avrebbe mai potuto accettare la presenza, accanto al figlio del Padre, accanto alla Madre del Figlio, lo sguardo misterioso e definitivo del simbolo pagano per eccellenza, che ha ispirato il mito tra i più antichi dell’uomo ed esplorati dalla psicanalisi nel secolo appena trascorso, con Freud che ha posto Edipo, e la profezia che a lui fece la Sfinge, tra noi e la vita che conduciamo?
De Maio considera “rivoluzionario” questo lavoro, questo lavoro, il suo “testamento anticipato. Lo avrei potuto anche intitolare “Cristo prima del Cristianesimo”. La Sfinge ci porta verso l’aspetto mistico dell’uomo, di Cristo; aspetto non considerato dal Potere Istituzionale Ecclesiastico nella sua nuda verità”. È un nuovo senso, una nuova possibilità vista da altro punto di vista. Una visione allargata e non ristretta. Senza inquisizioni. Che si apre alla domanda. Basta questa, vuole dirci De Maio, per avere la risposta.
* Fonte: Esonet.org, 14.05.2010
* SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
IL PROBLEMA MOSE’ E LA BANALITA’ DEL MALE: FREUD NELLA SCIA DI KANT (MA NON DEL TUTTO).
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
La storia
Bisanzio brucia nella crociata dimenticata
Nel 1204, due secoli prima di cadere in mano turca, Costantinopoli fu presa dai “fratelli” latini. Parte del suo patrimonio di arte e cultura passò a Venezia. Ora nuovi studi ricostruiscono quell’episodio drammatico
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 17.03.2018)
Il 13 aprile 1204, in una fredda giornata di primavera, una colonna di profughi dall’aspetto di fantasmi si incamminò fuori dalla grande città di Costantinopoli. Era “gente vestita di stracci, emaciata dal digiuno, trascolorata, cadaverica, con gli occhi così rossi che parevano colare sangue anziché lacrime”.
Erano stati torturati, depredati delle loro case e dei loro beni, avevano visto rapite le loro mogli, violentate le loro figlie. Non erano stati i turchi a compiere quello scempio, come sarebbe accaduto due secoli e mezzo dopo, nel 1453.
Erano stati i crociati occidentali. E non era contro gli infedeli che lo avevano portato, ma contro i loro correligionari, i bizantini.
La ferocia di quella singolare guerra santa ebbe tra i suoi testimoni oculari il più acuto, spregiudicato e disincantato degli osservatori politici dello Stato più prospero del medioevo: lo storico Niceta Coniata, massimo intellettuale della sua generazione, segretario del basileus fino a poco prima in trono ma anche suo indomabile critico, pensatore indipendente e non certo corifeo del potere, della cui opera è ora stata completata dalla Fondazione Lorenzo Valla l’edizione italiana (Grandezza e catastrofe di Bisanzio - Narrazione cronologica, traduzione di A. e F. Pontani, testo greco a cura di J.-L. van Dieten, introduzione di G. Cavallo, Fondazione Valla Mondadori, tre volumi).
Come ha scritto Steven Runciman, le crociate furono “le ultime invasioni barbariche”. I “barbari”, nelle frasi di Niceta, non sono gli islamici, che anzi i bizantini difesero strenuamente quando fu attaccata la locale moschea, ma quell’“accozzaglia di stirpi oscure e disperse” che erano gli eserciti latini, quei “precursori dell’Anticristo” che “portavano la croce cucita sulle spalle” e che in quei giorni di aprile del 1204 avevano devastato la culla stessa dell’impero romano cristiano, la città che ne custodiva da nove secoli l’identità religiosa oltre che l’eredità artistica, culturale, bibliografica così come la vocazione politica: un modello di Stato multietnico, meritocratico e sostanzialmente egualitario, dotato di una struttura diplomatica rivolta, come l’aquila bicipite, tanto a oriente quanto a occidente.
I profughi che si incamminavano “come una colonia di formiche” stanata dal fuoco avevano assistito al “più grande saccheggio della storia del mondo”, come lo definì lo stesso cronista francese Goffredo di Villehardouin che vi aveva partecipato al seguito di Bonifacio di Monferrato. Le atrocità perpetrate dai cavalieri della quarta crociata sono testimoniate non solo dagli storici bizantini ma anche dai cronisti occidentali, nonché dal papa che l’aveva indetta, Innocenzo III, inorridito nel suo epistolario.
La Città traboccava di capolavori d’arte e di inestimabili libri. Ma ad attrarre gli incolti latini era il fatto che, secondo i loro calcoli, contenesse i due terzi delle ricchezze del mondo conosciuto. Portarono “abominio e desolazione” nel Sacro Palazzo del Boukoleon, coprirono di sterco i marmi policromi della Grande Chiesa di Santa Sofia. Si precipitavano furiosi e urlanti per le strade distruggendo ogni cosa non apparisse trasportabile, fermandosi solo per trucidare gli abitanti e per spalancare le cantine e dissetarsi con il loro vino. Non risparmiarono monasteri, né chiese, né antichi monumenti, lasciarono bruciare gli archivi e le biblioteche. Una parte dei classici greci oggi perduti sarebbe arrivata fino a noi, non fosse stato per quella vandalica insipienza. Nel viaggio degli antichi testi la presa di Costantinopoli del 1204 segnò un naufragio paragonabile all’incendio della biblioteca di Alessandria.
Ciò che i veneziani non portarono a casa i francesi distrussero. I cavalli di bronzo dorato dell’Ippodromo sono oggi noti come Cavalli di San Marco, altre inestimabili opere d’arte formano il ricco bottino oggi conosciuto come Tesoro di San Marco. Ma le altre antiche statue bronzee dell’Ippodromo e quelle del Foro di Costantino furono fatte a pezzi e fuse. Nella stessa Santa Sofia si potevano vedere soldati ubriachi saccheggiare le reliquie, strappare i paramenti, svellere le suppellettili, calpestare i libri sacri e le icone, dilaniare gli arazzi.
L’orrore continuò per giorni, finché la capitale dell’ortodossia fu ridotta, scrivono i testimoni, a un macello. Perfino i saraceni, annotò Niceta, sarebbero stati più misericordiosi: “Dalla gente latina, ora come allora, Cristo è stato di nuovo spogliato e deriso, e le sue vesti sono state spartite, e il fiume del Sangue Divino ha di nuovo inondato la terra”, lamenta alla fine della sua opera.
La presa latina di Costantinopoli del 1204 è l’esempio più notevole di quella cruda verità economica delle crociate di cui, al di là dell’ideologia o della retorica confessionale, un libro dello storico oxfordiano Christopher Tyerman, in uscita in traduzione italiana, spiega in dettaglio mentalità, pragmatismo, finalità materiale e obiettivi strategici (C. Tyerman, Come organizzare una crociata, Utet). Si parla di “deviazione” della Quarta Crociata, quasi fosse stata un’idea repentina e non un preciso piano di conquista, già prospettato da Federico Barbarossa e da Enrico VI. Ben prima di entrare a Costantinopoli gli alleati avevano minuziosamente discusso e patteggiato tra loro, e soprattutto con Venezia, la spartizione dell’impero che avrebbero sostituito a quello bizantino, istituendo anche una gerarchia ecclesiastica cattolica al posto di quella ortodossa e insediando sul soglio patriarcale un veneziano.
L’alleanza della Realpolitik dei papi di Roma con l’Europa dei traffici, del protocapitalismo delle repubbliche mercantili, portò, con il successivo aiuto dei turchi, alla distruzione di una realtà politica che aveva garantito per secoli benessere e pace governando i conflitti fra le diverse etnie in un immenso territorio unificato dalla lingua greca, dalla religione cristiana, dal diritto romano, dominato da un formidabile sistema di pubblica istruzione e di cooptazione nelle burocrazie che assicurava il dinamismo delle élite e il loro costante ricambio sociale.
Per cinque giorni Niceta, la moglie incinta e il loro gruppo di amici dell’intelligencija costantinopolitana rimasero nascosti. Poi anche loro dovettero sfollare strisciando per i vicoli, i bambini piccoli in spalla, il viso delle ragazze mimetizzato col fango, in direzione della Porta d’Oro. Appena superate le sue torri, Niceta si gettò a terra e inveì contro le grandi mura di Teodosio: perché si reggevano ancora dritte in piedi? non vedevano che la civiltà che custodivano era finita? Poi, “gettando lacrime come semi” lungo la loro strada, si incamminarono per ricongiungersi al resto degli esuli e al governo in esilio insediato a Nicea, in Asia Minore.
Ma quella che Niceta, partito da Costantinopoli con in mano solo il suo manoscritto, pianse come un’irrimediabile fine si rivelò un inizio. Per più di cinquant’anni l’impero di Nicea coltivò non solo la resistenza politica ma anche quella culturale, ricreando un sistema scolastico e universitario, proseguendo la produzione libraria. Quegli intellettuali avevano imparato una lezione: i barbari esistevano. Non erano i popoli che si diceva avessero fatto cadere l’impero romano d’occidente, diversamente da quello d’oriente, che era stato invece capace di assimilarli e accoglierli nella sua classe dirigente.
Erano i figli del feudalesimo, che il sistema statale di Bisanzio aveva sempre combattuto, e di quel “satanico spirito del commercio”, per citare Baudelaire, da sempre incompatibile con la mentalità bizantina, dove la diffidenza dei cittadini verso il mercato e il rifiuto delle premesse etiche della mercatura espresso dagli intellettuali si univa alla condanna teologica del profitto e del lucro.
Anche dopo la riconquista del 1261 e l’insediamento della nuova dinastia dei Paleologhi, la guerra tra banchieri - genovesi e veneziani - continuerà a devastare economicamente e militarmente Bisanzio, a scarnificare quell’istmo culturale e strategico tra oriente e occidente. Ma per quanto cieche possano essere le strategie finanziarie e belliche, gli intellettuali possono sempre, discretamente, mobilitarsi.
Sempre di più si affermerà, tra i protagonisti della cosiddetta rinascenza paleologa, la coscienza dell’insopprimibilità di un’arma incruenta: la cultura. Il duello dei governanti, il risentimento delle masse, lo scontro delle chiese saranno trascesi da una simmetrica e inversa, silenziosa e superiore solidarietà tra umanisti orientali e occidentali. Sarà l’inizio di quella sempre più fitta circolazione di maestri e libri, liberamente scambiati dall’internazionale dei dotti, che darà vita a ciò che chiamiamo “il” rinascimento.
L’antica cultura oltraggiata dai crociati conquisterà la loro stessa patria, la loro stessa curia, la stessa repubblica di Venezia, dove sorgerà, per volere di un umanista bizantino, Bessarione, la prima biblioteca pubblica della storia occidentale moderna. Da Bisanzio verranno e si metteranno all’opera, alacri, i copisti. Nascerà la stampa e non uno ma dieci, cento, mille libri sorgeranno sulle ceneri di quelli distrutti, insieme alle vite dei loro possessori, nella primavera del 1204.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
PER "LA PACE DELLA FEDE" (Niccolò Cusano, 1453), UN NUOVO CONCILIO DI NICEA (2025)
ERMETISMO ED ECUMENISMO RINASCIMENTALE, OGGI: INCONTRO DI PAPA FRANCESCO E BARTOLOMEO I A ISTANBUL. Un’intervista a John Chryssavgis di Chiara Santomiero
Federico La Sala
"GUERCINO A PIACENZA". Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 ...
Il ’600 di Guercino tra Sacro e Profano
Dal 4/3 a Piacenza si visiteranno anche affreschi cupola Duomo
di Nicoletta Castagni *
PIACENZA - Una mostra dei suoi capolavori a Palazzo Farnese e la possibilità di poter ammirare da vicino, per la prima volta, il ciclo di affreschi della cupola della Cattedrale: dal 4 marzo Piacenza celebra Giovanni Francesco Barbieri, detto il Guercino, e il suo sublime ’600, di cui, tra immagini sacre e raffigurazioni profane, il pittore di Cento fu uno degli indiscussi protagonisti. Fino al 4 giugno, la rassegna presenterà infatti una ventina di opere tra oli e disegni, mentre una serie d’iniziative di grande suggestione e rilevanza storico-artistica accompagneranno l’ascesa all’interno della cupola decorata dal maestro emiliano con le storie dall’Antico e Nuovo Testamento.
Intitolato ’Guercino a Piacenza’, il progetto espositivo è stato promosso dalla Fondazione Piacenza e Vigevano, dalla Diocesi di Piacenza-Bobbio e dal comune di Piacenza, con il patrocinio della Regione Emilia Romagna, del Mibact e col contributo della Camera di Commercio di Piacenza, Apt Servizi Regione Emilia Romagna, Iren (main sponsor Credit Agricole Cariparma). Fulcro di tutta la manifestazione sarà ovviamente la Cattedrale, con lo straordinario ciclo di affreschi realizzato da Guercino tra il 1626 e il 1627 e che si presenterà in tutta la sua bellezza grazie alla nuova illuminazione realizzata da Davide Groppi.
Tra i vertici assoluti della sua arte, le pitture della cupola sono suddivise in sei scomparti raffiguranti le immagini dei profeti Aggeo, Osea, Zaccaria, Ezechiele, Michea, Geremia. Nelle le lunette ecco dunque alcuni episodi dell’infanzia di Gesù (Annuncio ai Pastori, Adorazione dei pastori, Presentazione al Tempio e Fuga in Egitto) che si alternano alle immagini di otto Sibille e il fregio del tamburo.
Chiamato per primo a dipingere i Profeti nella volta della Cattedrale, fu nel 1625 Pier Francesco Mazzucchelli detto il Morazzone, che ne realizzò due, Davide e Isaia, ma morì appena ultimati i primi due spicchi, notevoli per cromia e impianto. Quindi, nel 1626 gli subentrò il Guercino, che completò entro l’anno successivo gli altri sei scomparti della cupola e le lunette.
Per preparare all’ascesa della cupola, il visitatore sarà invitato, come prima tappa del percorso espositivo, all’interno delle sagrestie superiori della Cattedrale, dove verrà allestita una sala multimediale circolare che conterrà un grande videowall di oltre 10 m di lunghezza.
Il filmato di impatto spettacolare, condurrà virtualmente nella storia, al momento in cui il Vescovo Linati invita Guercino a Piacenza per decorare la cupola secondo i canoni imposti dal Concilio. Grazie all’impiego delle più attuali tecnologie, a una base scientifica che poggia su documenti d’archivio e disegni preparatori, alle foto ad altissima risoluzione del ciclo pittorico, lo spettatore potrà comprendere i tempi, le tecniche di lavorazione e le difficoltà riscontrate nella realizzazione di quello che la critica ha definito uno dei maggiori capolavori del maestro di Cento.
Sempre dal 4 marzo, la Cappella ducale di Palazzo Farnese ospiterà la bella mostra curata da Daniele Benati e Antonella Gigli, che insieme (e con il supporto di un comitato scientifico composto da Antonio Paolucci, Fausto Gozzi e David Stone) hanno selezionato 20 capolavori del Guercino, capaci di restituire la lunga parabola creativa che lo ha portato a divenire uno degli artisti del ’600 italiano più amati a livello internazionale. I dipinti scelti, infatti, testimonieranno la ’poetica degli affetti’ con cui il pittore, lungo l’arco cronologico della sua operosa attività artistica, ha realizzato sia i temi sacri sia quelli profani.
Tra i capolavori esposti ci saranno in prevalenza pale d’altare, ma non mancheranno i quadri ’da stanza’ a soggetto profano, in modo da scoprire il vero volto di Guercino e apprezzarne la straordinaria qualità e le prerogative messe a punto prima e dopo la grande impresa della volta piacentina. Il percorso espositivo illustrerà quindi le prime esperienze pittoriche a Cento, paese natale, svolte nel segno di una romantica adesione al linguaggio di Ludovico Carracci e indagherà la sua maturazione artistica avvenuta durante i lunghi soggiorni a Bologna e quindi a Roma. Fino ad arrivare all’ultima fase, quando, pur rimanendo inconfondibile, il suo linguaggio si apre a nuove sollecitazioni di tipo classicheggiante, incontrando il favore dei più illustri committenti.
PERUGINO E FRANCESCO MATURANZIO. NOTE SUL "COLLEGIO DEL CAMBIO" DI PERUGIA:
Collegio del Cambio
Decorazione della Sala dell’Udienza
Eroi, saggi, profeti e sibille: l’impresa decorativa del Collegio del Cambio *
Il collegio del Cambio è la sede dell’arte dei cambiavalute di Perugia. Il 26 gennaio 1496 l’assemblea dei soci si riunì per discutere quale aspetto dare alla sala maggiore, se dovesse essere decorata dappertutto o in parte e se l’eventuale incarico dovesse essere affidato a Pietro Perugino, allora presente in città, o a qualche altro pittore.
All’unanimità fu presa la decisione di far comunque decorare la sala dell’Udienza, con dipinti o in qualsiasi altro modo, purché l’opera riuscisse bellissima, e fu nominata una commissione che provvedesse a fissare le caratteristiche dei lavori da eseguire, scegliesse il pittore e lo pagasse direttamente. Il primo progetto prevedeva la collocazione di una tavola dipinta in mezzo agli arredi lignei già eseguiti, come nella sede del collegio dei Notai, per la cui fattura il 25 febbraio 1498 furono pagati 5 fiorini ad un falegname locale, ma ben presto maturò la decisione di ricoprire interamente le pareti della sala con una decorazione ad affresco, su consiglio dell’umanista perugino Francesco Maturanzio.
Nel febbraio 1499 sono registrati i primi pagamenti a Pietro Perugino, che vi lavorò con continuità per tutto il corso dell’anno, conducendo a termine l’opera nell’anno 1500, data segnata sulla parasta centrale di destra.
Nel pilastro opposto Perugino dipinse il proprio autoritratto, accompagnato da un’iscrizione laudativa:
“PETRUS PERUSINUS EGREGIUS / PICTOR / PERDITA SI FUERAT PINGENDI / HIC RETTULIT ARTEM / SI NUSQUAM INVENTA EST / HACTENUS IPSE DEDIT”.
Pietro perugino, pittore insigne. Se era stata smarrita l’arte della pittura, egli la ritrovò. Se non era ancora stata inventata egli la portò fino a questo punto"
Il programma iconografico delle pareti è ispirato al trionfo delle Virtù, additate a modello da Catone l’Uticense: le quattro Virtù Cardinali - Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza - incarnate da figure esemplari tratte dalla storia greca e romana, e le tre Virtù Teologali - Fede, Carità, Speranza - rappresentate dalla Trasfigurazione di Cristo, dalla Natività e da Profeti e Sibille. Sulla volta è raffigurato il trionfo dei Pianeti, allusivi alla fortuna. Questi affreschi sono il capolavoro della pittura umanistica italiana, superato soltanto dalla decorazione delle Stanze Vaticane di Raffaello.
* A cura di Vittoria Garibaldi e Francesco Federico Mancini (http://www.perugino.it/canale.asp?id=288)
Spunti di riflessione dagli affreschi ritrovati
Nella chiesa di Santa Maria del Carmine a Contursi, la presentazione del volume di Federico La Sala
di GIUSEPPE CACCIATORE ("La Città di Salerno", 12.08.2013)
Il “luogo d’inizio” di questo libro di Federico La Sala (filosofo originario di Contursi e docente per oltre un ventennio in un liceo milanese) è la piccola chiesa di Santa Maria del Carmine a Contursi. Qui sono stati riportati alla luce alcuni affreschi che raffigurano le sibille, profetesse annuncianti, già in era pagana, l’avvento del Cristo. È da questo spunto che s’origina e si articola il discorso antropologico, storico-religioso e filosofico di La Sala.
Sullo stile di pensiero e di scrittura (filosofica innanzitutto, ma anche storica, artistica, estetica) di Federico La Sala ha detto in maniera efficace Fulvio Papi, nella sua breve e intensa prefazione. Parto da essa perché, con sagace intuizione, Papi coglie un aspetto, solo apparentemente didascalico-espositivo, che pone il lavoro di La Sala in una benefica distanza dalle scritture teoretico-essenziali, capaci di riscrivere le grandi filosofie di Platone e Aristotele, di Ficino e Bruno, di Vico e di Kant, di Hegel e di Nietzsche, e così via elencando, senza mai citare un testo e men che mai un riferimento alla letteratura critica. Così, l’apparente sovrabbondanza di citazioni ed eserghi ha solo lo scopo, è ancora Papi a scriverlo, di ricercare la “risonanza” della parola che il lettore si dispone ad accogliere, sfuggendo così al “sospetto” suscitato dalle “architetture filosofiche” fin troppo impegnate a rappresentare concettualmente “qualsiasi forma dell’essere”.
Il ritrovamento del vero e proprio “poema pittorico” degli inizi del secolo XVII, scoperto durante i lavori di restauro della chiesa di Santa Maria del Carmine, induce La Sala a mettere in pratica un difficile e tuttavia interessante esercizio di analisi compiuta a più livelli: storico-artistico, letterario, filosofico, teologico, allegorico-simbolico.
Il livello storico-filosofico e poi anche teologico - accompagnato, tra le altre citazioni a mo’ di esergo, da una lunga e profetica pagina di Eugenio Garin sull’onda lunga della cultura del Rinascimento e della sintesi platonico-cristiana riversatasi sui secoli successivi - interpreta la narrazione figurativa (le 12 sibille pagane e i profeti ebraici Elia e Giovanni Battista) come trascrizione di un viaggio iniziatico ed ermetico che conduce il pellegrino ideale da Maria madre del Cristo al figlio che accede al regno dei cieli.
La filosofia si annuncia a partire dai frammenti dell’opera parmenidea, là dove il viaggio-guida dell’uomo è tracciato dalle dee-fanciulle che indicano la via. Sono le “figlie del sole” che, lasciate le “case della notte” spingono “il carro verso la luce” fino ad arrivare alla porta che divide i sentieri della notte e del giorno. Oltre la porta la dea indicherà al viandante le vie della ricerca tra le quali dovrà scegliere: quella dell’essere, il sentiero della persuasione, e quella del non-essere, cioè della indicibilità e inesprimibilità.
2013, nov 27 *
Della terra, il brillante colore
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
*
Della terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica
di Federico La Sala,
Edizioni Nuove Scritture, Milano, 2013
156 p., 15€
RAFFAELLO A MILANO. LA "MADONNA DI FOLIGNO" A PALAZZO MARINO
Note per decifrare il significato del quadro:
Commissionata nel 1511 dal segretario papale Sigismondo de’ Conti per la chiesa dell’Aracoeli la pala raffigura la visione della Vergine che Augusto ebbe il giorno della nascita di Cristo ... La chiave per comprendere l’apparizione si trova nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze (cfr. Carlo Carminati, L’enigma del fulmine, Il Sole-24 0re, 08.12.2013, p. 37)
Nella sua Legenda Aurea, Jacopo da Varagine [Varazze] così scrive: "Narra papa Innocenzo III che il senato voleva adorare come un dio Ottaviano per aver riunito e pacificato tutto il mondo; ma il prudente imperatore non volle usurpare il nome di immortale poiché ben sapeva di essere come uomo, mortale. Insistevano i senatori nel loro proposito onde Ottaviano interrogò la Sibilla per sapere se mai sarebbe nato nel mondo qualcuno più grande di lui.
Era il giorno della Natività di Cristo e la Sibilla si trovava in una stanza, sola con l’imperatore: ed ecco apparire un cerchio d’oro attorno al sole e in questo cerchio una vergine bellissima con un fanciullo in grembo. La Sibilla mostrò questo portento all’imperatore: mentre costui teneva gli occhi fissi alla visione sentì una voce che diceva: - Questa è l’ara del cielo! -. Esclamò allora la Sibilla: - Questo fanciullo è più grande di te; adoralo -.
La stanza dove avvenne tale fatto è stata poi consacrata alla Madonna ed ora si chiama Santa Maria Ara Coeli.
Timoteo ci dice di aver trovato negli antichi libri romani lo stesso fatto raccontato in modo diverso: dopo trentacinque anni di regno, Ottaviano salì in Campidoglio e chiese agli dei chi avrebbe retto l’impero dopo di lui. Udì in risposta queste parole: - Un fanciullo celeste, figlio del Dio vivente, nato da una vergine immacolata -. Ottaviano fece allora costruire un altare e vi fece scolpire queste parole: - Questo è l’altare del figlio del Dio vivente - (...)" (Jacopo da Varagine, Legenda Aurea, Libreria Editrice Fiorentina, p. 52 s.)
SIBILLA TIBURTINA *
[...] Nella seconda metà del IV secolo apparve dunque in oriente una profezia sibillina ambientata a Roma, che ha avuto ampia diffusione anche in occidente, dove è stata tradotta in latino e dove, lungo i secoli, è stata oggetto di varie riscritture. Più di un centinaio sono i manoscritti noti che ne conservano il testo, che fu ricopiato ininterrottamente dall’XI fino agli inizi del XVI secolo. Le maggiori versioni latine furono prodotte tra l’XI e il XII secolo.
Gli oracoli sibillini godettero dunque di grande diffusione nel Medioevo. Nella tradizione greca non si parla mai esplicitamente della Sibilla Tiburtina; tuttavia, come accennato, la veggente pronunzia il suo oracolo a Roma: la profetessa rivela ad Augusto l’avvento prossimo del figlio di Dio. Di questo celeberrimo racconto, sono note due differenti versioni, una diffusa in oriente e l’altra in occidente. Nella versione orientale, attestata nel VI secolo dal Chronicon di Giovanni Malalas, autrice della rivelazione non è una Sibilla, bensì la Pizia: è a lei, infatti che si sarebbe rivolto Augusto per conoscere il nome del proprio successore. La sacerdotessa di Apollo, simbolo di tutti gli oracoli pagani, ridotti al silenzio dall’avvento di Cristo, avrebbe detto all’imperatore di allontanarsi dagli altari, perché un fanciullo ebreo le imponeva ormai di tornarsene nell’Ade. L’imperatore avrebbe in seguito eretto un altare sul Campidoglio dedicato al figlio di Dio.
Il venerabile Beda (672 -735 d. C.), invece, attesta nella sua opera che tale oracolo fosse attribuito alla Sibilla Tiburtina e non alla Pizia.
A ricordo dell’ evento, per molti secoli, i francescani della Chiesa portavano in processione un’insegna della Sibilla che indicava un cerchio all’interno del quale era rappresentata la Vergine con il bambino in grembo. Tale rappresentazione sarà di grande uso nell’iconografia medievale come specificheremo in seguito. I francescani cantano tuttora tali versi: Stellato hic in circulo Sibyllae tunc oraculo, te vidit, Rex in coelo durante le feste di Natale.
La leggenda godette di enorme fortuna: ad essa si riferisce un sermone sulla Natività di papa Innocenzo III (1198-1216) . Nel XII secolo, nei Cronica imperatorum, la Sibilla Tiburtina figura sia come la profetessa della leggenda dell’Ara coeli, sia come l’interprete del sogno dei nove soli. Tra l’XI e il XII secolo, è attestata la confluenza, sulla figura di una Sibilla chiamata Tiburtina, di tre diverse tradizioni profetiche: il sogno dei nove soli, l’acrostico sul Giudizio Finale e la profezia della nascita di Cristo.
Beata ignoranza
I danni postumi di Gelmini: cancellata la Storia dell’arte
Nel Paese dei monumenti la materia sparisce dai programmi di molte scuole
di Tomaso Montanari (il Fatto, 13.12.2013)
Le colpe dei Padri ricadono sui figli, si sa. Così pagheremo per generazioni l’idea scellerata di affidare l’Istruzione (che una volta era) pubblica a un ministro come Mariastella Gelmini. Tra le eredità più pesanti di quel passaggio fatale si deve contare l’ulteriore estromissione della Storia dell’arte dalla formazione dei cittadini italiani del futuro.
NONOSTANTE la raccolta di oltre 15 mila firme, nonostante l’appoggio esplicito del ministro per i Beni culturali Massimo Bray, nonostante la disponibilità di quasi 2500 precari prontissimi a insegnarla, la ministra Maria Chiara Carrozza non è per ora riuscita a rimediare al grave errore di chi l’ha, purtroppo, preceduta.
Fortemente ridotta negli Istituti tecnici, la Storia dell’arte è stata del tutto cancellata in quelli Professionali: dove è possibile diplomarsi in Moda, Grafica e Turismo senza sapere chi sono Giotto, Leonardo o Michelangelo. E nei Licei artistici non si studierà più né il restauro né la catalogazione del nostro patrimonio artistico. Inoltre si chiudono tutte le sperimentazioni che rafforzavano l’esigua presenza della Storia dell’arte negli altri licei (compresi i classici, da sempre scandalosamente a digiuno di figurativo). Numeri alla mano, più della metà dei nostri ragazzi crescerà in un radicale analfabetismo artistico.
Non si tratta di una svista, né di un caso. È stata invece una scelta consapevole, generata dal disprezzo per le scienze umanistiche in generale e da una visione profondamente distorta del ruolo del patrimonio storico artistico del Paese: che non si salverà finché gli italiani non torneranno prima a saperlo leggere. Insomma, oggi non riusciamo a trovare qualche diecina di milioni per insegnare la Storia dell’arte: domani ne dovremo spendere centinaia o migliaia per riparare ai danni prodotti dall’ignoranza generale che stiamo producendo.
Perché un italiano dovrebbe essere felice di mantenere, con le sue sudate tasse, un patrimonio culturale che sente lontano, inaccessibile, superfluo come il lusso dei ricchi? È una domanda cruciale, e se davvero si vuol cambiare lo stato presente delle cose, è da qua che bisogna partire. Per la maggior parte degli italiani di oggi, il patrimonio è come un’immensa biblioteca stampata in un alfabeto ormai sconosciuto. E non si può amare, e dunque voler salvare, ciò che non si comprende, ciò che non si sente proprio. Per non parlare della nostra classe dirigente: la più figurativamente analfabeta dell’emisfero occidentale.
LO STORICO dell’arte francese André Chastel scrisse che al Louvre gli italiani si riconoscevano dal fatto che sapevano come guardare un quadro: e lo sapevano perché, a differenza dei francesi, lo studiavano a scuola. Ma proprio ora che i francesi provano ad adottare il nostro modello, noi lo gettiamo alle ortiche.
E se non ci pensa la scuola, è illusorio pensare che lo facciano altre agenzie (potenzialmente) educative. Nei media, nei programmi televisivi, nei libri per il grande pubblico non c’è posto per una Storia dell’arte che non sia il vaniloquio da ciarlatani sull’ennesima attribuzione farlocca, o sulle mostre di un eventificio commerciale che si rivolge a clienti lobotomizzati e non a cittadini in formazione permanente.
Educare al patrimonio vuol dire far viaggiare gli italiani alla scoperta del loro Paese, indurli a dialogare con le opere nei loro contesti, e non in quelle specie di tristi giardini zoologici a pagamento che sono quasi sempre le mostre. Renderli capaci di leggere il palinsesto straordinario di natura, arte e storia che i Padri hanno lasciato loro come il più prezioso dei doni. Perché non dirottare la gran parte dei soldi pubblici spesi per far mostre (in gran parte inutili, anzi dannose) in borse di viaggio attraverso l’Italia per studenti capaci e meritevoli, di ogni ordine e grado? Ma tutto questo non si può fare se manca quel minimo di alfabetizzazione che solo la scuola può dare. E che - paradossalmente - gli insegnanti eroici della scuola dell’infanzia e della scuola primaria offrono spesso molto bene, costituendo un patrimonio di conoscenze che viene poi totalmente dissipato alle superiori.
NEL 1941, nell’ora più nera della storia europea, il grande storico dell’arte Bernard Berenson seppe distillare pagine profondissime, e sconvolgentemente profetiche, sul destino della storia dell’arte. In quei mesi, egli intravide un mondo “retto da biologi ed economisti, come guardiani platonici, dai quali non verrebbe tollerata attività o vita alcuna che non collaborasse a un fine strettamente biologico ed economico”. Egli previde anche che “la fragilità della libertà e della cultura” avrebbe potuto aprire la strada a una società in cui ci sarebbe stato spazio per “ricreazione fisiologica sotto varie forme, ma di certo non per le arti umanistiche”. Meno di un secolo dopo ci stiamo arrivando: anche se la Gelmini, nemmeno un Berenson poteva prevederla.
La luce cristiana sul Tondo Doni
L’opera del 1504 anticipa la volta della Cappella Sistina
Anche qui Michelangelo racconta la storia della salvezza
di Arturo Carlo Quintavalle (Corriere della Sera, 04.09.2014)
È difficile vedere opere troppo note, quasi consumate dalla riproduzione dei media. Ma, per vedere serve informazione, servono dati, elementi sicuri su cui costruire un discorso. Certo, anche così, la strada non è facile e lo dimostra proprio l’analisi del Tondo Doni il cui significato è da scavare, strato dopo strato.
Il dipinto, che conserva la cornice originale, è stato realizzato per il matrimonio di Agnolo Doni e Maddalena Strozzi, 3 gennaio 1504 ma, e qui cominciano i problemi, potrebbe essere stato realizzato per la nascita della figlia nel 1507 (Natali).
Dunque come mai la forma tonda? Per via di una tradizione, quella dei «deschi da parto» che, coi cassoni nuziali, sono a Firenze tanto diffusi? No, il dipinto appare proporre un discorso molto più complesso e proprio la cornice, con in alto scolpito il Cristo e, sotto, due Profeti e due Sibille, sembra alludere a un più articolato racconto.
Vediamo lo stile, il modo del dipingere. Il blocco delle figure in primo piano, Madonna, Bambino, San Giuseppe, incombe sullo spettatore, quasi sporge dal filo della cornice; dietro, un paesaggio deserto e le rocce semicircolari su cui posano figure maschili e femminili nude; a destra, oltre un striscia netta come un segnale prospettico, il San Giovannino.
Due dipinti ora alla National Gallery di Londra, ambedue incompiuti, sono gli antecedenti di questo: la Madonna Manchester e il Trasporto di Cristo. Il primo pezzo, da confrontare con la Madonna di Bruges scolpita agli inizi del secolo XVI, mostra il dialogo con la scultura antica, fa capire che Michelangelo guarda sì a Luca Signorelli, quello che dipinge attorno al 1490 una forte Sacra Famiglia agli Uffizi, e guarda anche al Botticelli dagli anni 90, ma il dialogo con l’antico è il tema portante. Anche il Trasporto di Cristo , che si data attorno al 1501, mostra il corpo del Redentore riverso come un esangue Meleagro, e anche le due figure che lo reggono mostrano un’attenzione precisa per l’arte romana.
Torniamo al tondo degli Uffizi: prima di tutto colpisce la torsione delle figure che non può essere casuale, Cristo scende dall’alto, Giuseppe lo porge alla Madonna protesa, le figure unite dal gesto staccano dai personaggi di fondo.
Uno sguardo più attento ci fa capire che il blocco in primo piano è scorciato dal basso, le figure dietro hanno un punto di vista in asse, a mezza altezza: perché? Charles De Tolnay suggerisce il senso del dipinto: confronto fra le due età, quella del Vecchio Testamento, i nudi al fondo, e quella del Nuovo con le tre figure in primo piano e San Giovanni come mediatore fra le due età. Conforta questa tesi la cornice con Profeti e Sibille e, in alto, in asse sulla Sacra Famiglia, la testa del Cristo che, di per sé, suggerisce la rappresentazione di un meta-tempo: Cristo bambino che scende in terra e, proprio sopra, scolpito nella cornice, il Cristo adulto che sceglierà il sacrificio.
Michelangelo ha avuto un periodo di formazione, fino al 1492, sulle raccolte di antichità romane degli Orti Medicei, ma per lui è stata altrettanto importante la scultura di Donatello, come anche quella di Bartolomeo Bellano; significativa poi è stata anche l’attenzione alla pittura di Masaccio, a lungo disegnato alla cappella Brancacci, e la ricerca di Luca Signorelli, con quegli spazi vuoti, quei paesaggi senza storia, gli stessi che vediamo nel tondo Doni e negli altri dipinti.
La forma tonda ha un significato particolare per Michelangelo: è una premessa a questa composizione il Tondo Taddei, ora a Londra, incompiuto, datato attorno al 1502: ancora una volta un primo piano della Madonna di profilo, il blocco sporgente, il Bambino che evoca una scultura antica e, a sinistra, il San Giovannino.
Certo, Michelangelo evoca spesso lo stiacciato di Donatello ma le sue sculture hanno un significato simbolico più complesso, come la Madonna della Scala di Casa Buonarroti dove la scala rappresenta la salvezza e la prospettiva, ancora una volta, è diversa per la Madonna e Bambino e per la rampa vista di scorcio.
Un quadro è anche colore, ma qui siamo davanti a qualcosa di diverso dalla analitica moltiplicazione dei toni di Botticelli, di Ghirlandaio, o degli altri maestri contemporanei, salvo forse Pollaiolo; qui i colori sono il rossiccio delle carni affocate, l’azzurro del manto della Madonna, il giallo della luce che domina ovunque e il bruno; gli stessi colori che Michelangelo utilizzerà fra breve per la volta della Sistina e che sono probabilmente allusivi ai quattro elementi, terra aria acqua e fuoco. Insomma il dipinto sembra assumere un significato complesso che unisce cornice, forme dipinte, colori.
Ma perché queste scelte così articolate e nuove? Secondo la riflessione neoplatonica, mediata a Firenze dalla Teologia Platonica di Marsilio Ficino (1482), il mondo è imperfezione, la Luce divina lo penetra e illumina in gradi diversi, una luce qui diffusa ovunque; anche le espressioni dei volti, il racconto del quotidiano deve essere sublimato; così lo spazio vuoto di eventi pone il segno della venuta del Cristo fuori del tempo.
Michelangelo, con la sua tagliente definizione delle forme, si contrappone allo sfumato leonardesco e, a riprova, si pensi alla distanza dal cartone della Madonna e Sant’Anna del pittore di Vinci (1505 c.). Del resto proprio con Leonardo, a Palazzo Vecchio chiamato a dipingere la Battaglia di Anghiari (1503-1504 c.), si confronterà Michelangelo che sceglie di rappresentare, per la Battaglia di Cascina ,(1504-1506), una proda scoscesa dove i soldati fiorentini si stanno bagnando, una proda che sembra echeggiare proprio questa del Tondo Doni. Raffaello, che nel 1507 dipinge la Deposizione per Malatesta Baglioni, cita nella predella proprio Michelangelo ma, nel quadro, sceglie una messa in scena drammatica, descrivendo analiticamente volti, figure e il naturale.
Come Raffaello anche Michelangelo nel 1508 è chiamato da Papa Giulio II a Roma dove dipingerà dal 1508 al 1512 la volta della Sistina continuando il racconto che, nel Tondo Doni, ha prefigurato come cosmico confronto sulla salvezza dell’uomo. Appunto il tondo, simbolo di una salvezza che si pone fuori del tempo e della storia.
Il caso.
Giuseppe Flavio, ambiguo testimone del Cristo
Ci hanno provato in tanti a farne un cripto-cristiano, basandosi su alcuni passi dove sembra porgere la prova dell’esistenza storica di Gesù. Ma in un saggio Luciano Canfora smonta molti pregiudizi
di Franco Cardini (Avvenire, giovedì 8 luglio 2021)
Che ci sia sempre stato, e fin dall’antichità, qualcuno che ha dubitato dell’esistenza di Gesù come personaggio storico, è cosa nota. Del resto, è successo così anche per altri personaggi storici: per Napoleone, ad esempio, che ai bei tempi dell’ipercriticismo storiografico qualche bello spirito in vena di funambolismi comparativistici qualcuno volle far passare come un ’mito solare’.
Per Gesù, poi, le voci dovevano circolare con tanta insistenza che i Padri del Concilio di Nicea, nel 325, credettero bene di metter fine alle chiacchiere annoverandolo nel loro Synbolon (poi divenuto la preghiera del Credo) tra le verità oggetto di dogma. Si continua ancor oggi, peraltro, a discutere sulla storicità della figura del Cristo: argomento al quale è stato dedicato recentemente un tomo di ben 702 pagine, L’invenzione di Gesù di Nazareth, di Fernando Bermejo-Rubio (Bollati Boringhieri). E lo studioso spagnolo, esaminando nel primo capitolo del suo saggio il tema delle fonti storiche disponibili, dedica alcune dense pagine a un passo testuale da secoli considerato ’croce e delizia’ - ma soprattutto ’croce’, ed è il caso di dirlo... - dalla critica.
Si tratta del celebre Testimonium Flavianum, l’insieme di due brevi passi delle Antichità giudaiche (XVIII, 63-64, e XX, 200), nei quali lo storico Giuseppe - che si era denominato ’Flavio’ in omaggio al suo liberatore e patrono, l’imperatore Flavio Vespasiano -, scrivendo naturalmente in greco, accenna a Gesù e lo definisce ’il Cristo’. Personalità straordinaria e discussa, questo Giuseppe. Vissuto fra il 37 e il 103 circa d.C., di famiglia sacerdotale e di tendenze farisaiche, aveva partecipato alla rivolta giudaica del 66 ricoprendo anche funzioni militari importanti. Imprigionato nel 67 dall’imperatore Vespasiano, aveva ricevuto un generoso trattamento, era rimasto in Palestina con Tito, era stato testimone oculare della distruzione del Tempio di Gerusalemme e aveva seguito quindi a Roma il nuovo imperatore.
Giuseppe è (insieme con Filone d’Alessandria, di un paio di generazioni prima) uno dei massimi esempi di quegli ambienti ebraici che si convinsero dell’opportunità della collaborazione con l’impero romano restandone sudditi fedeli. È molto probabile che, nel lungo soggiorno romano coinciso con la seconda parte della sua esistenza, Giuseppe abbia avuto notizia dei nuovi fatti che laceravano sia la comunità degli ebrei restati in Palestina, sia quelli da tempo sparsi per l’impero - ed oltre - e in modo particolare presenti nel Caput Mundi. Il testo di quel passo della sua opera più ampia sembrerebbe una decisa dichiarazione filocristiana. Ma su questo punto è nata una violenta polemica: alcuni hanno accusato il Testimonium di essere un vero e proprio falso, altri vi hanno visto comunque delle infiltrazioni.
Nella secolare polemica sono entrati un po’ tutti: il cardinal Baronio, il dotto calvinista Isaac Casaubon, Edward Gibbon, ovviamente il Voltaire e via dicendo. La pietra dello scandalo non era tanto se davvero Giuseppe Flavio avesse mai nominato Gesù, quanto il fatto che fino dai suoi primi tempi l’intellighenzia cristiana si era impadronita di lui: da Giustino e Minucio Felice a metà del II secolo, fino a Eusebio e quindi, con decisione, a sant’Ambrogio e a san Girolamo, egli era divenuto non solo un testimone sicuro di Gesù ma un cristiano o filocristiano egli stesso.
È stato forse proprio Isaac Casaubon a gettare Luciano Canfora in caccia, sulle tracce di Giuseppe Flavio, della parziale o totale autenticità o meno del Testimonium Flavianum, della legittimità o meno della decisione con la quale gli autori cristiani procedettero al suo arruolamento nelle loro fila. Perché dalla filoromanità al filocristianesimo il passo di un ebreo ellenizzato del I secolo d.C. non è breve e potrebb’essere problematico. E la lettera del Testimonium è di per sé sottilmente ambigua: potrebbe esser letta come un’ovvia attestazione di fede, ma altresì come una tanto dura qualto sottile attestazione anticristiana.
Casuabon è abbastanza noto al grande pubblico in quanto egli e un paio di personaggi con il suo stesso cognome figurano nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco, del 1988. Canfora ne aveva fatto il protagonista di uno studio attentissimo e coinvolgente del 2002, Convertire Casuabon (Adelphi, 2002), un vero e proprio ’thriller filologico’ fondato su un articolato tentativo gesuitico di conquistare al campo cattolico il dotto e implacabile erudito calvinista. Può darsi dunque che quel breve ma non brevissimo scritto che un ventennio fa valse a Canfora il ’Premio Capalbio’ sia la radice e l’antefatto di un suo libro recentissimo, La conversione. Come Giuseppe Flavio fu cristianizzato (Salerno, pagine 196, euro 18), che ha l’unico torto di essere stato riduttivamente inserito dall’Editore nella collana ’Piccoli Saggi’. Che un libro di quasi 200 pagine sia, quanto alla sua mole, già ’piccolo’, è discutibile ma accettabile; sul piano della sostanza, però, siamo al livello del Canfora migliore: come filologo rigoroso, come duttile storico capace di spaziare dall’antica Grecia al presente, come polemista lucido e talora perfido e infine - è giusto riconoscerglielo - come scrittore lucido e spesso divertente. Si è detto di lui ch’egli è capace di «trasformare la filologia in spy story e la storia della cultura in appassionante racconto».
Fedeli al suo spirito, ci guarderemo bene dall’assecondare l’odiosa e spregevole pigrizia di quei pessimi lettori di ’gialli’ che vanno subito a sbirciare nelle ultime pagine il nome dell’assassino. Del resto, in questo caso se lo facessero rimarrebbero delusi. Canfora è troppo buon professore per assecondare i vizi degli allievi: e il suo Epilogo - incentrato sulla corrispondenza fra Spinoza ed Heinrich/Henry Oldenburg, segretario della Royal Society di Londra e ’cristiano-apoca-littico’, è la perfetta conclusione filologica di una spy story: se non si è letto con attenzione il libro, si rischia di fraintenderne le conclusioni. Sine labore, nullum gaudium.