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[...]Le leggi speciali chieste per Napoli sembrano essere quasi un palliativo. La situazione è speciale perché Napoli è una ferita che non riguarda solo Napoli. Nessuno può più affermare: ’Non mi riguarda’. Da qui si innescano economie e contraddizioni che irrorano il resto del paese: dai capitali criminali che altrove diventano legali, sino ai rifiuti che le imprese del Nord hanno sepolto nelle terre campane. Queste guerre di camorra, questa peste dei rifiuti che una parte d’Italia non riconosce come proprie, che ritiene un cancro inestirpabile di un organo che non appartiene al suo corpo, sono in realtà sismi le cui onde si stanno espandendo ovunque [...]
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INFERNO NAPOLETANO
Violenza nelle strade. Ragazzini che sognano di diventare killer. Boss che si fanno imprenditori. Coca a ogni angolo. Rifiuti ovunque. E la politica non ha risposte per una città senza più speranza
di Roberto Saviano*
Era uno degli ultimi a essere sfuggito. Ne restavano soltanto due. Il penultimo era lui, Modestino Bosco, 35 anni, e l’hanno massacrato in un garage sabato 2 settembre. Il clan Licciardi l’aveva condannato a morte molto tempo fa. L’aveva inserito nella famosa ’lista della Resurrezione’. Una lista di nomi scritta e affissa fuori la chiesa della Resurrezione a Secondigliano. I nomi erano dei presunti responsabili - secondo il clan - della morte del nipote di Gennaro Licciardi ’a’scigna’, Vincenzo Esposito ucciso nel 1997 a 21 anni al rione Monterosa. Esposito lo chiamavano ’il principino’ per il suo essere nipote dei sovrani di Secondigliano. Era andato in moto a chiedere spiegazione di una violenza subìta da alcuni suoi amici. Indossava il casco e venne scambiato per un killer. Quando se ne accorsero gli esecutori avrebbero voluto uccidersi con le loro mani, siccome intuirono che sarebbe stata cosa migliore che aspettare la ferocia dei Licciardi. E i Licciardi fecero partire una mattanza che in pochi giorni uccise 14 persone, a vario titolo coinvolte nell’omicidio del loro giovane erede.
Fu così che nacque l’idea di affiggere una lista fuori la chiesa, una lista che il parroco subito strappò, ma non così in fretta da non far leggere i nomi a tutti. Un modo per marchiare a fuoco i responsabili, per velocizzare l’eliminazione senza dover iniziare la strategia delle mattanze trasversali, un invito a consegnarsi per salvare i familiari, un invito ai familiari a consegnare il loro ’morto viven -te’. E dopo lunghi anni, la memoria dei clan è ferrea e infallibile, Modestino Bosco ha pagato la sua condanna. Non è stato uno degli ultimi a morire. Infatti pochi giorni dopo è stato ucciso Bruno Mancini, pregiudicato vicino al clan Di Lauro, crivellato di colpi di 9x21, la pistola il cui calcio da queste parti si abbina con il colore della cintura.
Poche ore dopo, un altro agguato: Alfonso Pezzella, 56 anni, è stato assassinato nella sezione dei Comunisti italiani di Casandrino, intitolata ad Antonio Gramsci. Pezzella era un falegname, le indagini mostrano che aveva deciso di interrompere il pagamento dei debiti d’usura. E poi l’ennesimo innocente ammazzato per una rapina: un edicolante Salvatore Buglione 51 anni, la prima sera che non si era fatto assistere dai suoi parenti durante la chiusura del chiosco è stato assalito. Lo volevano rapinare dell’incasso del giorno, l’hanno accoltellato al petto, vicino al cuore. Tre vittime soltanto in un giorno.
Eppure fino a martedì l’estate era stata fatta di scippi, condotti con violenza e tecnica creativa. Il filo di banca è la più sofisticata: si aggancia la persona allo sportello, quella che ha prelevato più soldi, si lancia l’allarme con il telefonino ai complici e la vittima viene pedinata fino a una strada tranquilla. A quel punto non servono neanche le armi: quasi sempre basta la minaccia per farsi consegnare i soldi. C’è poi il metodo del panino, le forche caudine urbane: si sfrutta la strettoia per scippare.
Infine il colpo al Rolex, aggiornato nell’era di Internet: si studiano su Ebay le quotazioni degli orologi, memorizzando i più richiesti. Poi si ’squadra la situazione’, cercando al polso della vittima il pezzo più pregiato. L’agguato scatta nella zona degli alberghi sul lungomare e per il Rolex si è pronti a tutto, anche a sparare. E così in un territorio che va da via Chiaia a piazza Garibaldi passando per via Caracciolo e i Decumani solo nei mesi di luglio e agosto sono stati denunciati 756 scippi e rapine: più di 12 al giorno.
Quello che sembra essere una costante di Napoli e delle letture che si fanno del territorio partenopeo è che il male è tutto il male possibile ed il bene è tutto il bene possibile. È complesso riuscire a isolare i vettori delle contraddizioni, riuscire a comprendere sino in fondo le dinamiche, capirne i perimetri, valutare le tragedie.
Napoli sembra sprofondare ed ogni qual volta si è certi di aver raggiunto una sorta di abisso che non può celare sotto che altro abisso, si continua invece a scendere. Come se il limite non si raggiungesse mai. Le estati sono momenti di impennata: turisti, vacanzieri, la vita per strada, divengono portatori di oggetti e danari troppo succulenti per non essere considerati come capitale mobile, danaro frusciante che ti passa sotto il naso, come se avessero sotto le t-shirt e i top il colore verde del dollaro o dei 500 euro. Poi, dopo, si alternano mazzi di fiori inviati ai turisti pestati, inviti a rimanere nelle splendide terre della Magna Grecia e poi lettere ai giornali di chi abbandona Napoli perché esausto. E di chi resiste. E turisti che dicono di non aver mai avuto tanta paura come in questa città, come l’americano Thomas Matthew Godfrey che ha reagito a uno scippo in vico dei Maiorani qualche settimana fa e si è trovato addosso una carica di persone, corse a sostenere i criminali che lui era riuscito a bloccare.
Il percorso non sembra essere mutato dal 1996 quando il leggendario ’Pippotto’, ragazzino di Secondigliano chiamato da tutti ’’o terrore’, appena quattordicenne riusciva a fare decine di rapine in un’ora e cercava di migliorare le sue capacità tirando coca. La coca che a Napoli ha raggiunto prezzi bassissimi, arriva anche a 10 euro a dose al Rione dei Fiori nell’area nord della città, è il carburante migliore per mantenere un elevato grado di efficienza al furto, in grado di non farti sentire la stanchezza, di fare su e giù per le strade e di non perdere l’attenzione per ’squadrarsi la situazione’.
Qualche giorno fa un ragazzo di vent’anni in un’ora ha scippato quattro donne, tra cui una disabile. La sua giornata è iniziata alle otto di mattina sul lungomare poi Porta Capuana e il Centro direzionale. Lo scippatore - incensurato, padre operaio in una delle tante fabbriche di scarpe nei sottoscala di via Foria - lavorava come garzone di barbiere: arrestarlo è stato facile, perché per i suoi colpi usava l’automobile. Il segno di un’inventiva criminale che studia sempre nuove tecniche: le armi, per esempio, non si usano più. Per rapinare bastano schiaffi e pugni.
I Rolex sono il pezzo più ghiotto in assoluto: non ci sono statistiche, ma a leggere solo le denunce fatte in Questura a Napoli ne sono stati rubati negli ultimi anni più di 50 mila, e la cifra dicono gli inquirenti è sicuramente per difetto. Non solo a Napoli, ma furti di Rolex gestiti da napoletani sono stati segnalati nel 2006 a Genova, Riccione, Roma. Ovunque il mercato dei Rolex è gestito da qui siccome - come ha dimostrato l’inchiesta del 2006 al Monte di Pietà - i clan napoletani, soprattutto quelli del centro storico riescono a immettere i Rolex nuovamente nel circuito nazionale e internazionale di vendita. Un orologio rubato dopo una settimana ha una garanzia nuova, un codice nuovo ed è già su un polso nuovo.
Alla camorra non interessa mettere a stipendio l’intera massa che preme per entrare nel mercato imprenditorial-criminale. Quello che era stato il progetto degli anni ’80 della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo di creare una sorta di ’Fiat della malavita’, farebbe ridere i boss dei clan di oggi. Nonostante ciò, la camorra continua ad essere per numero di affiliati l’organizzazione criminale più corposa d’Europa, a leggere i dati forniti dalla Procura antimafia di Napoli. Per ogni affiliato siciliano ce ne sono cinque campani, per ogni ’sacrista’ pugliese quattro, per ogni ’ndranghetista addirittura otto.
In Campania c’è anche il territorio con il più alto tasso di camorristi rispetto alla densità abitativa, tra Casal di Principe, Casapesenna e San Cipriano d’Aversa, comuni del Casertano con meno di 100 mila abitanti, ci sono 1.200 condannati per 416 bis e un numero esponenziale di indagati per concorso esterno in associazione mafiosa. I rapper cantano ’Napoli è cocente di 416 bis’ e il reato di associazione mafiosa diventa un inno, un’aspirazione. Perché l’aumento della pressione microcriminale sulla città trova ragione innanzitutto dal calo dei criminali ’a libro paga’ e dalla progressiva ristrutturazione dei cartelli. Che è come se avessero svincolato gli uomini, autorizzandoli di conseguenza a scippare e razziare in ogni zona di Napoli. Spingendoli a osare di più, perché entrare a pieno titolo in un clan è spesso complicatissimo. E tentare di crearne uno è una prova cui molti vogliono sottoporsi.
La flessibilità della camorra è la risposta alla necessità delle imprese di far muovere capitale, di fondare e disfare società, di far circolare danaro e di investire con agilità in immobili senza l’eccessivo peso della scelta territoriale o della mediazione politica. Ora i clan non hanno necessità di costituirsi in macrocorpi, un gruppo di persone quindi può decidere di unirsi in banda, rapinare, sfondare vetrine con gli arieti, rubare beni e rimetterli nel mercato, senza subire come in passato o il massacro o l’inglobamento nel clan.
Le bande che scorrazzano per Napoli non sono composte esclusivamente da individui che fanno crimine per aumentare il volume della propria tasca, per arrivare a comprare l’auto di lusso o riuscire a vivere comodamente. Gli individui che scelgono di far rapine, aggressioni, furti, sono spesso coscienti che aumentando le proprie azioni, riunendosi, possono migliorare la propria capacità economica, divenendo interlocutori dei clan o loro indotti. La rapina, l’aggressione, il furto, sono i primi scalini che servono per diventare imprenditore. Iniziare a mettere su un capitale è un percorso di crescita, non un gesto disperato. A Napoli la ferocia è un valore aggiunto.
Già qualcuno, molti anni fa, disse che in una città dove il valore della vita è pari a zero chiunque una mattina può svegliarsi e decidere di mettere su un gruppo che se gli va bene potrà diventare clan, se gli va male finirà nella disperazione delle rapine. Il tessuto della città si slabbra, sino a spaccarsi tra due diverse tendenze gli individui, le bande, che come parassiti si nutrono di questa violenza allargata dove ogni essere vivente è territorio da saccheggiare, e di clan che invece come avanguardie velocissime spingono il proprio business verso il massimo grado di sviluppo e commercio, tra queste due cinetiche la città si sta dilaniando.
La mattanza di Scampia ha generato un’attenzione che mancava dalle dinamiche di camorra da più di dieci anni. Si torna a parlare del vecchio modello delle due Napoli. Una marcia, putrida e criminale; l’altra dotta, saggia, colta e visibilmente oscurata dalla mala-Napoli. Le due Napoli tornano visibili. La Napoli borghese, che non disdegna di parlare il dialetto con sonorità antiche, la Napoli che si considera capitale di bellezza e capacità di vita, e dall’altra la Napoli dei neomelodici, di Tommy Riccio e delle radio che trasmettono i messaggi di auguri ai carcerati di Poggioreale. La Napoli alta vede il crimine, la feccia del narcotraffico, l’arroganza del pizzo come degenerazioni della Napoli bassa, come un sacco velenoso che essa è costretta ingiustamente a trascinare.
Ma questi poli opposti, queste radicalità hanno perimetri ambigui. In realtà ben più di un nodo lega quest’apparente distanza. Il fulcro dell’economia della camorra è la sua forza imprenditoriale, una forza che si innesta anche nell’economia del nord Italia, irradiandosi in Asia, America e tutta Europa. Si combatte nelle strade di periferia e i soldati, come in ogni guerra, sono i disperati che ammazzano con un indennizzo di 2.500 euro a omicidio, che prendono salari di 700 euro mensili e che sperano di arrivare agli stipendi dei ’dirigenti militari’, quelli che possono intascarsi anche 20 mila euro a settimana.
Le economie in palio sono astronomiche: quella dei Di Lauro supera i 500 mila euro al giorno e, secondo quanto dichiarato nel settembre scorso nella commissione parlamentare Antimafia, il clan dei Casalesi gestirebbe un patrimonio di 30 miliardi, inclusi i beni posti sotto sequestro ma ancora nelle loro disponibilità. E le loro economie possiedono i perimetri dei continenti, si muovono con i money transfer in Canada, Australia, Gran Bretagna, Svizzera, investendo in aziende, negozi, ristoranti, alberghi. I dirigenti di queste economie hanno i profili dei finanzieri, degli imprenditori internazionali, non hanno la foggia dei criminali di periferia, risiedono nelle città europee, a Tenerife, Monaco, Varsavia, viaggiano da Pechino a Bogotà e investono negli Usa, Germania, Francia. Sono uomini di mondo, che con i soldi di camorra conquistano il mondo.
Sanno di correre dei rischi. Ma sanno anche fiutare le scorciatoie. L’indulto è venuto in soccorso delle disperate condizioni di vita a Poggioreale: un carcere d’inferno, il più sovraffollato d’Europa, dove d’estate nelle celle si arriva a 45 gradi e vivono in 2.300 nello spazio che dovrebbe contenere al massimo 1.100 persone. Ma non ha avuto solo questo compito. L’indulto sembrava avere una sola certezza: nessuna concessione per chi stava scontando pena per mafia. Eppure anche il 416bis è stato risolvibile a Napoli. E il meccanismo è semplice. Un meccanismo salva-padrini. Così è accaduto a Giovanni Aprea, boss di San Giovanni a Teduccio, uno dei territori con maggiore presenza camorristica, ma contrastata da molti cittadini di quest’area a forte tradizione operaia.
I legali di Aprea hanno smontato la condanna: prima hanno proceduto con lo scorporo delle due pene che il boss stava scontando: associazione mafiosa e possesso illegale d’arma da fuoco. Poi è arrivata la richiesta di far scattare l’indulto per la pena relativa al possesso d’arma da fuoco. Una volta accettata questa richiesta, il suo avvocato ha chiesto l’applicazione della fungibilità, ossia di scalare dal periodo trascorso in prigione che era stato condonato la condanna relativa all’associazione di stampo mafioso. Come dire si è usato l’indulto sul reato dove era possibile applicarlo per arrivare a ottenere l’indulto anche sul reato che era escluso dalla clemenza. E il boss Giovanni Aprea, soprannominato ’Punt’ e curtiell’ non per qualche sua abilità con le lame, ma perché suo nonno interpretò la figura del maestro di serramanico nel film di Squitieri ’I Guappi’, torna libero. Libero di seguire i suoi affari in un territorio dove la crescita edilizia ha il profilo delle ditte dei clan.
Già prima dell’indulto i boss sono riusciti a risolvere i loro problemi con la giustizia. Pure i protagonisti della guerra di Scampia ce l’hanno fatta: è bastato cancellare 15 righe per fare svanire 80 morti, 80 cadaveri crivellati che hanno fatto inorridire il capo dello Stato e il papa. Vincenzo Di Lauro, figlio del re di Scampia Paolo, arrestato nell’aprile 2004 a Chivasso dopo anni di ricerche, è tornato libero nel giugno scorso per 15 righe e 30 minuti. Quindici righe mancanti nell’ordinanza di custodia cautelare, 30 minuti di ritardo nell’intervento dei carabinieri. Una svista, dicono. Proprio quelle 15 righe sui "gravi indizi di colpevolezza" che servono a tracciare il ritratto criminale di una persona che finisce in manette. Tanto è bastato. E i suoi uomini sapevano, sapevano prima dello Stato della sua uscita. Per avvertirlo e festeggiarlo gli avevano inviato un paio di scarpe, quelle della marca che ha un coltello come simbolo. Vincenzo è sparito in 30 minuti, il tempo necessario ai carabinieri per circondare il carcere e far partire il pedinamento. Prima del giovane Di Lauro era tornato libero Raffaele Amato, boss dei cosiddetti spagnoli, ossia gli scissionisti che a Barcellona hanno creato un secondo impero, rilasciato per decorrenza termini. E Giacomo Migliaccio era stato scarcerato per motivi di salute. Sono considerati due pesi massimi del narcotraffico europeo. Amato è già entrato nella leggenda nera, perché si è arricchito unendo ’munnezza’ e droga: trasportava i carichi di cocaina nascosti dentro i camion della spazzatura, lì dove nessun doganiere avrebbe messo le mani. Queste scarcerazioni sono dati fondamentali anche per i ragazzi di camorra: i nuovi affiliati, tutti sotto i 16 anni, vedono che in fondo i capi più scaltri ce la fanno. Comprendono che innescare una guerra di camorra con più di 80 morti, che trasformare la più grande periferia del Mediterraneo, com’è Secondigliano, nella piazza di spaccio più importante d’Europa, tutto sommato ti permette di raggiungere un potere in grado di difenderti persino dal carcere. E di fare tanti soldi.
Quei capitali vanno da Napoli al Nord e poi nel resto del mondo, mentre la spazzatura segue la direttrice opposta. È per questo che il problema rifiuti non è un problema campano e meridionale. Le inchieste provano che in oltre trent’anni centinaia di imprese settentrionali hanno sversato le loro morchie, le parti non metalliche delle auto, i toner delle stampanti, migliaia di altri veleni, avvalendosi delle imprese della camorra e risparmiando in maniera esponenziale sui costi di smaltimento legale. Intere colline sono spuntate dove c’erano pianure e sopra le colline si è pure cominciato a costruire case e villette.
Dopo dieci anni di incapacità a gestire la questione rifiuti, dopo il commissariamento che quotidianamente ricorda l’incapacità campana di esprimere un politico, un dirigente, in grado di coordinare la questioni rifiuti senza essere condizionati dalla camorra. Dopo tutto questo, sembra incredibile ancora raccontarsi l’ingenua fiaba che vede la ’munnezza’ un problema napoletano di disorganizzazione e burocrazia marcia. Attraverso il gioco dei rifiuti si è foggiata una classe imprenditoriale fiorente che ha innestato rapporti con la grande industria nazionale e ora è proprio questa forza economica che dopo aver fatto marcire la terra, l’aria, e molti esseri umani di queste zone, impedisce una reale soluzione. Poiché fin quando la situazione rimarrà così insolvibile ed incomprensibile la camorra potrà continuare a intombare i rifiuti d’ogni parte d’Italia in Campania, e continuerà a mischiare i ’propri’ rifiuti con l’incredibile silenzio della politica, silenzio che ha il sapore sempre più del consenso.
Le leggi speciali chieste per Napoli sembrano essere quasi un palliativo. La situazione è speciale perché Napoli è una ferita che non riguarda solo Napoli. Nessuno può più affermare: ’Non mi riguarda’. Da qui si innescano economie e contraddizioni che irrorano il resto del paese: dai capitali criminali che altrove diventano legali, sino ai rifiuti che le imprese del Nord hanno sepolto nelle terre campane. Queste guerre di camorra, questa peste dei rifiuti che una parte d’Italia non riconosce come proprie, che ritiene un cancro inestirpabile di un organo che non appartiene al suo corpo, sono in realtà sismi le cui onde si stanno espandendo ovunque.
La Napoli che ha fallito il suo rinascimento, credendo di risolvere problemi antichi battezzando un luogo come autentico e sconsacrando le parti di esso in cui non si riconosceva, questa parte della città, progressista e insieme tremendamente conservatrice, continua ancora a rappresentarsi come ciò che non è, nostalgica di qualcosa che non è mai avvenuto, di una vaga leggerezza offesa dal peccato originale della violenza criminale. Ma occulta colpevolmente a se stessa che l’economia dei clan, composta dai soldati della periferia, ma in grado di versare capitale in ogni territorio europeo, è la cinetica prima della ricchezza di cui gode e del potere che detiene. Ipocrita, quindi, questa distante disperazione di una Napoli che adora sentirsi ferita a morte, ma che in realtà non muore mai.
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SCHEDA
Gomorra sotto al Vesuvio
Il ritmo del noir, il coraggio della testimonianza e la documentazione del ricercatore universitario. Così in tre mesi ’Gomorra’ (Mondadori) ha già venduto 60 mila copie grazie soprattutto al tam tam dei lettori. Nella sua opera d’esordio Roberto Saviano, 27 anni, ha raccontato in prima persona la criminalità campana. Sono messi a nudo i meccanismi che hanno portato i clan a creare un sistema industriale dove si producono abiti per i divi di Hollywood e a monopolizzare i commerci con la Cina. E c’è la vita nelle strade di Secondigliano: i quindicenni con il giubbotto antiproiettile, i sicari che muoiono per pochi euro, i broker laureati che fanno sparire i rifiuti pericolosi di mezzo mondo.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Inferno%20napoletano/1378147&ref=hpstr1
Gomorra
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
Gomorra - Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra è il primo romanzo di Roberto Saviano. Fonde in forma di romanzo fatti autobiografici, giornalismo d’inchiesta e analisi sociale per raccontare la realtà della Camorra nelle sue dimensioni economiche, imprenditoriali, sociali ed ambientali.
Il libro ha vinto: Premio Viareggio - Opera Prima 2006; Premio Giancarlo Siani 2006; Premio Lo Staniero 2006; Premio Elsa Morante - Narrativa Impegno Civile 2006; Premio Dedalus 2006.
Indice
Prima parte
• Il porto - descrive il commercio di scarpe, abbigliamento, accessori d’importazione cinese attraverso il porto di Napoli
• Angelina Jolie - la sartoria di qualità per i grandi marchi della moda italiana realizzata in condizioni di miseria umana e imprenditoriale.
• Il Sistema - descrizione del funzionamento della Camorra
• La guerra di Secondigliano - i boss, gli equilibri, le regole della scalata al potere
• Donne - la vita delle donne degli affiliati e le boss
Seconda parte
• Kalashnikov - descrizione dei traffici e dell’utilizzo dell’arma preferita dalla Camorra
• Cemento armato - l’impero economico dei cantieri edili
• Don Peppino Diana - il sacerdote Giuseppe Diana, ucciso perché manifestava la sua opposizione al Sistema camorristico
• Hollywood - Somiglianze e scimmiottamenti dei film holliwoodiani da parte dei boss
• Aberdeen, Mondragone - I rapporti della camorra in Gran Bretagna
• Terra dei fuochi - L’affare dello smaltimento dei rifiuti urbani e tossici in Campania e tutta Italia, e la catastrofe sanitaria derivata.
De Magistris: "Presto Saviano libero a Napoli
Pasquino presidente dell’assemblea"
Il candidato dell’Idv risponde così alle dichiarazioni di sostegno dell’autore di Gomorra. "Saviano deve essere uno dei protagonisti del cambiamento di Napoli". E poi lancia la proposta al rettore di Salerno, sconfitto al primo turno delle elezioni a sindaco *
"Voglio creare le condizioni perchè Saviano possa tornare liberamente a Napoli". Con questa promessa Luigi de Magistris risponde a l’autore di Gomorra che ha dichiarato di voler sostenere l’ex magistrato al ballottaggio. di domenica.
"Saviano ha avuto il coraggio di portare il tema dei rapporti tra camorra e politica fuori dai confini nazionali - piega il candidato Idv - e lui deve essere uno dei protagonisti del cambiamento che vuole Napoli".
Per questo, fa sapere di essere intenzionato a "organizzare una passeggiata con Saviano e i giovani di Napoli". De Magistris aggiunge: "Mi è piaciuta l’espressione che ha usato ’Liberare Napoli’. E’ la stessa che ho utilizzato io in campagna elettorale". Oggi, per l’ex pm, è il giorno dell’incontro con i giovani sulle scale dell’Università di Napoli Federico II, in corso Umberto. Anche stavolta prende il megafono e parla ai ragazzi. "Adotta un astenuto e portalo a votare", dice. Gli studenti intonano il coro "Sindaco, sindaco".
Poi, il candidato di centrosinistra, riprende a parlare e sottolinea di "voler creare le condizioni" per evitare la fuga dei cervelli. "Da europarlamentare - spiega De Magistris - ho incontrato troppi ragazzi che sono andati via perchè qui non c’è lavoro".
"Credo che Pasquino possa essere un ottimo presidente del Consiglio e quando sarò sindaco voglio lui in questo ruolo". Lo ha detto Luigi de Magistris, candidato sindaco di Napoli, parlando del rettore dell’Università di Salerno Raimondo Pasquino, candidato sindaco del Terzo polo escluso dai ballottaggi. " una persona che ho imparato ad apprezzare in campagna elettorale per il suo stile - ha affermato a margine di un incontro con i giovani - così come ho apprezzato il suo annuncio di voler rimanere in Consiglio comunale".
* la Repubblica, 26 maggio 2011
Le parole possono cambiare il mondo
di Roberto Saviano (la Repubblica, 25 marzo 2010)
L’autore di "Gomorra" torna con un libro e un dvd dal titolo "La parola contro la camorra". Ne anticipiamo un brano.
Spesso mi si chiede come sia possibile che delle parole possano mettere in crisi organizzazioni criminali potenti, capaci di contare su centinaia di uomini armati e su capitali forti. E come è possibile - questa domanda mi viene ripetuta spessissimo, soprattutto all’estero - che uno scrittore possa mettere in crisi organizzazioni capaci di fatturare miliardi di euro l’anno e di dominare territori vastissimi?
È complicato dare una sola risposta e, in verità, l’unica risposta che mi viene in mente, la più plausibile è che sia proprio la diffusione della parola a mettere paura. Non è lo scrittore, l’autore, non è neanche il libro in sé, né la parola da sola, che riesce ad accendere riflettori e per questo a mettere paura. Quello che realmente spaventa è che si possa venire a conoscenza di determinati eventi e, soprattutto, che si possano finalmente intravedere i meccanismi che li hanno provocati.
Quel che spaventa è che qualcuno possa d’improvviso avere la possibilità di capire come vanno le cose. Avere gli strumenti che svelino quel che sta dietro. E soprattutto avere la possibilità di percepire determinate storie come le proprie storie. Non più come storie lontane, non più come vicende geograficamente distanti, ma come facenti parte della propria vita. Allora ciò che più temono le organizzazioni criminali non è soltanto la luce continua che gli viene posta addosso, ma soprattutto che migliaia, forse milioni di persone in Italia e nel mondo, possano sentire le loro vicende e il loro destino come qualcosa che riguarda tutti.
Qualcuno può credere che questa sia una visione troppo mediatica e quindi distante dalla realtà. Ma non è così. Molti episodi dimostrano che l’attenzione, anche degli intellettuali e degli artisti, data alle organizzazioni criminali e a quello che accade intorno a loro ha realmente cambiato le cose e il destino di molte persone. La storia di Giuseppe Impastato, giornalista ucciso a Cinisi in Sicilia nel 1978, ne è un esempio. Quando Impastato fu ucciso, l’opinione pubblica venne inconsapevolmente condizionata dalle dichiarazioni che provenivano da Cosa Nostra. Che si fosse suicidato in una sottospecie di attentato kamikaze per far saltare in aria un binario. Questa era la versione ufficiale, data anche dalle forze dell’ordine. Poi, dopo più di vent’anni, esce un film, I cento passi, che non solo recupera la memoria di Giuseppe Impastato - ormai conservata solo dai pochi amici, dal fratello, dalla mamma - ma, addirittura, la rende a tutti, come un dono. Un dono allo stato di diritto e alla giustizia. Questa memoria recuperata arriva a far riaprire un processo che si chiuderà con la condanna di Tano Badalamenti, all’epoca detenuto negli Stati Uniti. Un film riapre un processo. Un film dà dignità storica a un ragazzo che invece era stato rubricato come una specie di matto suicida, un terrorista.
È successo per molte persone. Pippo Fava, giornalista de I Siciliani, una rivista che stava dando molto fastidio a Cosa Nostra, viene ucciso mentre sta andando a prendere la nipotina a teatro. Gli sparano in testa, lo sfregiano. Gli omicidi delle organizzazioni criminali hanno sempre una sintassi simbolica. Sparare in faccia, per esempio, ha un significato diverso rispetto a sparare al petto. A Pippo Fava lo sfregiano, gli sparano alla nuca e pochissime ore dopo iniziano a diffondere la notizia, che poi diventerà la versione ufficiale nella società civile catanese - o forse bisognerebbe definirla incivile - che era stato ucciso perché «puppo», ovvero omosessuale, come dicono in Sicilia. Perché aveva messo le mani addosso a dei ragazzini fuori dalla scuola. Si erano inventati questa balla per delegittimarlo, per suscitare fastidio al solo pronunciare il suo nome. Per suscitare quella sensazione di diffidenza nelle persone, che trova terreno fertile in simili circostanze.
Chiunque si occupi di mafie sente questa melma intorno a sé: la melma della diffidenza. Io ci convivo da anni; dal primo giorno. Va di pari passo con la mia quotidianità sentire diffidenza, soprattutto quella degli addetti ai lavori, infastiditi spesso per il solo fatto che sei arrivato a molte persone. Questo, soprattutto, a intellettuali e giornalisti non torna. «Come mai sei arrivato a tante persone?» In un Paese dove chi arriva a tanti spesso è sceso a patti con qualche potere o ha scelto di compromettere le proprie parole. «Dove hai tradito? Dove ti sei venduto? Con chi ti sei alleato?». Il cinismo degli addetti ai lavori è sempre questo: arrivare a un pubblico vasto di lettori, di ascoltatori, di osservatori, significa tutto sommato accettare i codici più bassi, più biechi della comunicazione.
Ebbene, le organizzazioni criminali non sono tanto diverse nel valutare e nel delegittimare i propri nemici. Le organizzazioni criminali hanno necessità di portare avanti un assioma: chi è contro di noi lo fa per interesse personale. Chi è contro di noi sta diffamando il territorio, perché noi non esistiamo come loro ci raccontano. Chi è contro di noi è pagato da qualcuno per essere contro di noi. E, nella migliore delle ipotesi, sta facendo carriera personale su di noi.
Le parole, quando arrivano a molte persone, quando raccontano di certi poteri, diventano assai pericolose. Assai pericolose perché il rischio è che a difenderle debba essere il tuo corpo, il tuo sangue, la tua stessa carne. È successo a moltissimi scrittori, a moltissimi giornalisti. L’Italia ha una caratteristica che in genere, quando raccontano di noi, non viene riportata: l’Italia è un Paese cattivo. Molto cattivo. Perché è un Paese dove è difficile realizzarsi, dove il diritto sembra un privilegio.
La storia dell’antimafia spesso è una storia di enormi cattiverie e quando me ne rendo conto non riesco a capire come sia possibile, di fronte a delle vicende tragiche e tutto sommato chiare.
La morte di don Peppe Diana, per esempio. La morte di un uomo, un ragazzo, ammazzato poco più che trentenne, sul cui conto, per anni, si è detto di tutto. Che fosse stato ucciso per presunte relazioni con delle donne, che avesse collaborato con un clan. Che era morto perché anche lui colluso e non perché aveva scritto un documento, Per amore del mio popolo non tacerò, che aveva dato molto fastidio ai poteri criminali. In quel documento, don Diana, segnalava la strada che avrebbe seguito in quanto prete di Casal di Principe. Lì dichiarava quale fosse il compito di un prete in quelle terre, cioè raccontare, denunciare e, appunto, non tacere.
La morte, così, diventa la garanzia che ciò che hai detto e fatto è vero, o quantomeno che ci hai creduto sino in fondo. Questo mio è un ragionamento difficile da capire e mi rendo conto che chiedo uno sforzo enorme a chi mi sta leggendo. Però è uno sforzo che vale la pena fare per capire come funzioni il meccanismo della parola. Anna Politkovskaja, scrittrice e giornalista russa, viene uccisa e il giorno stesso della sua esecuzione il marito dichiara di provare, oltre a un profondo dolore, anche un sentimento di serenità, quasi di sollievo. Stupisce tutti. Perché serenità? Perché sollievo? Com’è possibile? «Perché so», spiega lui «che almeno con la morte non potrà più essere diffamata». Pochi giorni prima che Anna morisse, avevano tentato di sequestrarla, per narcotizzarla e farle delle foto erotiche da diffondere sui giornali di gossip. Di fronte a una delegittimazione del genere puoi invocare solo la morte. Chi lavora con le parole, con le parole che spaventano certi poteri, sa benissimo che quegli stessi poteri non possono consentire che tu abbia contemporaneamente autorevolezza e vita. O l’una o l’altra. Se hai la vita non hai l’autorevolezza, se hai l’autorevolezza non hai la vita.
Tantissimi scrittori e magistrati si sono trovati nella necessità di dover scegliere. Io stesso ho avuto a che fare, in questi anni, con molti magistrati che hanno affrontato la paura, il terrore di dover morire ma ancor più di essere delegittimati. Come si può salvare la parola da questa terribile doppia condanna? Facendo sì che non appartenga più a una singola persona. La parola, se smette di essere mia, di altri dieci, di altri quindici, di altri venti e diventa di migliaia di persone, non si può più delegittimare, perché anche se si delegittima me quelle parole sono già diventate di altri. E se anche si dovesse eliminare fisicamente la persona che per prima le ha pronunciate, sarebbe comunque troppo tardi.
So bene che si rischia di essere tacciati di eccessivo romanticismo se si pronunciano espressioni come «parola usata da molti», «parola contro il potere». Ma sono convinto che far diventare concreta una parola significhi innanzitutto consentirle una piena realizzazione nel quotidiano. E affinché la parola diventi realmente efficace contro le mafie non deve concedere tregua. Il grande sogno che hanno alcuni scrittori è quello che le loro parole possano mutare la realtà, che le loro parole, magari nel tempo, possano effettivamente indirizzare il percorso umano verso nuove strade.
Certo mi rendo conto che nessuno può isolare il momento esatto in cui Dostoevskij o Tolstoj hanno modificato, indirizzato o semplicemente suggestionato il pensiero umano. Non è che un mese dopo l’uscita dei loro scritti qualcosa immediatamente sia cambiato. Nessuno può dire quale sia il peso reale della Metamorfosi di Kafka oppure delle parole di Ovidio. Nessuno può dire quanto abbiano reso migliori o peggiori o indifferenti gli esseri umani.
Ma chi ha la possibilità e lo strano e drammatico privilegio di vedere le proprie parole agire nella realtà, quando ancora è in vita, quando ancora il suo libro è caldo, allora questo scrittore può accorgersi di quanto effettivamente il peso specifico delle sue parole stia entrando nella quotidianità, contribuendo a modificare i comportamenti delle persone. Quando questo accade ti rendi conto che il potere reale che hanno le parole è davvero infinito, ancor di più perché è un potere anarchico. Un potere che si basa sulla condivisione e sulla persuasione non è più un potere e la parola, quando viene accolta, non suscita più diffidenza e paura. E quando questo accade, significa che qualcosa sta cambiando, che qualcosa è già cambiato, che nessuno può più permettersi di ignorare certi argomenti, di relazionarsi a certi territori e a certe logiche.
Io vengo da una terra complicata dove ogni cosa è gestita dai poteri criminali. Tutto è a loro sottoposto e tutto è loro espressione, dalla sessualità alla cronaca locale. Ed è proprio partendo dalla cronaca locale che ho voluto raccontare il mio territorio per mostrare che esiste un modo di raccontare giorno per giorno la cronaca, nelle edicole, sui giornali che poi arriveranno nei bar, che circoleranno nelle salumerie, dai barbieri, che aderisce completamente al linguaggio e alle logiche delle organizzazioni criminali.
Si dirà che sono giornali che hanno tirature molto basse e diffusione limitata a quelle zone. Ma è esattamente in quelle zone che loro devono circolare. È lì che devono comunicare, costruire opinioni e far aderire il lettore alle logiche di camorra. È lì che deve essere considerato normale che un pentito venga definito infame. Che chi muore combattendo le organizzazioni criminali venga immediatamente riportato alla sua dimensione mediocre di uomo come tutti.
Perché chi si oppone - secondo la loro ottica - non si sta opponendo al sistema di cose, si sta opponendo perché vuole guadagnare di più, perché vuole spazio maggiore. Si è pentito perché non è diventato capo. Ci sta denunciando perché non l’abbiamo fatto guadagnare, perché vuole prendere il nostro posto. Ne sta scrivendo perché non ha il fegato o le capacità per diventare uno di noi e allora fa l’anticamorrista.
L’elemento fondamentale per questi poteri è dimostrare che tutti abbiamo vizi, tutti siamo sporchi, tutti seguiamo due cose: il potere, e dunque fama e denaro, e le donne. O gli uomini, naturalmente. Segnalare che si possa non essere santi o eroi, ma uomini diversi, con tutte le contraddizioni del caso, questo, invece, dà fastidio, mette paura, perché sarebbe come ammettere che si può cambiare anche senza dover compromettere la propria vita o dover raggiungere chissà quali gradi di perfezione o sacrificio. Che non si può essere, non si deve essere soltanto marci, soltanto disposti ad accettare il compromesso.
Molti chiedono a chi si pone contro le organizzazioni criminali perché lo faccia. C’è un corridore, un atleta, un recordman dei cento metri, a cui hanno chiesto una volta perché avesse deciso di correre. E la sua risposta è la risposta che io do a me stesso e a chi ogni volta mi chiede perché mi occupi di certi temi e perché continui a vivere questa vita infernale. A questo corridore chiesero: «Ma perché corri?» E lui rispose: «Perché io corro? ... perché tu ti sei fermato?». Anche a me piace rispondere così. Quando mi chiedono perché racconto, rispondo semplicemente: «... e perché tu non racconti?».
Da Gorbaciov a Tutu le prime firme a favore dello scrittore campano
Un appello allo Stato affinché intervenga per proteggerlo dalle minacce
I premi Nobel al fianco di Saviano
"La sua libertà riguarda tutti noi"
di PAOLA COPPOLA *
ROMA - I Nobel si mobilitano per Roberto Saviano. Lanciano un appello per chiedere allo Stato di intervenire, di proteggerlo dalle minacce di morte dei Casalesi e sconfiggere la camorra. Chiedono di garantire "la libertà nella sicurezza" all’autore del bestseller "Gomorra", che vive da clandestino, sotto scorta. Il caso Saviano è "un problema di democrazia", scrivono. Ma è, anche, "un problema di tutti noi".
Per questo motivo sono già sei i primi nomi autorevoli - Dario Fo, lo scrittore tedesco Günter Grass e il turco Orhan Pamuk, Nobel per la letteratura; Mikhail Gorbaciov e l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, Nobel per la pace; Rita Levi Montalcini, Nobel per la medicina - che sono intervenuti in difesa dello scrittore con un testo che sta già avendo altre adesioni e che, a partire da oggi, è possibile firmare sul sito di Repubblica, che darà voce alla mobilitazione in favore dello scrittore.
Dopo la pubblicazione di "Gomorra", Saviano è nel mirino della camorra. Ha subito pesanti minacce, le ultime pochi giorni fa, quando informative e dichiarazioni di collaboratori di giustizia hanno rivelato l’esistenza di un piano per ucciderlo da parte del clan dei Casalesi. Dal 13 ottobre del 2006 vive sotto scorta. Sempre a Repubblica alcuni giorni fa lo scrittore ha confessato il desiderio di poter tornare a una vita normale. "Andrò via dall’Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà" ha confessato. "Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale". L’intervista ha suscitato numerose prese di posizione, il presidente della Repubblica Napolitano e il premier Berlusconi hanno scritto a Repubblica per sostenere lo scrittore e assicurare il sostegno dello Stato, in tutta Italia sono scattate manifestazioni di solidarietà.
Saviano sta scontando il successo del suo bestseller che, a gennaio 2008, aveva venduto solo in Italia più di un milione e 200mila copie, è stato tradotto in 43 paesi, ha ottenuto diversi riconoscimenti e ispirato l’omonimo film del regista Matteo Garrone, candidato all’Oscar. Nell’appello dei Nobel si legge: "È minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possibilità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo paese". Saviano, dunque, è "un giovane scrittore, colpevole di avere indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, Repubblica, e di tacere", continua il testo.
Così i Nobel spendono la loro autorevolezza per chiedere allo Stato "di fare ogni sforzo per proteggerlo e sconfiggere la camorra". Ricordano che non si può liquidare il "caso Saviano" solamente come un problema di polizia, perché "è un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini", scrivono. "Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008".
L’appello dei premi Nobel
"Lottiamo per Saviano" *
Roberto Saviano è minacciato di morte dalla camorra, per aver denunciato le sue azioni criminali in un libro - Gomorra - tradotto e letto in tutto il mondo.
È minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possibilità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo Paese.
Un giovane scrittore, colpevole di aver indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, Repubblica, e di tacere.
Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo e per sconfiggere la camorra. Ma il caso Saviano non è soltanto un problema di polizia. È un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini.
Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008.
DARIO FO
MIKHAIL GORBACIOV
GUNTHER GRASS
RITA LEVI MONTALCINI
ORHAN PAMUK
DESMOND TUTU
* la Repubblica, 20 ottobre 2008
Firma per Roberto Saviano ( clicca qui di seguito -> sul rosso
Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo e per sconfiggere la camorra. Ma il caso Saviano non è soltanto un problema di polizia. E’ un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini. Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008.
Così ho avvelenato Napoli
Le confessioni di Gaetano Vassallo, il boss che per 20 anni ha nascosto rifiuti tossici in Campania pagando politici e funzionari
di Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldi *
Temo per la mia vita e per questo ho deciso di collaborare con la giustizia e dire tutto quello che mi riguarda, anche reati da me commessi. In particolare, intendo riferire sullo smaltimento illegale dei rifiuti speciali, tossici e nocivi, a partire dal 1987-88 fino all’anno 2005. Smaltimenti realizzati in cave, in terreni vergini, in discariche non autorizzate e in siti che posso materialmente indicare, avendo anche io contribuito... Comincia così il più sconvolgente racconto della devastazione di una regione: venti anni di veleni nascosti ovunque, che hanno contaminato il suolo, l’acqua e l’aria della Campania. Venti anni di denaro facile che hanno consolidato il potere dei casalesi, diventati praticamente i monopolisti di questo business sporco e redditizio. La testimonianza choc di una follia collettiva, che dalla fine degli anni Ottanta ha spinto sindaci, boss e contadini a seminare scorie tossiche nelle campagne tra Napoli e Caserta. Con il Commissariato di governo che in nome dell’emergenza ha poi legalizzato questo inferno.
Gaetano Vassallo è stato l’inventore del traffico: l’imprenditore che ha aperto la rotta dei rifiuti tossici alle aziende del Nord. E ha amministrato il grande affare per conto della famiglia Bidognetti, seguendone ascesa e declino nell’impero di Gomorra.
I primi clienti li ha raccolti in Toscana, in quelle aziende fiorentine dove la massoneria di Licio Gelli continua ad avere un peso. I controlli non sono mai stati un problema: dichiara di avere avuto a libro paga i responsabili. Anche con la politica ha curato rapporti e investimenti, prendendo la tessera di Forza Italia e puntando sul partito di Berlusconi.
La rete di protezione
Quando Vassallo si presenta ai magistrati dell’Antimafia di Napoli è il primo aprile. Mancano due settimane alle elezioni, tante cose dovevano ancora accadere. Due mesi esatti dopo, Michele Orsi, uno dei protagonisti delle sue rivelazioni è stato assassinato da un commando di killer casalesi. E 42 giorni dopo Nicola Cosentino, il più importante parlamentare da lui chiamato in causa, è diventato sottosegretario del governo Berlusconi.
Vassallo non si è preoccupato. Ha continuato a riempire decine di verbali di accuse, che vengono vagliati da un pool di pm della direzione distrettuale antimafia napoletana e da squadre specializzate delle forze dell’ordine: poliziotti, finanzieri, carabinieri e Dia. Finora i riscontri alle sue testimonianze sono stati numerosi: per gli inquirenti è altamente attendibile.
Anche perché ha conservato pacchi di documenti per dare forza alle sue parole. Che aprono un abisso sulla devastazione dei suoli campani e poi, attraverso i roghi e la commercializzazione dei prodotti agro-alimentari, sulla minaccia alla salute di tutti i cittadini. Come è stato possibile?
"Nel corso degli anni, quanto meno fino al 2002, ho proseguito nella sfruttamento della ex discarica di Giugliano, insieme ai miei fratelli, corrompendo l’architetto Bovier del Commissariato di governo e l’ingegner Avallone dell’Arpac (l’agenzia regionale dell’ambiente). Il primo è stato remunerato continuativamente perché consentiva, falsificando i certificati o i verbali di accertamento, di far apparire conforme al materiale di bonifica i rifiuti che venivano smaltiti illecitamente. Ha ricevuto in tutto somme prossime ai 70 milioni di lire. L’ingegner Avallone era praticamente ’stipendiato’ con tre milioni di lire al mese, essendo lo stesso incaricato anche di predisporre il progetto di bonifica della nostra discarica, progetto che ci consentiva la copertura formale per poter smaltire illecitamente i rifiuti".
Il gran pentito dei veleni parla anche di uomini delle forze dell’ordine ’a disposizione’ e di decine di sindaci prezzolati. Ci sono persino funzionari della provincia di Caserta che firmano licenze per siti che sono fuori dai loro territori. Una lista sterminata di tangenti, versate attraverso i canali più diversi: si parte dalle fidejussioni affidate negli anni Ottanta alla moglie di Rosario Gava, fratello del patriarca dc, fino alla partecipazione occulta dell’ultima leva politica alle società dell’immondizia.
L’età dell’oro
Vassallo sa tutto. Perché per venti anni è stato il ministro dei rifiuti di Francesco Bidognetti, l’uomo che assieme a Francesco ’Sandokan’ Schiavone domina il clan dei casalesi. All’inizio i veleni finivano in una discarica autorizzata, quella di Giugliano, legalmente gestita. Le scorie arrivavano soprattutto dalle concerie della Toscana, sui camion della ditta di Elio e Generoso Roma. C’era poi un giro campano con tutti i rifiuti speciali provenienti dalla rottamazione di veicoli: fiumi di olii nocivi.
I protagonisti sono colletti bianchi, che fanno da prestanome per i padrini latitanti, li nascondono nelle loro ville e trasmettono gli ordini dal carcere dei boss detenuti. In pratica, accusa tutte le aziende campane che hanno operato nel settore, citando minuziosamente coperture e referenti. C’è l’avvocato Cipriano Chianese. C’è Gaetano Cerci "che peraltro è in contatto con Licio Gelli e con il suo vice così come mi ha riferito dieci giorni fa".
Il racconto è agghiacciante. Sembra che la zona tra Napoli e Caserta venga colpita dalla nuova febbre dell’oro. Tutti corrono a sversare liquidi tossici, improvvisandosi riciclatori. "Verso la fine degli Ottanta ogni clan si era organizzato autonomamente per interrare i carichi in discariche abusive. Finora è stato scoperto solo uno dei gruppi, ma vi erano sistemi paralleli gestiti anche da altre famiglie".
Ci sono trafficanti fai-dai-te che buttano liquidi fetidi nei campi coltivati in pieno giorno. Contadini che offrono i loro frutteti alle autobotti della morte. E se qualcuno protesta, intervengono i camorristi con la mitraglietta in pugno.
La banalità del male
Chi, come Vassallo, possiede una discarica lecita, la sfrutta all’infinito. Il sistema è terribilmente banale: nei permessi non viene indicata l’esatta posizione dell’invaso, né il suo perimetro. Così le voragini vengono triplicate. "Tutte le discariche campane con tale espediente hanno continuato a smaltire in modo abusivo, sfruttando autorizzazioni meramente cartolari. Ovviamente, nel creare nuovi invasi mi sono disinteressato di attrezzare quegli spazi in modo da impermeabilizzare i terreni; non fu realizzato nessun sistema di controllo del percolato e nessuna vasca di raccolta, sicché mai si è provveduto a controllare quella discarica ed a sanarla". In uno di questi ’buchi’ semilegali Vassallo fa seppellire un milione di metri cubi di detriti pericolosi.
L’aspetto più assurdo è che durante le emergenze che si sono accavallate, tutte queste discariche - quelle lecite e i satelliti abusivi - vengono espropriate dal Commissariato di governo per fare spazio all’immondizia di Napoli città. All’imprenditore della camorra Vassallo, pluri-inquisito, lo Stato concede ricchi risarcimenti: quasi due milioni e mezzo di euro. E altra monnezza seppellisce così il sarcofago dei veleni, creando un danno ancora più grave.
"I rifiuti del Commissariato furono collocati in sopra-elevazione; la zone è stata poi ’sistemata’, anche se sono rimasti sotterrati rifiuti speciali (includendo anche i tossici), senza che fosse stata realizzata alcuna impermeabilizzazione. Non è mai stato fatto uno studio serio in ordine alla qualità dell’acqua della falda. E quella zona è ad alta vocazione agricola".
L’import di scorie pericolose fruttava al clan 10 lire al chilo. "In quel periodo solo da me guadagnarono due miliardi". Il calcolo è semplice: furono nascoste 200 mila tonnellate di sostanze tossiche. Questo soltanto per l’asse Vassallo-casalesi, senza contare gli altri i boss napoletani che si erano lanciati nell’affare, a partire dai Mallardo.
"Una volta colmate le discariche, i rifiuti venivano interrati ovunque. In questi casi gli imprenditori venivano sostanzialmente by-passati, ma talora ci veniva richiesto di concedere l’uso dei nostri timbri, in modo da ’coprire’ e giustificare lo smaltimento dei produttori di rifiuti, del Nord Italia... Ricordo i rifiuti dell’Acna di Cengio, che furono smaltiti nella mia discarica per 6.000 quintali. Ma carichi ben superiori dall’Acna furono gestiti dall’avvocato Chianese: trattava 70 o 80 autotreni al giorno. La fila di autotreni era tale che formava una fila di circa un chilometro e mezzo".
Un’altra misteriosa ondata di piena arriva tra la fine del 2001 e l’inizio del 2002: "Si trattava di un composto umido derivante dalla lavorazione dei rifiuti solidi urbani triturati, contenente molta plastica e vetro". Decine di camion provenienti da un impianto pubblico: a Vassallo dicono che partono da Milano e vanno fatti scomparire in fretta.
Il patto con la politica Uno dei capitoli più importanti riguarda la società mista che curava la nettezza urbana a Mondragone e in altri centri del casertano. È lì che parla dei fratelli Michele e Sergio Orsi, imprenditori con forti agganci nei palazzi del potere: il primo è stato ammazzato a giugno. I due, arrestati nel 2006, si erano difesi descrivendo le pressioni di boss e di politici.
Ma Vassallo va molto oltre: "Confesso che ho agito per conto della famiglia Bidognetti quale loro referente nel controllo della società Eco4 gestita dai fratelli Orsi. Ai fratelli Orsi era stata fissata una tangente mensile di 50 mila euro... Posso dire che la società Eco4 era controllata dall’onorevole Nicola Cosentino e anche l’onorevole Mario Landoldi (An) vi aveva svariati interessi. Presenziai personalmente alla consegna di 50 mila euro in contanti da parte di Sergio Orsi a Cosentino, incontro avvenuto a casa di quest’ultimo a Casal di Principe. Ricordo che Cosentino ebbe a ricevere la somma in una busta gialla e Sergio mi informò del suo contenuto".
Rapporti antichi, quelli con il politico che la scorsa settimana ha accompagnato Berlusconi nell’ultimo bagno di folla napoletano: "La mia conoscenza con Cosentino risale agli anni ’80, quando lo stesso era appena uscito dal Psdi e si era candidato alla provincia. Ricordo che in quella occasione fui contattato da Bernardo Cirillo, il quale mi disse che dovevamo organizzare un incontro elettorale per il Cosentino che era uno dei ’nostri’ candidati ossia un candidato del clan Bidognetti. In particolare il Cirillo specificò che era stato proprio ’lo zio’ a far arrivare questo messaggio".
Lo ’zio’, spiega, è Francesco Bidognetti: condannato all’ergastolo in appello nel processo Spartacus e, su ordine del ministro Alfano, sottoposto allo stesso regime carcerario di Totò Riina e Bernardo Provenzano. L’elezione alla provincia di Caserta è stata invece il secondo gradino della carriera di Cosentino, l’avvocato di Casal di Principe oggi leader campano della Pdl e sottosegretario all’Economia. "Faccio presente che sono tesserato ’Forza Italia’ e grazie a me sono state tesserate numerose persone presso la sezione di Cesa. Mi è capitato in due occasioni di sponsorizzare la campagna elettorale di Cosentino offrendogli cene presso il ristorante di mio fratello, cene costose con centinaia di invitati. L’ho sostenuto nel 2001 e incontrato spesso dopo l’elezione in Parlamento".
Ma quando si presenta a chiedere un intervento per rientrare nel gioco grande della spazzatura, gli assetti criminali sono cambiati. Il progetto più importante è stato spostato nel territorio di ’Sandokan’ Schiavone. Il parlamentare lo riceve a casa e può offrirgli solo una soluzione di ripiego: "Cosentino mi disse che si era adeguato alle scelte fatte ’a monte’ dai casalesi che avevano deciso di realizzare il termovalorizzatore a Santa Maria La Fossa. Egli, pertanto, aveva dovuto seguire tale linea ed avvantaggiare solo il gruppo Schiavone nella gestione dell’affare e, di conseguenza, tenere fuori il gruppo Bidognetti e quindi anche me".
Vassallo non se la prende. È abituato a cadere e rialzarsi. Negli ultimi venti anni è stato arrestato tre volte. Dal 1993 in poi, ad ogni retata seguiva un periodo di stallo. Poi nel giro di due anni un’emergenza che gli riapriva le porte delle discariche. "Fui condannato in primo grado e prosciolto in appello. Ma io ero colpevole". Una situazione paradossale: anche mentre sta confessando reati odiosi, ottiene dallo Stato un indennizzo di un milione 200 mila euro. E avverte: "Conviene che li blocchiate prima che i miei fratelli li facciano sparire...".
La Gdf in redazione e nelle abitazioni dei giornalisti Di Feo e Fittipaldi
Sul settimanale le confessioni di un imprenditore che smaltiva rifiuti illecitamente
Inchiesta sui veleni a Napoli
perquisiti l’Espresso e due reporter *
ROMA - Perquisiti dalla Guardia di Finanza la redazione de L’espresso e le abitazioni dei giornalisti Gianluca Di Feo e Emiliano Fittipaldi. Le fiamme gialle si sono presentate in redazione questa mattina per controllare e sequestrare documenti e computer dei giornalisti. La perquisizione è stata ordinata dopo la pubblicazione dell’inchiesta di copertina del settimanale in edicola da oggi e anticipata largamente ieri sul sito, "Così ho avvelenato Napoli".
Nell’inchiesta sono riportate le confessioni dell’imprenditore Gaetano Vassallo, sullo smaltimento dei rifiuti tossici in Campania per conto della Camorra. Nelle sue confessioni Vassallo chiama in causa politici e funzionari: in particolare il sottosegretario all’Economia, Nicola Cosentino, oltre a una nutrita schiera di sindaci e manager degli enti locali campani.
Immediati i messaggi di solidarietà alla redazione de L’espresso e a Di Feo e Fittipaldi. A cominciare da quello della direzione di Repubblica: "Ezio Mauro e la Direzione di Repubblica sono solidali con gli amici dell’Espresso che con il loro lavoro difendono il diritto di cronaca, fondamento di una opinione pubblica libera e consapevole".
’’Siamo preoccupati - afferma Paolo Butturini, segretario di Stampa Romana - per il clima di ostilità che si va diffondendo nel Paese verso la libera informazione. I giornalisti esercitano soltanto il loro diritto-dovere di indagare e raccontare ai cittadini quel che accade in Italia. In una democrazia è necessario che l’informazione sia tutelata e possa svolgere liberamente il proprio compito. Nel caso dei colleghi de L’espresso, poi, siamo di fronte a giornalisti che, a rischio della propria incolumità, indagano sul perverso intreccio fra politica, imprenditoria e poteri criminali nell’oscura vicenda dello smaltimento dei rifiuti tossici".
La redazione de L’espresso, attraverso una nota del comitato di redazione, esprime grande preoccupazione per l’intervento della Guardia di Finanza: "Ancora una volta l’esercizio del diritto di cronaca è oggetto di atti intimidatori che respingiamo fermamente. Gravi e offensivi per il lavoro dei nostri giornalisti appaiono per di più i modi con cui le perquisizioni si stanno svolgendo (ben diciotto agenti impegnati). Non possiamo fare a meno di notare - conclude la nota del cdr - che un simile spiegamento di forze avviene in seguito ai riferimenti contenuti nell’inchiesta sul presunto ruolo nello scandalo dei rifiuti di un sottosegretario del Governo".
Sulla stessa linea il segretario della Federazione nazionale della stampa Franco Siddi che definisce "davvero inaccettabile l’irruzione della guardia di Finanza nella redazione romana de L’espresso e in casa di due colleghi". "Comprendiamo - aggiunge - che l’attività della magistratura sia in una fase delicata ma non possiamo accettare che l’attività giornalistica di inchiesta venga trattata come fosse illegale e sotto tutela. Ci pare che fin troppo chiaro il tentativo di affievolire la capacità di ricerca della verità da parte dei giornalisti. Sono ormai, infatti, troppi in questi mesi gli interventi sui colleghi e sulle redazioni".
* la Repubblica, 12 settembre 2008
L’opera prima del giornalista-reporter Roberto Saviano nella sezione "non fiction"
"Un potente reportage nel violento impero della criminalità organizzata napoletana"
Il New York Times incorona "Gomorra"
tra i migliori cento libri del 2007
NEW YORK - Roberto Saviano si è conquistato un posto nell’Olimpo degli autori stilato dal New York Times. Il prestigioso quotidiano ha infatti inserito Gomorra (edito negli Stati Uniti da Farrar, Straus & Giroux con il titolo Gomorrah) nell’elenco dei cento migliori libri del 2007 nella sezione "non fiction".
Il libro di Saviano appare nell’elenco dei "100 notable books of 2007", stilato ogni anno dal New York Times, accanto a biografie, saggi, studi storici rigorosamente in ordine alfabetico, ognuno con due righe di motivazione e il titolo linkato alla recensione. "Un viaggio personale nel violento impero internazionale della criminalità organizzata napoletana" si legge nella motivazione di Gomorra, "un potente reportage che alla sua uscita ha scatenato un dibatto in Italia". La recensione, assicura il quotidiano, sarà pubblicata domani nelle pagine culturali, mentre la sintesi dell’annata, ossia i migliroi dieci del 2007, saranno resi noti sul sito il prossimo 28 novembre.
L’opera prima del giornalista-reporter, caso letterario dell’anno, testimonianza di una realtà spietata e durissima, è intanto diventato uno spettacolo teatrale che arriverà presto a Roma, al teatro Valle dal 27 novembre all’8 dicembre.
* la Repubblica, 22 novembre 2007.
TEATRO
Laureati in camorra
secondo Saviano
di MASOLINO D’AMICO (La Stampa, 31/10/2007 - 8:13.
Il libro lo hanno comprato quasi un milione di persone, mentre i fruitori della riduzione teatrale (110’ filati) non possono essere per ora più di novantotto a recita, ossia quanti ne contiene il Ridotto del Mercadante. Costoro sono tuttavia dei privilegiati, perché Gomorra diretto da Mario Gelardi, adattatore del testo insieme con l’autore Roberto Saviano, è uno spettacolo eccellente, vivo, vitale, appassionante, di quelli che ogni tanto riconciliano col medium.
Per i cinquantanove milioni che ancora non lo sanno, Saviano è il giornalista ventottenne che ha raccontato le attività quotidiane della camorra nel suo piccolo centro campano, guadagnandosi minacce della medesima in seguito alle quali non ha potuto nemmeno essere presente alla prima della pièce. Questa segue l’andamento del bestseller in quanto consiste in una serie, più che di episodi, di vignette e incontri con esponenti a vari livelli della malavita di un posto simile a Casal di Principe: cinque personaggi che interagiscono tra loro o che ogni tanto si confessano, magari solo per vantarsi, con l’alias di Saviane stesso, un giovanotto assorto che ancora prima di indignarsi cerca di capire, e che introduce la serata parlando brevemente a un microfono in piazza.
Dei cinque irregolari ben due sono laureati, uno addirittura alla Bocconi con poi tanto di Master a Londra. Questo è il farabutto più disgustoso di tutti, in quanto specializzato nella devastazione del territorio e non solo, seppellendo rifiuti tossici in luoghi densamente abitati. L’altro laureato, molto meno cool di lui, prova addirittura un orgasmo quando gli capita di sparare per la prima volta con un kalashnikov. Il suo colpo di genio ha luogo coi funerali di papa Wojtyla: trentamila bottiglie di plastica recuperate dall’immondizia, riempite di acqua del rubinetto e vendute a peso d’oro. Altri due sono manovalanza: un violento che si sfoga tirando sempre fuori la pistola e minacciando i più deboli, e un piccolo balordo che si sente virtuoso quando rinuncia a spacciare droga per rapinare le coppiette. Il quinto elemento è un fiancheggiatore suo malgrado, un bravissimo sarto costretto a falsificare capi famosi, che entra in crisi quando riconosce un suo manufatto addosso a Angelina Jolie la sera degli Oscar, e nessuno gli crede.
I ritratti sono consegnati, mediante un dialogo brillante, da sei attori tutti in stato di grazia - Ivan Castiglione come Roberto, e poi Francesco Di Leva, Antonio Ianniello, Giuseppe Miale di Mauro, Adriano Pantaleo, Ernesto Mahieux - dentro una indovinata scenografia di Roberto Crea, uno spazio delimitato da palchi di tubi Innocenti ai lati e sul fondo, con effetto di cantiere abbandonato (si parla parecchio anche di edilizia, una delle attività più lucrose della camorra), e agli angoli quattro piloni di cemento che alla fine crolleranno rivelando di contenere statuette di Maradona e madonnine di Pompei. Il palco sul fondo è praticabile al primo livello, come fosse un cavalcavia, ma anche occultabile mediante proiezioni di immagini astratte e abbastanza lugubri. Le luci evocano sempre un mezzobuio malsano, come se il sole non splendesse mai su questi luoghi corrotti, i cui indigeni non sembrano aspettarsi più nulla. Non è tuttavia a un comizio che assistiamo, Saviane non vuole imporci niente, né sembra avere altra medicina da proporre se non la speranza che un numero sempre maggiore di persone smetta di ritenere questo tristo stato di cose come inevitabile. Ma ad alimentare il suo e il nostro pessimismo aggiunge la considerazione che qui non di pittoresca criminalità locale si tratta, bensì della massima visibilità di un sistema occulto che ormai ha ramificazioni, almeno in Italia, quasi dappertutto.
Al Mercadante di Napoli fino al 18 novembre.
BERLINO
Dopo il successo di «Gomorra», lo scrittore italiano ieri in Germania ha raccontato il suo impegno contro la camorra
Saviano: mafia questione europea
«Dopo la strage di Duisburg, è sempre più chiaro che la criminalità organizzata può essere sconfitta solo con una lotta a livello globale»
Da Berlino Vincenzo Savignano (Avvenire, 06.09.2007)
Il ragazzo che sfidò la camorra. Roberto Saviano, nato nel 1979 a Casal di Principe in provincia di Napoli, in poco più di un anno è diventato un fenomeno mediatico. A un anno dal successo italiano del suo libro Gomorra in cui, come mai nessuno prima, descrivendo con una sconvolgente minuziosità di particolari e facendo nomi e cognomi, ha ricostruito il mondo affaristico e criminale della camorra, la Germania lo ha accolto come una star, un personaggio unico da conoscere e scoprire. Ieri è arrivato a Berlino, dove oggi inaugurerà il Festival della letteratura, leggendo alcune parti del suo libro, che anche qui è ormai un best seller.
Nella capitale tedesca è protetto giorno e notte da una decina di agenti di sicurezza, ma lo seguono ovunque anche fotografi e cameraman. Ha già rilasciato interviste a tutte le principali televisioni nazionali tedesche, che prima di tutto gli hanno chiesto un’opinione sulla strage di ferragosto a Duisburg, dopo la quale la Germania ha capito di essere anch’essa terra di mafia. «Non mi sono affatto sorpreso di ciò che è accaduto a Duisburg - ha sottolineato Saviano, nel corso della conferenza stampa, svoltasi ieri a Berlino alla sede della stampa estera - la magistratura e la polizia sia italiana sia tedesca sanno perfettamente quanto sono presenti e diffuse le mafie italiane in Germania». Saviano sa tutto della camorra, o meglio del "Sistema" perché «così la chiamano i boss», dei quali nelle sue inchieste ha seguito le tracce, giungendo proprio fino in Germania. Ieri ha fatto riempire pagine di appunti ai giornalisti tedeschi, snocciolando date, nomi e luoghi sulla nascita, formazione e diffusione delle mafie italiane in Germania. «Nel 1991 - ha raccontato - si svolse una riunione segreta a Praga, dove alcuni boss della camorra e della ’ndrangheta si spartirono gli affari. I Licciardi si stabilirono a Monaco, i Di Lauro a Stoccarda ed altre famiglie iniziarono ad acquistare terreni ed immobili in tutta la ex Ddr, che diventò in poco tempo l’avamposto per la conquista dell’est Europa». Secondo Saviano, «la Germania è stata scelta come base dai cartelli criminali, anche perché nel diritto penale tedesco non esiste il reato di associazione mafiosa e non sono consentiti facilmente le intercettazioni telefoniche e il sequestro dei beni». Ma il "Sistema", la camorra, e la Cosa Nuova, come lui definisce la ’ndrangheta, hanno costruito i loro imperi grazie all’oro bianco: la cocaina. «Verso la fine degli anni ’90 - ha aggiunto - Rostock è diventato uno dei principali porti di ingresso della cocaina tanto che le mafie italiane preferiscono far arrivare la cocaina in Germania e poi trasportarla in Italia, piuttosto che il contrario, come avveniva negli anni ’80».
In silenzio i migliori giornalisti della stampa tedesca hanno ascoltato il racconto lucido del giornalista d’inchiesta Roberto Saviano che però preferisce definirsi uno scrittore. «Mi sento scrittore - ha spiegato - perché quando iniziai a seguire la guerra di camorra non m’imposi l’imperativo della cronaca, ma come diceva Truman Capote ho voluto raccontare la verità attraverso lo strumento letterario». Stupisce Roberto Saviano per la sua capacità di analisi e di sintesi su uno degli argomenti più controversi della storia della nostra Repubblica.
Saviano allo stesso tempo è un po’ scugnizzo e un po’ intellettuale. A Casal di Principe, quella che lui definisce la capitale della camorra, è cresciuto con e come gli scugnizzi, con il mito dei boss: «Ricordo che marinavo la scuola per andare a vedere gli interrogatori in video-conferenza di "Sandokan", il boss Roberto Schiavone». Ma poi la rabbia e lo sdegno hanno fatto scattare qualcosa nella mente di questo giovane studente di filosofia, iscritto all’Università di Napoli, che si è trasformato nell’uomo più coraggioso di Casal di Principe. «Non ho mai voluto nascondermi per questo nel mio libro parlo sempre in prima persona e per questo ho messo la mia foto sulla copertina. Non farlo, oltre ad essere un gesto di codardia, significava sottrarre qualcosa di importante al mio racconto».
Lo scrittore scugnizzo intellettuale Saviano conosce la camorra, anzi il "Sistema", come pochi altri perché c’è cresciuto dentro: «Ho visto il primo morto ammazzato a dodici anni». Per questo ha raccontato nei minimi particolari l’organizzazione affaristica con ramificazioni impressionanti in tutto il pianeta e il fenomeno criminale profondamente influenzato dalla spettacolarizzazione mediatica, per cui i boss si ispirano negli abiti e nelle movenze ai gangster del cinema americano. Per questo Saviano vuole indicare la strada per sconfiggere quello che definisce «un male peggiore del terrorismo islamico». «Oltre ad una battaglia culturale - ha spiegato - bisogna intraprendere una lotta ai più alti livelli della politica, ed in questo la Germania può svolgere un ruolo fondamentale, modificando la propria legislazione e portando il problema a livello europeo».
Il potente clan è sotto assedio. E studia un gesto clamoroso. Parla il pm Antimafia. Colloquio con Franco Roberti
Casalesi, operazione Gomorra
L’allarme del procuratore Franco Roberti: sappiamo che Saviano e il pm Cantone sono nel mirino, chiediamo che vengano schierati gli investigatori migliori contro la camorra casertana. E che ci siano sforzi eccezionali per catturare i padrini latitanti. Perché i Casalesi sono diventati una nuova mafia, che ha infiltrato l’economia e le istituzioni.
di Gianluca Di Feo *
Leonardo Sciascia diceva: "I mafiosi odiano i magistrati che ricordano". E i Casalesi odiano anche gli scrittori che fanno conoscere a tutto il mondo il loro vero volto». Franco Roberti, responsabile della Direzione distrettuale antimafia campana e procuratore aggiunto di Napoli, conosce i movimenti sotterranei nelle famiglie casertane. Quegli indicatori che nelle ultime settimane indicano tempesta. Ed interviene con un’intervista a "L’espresso" ? che sarà in edicola domani - pesando le parole una a una, conscio della serietà della situazione: «C’è tutta una serie di segnali che evidenziano come il clan dei Casalesi si stia interessando a investigatori come Raffaele Cantone e a scrittori come Roberto Saviano che hanno provocato con il loro lavoro la sprovincializzazione del fenomeno camorra e fatto conoscere al mondo il vero volto della mafia casalese».
«Di questa situazione nei confronti di Cantone e Saviano noi della Direzione distrettuale di Napoli siamo assolutamente consapevoli. Per questo stiamo premendo perché vengano a lavorare nel Casertano i migliori investigatori italiani. Per questo da settembre chiederemo rinforzi quantitativi e qualitativi negli organici degli uffici di polizia che indagano in quell’area». Quello di Roberti è un discorso irrituale. Con bersagli chiari: «Chiederemo uno sforzo eccezionale per la cattura di latitanti storici: Antonio Iovine e Michele Zagaria sono ricercati da oltre dieci anni e sono inseriti nell’elenco dei più pericolosi d’Italia. Ma stiamo già facendo uno sforzo senza precedenti che ha provocato nell’ultimo anno la cattura di Casalesi di primissimo livello come Francesco Schiavone, cugino del celebre Sandokan, Giuseppe Russo o il reggente del clan Sebastiano Panaro. E dimostreremo che non ci sarà nessun calo di attenzione sui Casalesi dopo che il pm Cantone avrà lasciato l’ufficio per un nuovo incarico: l’unità di lavoro casertana della Dda, oltre a me che la coordino, sarà sempre dotata di autentici carri armati, giovani o meno giovani, che assicureranno continuità e incisività alle indagini, sia sul versante militare che su quello degli affari dei Casalesi».
Bastano queste ultime frasi a testimoniare quanto l’aria sia pesante. Per spiegarlo Roberti nell’intervista a "L’espresso" ricorre ai suoi ricordi personali, raccolti direttamente in un ventennio vissuto in prima linea. Perché è dalla fine degli anni Ottanta che i casalesi hanno costruito il loro potere di sangue e denaro, contando sempre sul silenzio. «Hanno sempre avuto tendenze egemoniche. Tutti i media guardavano a Napoli, invece il potere era nel Casertano. Carmine Alfieri, il capo indiscusso della camorra tra il 1984 e il 1992, si riteneva un subordinato di Antonio Bardellino, il fondatore dei Casalesi. Dopo il pentimento, Alfieri mi raccontò: "Io a Bardellino non potevo dare consigli. Era un grande campano, davanti a lui mi toglievo tanto di capello"».
Ma la vera forza dei signori della provincia più criminale d’Italia, arrivata a segnare il record mondiale di omicidi, è il fiuto per gli affari: «Sono stati i primi a uscire dal settore edile e dagli appalti per inserirsi nel ciclo dei rifiuti, nella produzione di beni di largo consumo, nelle aziende agro-alimentare, nei giochi e nelle scommesse legali, nei consorzi di bonifica. Non dimenticherò mai come nel dicembre 1992 scoprii il nuovo business dei rifiuti. Interrogavo Nunzio Perrella, un trafficante del Rione Traiano che era passato dalla droga alla munnezza. Da Thiene nel Vicentino raccoglieva le scorie tossiche delle fabbriche di vernice e li sversava in Campania. E disse che a comandare erano i Casalesi».
Adesso la capacità dei Casalesi ? prosegue Roberti nell’intervista a "L’espresso" che sarà in edicola domani - è andata ancora oltre: sono passati dall’economia industriale a quella finanziaria. «Sono così ricchi che agiscono investendo capitali nelle imprese legali, senza pretendere il controllo della gestione. Hanno inventato le società a p.c.m. ossia a partecipazione di capitale mafioso, che sono ormai parte rilevante dell’economia campana e nazionale. Ma trovano mercato anche all’estero. Perchè la loro strategia è vincente: i boss guadagnano facendo risparmiare le imprese. Sono più morbidi nelle banche: chiedono interessi inferiori, non fanno fretta per recuperare l’investimento. Hanno una ricchezza talmente vasta che li esonera dalle intimidazioni e dallo strozzinaggio. Il processo Zagaria sulle infiltrazioni nelle ditte di Parma e della pianura padana dimostra come gli imprenditori del Nord fossero felici di avere i capitali della camorra».
Per questo, sostiene Roberti, i Casalesi hanno dato vita a una metamorfosi micidiale: un nuovo modo di essere mafia. «Bisogna aggiornare il concetto di metodo mafioso alla luce della loro trasformazione. Non solo il vincolo di omertà e la forza di intimidazione, ma anche la forza del denaro. E quella delle relazioni imprenditoriali e istituzionali». Perché tutti i grandi gruppi delle costruzioni sono venuti a patti con i Casalesi. E il loro potere non potrebbe esistere senza il sostegno della politica. Un fronte meno esplorato, perché non ci saranno mai baci tra ministri e boss casertani. Non servono più relazioni dirette e vecchie testimonianze di pubblica stima. No, anche in questo i Casalesi sono l’evoluzione della specie.
«I rapporti con le istituzioni sono dominati dal mimetismo. Sono rapporti di reciproca funzionalità, un concetto che è stato fissato da sentenze ormai in giudicato. In pratica l’accordo tra padrini e leader politici nazionali avviene mediante gli esponenti locali del partito nel territorio controllato dai boss». E qui Roberti nell’intervista a "L’espresso" che sarà in edicola domani cita le motivazioni di un processo che ha fatto epoca, quello contro Antonio Gava, ex ministro degli Interni, protagonista della politica nazionale e leader della Dc in Campania che era stato accusato di associazione mafiosa proprio con Carmine Alfieri e Antonio Bardellino, il fondatore dei Casalesi. «Dalla sentenza che ha assolto Gava con l’articolo 530 secondo comma, ossia il comma che ha sostituito la vecchia insufficienza di prove, risulta provato con certezza che Gava era consapevole dei rapporti di reciprocità funzionale esistenti tra i politici locali della sua corrente e l’organizzazione camorristica, nonché della contaminazione tra la criminalità organizzata e le istituzioni locali del territorio campano».
A gestire lo scambio pensavano quindi altre figure, come il plenipotenziario di Gava, Francesco Patriarca, condannato con sentenza definitiva e arrestato a Parigi nelle scorse settimane, o Antonio D’Auria «segretario di Gava che andava a braccetto con camorristi ergastolani a cui aveva fatto da padrino di cresima» Insomma: la politica usa dei diaframmi per non sporcarsi le mani a livello nazionale. Un modo che rende più sicuri gli uomini di governo e semplifica anche le cose ai boss: più basso il livello, più semplice la trattativa. E se si passa dalla Campania di Gava ai Casalesi di oggi, che puntano sugli esponenti regionali dell’Udeur e dei Ds, si scopre che il quadro non è meno inquietante. Ma Roberti non entra nel merito delle istruttoria ancora aperte. Ribadisce la pericolosità del «rapporto sinallagmatico tra camorra, imprese e politica», che fa prosperare tutti: «I politici ottenevano sostegno elettorale dai clan, tangenti dagli impreditori e creavano consenso sociale con gli appalti. L’impresa conquistava l’appalto e la tranquillità nei cantieri garantita dai boss. La camorra invece portava a casa subappalti, mazzette e il rapporto con i politici per raggiungere protezioni nelle forze dell’ordine o informazioni sulle inchieste. Il tutto poi cementato dalle fatture false, che offrono occasione di riciclaggio e permettono di mettere insieme i fondi per pagare politici e boss».
Eccolo il segreto dei Casalesi: l’evoluzione del modello mafioso. Un triangolo d’oro, che funziona senza sparare né minacciare. A patto di costruire una cortina di silenzio. Una cortina doppiamente necessaria mentre si celebrano i processi, condotti e istruiti dal pm Raffaele Cantone, che vedono alla sbarra capi e gregari, cassieri e killer. Ma arriva "Gomorra" e la macchina perfetta dei Casalesi si inceppa: in un anno il libro di Saviano mette sotto i riflettori di mezza Europa famiglie fino ad allora ignorate.
«C’è stata un’esplosione di attenzioni proprio nel momento in cui i clan tra processo e affari volevano il silenzio. Ma l’evoluzione in senso mafioso, che ha trasformato la camorra casalese in una parte funzionalmente rilevante dell’economia non solo campana, ma nazionale, con proiezioni forti anche all’estero, ha determinato l’esigenza di tenere bassa l’attenzione su questi interessi economici. E sta creando una riorganizzazione interna, con rischi di tensioni. Perché questa attivazione dei media che ha seguito il libro di Saviano ha provocato la sprovincializzazione del fenomeno camorra e l’effetto, temutissimo perché devastante sugli affari del clan, della caduta di ogni alibi di non conoscenza. Nessuno ormai, quando gli si presenta un imprenditore casalese può dire di non sapere, di non sospettare...».
Questa nuova sfida sfugge alle categorie con cui i boss cresciuti in campagna interpretano il mondo. Crea un corto circuito nel loro sistema di potere: temono di perdere la faccia e con ciò vedere cadere il rispetto che sostiene il loro dominio sul territorio casertano. Ma sanno che usare i Kalashnikov provocherebbe la mobilitazione dello Stato e farebbe crollare i loro investimenti. «La tensione interna ai clan nasce proprio dalla necessità di tenere bassa l’attenzione sugli affari senza però perdere il controllo militare sugli affiliati. Nel passato recente ci sono stati altri segnali di tensione, che hanno riguardato persino i boss latitanti entrati in contrasto su scelte strategiche che comprendevano anche l’attentato contro un magistrato». Roberti non fa nomi: ma anche allora nel mirino c’era il pm Cantone. Oggi cosa accadrà? Il procuratore aggiunto di Napoli non vuole stare a guardare. E per questo nell’intervista a "L’espresso" che sarà in edicola domani invoca «i migliori investigatori, rinforzi qualitativi e quantitativi degli organici delle forze di polizia, uno sforzo eccezionale per la cattura dei latitanti storici». Perché finora dei Casalesi si è soprattutto parlato, senza che ci fosse una mobilitazione dello Stato per azzerare il loro impero: i padrini hanno affrontato i problemi giudiziari e quelli giornalistici senza che nel loro feudo la loro tranquillità venisse intaccata.
«I Casalesi finora hanno mantenuto una pax mafiosa, praticamente senza fatti di sangue. Sanno che l’attenzione per la camorra in genere nasce solo quando si spara. Per cui si fa ricorso a mezzi emergenziali per eludere l’obbligo politico e istituzionale di fronteggiarla su piano ordinario». E Roberti poi pronuncia parole amare per un napoletano che ama la sua terra: «Qui non c’è nessuna emergenza. La camorra è parte integrante della società napoletana e casertana, ne costituisce una delle facce. Bisogna prendere atto che questa realtà è parte di noi. Solo così saranno possibili gli interventi strategici per combatterla».
SCHEDA*
Minaccia a vita
I Casalesi evitano con attenzione gli omicidi eccellenti. E si curano sempre di limitarne i danni con un’attenta campagna di delegittimazione, alimentata sui media locali, proprio per tenere lontana l’attenzione della stampa nazionale. È quello che è accaduto dopo l’uccisione di don Giuseppe Diana, pilotando le rivelazioni calunniose di alcuni camorristi detenuti.
E si è ripetuto nel 2002 con l’assassinio di Federico Del Prete, leader di un piccolo sindacato di venditori ambulanti ucciso a Casal di Principe perché con le sue denunce aveva infastidito uno dei tanti racket casalesi. Alla fine la cortina del silenzio aveva retto. Persino quando Francesco ’Sandokan’ Schiavone ha personalmente minacciato un parlamentare ds, Lorenzo Diana, la questione è rimasta confinata nelle edizioni campane.
La prima volta lo hanno fatto nel 1992, devastando la sede locale del Pds e ’avvertendo’ il senatore Diana e l’allora deputato Antonio Bassolino. Poi nel 1998 Sandokan ha scritto personalmente una lettera contro il politico dal carcere e infine nel 2005 è intervenuto durante un’udienza. Il segno che i Casalesi non dimenticano. Mai.
* l’Espresso, 10 agosto 2007
I boss camorristi hanno scoperto la Cina prima di tutti. E creato ambasciate e società miste. Che dal porto di Napoli invadono di merci l’Europa
Da Scampia si vede Pechino
di Roberto Saviano *
E si racconta che i cinesi sono i napoletani d’Oriente. Nel gioco delle similitudini impossibili o persino dei modelli folkloristici esportati. E pare sia proprio così: la convivialità, la socievolezza, la simpatia d’impatto. Sembrano le stesse. Un’immagine che elimina gran parte dei pregiudizi, anche in una terra dove basta avere gli occhi leggermente a mandorla per essere definito ’o’ cinese’. Eppure la diffidenza della comunità cinese sul territorio napoletano è enorme. Una comunità silenziosa, ma che è capace di creare un quasi invisibile impero, molto più invisibile che a Prato piuttosto che a Roma o nel dedalo milanese di via Paolo Sarpi. Quelle sono le Chinatown che si lasciano vedere, ma è a Napoli che si trova il cuore dell’impero.
Il primo rapporto tra una certa economia cinese e l’Occidente non sono i patti, non sono le cene, non sono neanche i contatti diplomatici. Sono i porti a fare il legame. Non è un caso se i colossi del settore dai grattacieli di Hong Kong adesso vogliono fare compere da noi: sognano di mettere le mani sui moli di Gioia Tauro, di Palermo o di Augusta. Ma Napoli è stato il primo porto a diventare completamente cinese, una vera e propria colonia economica, colonia di investimento ovviamente perché di cittadini cinesi non se ne vedono molti.
Il risultato è che non v’è prodotto che non passa per il porto di Napoli: è il punto finale dei viaggi delle merci cinesi, vere o false, originali o tarocche. Il solo porto di Napoli movimenta il 20 per cento del valore dell’import tessile dalla Cina. Ma bisogna fare attenzione ai dati: perché in realtà oltre il 70 per cento della quantità del prodotto passa di qui. È una stranezza complicata da comprendere, ma le merci nel porto di Napoli riescono a essere non essendoci, ad arrivare pur non giungendo mai, a essere costose al cliente pur essendo scadenti. Basta un tratto di penna sulla bolletta d’accompagnamento per abbattere i costi e l’Iva radicalmente.
La merce deve arrivare nelle mani del compratore subito, presto, prima che il tempo possa iniziare, il tempo che potrebbe ospitare un controllo. Quintali di merce si muovono come fossero un pacco contrassegno che viene recapitato a mano dal postino a domicilio. È come se nel porto di Napoli si aprissero dimensioni temporali inesistenti, nei suoi 1.336.000 metri quadrati per 11,5 chilometri il tempo ha dilatazioni uniche.
Proprio in questi pontili opera il più grande armatore di Stato cinese, la Cosco, che possiede la terza flotta più grande al mondo e ha preso in gestione il più grande terminal per container, consorziandosi con la Msc, che possiede la seconda flotta più grande al mondo con sede a Ginevra. Svizzeri e cinesi si sono consorziati e a Napoli hanno deciso di investire la parte maggiore dei loro affari. Qui dispongono di oltre 950 metri di banchina, 130 mila metri quadri di terminal container e 30 mila metri quadri esterni, assorbendo la quasi totalità del traffico in transito nel centro campano. A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce proveniente dalla Cina: 1 milione 600 mila tonnellate. Quella registrata. Perché almeno un altro milione passa senza lasciare traccia.
Nel solo porto campano, il 60 per cento della merce sfugge al controllo della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene controllato e vi sono 50 mila contraffazioni di documenti: il 99 per cento dei materiali che si infilano in questo buco nero è di provenienza cinese e si calcolano, con riferimento soltanto a questa dogana, 200 milioni di euro di tasse evase a semestre.
Il trucco con cui entra la merce non è complicato, e basta passeggiare qualche settimana la mattina presto tra i container che vengono svuotati o a volte controllati per comprenderne il congegno. Tutto arriva e parte con gli Iso ossia i container. Iso sta per International Organization for Standardization: ogni Iso è regolarmente numerato e registrato con una formula: quattro lettere (delle quali le prime tre corrispondono alla sigla della compagnia proprietaria) - sette numeri - un numero finale. Spesso però ci sono Iso con la stessa identica numerazione. Così un container già ispezionato battezza tutti i suoi omonimi illegali. Semplice, efficacissimo, milionario.
Poteva sfuggire un’occasione del genere ai signori della camorra imprenditrice? Loro hanno tutto, e ben prima dei politici italiani e di Confindustria che si affaticano per rincorrere il mercato cinese. Senza sapere che il clan Di Lauro li ha preceduti, li ha distanziati di brutto: i padroni di Secondigliano e guerrieri di Scampia sono stati i primi.
Tutto cominciò con uno scatto. Importarono macchine fotografiche, videocamere. Lo fecero dieci anni prima che Confindustria spingesse gli imprenditori italiani ad andare laggiù. Un rapporto della Direzione antimafia campana mette insieme tutte le facce di questo affare e i nuovi Marco Polo partiti dalla periferia vesuviana. Con basi piantate pure a Taiwan dove Pietro Licciardi, detto ’l’imperatore romano’, aveva aperto un negozio con giacche di alta sartoria.
La dialettica dei clan ha avuto questo vettore da subito. Nelle fabbriche cinesi si produceva per conto delle migliori marche del mondo, bisognava saper approfittare dei loro indotti, e sfruttarli a proprio vantaggio. Un’industria che produce per sei mesi un tipo di macchina fotografica, può fabbricarla per altri sei mesi. Ma non può farlo per lo stesso marchio. Può produrre il medesimo modello, con l’identica qualità tecnologica mettendoci sopra un logo differente. E su questo meccanismo entrano in gioco i clan. Contini, Licciardi e Di Lauro. Le famiglie secondiglianesi. Ricche grazie alla droga e agli investimenti nel tessile, nel turismo e nell’edilizia. Potenti grazie alle batterie di killer ragazzini e di ancor più giovani vedette. Rapide come imprenditori del mercato globale.
Così la Cina è divenuto un serbatoio di produzione per i camorristi molto prima che per gli industriali italiani. Tutto a partire da quelle macchine fotografiche digitali che hanno ’monopolizzato’, secondo le ricostruzioni dei magistrati, il mercato dell’Europa Orientale: la famosa Canon Matic, fatta produrre in Cina direttamente dai Di Lauro che ne gestiscono anche l’importazione.
Poi sulla stessa rotta e con lo stesso sistema sono arrivati televisori giganti al plasma, telefonini, scarpe da ginnastica e pantaloni griffati. Sovrapprodotti dalle catene di montaggio asiatiche che li realizzano per i grandi marchi, fatti arrivare a Napoli e smaltiti in tutto l’Est della nuova Europa.
Forse ad agevolare la scoperta della Cina è stata anche la predilezione della camorra per le economie del socialismo reale. I clan legati al boss Bardellino e poi i secondiglianesi furono i primi gruppi criminali a mettere piede nell’allora Ddr e poi in Polonia, Romania. Ma si sono fermati alla frontiera dell’Urss: il pentito Gaetano Conte ha raccontato che i mafiosi russi hanno impedito l’ingresso degli investimenti napoletani. Altra sapienza antica, la mafia russa ben sa che dove investono i camorristi poi il territorio tutto diventa roba loro.
Il triangolo cinese a Napoli si trova alle pendici del Vesuvio. Ottaviano, Terzigno, San Giuseppe. Paesi cancellati dalla lava e poi risorti più volte nella storia adesso cambiano vita per l’ennesima colata. È lì che si riversa l’imprenditoria tessile venuta dall’Asia. Tutto quello che accade nelle comunità cinesi d’Italia è accaduto prima a Terzigno. Le prime lavorazioni, le qualità di produzione crescenti, e anche i primi assassinii.
La mafia cinese è complesso definirla, configurarla. A Napoli fu uccisa la prima ’testa di serpente’ individuata in Italia, Wang Dingjm, un immigrato quarantenne arrivato in auto da Roma per partecipare a una festa tra connazionali a Terzigno. Le teste di serpente sono una delle forze d’alleanza tra camorra e criminalità asiatica. Si chiamano così perché importano manodopera. Seguire una testa di serpente significa intravedere una sorta di venditore di bestiame. Vende esseri umani alle fabbriche. Fornisce a chiunque voglia, cinese o napoletano, tentare la strada dell’imprenditoria, manodopera numerosa e a basso costo. Le teste di serpente spesso però barano.
Prendono soldi per portare un numero di persone e si presentano con la metà degli uomini promessi spesso adducendo giustificazioni tra le più varie. Ma le scuse con la camorra non funzionano e le teste di serpente spesso rischiano la punizione finale quando barano. Garantiscono a imprenditori un quantitativo di persone che poi in realtà non portano. Prendono i soldi da tutti i committenti per un’ordinazione di manodopera, cento operai per ogni fabbrica; poi in realtà fanno entrare cento lavoratori da distribuire fra tutte le fabbriche. Come si uccide uno spacciatore quando ha tenuto per sé una parte del guadagno, così si uccide una testa di serpente perché ha barato sulla sua mercanzia, sugli esseri umani che smercia.
Ma non ci sono solamente schiavi. Quella è un’altra immagine che rischia di diventare passato, archeologia industriale come molti dei luoghi comuni sull’economia asiatica. Al quartiere Sanità qualche tempo fa avevo incontrato una ragazzina napoletana che si era messa a lavorare in una fabbrica cinese. Raccontò il suo nuovo mestiere dicendo: "Mi sono messa a fare la cinese". Un tempo il quartiere Sanità era il regno delle fabbriche dei guantai, raccontavano che persino i guanti della principessa Sissi erano stati prodotti in questi vicoli. E ora lentamente arrivano i cinesi, riescono a ridare energia a produzioni di qualità che in Italia sono scomparse per l’aumento del costo della manodopera sentito anche nel lavoro nero.
E per la prima volta in Italia accade la rivoluzione: cittadini italiani iniziano a lavorare per i cinesi, nelle loro fabbriche, e i cinesi stanno cercando con i loro prezzi di far decollare la qualità dei manufatti. Gli imprenditori arrivati dall’Asia cercano maestri per formare i loro artigiani goffi. Pagano meglio dei padroni di Secondigliano per rubare l’arte a quelle maestranze che nei laboratori di Arzano tagliano gli abiti di prima scelta. Capolavori dell’italian style disegnati da sarti famosi e finiti poi addosso a stelle di prima grandezza. Come quando Angelina Jolie comparve sulla passerella degli Oscar indossando un completo di raso bianco, bellissimo. Uno di quelli su misura, di quelli che gli stilisti italiani, contendendosele, offrono alle star.
Quel vestito l’aveva cucito un mastro napoletano, Pasquale, in una fabbrica in nero ad Arzano. Gli avevano detto solo: "Questo va in America". Pasquale aveva lavorato su centinaia di vestiti andati negli Usa. Si ricordava bene quel tailleur bianco. Si ricordava ancora le misure, tutte le misure. Il taglio del collo, i millimetri dei polsi. Ed era proprio Pasquale quello che serviva ai cinesi per fare il grande salto. Per diventare più bravi degli italiani. Pasquale insegnava la qualità. Lo usavano per insegnare alle sarte venute dall’Asia. Lezioni clandestine, nascosto nel cofano come un latitante. Mentre al volante c’è un Minotauro con la pistola tra le gambe, perché così si spara più in fretta. Ai camorristi non piace che i cinesi gli rubino l’arte. Mentre invece i clan si sono messi a fare i cinesi. Copiano i loro sistemi economici che danno vita a consorzi di piccole imprese, con gare al ribasso nei costi e nei tempi pur di accaparrarsi una commessa. Con vincoli aperti dal prestito a usura e cementati dalla minaccia. Con lavoranti praticamente senza diritti. È il segreto dell’oro di Las Vegas, la zona industriale nata dal nulla nella periferia nord della metropoli.
E oltre all’import i camorristi fanno l’export. Lo fanno i clan del Casertano. I feroci in grado di monopolizzare il mercato di rifiuti. Esportano spazzatura, morchie così tossiche che nemmeno i criminali vogliono averle in casa. Al porto di Napoli sono stati trovati, come segnala Legambiente nei dossier 2004 e 2005, container zeppi di rifiuti in partenza per la Cina. Materia da intombare in Cina. Un affare florido e quasi inesplorato dagli investigatori: la nuova frontiera di un business che non conosce confini né scrupoli. Ma soltanto guadagni.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Da%20Scampia%20si%20vede%20Pechino/1393227//0
Lettere, telefonate mute e anche un isolamento ambientale che mette paura. Ora lo scrittore che con il suo best seller ha sfidato i clan deve vivere blindato
Minacce camorriste a Roberto Saviano: finisce sotto scorta l’autore di Gomorra
di DARIO DEL PORTO *
NAPOLI - Minacce allo scrittore che ha raccontato la camorra imprenditrice e le storie della faida di Scampia. Lettere minatorie, telefonate mute. E anche un isolamento ambientale che mette paura forse più delle intimidazioni. Adesso dovranno essere adottate nuove misure di protezione per Roberto Saviano, 28 anni, l’autore del libro-inchiesta "Gomorra", edito da Mondadori, da cinque mesi in testa alle classifiche e vincitore del premio Viareggio Repaci. Il prefetto di Caserta, Maria Elena Stasi, ha aperto un procedimento formale che passerà al vaglio del comitato provinciale per l’ordine pubblico.
Lo rivela il settimanale "L’espresso", con il quale Saviano collabora, nel numero che sarà in edicola oggi. Esponenti di primo piano della camorra campana come Michele Zagaria e Antonio Iovine, il più celebre Francesco Schiavone soprannominato "Sandokan", "hanno mal tollerato - si legge nel lungo servizio - il successo di Gomorra, che ha imposto i loro traffici all’attenzione nazionale".
Non solo. I clan si sono anche "infuriati per la sfida che Saviano ha portato nel loro feudo, nella Casal di Principe che negli anni ’90 aveva il record di omicidi". Lo scrittore, ricorda "L’espresso", si è presentato sul palco della cittadina casertana il 23 settembre scorso, insieme al presidente della Camera Fausto Bertinotti, nell’ultima di quattro giornate di mobilitazione anticamorra aperta dal ministro della Giustizia Clemente Mastella.
Saviano "ha chiamato i padrini per nome - scrive il settimanale - "Iovine, Schiavone, Zagaria, non valete nulla. Loro poggiano la loro potenza sulla vostra paura, se ne devono andare da questa terra"". Ma se l’ira della camorra poteva essere messa nel conto delle reazioni che un libro coraggioso come "Gomorra" e i reportages realizzati dal giovane scrittore avrebbero suscitato, altra cosa è l’emarginazione seguita alle sue denunce. "Colpisce il disprezzo delle autorità locali - accusa "L’espresso" - testimoniato dalle bordate di Rosa Russo Iervolino. Il sindaco partenopeo, nel consegnare a Saviano il premio Siani, lo ha definito "simbolo di quella Napoli che lui denuncia", offendendo sia l’autore sia la memoria del giornalista ammazzato 21 anni fa".
Ma c’è anche chi si sta mobilitando per non lasciarlo solo. Un appello improvvisato in sostegno di Roberto Saviano ha raccolto, evidenzia il settimanale, "firme di scrittori e lettori: tra i primi Massimo Carlotto e Giancarlo De Cataldo. Poche righe che denunciano "un isolamento fatto da ciò che non ti fanno e che vogliono farti credere ti faranno. Ma intanto ti fermano, creano diffidenza intorno, screditano, insultano, allontanano tutti dalla tua vita perché mettendo paura ti creano attorno il deserto. A questo punto devono venire fuori altre voci".
Intanto a Napoli la camorra continua a colpire e a fare soldi. Il Viminale lavora a un piano per la città. I firmatari dell’appello non vogliono fermarsi alle parole. Pensano a una grande manifestazione che dovrebbe svolgersi proprio in provincia di Caserta. Nella terra d’origine dello scrittore, e di quella camorra che vorrebbe mettere a tacere chi ne ha denunciato pubblicamente gli intrecci e gli inganni. (13 ottobre 2006)
www.repubblica.it, 13.10.2006
Sosteniamo Roberto Saviano
di Tommaso Aquilante, Emiliana Cristiano, Paolo Esposito, Alessandro Pecoraro *
Spesso si dà la colpa alla criminalità organizzata, alla camorra, al boss di quartiere e a volte di strada, ma il grado di civiltà di una Nazione dipende soprattutto dalle piccole cose. E’ per questo motivo che chiediamo a tutti coloro abbiano a cuore un problema che è di tutti gli italiani di sottoscrivere, sul sito www.sosteniamosaviano.net, il nostro messaggio di solidarietà indirizzato a Roberto Saviano e per presa conoscenza al Presidente della Repubblica e ai Presidenti del Senato e della Camera dei Deputati.
Caro Roberto, desideriamo esprimerti la nostra sincera solidarietà per gli spiacevoli episodi che ti sono capitati dopo la pubblicazione di Gomorra.
Hai avuto un grande coraggio che purtroppo manca a tante, troppe persone; ma il tuo coraggio sta dando dei frutti che non sono solo negativi. Molti ti accusano di parlare male della tua terra natale, ma chi ha un po’ di coscienza civile sa che tu hai fatto esattamente l’opposto: hai dato un po’ di onore ad un territorio devastato da quel gran fenomeno sociale che è la Camorra. Chi vive a contatto con la Camorra si adatta all’inadattabile e spesso senza rendersene conto legittima indirettamente determinati comportamenti! Il tuo libro ha dato fastidio a quelle persone che sono potenti grazie al silenzio della ragione. Spesso si dà la colpa alla criminalità organizzata, alla camorra, al boss di quartiere e a volte di strada, ma è ora di farsi un esame di coscienza perché il grado di civiltà di un territorio si vede innanzitutto dalle piccole cose.
Hai risvegliato le coscienze di tante persone, ci hai fatto capire che l’equazione Camorra=Boss è errata, perché quando si parla di Camorra ci si deve riferire a tutti coloro che legittimano questo Sistema e fanno sì che si radichi ben bene nel tessuto sociale del territorio.
A questo punto ci domandiamo a cosa servano tutti questi convegni in pompa magna, a cosa serve aumentare il numero delle forze di polizia, a cosa serve discutere ancora di ciò se non cambia la mentalità della stragrande maggioranza delle persone che vivono qui? Ci ha colpito in modo particolare la lettera di un bambino che hai pubblicato e che vogliamo riproporre: “Tutti quelli che conosco o sono morti o sono in galera. Io voglio diventare un boss. Voglio avere supermercati, negozi, fabbriche, voglio avere donne. Voglio tre macchine, voglio che quando entro in un negozio mi devono rispettare, voglio avere magazzini in tutto il mondo. E poi voglio morire. Ma come muore uno vero, uno che comanda veramente. Voglio morire ammazzato”.
La camorra ti ha indicato come il colpevole, perché stai commettendo uno degli “errori” più gravi che si possano compiere nell’agro aversano. Attraverso Gomorra ti sei permesso di spiegare tutti i suoi meccanismi, di spiegare il suo radicamento nella nostra società, di fare nomi e cognomi. Il vile attacco intimidatorio che la camorra ha perpetrato nei tuoi confronti, all’indomani del tuo intervento nella piazza principale di Casal di Principe, preoccupa tutti, in modo particolare i giovani.
Hai utilizzato nel migliore dei modi il diritto d’espressione e d’’informazione sancito dall’articolo 21 della nostra Costituzione, un diritto che nessuno può negarci.
Puoi stare certo che non ti abbandoniamo e che ti siamo accanto.
Al Presidente della Repubblica Sen. Giorgio Napolitano. Al Presidente della Camera On. Fausto Bertinotti. Al Presidente del Senato della Repubblica Sen. Franco Marini.
Egregio Presidente,
le scriviamo questa lettera perché riteniamo che sia arrivato il momento di rompere l’assordante silenzio che avvolge lo scempio che si consuma ogni giorno nella nostra terra. Un brutto spettacolo che va avanti da anni, da decenni, con i cittadini sempre più afflitti e le istituzioni sempre più assenti e purtroppo, non di rado, colluse con gli ambienti che dovrebbero combattere.
La camorra è a un passo dal vincere, o forse ha già vinto, contro la gente per bene. Negli ultimi anni, nella nostra terra, si è consumato uno scontro di civiltà che ha visto contrapporsi la mentalità e il modo di fare camorristico, al vivere civile. Uno scontro silenzioso ma costante, quasi intangibile ma frustrante, che ha usurato la voglia di riscatto delle nostre popolazioni. Una civiltà vince su un’altra non certo quando l’esercito occupante oltrepassa le mura perimetrali, bensì quando il popolo conquistato assorbe usi, costumi e cultura del popolo conquistatore. Ebbene la camorra ha conquistato l’altro “universo buono” del popolo campano. Essa dà lavoro dove non c’è e protezione a chi la chiede. In cambio chiede la vita. La vita di una persona, infatti, vale meno di un carico di cocaina, eppure non di rado quelli che noi definiamo “universo buono” o “gente per bene”, sono schierati dalla parte dei camorristi, con le forze dell’ordine che sono male accette, avversate e spesso attaccate fisicamente in luoghi come Scampia. Certo, stupirsi di ciò sarebbe da ingenui, visto che in certe zone di Napoli non ci entrano neppure i postini a consegnare la posta. Lì tutto è possibile e la camorra ha gioco facile. Ma il segnale tangibile della vincente strategia attuata dalla camorra non arriva dalle aree degradate, bensì dal centro delle nostre città, dalle aree generalmente considerate tranquille, vivibili. Intendiamo che se fino a pochi anni fa la camorra poteva essere identificata come un’organizzazione malavitosa, oggi è opportuno considerarla prima di tutto come un modus vivendi, come uno stile di vita. La mentalità sopraffattrice, la prepotenza e l’irriverenza verso le minime regole del vivere civile è la prova di quanto diciamo. Tali aberrazioni sono diffuse in ogni settore della popolazione e farne un discorso di classe o di degrado economico sarebbe sbagliato e controproducente. C’è da fare un’opera di pulizia culturale che coinvolga tutti quelli (e non sono pochi) che sono stanchi di vivere in questo modo.
Questo scritto scaturisce da un episodio che ci lascia sconcertati: lo scrittore Roberto Saviano, giornalista de L’ESPRESSO, autore di Gomorra, un libro - denuncia sulla realtà camorristica campana, napoletana e soprattutto aversana, è stato minacciato e intimidito al punto che il Prefetto ha deciso di assegnargli una scorta. Saviano ha avuto coraggio, Signor Presidente. Il coraggio di schierarsi dalla parte dei giusti, il coraggio di fare nomi e cognomi, nella piazza di Casal si Principe. Ci creda non è facile fare ciò. Si rischia e soprattutto si mette in pericolo i propri cari e la propria famiglia. La camorra è meschina, signor Presidente, ti attacca laddove non ti puoi difendere, ti sorveglia quando meno te lo aspetti (quando Saviano presentò il suo libro alla nella piazza di Casale, i camorristi della zona avevano messo degli scagnozzi a registrare chi avesse applaudito e quanto avesse applaudito). Saviano è un ragazzo di 28 anni che ha deciso di combattere nella sua terra contro il male maggiore: la mentalità camorristica. Per questo noi abbiamo deciso di aiutarlo con ogni mezzo a nostra disposizione. Ma noi da soli non bastiamo. Ci serve l’appoggio fattivo delle istituzioni locali e nazionali. La latitanza di queste è inaccettabile, le reazioni che alcune istituzioni campane hanno avuto nei confronti di Saviano sono state squallide, indicibili e avvilenti. Hanno dato alla camorra un messaggio di arrendevolezza: davanti a qualcuno che rischia la propria vita e quelle dei propri cari, non si può reagire snobbandolo. Sento spesso decantare la collaborazione tra istituzioni e cittadino: in questo caso il cittadino ha fatto la sua parte e vuole continuare a farla, ma ora tocca anche a qualcun altro.
Egregio Presidente, la storia di Saviano deve, secondo noi, servire da punto di partenza per riaccendere i riflettori sui problemi reali della nostra terra. Non ci servono più fondi di nessun tipo. Dateci cultura, sapere, istruzione, educazione civica e il resto verrà di conseguenza.
Ci tornano alla mente i ragazzi di Locri e le loro grida di battaglia: essi sono stati dimenticati e nessuno ne parla. Ci tornano in mente i veri eroi del nostro tempo: Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Don Diana... essi sono stati dimenticati e vengono ormai ricordati solo in qualche rituale manifestazione, con la conseguenza che il loro sacrificio sembra essere andato perso. Per sconfiggere la camorra abbiamo bisogno dell’apporto permanente e sinergico di tutti. Vorremmo una lotta senza e senza ma. Vorremo segnali: via i camorristi e i mafiosi dalla politica, vorremo che non ci fossero zone d’ombra tra la politica e la camorra. Vorremo chiarezza per capire meglio chi è da una parte e chi è dall’altra. Vorremo un’azione seria e continua contro chi strozza la nostra economia decidendo chi si aggiudicherà un appalto, quando se lo aggiudicherà e quanto questi guadagnerà da esso. Insomma un’azione seria verso la camorra imprenditrice, contro la camorra del racket, contro la camorra che non ci fa vivere in libertà
Per fare questo, caro Presidente, e per farsi che tra qualche anno non si stia ancora qui a discutere sul come fare a combatterla abbiamo bisogno del vostro aiuto. Una dichiarazione detta da voi è molto più di mille articoli scritti da noi. Siate decisi e di fianco a noi nel combattere la nostra piaga.
Con fiducia e sicuri che un giorno noi e i nostri figli riavremo la nostra terra, le porgiamo distinti saluti.
Con osservanza
Tommaso Aquilante, Emiliana Cristiano, Paolo Esposito, Alessandro Pecoraro
www.ildialogo.org, Lunedì, 16 ottobre 2006
La globalizzazione tutta «cosa nostra» è
di ALBERTO BURGIO (il manifesto, 29.07.2004)
Giurista per professione, economista per vocazione, Luigi Cavallaro nel libro Il modello mafioso e la società globale, edito da manifestolibri, esplora le analogie fra le dinamiche di sviluppo e i meccanismi della «onorata famiglia»
Luigi Cavallaro ha scritto un libro nuovo - non solo un nuovo libro - sulla «globalizzazione» (Il modello mafioso e la società globale, manifestolibri, pp. 1141, € 14,50). Il che, considerata l’alluvione letteraria, di alterno pregio, sul tema, è già merito di non poco conto. Nuovo: perché? Giurista per professione, studioso di economia (di economia politica e di politica economica) per vocazione, ferrato in filosofia per passione originaria, Cavallaro ha ragionato con spregiudicatezza sulla realtà della «società globale», allo scopo di comprendere le logiche che presiedono al suo funzionamento. Ed è pervenuto a un risultato di cui tutto si potrà dire, meno che si tratti di una tesi scontata. L’idea, alquanto irriverente, è che la «globalizzazione» si avvalga di una struttura di servizio che funziona un po’ come la mafia (quella vera, a denominazione d’origine controllata, che Cavallaro - siciliano della Sicilia occidentale - conosce bene, di là da ogni oleografia). L’ipotesi, solo in apparenza paradossale, riposa su un dato di fatto molto chiaro. Da un lato, ci sono un sistema di scambi (soprattutto di flussi finanziari) e una organizzazione dei sistemi produttivi e distributivi (connessa in particolare all’interesse delle imprese d! i insedi arsi nelle regioni in cui la forza-lavoro costa meno) che tendono a dilatarsi sull’intero pianeta. Dall’altro lato, manca una struttura normativa in grado di regolare questo sistema, che proprio in virtù delle sue dimensioni (oltre che dello straordinario dinamismo del suo funzionamento e del suo processo di sviluppo) trascende i contesti giuridici nazionali e continentali e ne invalida la capacità di regolazione.
Ora, per un verso, le imprese «globali» si giovano di questo scarto tra proiezione transnazionale dei propri mercati e vigenza locale (nazionale o continentale) dei sistemi giuridici. Se ne giovano perché la possibilità di correre il mondo senza limiti di spazio e, in taluni casi, «in tempo reale» permette loro di agire pressoché in assenza di leggi. Se, per esempio, una normativa fiscale del Connecticut procura qualche inconveniente a una impresa impegnata nella produzione di semiconduttori o nella speculazione finanziaria, la «globalizzazione» le offre la possibilità di abbandonare il territorio sfavorevole e di insediarsi dove mancano inconvenienti di questo genere, ottimizzando la remuneratività del capitale. La legge del Connecticut sarà stata così aggirata o, meglio, messa in condizione di non nuocere. Rimarrà in vigore, ovviamente: ma la si sarà lasciata a guardare, impotente, ciò che si fa altrove, dove essa non ha alcuna capacità di controllo.
Senonché, per l’altro verso, questo sberleffo alla legge è il sintomo di uno stato di cose dannoso per le stesse imprese. Il capitale fa volentieri a meno delle leggi che lo controllano (o che gli impongono rinunce a quote di profitto); ma ha bisogno - come tutti i soggetti della «società civile» - di leggi che provvedono a garantire l’ordine civile e sociale: cioè di leggi che controlla! no gli a ltri, sancendo vincoli e obblighi e limitando prerogative legittime. In altri termini, l’assenza di una struttura giuridica globale, in grado di regolare le dinamiche della «globalizzazione», produce anche insicurezza per gli attori della «società globale». Genera un bisogno di protezione. Ed è precisamente a questo punto che entra in gioco un insieme di funzioni che ricordano da vicino alcune di quelle svolte dalla mafia. La quale, a ben guardare, funge anche da «industria della protezione privata».
In un territorio come il palermitano, dove lo Stato non riesce a imporre il rispetto della legge, è inevitabile che gli attori economici si rivolgano ad altri soggetti - ad agenzie private specializzate - per ottenere protezione e sicurezza. Quali agenzie? Lo si chieda a quanti - esercizi commerciali, liberi professionisti, imprese - pagano regolarmente il «pizzo»: ammesso che risponderebbero, farebbero i nomi delle «famiglie» di Cosa nostra che contendono allo Stato il controllo del territorio cittadino. Trascuriamo il fatto che alla base dell’incapacità dello Stato di far rispettare la legge c’è proprio quella «industria della protezione» che, agendo anche come industria della minaccia e della violenza, contribuisce a rendere più che mai acuto il bisogno di sicurezza e più che mai arduo garantirla. Quello che qui interessa non sono le cause, ma il funzionamento del meccanismo. Che - come Cavallaro mostra, facendo ricorso anche alla modellistica prodotta dalla teoria dei giochi - autorizza il dissacrante parallelo tra la funzione svolta dalla mafia e quella adempiuta da altre «industrie della protezione privata», attive sullo scenario della «società globale». E qui viene il bello: ciò che fa di questo libro non solo un utile strumento per capire un aspett! o signif icativo della «globalizzazione», ma anche un lucido intervento nella discussione politologica.
Nell’ipotesi di Cavallaro, le «agenzie di protezione» attive sullo scenario globale sono proprio gli Stati nazionali. I quali agiscono dunque come agenzie private, stipulando transazioni simmetriche con le imprese «globali», bisognose di un livello di sicurezza superiore a quello che oggi sono in grado di garantire le istituzioni della «globalizzazione» (Fmi, Wto e World Bank in testa). A questo riguardo Cavallaro parla di un «rapporto contrattuale tra eguali». E fa così luce su uno dei caratteri salienti dell’attuale fase storica. Quel che la sua preziosa analisi consente di verificare in corpore vili è il fatto che la «globalizzazione neoliberista» (o «mercantilista», come più precisamente suggerisce Cavallaro) contribuisce a privatizzare gli Stati. Contribuisce cioè a smantellare quella sfera pubblica che si è venuta costituendo nel corso degli ultimi tre secoli in antitesi al potere capitalistico: per arginarlo, imporgli regole, costringerlo entro limiti compatibili con il rispetto dei diritti politici e di cittadinanza di masse crescenti di popolazione. La «globalizzazione» svela così il suo marcato volto di classe. Lasciata a se stessa, essa contribuisce a realizzare quel gigantesco processo di restaurazione che da trent’anni prosegue con esiti devastanti sul piano civile, sociale, politico e ambientale.
C’è un altro aspetto sul quale Cavallaro si sofferma, e che possiamo soltanto citare, in chiusura. L’analisi della «società globale» e della paradossale funzione che vi svolgono gli Stati nazionali permette di porre in risalto non solo la fragilità della tesi «imperiale» di Hardt-Negri, ma anche il suo segno oggettivamente apologetico. Lungi dall ’aver dato vita a un ordine mondiale (l’Impero del fantomatico «capitale globale»), la «globalizzazione» ha consegnato il mondo a un disordine generalizzato, nel quale vige la venerabile legge della forza. Forse, piuttosto che esaltarsi per nuovi pretesi modelli esplicativi, sarebbe il caso di rileggersi i padri del pensiero politico moderno - da Hobbes a Hegel - che sullo stato di natura delle relazioni internazionali ci hanno lasciato pagine memorabili.
Emergenza criminalità in Campania: tre omicidi nel weekend Per fronteggiare l’emergenza 1.300 poliziotti e carabinieri in più
Mastella apre sull’esercito a Napoli Piano del Viminale per l’emergenza
Prodi: "Non c’è solo una città, è un problema di tutto il Sud" *
NAPOLI - L’esercito a Napoli contro la criminalità? "L’ipotesi non è più un tabù". Dopo l’impressionante serie di omicidi degli ultimi giorni, il ministro della Giustizia Clemente Mastella risponde alle richieste di aiuto arrivate dalla Campania. Il ministro dell’Interno Giuliano Amato sarà a Napoli il 9 novembre per siglare il "patto per la sicurezza". Il Viminale ha pronto un piano che prevede 1.300 uomini in più fra poliziotti e carabinieri, nuove moto, dispositivi di videosorveglianza attivi 24 ore su 24. E Palazzo Chigi fa sapere che "la questione della sicurezza al sud è già stata oggetto di un’intensa attività di analisi e studio" da parte del premier, di amato e del titolare della Difesa Arturo Parisi: entro breve dovrebbero arrivare delle proposte concrete.
"L’esercito non è un tabù". Mastella, oggi a Napoli per incontrare il suo omologo francese Pascal Clément, apre all’ipotesi dell’impiego dei soldati a Napoli: "Prima era un tabù anche per me - dice il ministro alla Giustizia - ma adesso sono aperto alla discussione. Se l’esercito viene a risolvere questo problema annoso non è male". Il Guardasigilli ha le idee chiare anche sulle funzioni che potrebbe assumere l’esercito a Napoli: "Avrebbe compiti normali, su obiettivi non sensibilissimi, per consentire alle Forze dell’ordine di lavorare con più scioltezza anche nelle zone a rischio. Bisogna fronteggiare la percezione di insicurezza e di paura che investe molte strati della popolazione. Fa bene Bertolaso (il capo della Protezione civile ed attuale commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Campania): utilizza l’esercito per rimuovere i rifiuti. I soldati potrebbero servire per il problema dei rifiuti e rimanere successivamente".
Mastella analizza poi la situazione e, riferendosi all’episodio di Pozzuoli fa dei distinguo: "Un sedicenne che accoltella un altro ragazzo non è un problema di giustizia, ma di valori e disvalori. Occorre l’azione di chiesa, scuola e famiglia".
Patto per la sicurezza. Il 9 novembre Amato siglerà il "patto per la sicurezza" con il sindaco Rosa Russo Iervolino e il governatore Bassolino. La conferma dell’appuntamento, già fissato da tempo, è la riprova che al Viminale si preferisce pensare a "misure strutturali" e a "interventi mirati". E c’è chi legge in questa iniziativa un certo dissenso rispetto all’ipotesi di mandare l’esercito. Il "patto" e la visita di Amato in città rappresenteranno l’avvio della "fase due" del lavoro iniziato in settembre con la costituzione di una task force comprendente i responsabili degli enti locali e i vertici di carabinieri, polizia e guardia di finanza.
Prodi: "Problema del Sud". Il premier non interviene direttamente nella discussione sull’eventuale impiego dell’esercito. Ammette di aver già parlato nei giorni scorsi del problema criminalità con alcuni ministri, in particolar modo con Amato. Ma aggiunge: "Non c’è solo Napoli ma c’è il problema di tutto il Mezzogiorno. Il governo intende lavorare in maniera complessa e senza isolare l’emergenza".
Il cardinale Sepe: "Esercito non serve". La criminalità a Napoli va combattuta con la prevenzione e non con la repressione. Ne è convinto l’arcivescovo di Napoli, il cardinale Crescenzio Sepe, che in un’ intervista al Tgr della Campania sostiene che serve "una formazione alla cultura della legalità". Il presule, quindi, boccia l’idea dell’invio dell’esercito sottolinendo che le forze dell’ordine "lavorano tanto per rispondere a tutte le emergenze", ma senza la prevenzione "non troveremo alcuna soluzione né con esercito né con altre forme di repressione". (30 ottobre 2006)
* www.repubblica.it, 30.10.2006
Le avvisaglie della nuova ondata di violenza nella relazione semestrale dei servizi segreti. Accanto ai vecchi boss una generazione di capi più giovani pronti a tutto per emergere
Guerra tra clan, allarme degli 007. "Si rischia una faida sanguinosa"
di DARIO DEL PORTO *
NAPOLI - Il coltello in tasca ce l’hanno tutti e procurarsi una pistola è un gioco: basta poco per fare di un ragazzo un assassino o un morto ammazzato, nella Napoli punteggiata da focolai di violenza che si accendono a intermittenza in centro come in provincia. La camorra non ha mai smesso di sparare: a Scampia, dove la guerra tra bande finita ma l’odio tra le fazioni contrapposte è destinato a non morire mai; alla Sanità dove un conflitto che sembrava archiviato è ricominciato appena ieri; nell’area occidentale, dove un nuovo gruppo tenta di farsi largo. E l’elenco potrebbe continuare.
Il pericolo di una ripresa dei conflitti armati fra i clan era stato colto anche dai servizi segreti che nella relazione semestrale inviata al Parlamento dalla nostra intelligence aveva messo in guardia sul rischio di "nuove sanguinose faide nel cuore della città". L’indulto, secondo gli inquirenti, ha aggravato la situazione con il simultaneo ritorno in libertà di rapinatori e malavitosi di spicco, circa ottomila ex detenuti secondo stime delle forze dell’ordine, e un "accresciuto senso di impunità che - argomenta un investigatore - ha reso molti criminali più violenti di prima". Ma c’è un aspetto su tutti che questi mesi di sangue sembrano confermare in maniera ogni giorno più tragica: "A Napoli la vita non vale nulla - commenta il pm del pool anticamorra Raffaele Marino - si uccide con facilità impressionante".
Accanto ai vecchi boss, si è fatta strada una nuova generazione di capi. Spesso sono i figli e i nipoti dei padrini di un tempo. Portano lo stesso cognome ma usano metodi diversi, più sbrigativi. E hanno bisogno di molti soldi. La droga ha fatto il resto. È un affare che muove fiumi di denaro, ma rappresenta pure la scarica che fa saltare il cervello dei sicari di camorra come dei rapinatori di strada, rendendo possibili esplosioni di violenza un tempo impensabili.
Le indagini condotte dai magistrati della Procura di Napoli e dalla Direzione distrettuale antimafia coordinata dal procuratore aggiunto Franco Roberti raccontano di giovani assoldati come sicari per pochi spiccioli che dopo un agguato scaricano l’adrenalina mangiando dolci e vedendo alla televisione il wrestling o un film di Totò. Spesso non sanno neanche chi vanno a uccidere. Leggono i nomi sui giornali e pensano di aver sbagliato bersaglio. Colpire un passante o un innocente li preoccupa solo per le conseguenze giudiziarie che un errore del genere, inevitabilmente, porta con sé.
Sulle loro teste, i boss reggono le fila di affari milionari. Un nuovo pentito, Salvatore Puglia, uno che traffica stupefacenti da una vita, ha raccontato nel febbraio scorso, che i boss più importanti hanno cambiato strategia: "Non gestiscono più il traffico in prima persona ma preferiscono incassare un mensile fisso dai gestori". Ogni piazza concessa in subappalto frutta, riferisce il collaboratore di giustizia, una somma che "oscilla tra i 2000 e i 3000 euro al mese". A lui il clan Mazzarella dava 1000 euro al mese. "Ma non mi veniva richiesta dal clan alcuna specifica attività - spiega - infatti ho continuato a vendere cocaina per conto mio. In pratica mi veniva chiesto solo di stare a disposizione". Polizia e carabinieri stanno preparando una nuova offensiva mirata contro il mercato della droga.
L’altro affare sono le estorsioni. Anche il racket ha cambiato pelle, e non da oggi. Fino a qualche anno fa il "pizzo" veniva chiesto tre volte all’anno: Natale, Pasqua, Ferragosto. Da tempo i clan hanno deciso di passare alla cassa ogni mese. La camorra impone tangenti al mercatino rionale come sul grande appalto, a questo punto di vista nessuna attività produttiva può dirsi al riparo. Un altro pentito, Franco Albino, ha raccontato che nella zona collinare di Napoli quando apriva un cantiere funzionava in questa maniera: prima veniva esploso qualche colpo di pistola a colpo intimidatorio, poi dopo qualche giorno il titolare veniva "invitato" al bar. Lì gli spiegavano che c’erano problemi, "tanti amici in carcere" e che sarebbe stato meglio favorire il 5 per cento dell’appalto.
Ma se Napoli brucia e fa notizia, c’è anche una camorra che fa meno rumore: è il clan dei Casalesi, attivo in provincia di Caserta. Da lì arrivano le minacce allo scrittore Roberto Saviano, ora sotto scorta. In quella zona le indagini hanno captato il progetto di un attentato contro un magistrato, il pm Raffaele Cantone: un piano stragista sventato appena in tempo. (31 ottobre 2006)
* www.repubblica.it, 31.10.2006
La lezione di Gomorra
di Gianluca Di Feo *
Lo Stato ha fatto il primo passo: Roberto Saviano verrà protetto. Il Comitato per l’ordine e la sicurezza, guidato dal prefetto di Napoli Renato Profili, aveva aperto la procedura per la tutela armata dopo le minacce contro lo scrittore che ha sfidato i boss tre volte: con il suo libro, con i suoi articoli e con le sue parole. Ma l’eco internazionale che ha avuto l’articolo de ’L’espresso’ con la descrizione delle intimidazioni ha spinto anche il ministro Giuliano Amato a intervenire in prima persona. E più della scorta, a garantire l’incolumità fisica dell’autore di ’Gomorra’ provvederà il muro di solidarietà che è sorto intorno a lui. Si sono schierate al suo fianco le massime istituzioni campane, dal governatore Antonio Bassolino al cardinale Crescenzio Sepe. Si sono mobilitati tantissimi scrittori, che hanno aggiunto le loro parole all’appello lanciato da Sandrone Dazieri con le firme di Massimo Carlotto e Giancarlo De Cataldo. Umberto Eco in un’intervista al Tg1: "Il caso di Saviano si lega a Falcone e Borsellino. Perché in questi caso sappiamo da dove arriva la minaccia, sappiamo persino i nomi e i cognomi. Si tratta di intervenire preventivamente e pubblicamente su un fenomeno di cui si sa tutto". Ma soprattutto c’è stato un coro di sostegno a Saviano da Napoli e dagli altri centri della Campania, la sua terra: quella che lui ha raccontato nelle pagine di ’Gomorra’ come vittima di un ’sistema’ criminale che distrugge tutto: le persone, l’ambiente, l’economia.
Lo Stato ha fatto il primo passo. Ma adesso è necessario che vada avanti. Perché ’Gomorra’ è diventato una denuncia nazionale, che mette sotto gli occhi di tutti l’inarrestabile ascesa della camorra campana e delle sue ramificazioni internazionali. Una denuncia che presto verrà tradotta e pubblicata in 20 paesi, dagli Stati Uniti alla Svezia, e che ha già conquistato le pagine dei quotidiani europei. Roberto Saviano ha scritto tutto quello che ha visto: integra con la sua testimonianza gli atti di centinaia di indagini che non sono quasi mai riuscite a raggiungere condanne definitive. O che sono state vanificate dall’indulto o da evasioni beffa, come quella del boss Lauro scomparso dopo la scarcerazione per un cavillo burocratico. ’Gomorra’ ha dato voce a tutti i campani che non si arrendono allo strapotere della criminalità organizzata. Negli articoli de ’L’espresso’ la sua denuncia si è allargata all’incapacità della classe politica di dare una risposta: di liberare i cittadini dalla camorra e dall’immondizia, il nuovo oro nero delle mafie. Poi, al fianco del presidente della Camera Fausto Bertinotti, nella piazza di Casal di Principe, la città che negli Novanta aveva il record mondiale di omicidi, si è rivolto direttamente ai padrini, invitandoli ad andarsene. Ecco quale deve essere il secondo passo. Partire da Casal di Principe e dal Casertano, nuovo polmone di capitali finanziari delle cosche che marciano su Roma. E da Secondigliano, periferia disumana diventata centro di traffici mondiali.
* L’Espresso, 09.11.2006
Dal suo rifugio segreto, in una intervista a "El Paìs", lo scrittore parla dei boss e dei clan "mito e ossessione"
"La solidarietà è solo una parola"
"Mi sono lasciato prendere dal carisma di questa gente per poterlo raccontare"
di LAURA LUCCHINI *
Roberto Saviano Saviano: "Non riscriverei Gomorra
PRIMA sono arivate le telefonate anonime; poi, le minacce di morte, infine, la scorta e l’esilio lontano dalla sua città. Tutto è cambiato per Roberto Saviano, 28 anni, da quando ha pubblicato il suo primo libro, "Gomorra", che ha già venduto 300mila copie. Fino ad allora, la sua vita era stata relativamente tranquilla. Viveva a Napoli, amava percorrere le strade sulla sua Vespa e seguire le trame criminali. La camorra era, e continua a essere, la sua ossessione. Dedicava tutto il suo tempo a rivedere gli incartamenti giudiziari, si sintonizzava sulla radio della polizia per arrivare sul luogo del delitto insieme alle pattuglie.
"El País" lo ha intervistato nel suo rifugio, mentre a Napoli si scatenava una nuova guerra tra camorristi e si lanciava l’ennesimo allarme per l’aumento della criminalità mafiosa.
Qual è la differenza tra la mafia siciliana e la camorra napoletana?
"La mafia siciliana ha una struttura piramidale e la Camorra l’ha orizzontale. Entrambi i sistemi si rapportano in maniera diversa al potere politico. Il meccanismo mafioso è semplice e si riduce al binomio appalti-mafia. Vale a dire che la mafia, tramite la politica, ottiene appalti pubblici (edilizia, raccolta dei rifiuti, ospedali, ecc.). La camorra, invece, funziona con una logica ultraliberale il cui fulcro non è l’appoggio dei politici. Ciò rende la camorra più flessibile e più imprevedibile. Non può esistere nella camorra un boss che abbia il monopolio dei prezzi, perché se lo facesse sarebbe assassinato o arrestato. Un esempio: Sandokan Schiavone a un certo punto aveva monopolizzato l’usura, il prezzo del cemento e il prezzo del latte. Fu arrestato. Altri boss arrivarono e il prezzo del latte tornò a scendere".
Quindi nella camorra non possono esistere boss come Bernardo Provenzano, il capo di Cosa Nostra per decenni?
"No, è molto difficile. Un boss che mantiene il potere fino ai 70 anni e, inoltre, con quel carisma ... È stata molto significativa la vicenda di Provenzano, lo hanno scovato nella sua casa. Viveva in condizioni indecenti. Anche Sandokan Schiavone fu trovato nel suo paese nascosto sotto la sua casa. Ma lì non aveva una cantina, ma un palazzo".
I boss della camorra l’affascinano in qualche modo?
"La struttura criminale è molto più importante degli individui. Ma le personalità semplici hanno per me, che sono uno scrittore e non un giornalista, un valore letterario enorme. Penso a Augusto la Torre, il boss psicoanalista, che parlava citando Lacan. O a Giuseppe Misso, che ha scritto diversi libri. O a Luigi Volla, soprannominato Il Califfo, che ama i quadri di Botticelli. O a Sandokan Schiavone, che possedeva una vasta biblioteca dedicata a Napoleone... Sono stato accusato spesso di essere vittima del loro fascino e in qualche modo è così. Mi sono lasciato prendere dal carisma di questa gente per poterlo raccontare. Perché sono i miei miti, i miti del posto in cui sono cresciuto. Per capire i boss, ho dovuto guardarmi allo specchio, più che guardare loro".
Si è lasciato ossessionare dalla camorra?
"Sì. E credo che uno scrittore debba ossessionarsi con ciascuno dei suoi libri. Se avessi scelto di scrivere di cavalli, avrei visto muscoli, tendini, figure in velocità e metafore equine ovunque. Ma ho scelto di raccontare la mia epoca e la condizione umana attraverso la camorra. Mi sono lasciato ossessionare da queste storie perché sono una loro vittima, perché sono cresciuto in quel luogo".
Se potesse tornare indietro, lo scriverebbe Gomorra?
"No. E non per le minacce, ma per quello che esse hanno comportato: il comportamento degli editori e di molte persone vicine. La solidarietà è solo una parola".
(Copyright El País-La Repubblica traduzione di Guiomar Parada)
la Repubblica, 13 novembre 2006
Vi dico da che parte sto
di Roberto Saviano *
Ad un certo punto mi sono reso conto, forse perché vivevo una realtà complicata che la parola doveva fare altro, doveva tornare ad essere necessaria. Necessaria significa andare oltre quelle che sono le rappresentazioni delle cose. I media raccontano ad una velocità impressionante tutto ciò che accade; non c’è più bisogno quindi della parola del cronista, ma della parola letteraria, quella che entra nella ferita della ragione. La ragione è una ferita, andarci dentro è il compito. Ecco, la letteratura può fare ancora questo, perché nell’iper-rappresentazione continua, bulimica, di tutto ciò che accade, in una rappresentazione non soltanto fasulla come quella dei talk show, ma spesso anche disciplinata, come quella realizzata da alcuni reporter coraggiosi, la cronaca non basta. Tutto questo non basta, tutto questo mostra quello che è, ma la scrittura letteraria deve andare oltre, deve capire la struttura molecolare, il fegato delle cose, capire dove stiamo andando. Ad un certo punto capisci che la scrittura, in questo senso, può rovinare quello che racconta, può rovinare la vita di quel delirante autore che decide di raccontarla, può rovinarla perché la scrittura quando non ti rovina la vita, tutto sommato è una scrittura innocua.
Personalmente detesto le scritture innocue. La scrittura invece rovina la vita nel senso che ad un certo punto la scrittura diventa un unico perenne tradimento. Tradimento di tutto, perché nel momento in cui decidi di raccontare quello che per te è la verità, la tua versione delle cose, significa che stai svelando, danneggiando, infangando, rovinando, congetturando. Nel momento in cui la scrittura si prende la libertà di poter vaticinare, raccontare tutto, non aver più rispetto per nulla - perché il rispetto nello scrivere è distanza, è tutto sommato un limite, un vincolo che lo scrittore non può avere - ti accorgi che tu sei andato oltre, che hai raccontato il volto delle cose, che le hai raccontate con nome e cognome - come William Langewiesche ha raccontato i pompieri che nelle Torri Gemelle rubavano 100 paia di jeans e li andavano a vendere di contrabbando, distruggendo così l’immagine da eroi che avevano e trasformandoli all’improvviso in banditi (...)
Io cito sempre, in maniera forse anche ossessiva, l’episodio di don Peppino Diana, il parroco ucciso a Casal di Principe dalla camorra, che lui stesso prendeva da don Tonino Bello, il quale in un’omelia, ad un funerale, disse: «A me non importa sapere chi è Dio, a me importa sapere da che parte sta». Questa frase è diventata per me una sorta di manifesto anche letterario, perché gli scrittori sempre meno mostrano da che parte stanno (...)
La scrittura, tutto sommato, credo che sia questa possibilità di rendere chiara la dannazione, il vivere condizioni in cui l’umanità è sospesa ed è possibile raccontarla soltanto se gli scrittori si rendono conto che è finito il tempo della scrittura d’evasione - se mai c’è stato - quando si tratta di raccontare il meccanismo del reale. Ovviamente sto parlando di un preciso percorso letterario che per fortuna non è tutta la letteratura. La letteratura che in questo momento sento mordermi alle budella è quella che smette di raccontarsi e inizia a raccontare, a strappare la maschera delle cose, a guardare oltre, nel tessuto muscolare della realtà, senza sentire impossibile il timore della verità. Credere sempre che la verità non esiste. Una frase bellissima di Victor Serge, messa in esergo ad un suo libro sui processi staliniani, era: «tutto sommato la verità esiste». Intendendo per verità la propria versione, giocarsi così il racconto di quello che sta accadendo, il racconto soprattutto del potere.
Alla fine si va sempre a finire lì, io quanto meno vado a parare sempre lì, alla relazione tra verità e potere... forse sarà un mio errore credere all’antica verità dei tragici greci che verità e potere non coincidono mai. Questa alterità tra tra verità e potere è colmata dallo spazio della scrittura, una scrittura non cortigiana, capace di raccontare casi limite - come intendeva Foucault, raccontare lo spazio del proprio stomaco soltanto in relazione coordinata col tumulto dell’intera rete universale dell’essere umano.
Questa è la grande scommessa della letteratura. Raccontare, come mi sono ripromesso da una vita, anche se ho solo 27 anni, il percorso, per esempio, di Vito De Rosa che è stato il detenuto italiano con più anni di carcere nella storia. Più di cinquanta, dimenticato in una prigione di Aversa, un manicomio criminale. Cinquant’anni. Non bastano dieci ore per raccontare la sua storia, è finito in galera per aver ucciso il padre che lo picchiava, poi è stato volutamente dimenticato dalla famiglia in carcere. Quando mi sono accorto di lui, grazie ad un libretto pubblicato da alcuni amici, immediatamente ho pensato che solo la scrittura letteraria poteva affrontare la sua storia, perché solo la scrittura letteraria poteva coinvolgere al punto tale da far sentire quei cinquant’anni d’isolamento in una stanza. Tutti in quel momento in quella stanza, non attraverso il trucco di una parola che in qualche modo stuzzica il lettore e lo fa commuovere, ma attraverso una parola che immediatamente fa coincidere il perimetro della carne di quel detenuto col personaggio stesso, col lettore che entra in quello spazio.
* www.unita.it, Pubblicato il: 25.11.06 Modificato il: 25.11.06 alle ore 12.56
Valuto positivamente la pubblicazione del reportage “Napoli perduta” sull’ultimo numero del settimanale L’Espresso. Difatti, come già accadde con “ Napoli addio”, i napoletani, dopo lustri di letargo accondiscendente, durante i quali sono rimasti a guardare alla finestra l’estendersi a macchia d’olio di quello che è stato denominato “sistema di potere pervasivo”, lasciando la gestione della Città ad un’oligarchia che l’ha ridotta nelle condizioni attuali, fedelmente descritte dal giornalista Leo Sisti e dallo scrittore Roberto Saviano, riprendono a discutere, chiedendo con forza alle istituzioni il rispetto dei loro diritti, innanzitutto per la tutela del bene primario, la vita umana. Quando l’inviato speciale de L’Espresso, come già era accaduto l’anno scorso, m’invitò due settimane addietro per accompagnarlo per le strade del Vomero, confidavo in un risultato del genere. Anzi reputo che sarebbe auspicabile, seppure di difficile realizzazione, che articoli come quelli in questione potessero essere pubblicati ogni settimana, visto che la stampa locale, in buona parte, nonostante la gravità dei problemi che affliggono la metropoli partenopea, continua a spendere fiumi d’inchiostro solo per riportare le veline diramate dai Palazzi. Che il reportage abbia colpito nel segno è dimostrato dalla reazione stizzita della sindaca, che parla di strabismo, dei fatti positivi ( quali, di grazia? ) che il settimanale ignora. La signora, che in questi giorni compie 70 anni ( auguri! ), manifesta prodromi di miopia ma anche problemi d’udito, visto che sembra non sentire la salva di fischi che accompagna ogni sua uscita da Palazzo San Giacomo, come è accaduto, per citare l’ultimo episodio, ai funerali dell’edicolante barbaramente assassinato all’Arenella. Al giornalista Sisti, tra l’altro, esposi la storia della metropolitana collinare, ribattezzata da tempo metrò-lumaca. Nell’articolo a sua firma si afferma che dal ’94 ad oggi sono stati inaugurati 15 chilometri di binari. Per la precisione, come dimostra la foto che consegnai allo stesso inviato e che immortala l’evento, la posa della prima pietra di questa importante opera di trasporto pubblico su ferro avvenne il 22 dicembre 1976 in via Mario Fiore al Vomero, circa 30 anni fa. Sindaco era il comunista Valenzi. Il primo tratto piazza Vanvitelli-Colli Aminei fu inaugurato nel marzo ’93. A tutt’oggi mediamente sono stati messi in funzione appena 500 metri all’anno. Il costo complessivo dell’opera è preventivato in poco meno di 4 miliardi di euro - credo si tratti di un primato mondiale, riferito a chilometro realizzato. Che anche nel campo dei trasporti su ferro, fortemente carenti a Napoli nonostante i cospicui finanziamenti pubblici degli ultimi lustri, ci troviamo di fronte all’ennesimo fallimento delle amministrazioni comunale e regionale è testimoniato dalla richiesta, a gran voce, dei poteri straordinari per il traffico, concessi al sindaco di recente dal Governo nazionale. E’ notorio che trasporto pubblico e traffico sono intimamente connessi ed il fallimento dell’azione politica per l’uno ha significato anche il fallimento per l’altro. Napoli è l’unica metropoli europea dove ancora non si è invertito a favore del primo il rapporto tra gli utenti del trasporto pubblico rispetto a quanti continuano ad utilizzare la propria autovettura. Una ragione ci sarà pure! E se per costruire 15 chilometri di metropolitana occorrono 30 anni, quanti secoli ci vorranno per dotare la metropoli di un sistema intermodale di trasporto su ferro?
Gennaro Capodanno Presidente Comitato Valori collinari gennaro.capodanno@tin.it
Iervolino: «Napoli non è ostaggio ma troppe volte siamo rimasti soli»
di Massimilano Amato *
Le tante Napoli della Iervolino. Quella del volontariato laico e cattolico, quella del sindacato, quella degli studenti anticamorra, quella delle istituzioni che costituiscono ancora un argine robusto contro ogni tipo di infiltrazioni. Le tante Napoli del sindaco si sono incontrate ieri sera all’Arenella, per ricordare Salvatore Buglione, 51 anni, accoltellato nell’edicola di famiglia, ma anche per ribadire che la speranza non è morta.
Eppure c’è chi ritiene che questa città sia diventata un unico, immenso universo criminale...
«Ma per carità, prenda le parole del cardinale Sepe: a Napoli, dice, ho trovato un grande laicato cattolico e una Chiesa più viva che mai. Io aggiungo le forze dell’associazionismo laico, i coordinamenti antiracket e antiusura, il sindacato, gli studenti. Guardi, lo dico contro i miei stessi interessi: la società civile, in questa città, è perfino avanti alla società politica, ai partiti. Le istituzioni, specie quelle più vicine ai cittadini e ai movimenti, reggono il passo: ricordo i protocolli per la legalità stipulati nelle nuove municipalità, Scampia in testa. Hanno fatto tutto da soli. Quella dell’Espresso (il settimanale ieri ha dedicato la sua copertina a «Napoli perduta», ndr) è una posizione precostituita, che ignora una cosa che va ribadita a gran voce: fino a 20 anni fa la camorra era nelle istituzioni. Adesso non c’è più».
Da poche ore lei è titolare di poteri speciali, ma solo in materia di traffico e mobilità: non è troppo poco?
«Guardi, la camorra è un fenomeno con radici sociali e culturali profonde. Non ci sarà mai un provvedimento, se non un miracolo di San Gennaro, in grado di stroncarlo da solo. I poteri speciali sono una cosa limitata rispetto all’emergenza criminale, ma sono già qualcosa. Io ho fermi da anni duecento milioni di euro per nuovi parcheggi. Ora posso finalmente sbloccarli».
Dica la verità, sindaco: si è mai sentita sola, seduta sulla polveriera Napoli?
«È capitato molte volte. Ma l’intesa con le altre istituzioni locali è di ferro, e aiuta moltissimo. E poi, ci sono gli alleati di cui parlavo prima: le associazioni, i sindacati... ».
Il cardinale Sepe ha parlato di una città diseducata al senso civico. Lei è d’accordo?
«In parte sì, intendendo il senso civico nelle cose più alte, ma anche in quelle più banali. Sono stata in vacanza a Vasto, in Abruzzo: non ho visto una cartaccia per strada. Se penso a quante difficoltà incontriamo per far partire la raccolta differenziata, o la fatica per affermare la cultura del casco salvavita... D’altra parte, però, vedo segnali forti che arrivano dalla scuola, proprio nelle zone a più alto rischio criminale. Questa è la città dei contrasti, dove c’è il meglio e il peggio di tutto».
Nella scorsa legislatura lei ha capeggiato la rivolta dei sindaci contro i tagli governativi. Nel primo scorcio di quella in corso, non è mancata qualche incomprensione con il governo in carica. Ma è Roma che è sorda o siete voi che non vi fate capire?
«A volte ho la sensazione che ci sia una percezione errata di quello che avviene. Le faccio un esempio: a Napoli ho 35 mila famiglie sotto il livello di povertà. Spesso mi sono sentita dire da funzionari ministeriali: ma perché non li manda a lavorare? E i posti, dove sono? Con questo governo le cose sono migliorate: l’intesa con Prodi e il nostro ministro Nicolais è forte, grazie a Pecoraro Scanio abbiamo risolto la questione della bonifica di Bagnoli su cui, nei cinque anni precedenti, c’era stato il boicottaggio del governo. Non è poco».
Questione rifiuti: la linea è sempre quella del termovalorizzatore?
«La linea è quella di una maggiore responsabilizzazione degli enti locali. Non solo a Parigi e a Vienna, ma a Modena il termovalorizzatore ha risolto il problema e ora produce energia per la città. Il ministro sostiene che ci sono soluzioni ancora più sicure. Io dico: discutiamone, ma muoviamoci subito».
Bagnoli e Napoli Est i poli dello sviluppo futuro: ma siamo proprio sicuri che si riuscirà a tenerne fuori la camorra?
«Sono questioni diverse: l’operazione Bagnoli si è sbloccata. In autunno partiranno i cantieri per i tre grandi parchi a tema. A Napoli Est ci sono grossi problemi da superare. Quanto alle infiltrazioni, saremmo stupidi se procedessimo per compartimenti stagni. La bonifica sociale e il controllo di legalità devono marciare appaiati. Ma lo sviluppo passa anche attraverso una nuova fiscalità compensativa: a Napoli fare impresa costa almeno il 20% in più che altrove».
Martedì lei, Bassolino e il presidente della provincia, Di Palma, incontrerete Amato: le prime tre cose che lei chiederà...
«In sintesi: più forze dell’ordine sul territorio, meno tagli per le attività di prevenzione sociale, velocizzazione dell’iter per la costruzione della cittadella della polizia».
* www.unita.it, Pubblicato il: 09.09.06 Modificato il: 09.09.06 alle ore 12.48
Saviano? No, grazie
Le lettere minatorie. I messaggi trasversali dei boss. L’emarginazione. Per l’autore di ’Gomorra’ il prefetto ora studia un piano di protezione
di Gianluca Di Feo (http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Saviano?%20No,%20grazie/1406262&ref=hpsp)
Prima le lettere minatorie, le telefonate mute in piena notte, camerieri che dicono "Lei qui non è gradito", o negozianti che con tono supplichevole sussurrano "Ma lei deve proprio continuare a comprare il pane qui...". Poi il disprezzo delle autorità campane, anche le più importanti come il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino. Infine i messaggi diffusi dai familiari dei boss: i padrini latitanti, quelli più feroci che sanno come fare arrivare sulla stampa locale i loro umori. Quanto basta a far scattare l’allarme e a trasformare il caso letterario dell’anno in una questione di sicurezza. Adesso per Roberto Saviano, 28 anni, autore del libro-inchiesta sulla camorra insediato da cinque mesi nelle classifiche di vendita, e collaboratore de ’L’espresso’, saranno decise nuove misure di protezione: il prefetto di Caserta ha aperto un procedimento formale, che dovrà essere valutato dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza.
Il casus belli che ha alzato il livello di guardia, paradossalmente, è stato l’articolo di un piccolo quotidiano, sempre fin troppo attento a cogliere i gesti delle famiglie casertane. In ballo ci sono pezzi da novanta come Michele Zagari e Antonio Iovine, inclusi nella lista dei super-ricercati, o il più celebre Sandokan, al secolo Francesco Schiavone. Hanno mal tollerato il successo di ’Gomorra’, il volume edito da Mondadori che ha imposto i loro traffici all’attenzione dei mass media. Si sono infuriati per la sfida che Saviano ha portato nel loro feudo, in quella Casal di Principe che negli anni Novanta aveva il record mondiale di omicidi. Il 23 settembre, a conclusione di quattro giornate di mobilitazione anticamorra aperta dal ministro Clemente Mastella, il giovane scrittore si è presentato sul palco assieme a Fausto Bertinotti. Nella piazza principale, davanti a tanti che non chinano la testa, il presidente della Camera si è lanciato contro le "cosche che non danno nulla ma tolgono e compromettono il futuro". Saviano invece ha chiamato i padrini per nome: "Iovine, Schiavone, Zagaria non valete nulla. Loro poggiano la loro potenza sulla vostra paura, se ne devono andare da questa terra".
Il ’Corriere di Caserta’ ha prontamente registrato sia le assenze dei parlamentari eletti in città, sia la presenza del cugino di Sandokan che "inchiodava al muro un signore con uno sguardo feroce e si faceva dire, uno a uno, chi applaudiva troppo forte alle parole sui figli di Schiavone". Titolo: ’Un cugino di Schiavone origlia. Davanti al bar si fa raccontare tutto quello che è stato detto in piazza. E su chi c’era’. La stessa testata definiva ’spregiudicato’ l’intervento dello scrittore e spiegava "che non tutti si sono lasciati impressionare dall’invettiva" di Saviano, descrivendo nei dettagli il dibattito su caldo e traffico che avveniva contemporaneamente nella sede dell’Udeur.
Potrebbero sembrare piccole beghe di campanile, ma a Casal di Principe non ci sono Pepponi mentre l’unico don Camillo è stato assassinato dai killer di camorra e - stando a una sentenza civile - diffamato dopo la morte proprio dal ’Corriere di Caserta’. Si chiamava don Peppino Diana ed è dal suo dramma che nasce il titolo di ’Gomorra’. Il libro edito da Mondadori ora marcia verso le 100 mila copie senza promozione, spinto dalla forza del tam tam dei lettori e dal lancio coraggioso della giuria che gli ha assegnato il premio Viareggio Repaci. Un risultato con pochi precedenti per l’opera prima di un autore giovanissimo, accolta dal consenso unanime della critica e che verrà stampata in Germania, Francia, Olanda, Gran Bretagna e Stati Uniti.
Il suo primo sponsor è stato Enzo Siciliano. A proposito di ’Gomorra’, poco prima di morire disse: "Ricordiamoci che non è solo un bel libro; questo ragazzo rischia la vita". Sembrava una frase a metà tra il complimento e l’esagerazione, era una profezia. Saviano è riuscito a dare nuova energia a un genere che in Italia pareva dimenticato da quasi 15 anni, da quando opere come quelle di Corrado Stajano vennero sepolte da una slavina di instant book di ispirazione giudiziaria. ’Gomorra’ invece ha il rigore di un saggio, l’anima di un romanzo e il ritmo del reportage reso più incisivo dal lessico che fonde dialetto e neologismo: è un tuffo nel vissuto della camorra, raccolto in prima persona e non attraverso il filtro dei rapporti di polizia. Saviano può vedere e può capire, perché è nato lì: in quel libro c’è la sua vita, il cuore della sua generazione costretta spesso a scegliere tra il crimine o l’emigrazione. E per quel libro ha già pagato un prezzo personale molto alto: i genitori gli hanno tolto il saluto, il fratello è stato costretto a trasferirsi al nord.
L’interesse di Schiavone, di Zagaria, di Iovine e degli altri padrini non sorprende. ’Gomorra’ e gli articoli di Saviano su ’L’espresso’ hanno costretto lo Stato a muoversi. Il Viminale sta mettendo a punto un piano per l’ordine pubblico in Campania e c’è un risveglio della mobilitazione civile. Mentre tutti guardano a Napoli e dintorni, il libro ha messo sotto gli occhi di tutti la potenza economica e militare dei clan casertani. Così forti e ramificati da avere colonizzato persino Aberdeen in Scozia. Chiaro che Sandokan & C. non potessero mandare giù un’opera nata nella memoria del sacrificio di don Diana, ucciso prima e delegittimato poi. Il segno dell’insidiosità della camorra, che sa trasformare la cronaca in strumento di pressione e sfruttare giornali con pochi scrupoli. Magari per fini economici, come è accaduto nel caso dell’ex editore del ’Corriere di Caserta’, Maurizio Clemente, che il mese prossimo verrà processato per estorsione a mezzo stampa.
Se l’intimidazione dei clan era prevedibile, colpisce invece il disprezzo delle autorità locali, testimoniato dalle bordate di Rosa Russo Iervolino. Il sindaco partenopeo nel consegnare a Saviano il premio Siani lo ha definito "simbolo di quella Napoli che lui denuncia", offendendo sia l’autore, sia la memoria del giornalista ammazzato 21 anni fa. Di fronte alla denuncia de ’L’espresso’ su Napoli perduta, poi, il primo cittadino ha commentato: "Quello è un fissato strabico".
Altri si stanno mobilitando. Un appello è stato improvvisato, raccogliendo firme di scrittori e lettori: tra i primi Massimo Carlotto e Giancarlo De Cataldo. Poche righe che denunciano "un isolamento fatto da ciò che non ti fanno e che vogliono farti credere ti faranno. Ma intanto ti fermano, creano diffidenza intorno, screditano, insultano, allontanano tutti dalla tua vita perché mettendo paura ti creano attorno il deserto. A questo punto devono venire fuori altre voci...". E ancora: "Quando Saviano ha ’cacciato’ con le sue parole i boss dalla piazza di Casal di Principe e dalle vie di Secondigliano, quando ha raccontato il loro potere con la letteratura, quando ha fatto i nomi, quando accompagna il suo libro non è solo la sua voce a parlare. Lui lo ha detto e noi con lui".
L’iniziativa è partita da Sandrone Dazieri. Lo scrittore, sceneggiatore e manager editoriale, divenuto famoso con il personaggio de ’Il gorilla’ ha lanciato l’appello. Racconta Massimo Carlotto, uno dei maestri del noir italiano: "Appena ho ricevuto la mail di Sandrone ho firmato subito. Stiamo pensando di organizzare una manifestazione di autori proprio nelle terre di Saviano, nel cuore del Casertano". Sfida accettata, dunque, e rilanciata. In attesa di eventuali decisioni sulla protezione, Saviano ora si prenderà una pausa lontano dalla Campania. Ma sarà solo una sosta di poche settimane, per alleggerire la pressione e concentrarsi su un nuovo progetto. Solo una parentesi, prima di ricominciare a misurarsi con il suo lavoro. Perché se a Napoli scrivere ’Gomorra’ dovesse costringere a emigrare e obbligarlo a una vita blindata, allora sarebbe perduta anche l’ultima speranza.
Scorta a Roberto Saviano, lo scrittore che denuncia il potere economico della camorra *
Sotto scorta per aver osato sfidare i clan. Il ventisettenne Roberto Saviano da ieri non avrà più una vita normale, non sarà più libero di uscire, magari per una semplice passeggiata da solo. L’autore di “Gomorra”, strepitoso racconto-inchiesta sullo strapotere della camorra campana, è stato raggiunto da una serie di minacce da parte dei boss, e così il prefetto di Caserta ha deciso per una “protezione ravvicinata”.
Due settimane fa il giovane giornalista aveva pronunciato un discorso di dura condanna contro il clan dei Casalesi durante un dibattito nella piazza di Casal di Principe - roccaforte del clan - al quale aveva partecipato anche il presidente della camera Bertinotti. Saviano aveva ricordato la figura di don Peppino Diana, il parroco ucciso 12 anni fa dalla camorra per il suo impegno anti-mafia.
La notizia della scorta ha fatto sorgere una lunga catena di solidarietà, non solo dal mondo politico ma anche da quello letterario. Ieri è stato lanciato ufficialmente il blog “Io sto con Roberto”.
Giunto già alla nona edizione, “Gomorra” ha ricevuto il premio Viareggio per l’opera prima e sta riscuotendo grande successo per la capacità di sviscerare il vero potere dei clan campani: quello economico. I boss ormai assomigliano a degli imprenditori che imitano le star del cinema e si costruiscono ville hollywoodiane, offrono la cena a interi ristoranti e godono di una straordinaria impunità.
Saviano ha collaborato in passato con «Il Corriere del Mezzogiorno» e «Il Mattino» ed ora con «L’Espresso». Questa mattina riceverà il premio Don Luigi di Liegro per il giornalismo sociale, assieme a Gian Antonio Stella, l’inviato di Raitre Riccardo Iacona e la trasmissione Report.
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www.liberazione.it, 17.10.2006
Lo scrittore di Gomorra proposto alla guida della struttura interregionale di contrasto alle mafie, costretto a declinare
Legalità, Saviano rinuncia all’incarico E la Rete si mobilita contro la camorra
Da caso nazionale a simbolo. Il giornalista campano vive sotto scorta. Nei blog petizioni, lettere e proteste per dire basta ai clan
di CLOTILDE VELTRI *
E’ DIVENTATO un caso nazionale. E, dopo, anche un simbolo. Tanto da suscitare un vero e proprio movimento di protesta nella rete contro la camorra. Da attirare l’attenzione della stampa internazionale (The Independent gli ha recentemente dedicato un lungo articolo). Oggi anche la politica, inizialmente restìa ad assecondarne la dura denuncia contro i clan, ha deciso di affidare a Roberto Saviano (giornalista, autore di "Gomorra") il coordinamento di una struttura interregionale (Campania, Calabria, Puglia e Sicilia) per l’educazione alla legalità. Lui ha ascoltato l’offerta, l’ha anche apprezzata, ma poi ha declinato. Non perchè non sia una "cosa buona", ma perchè in questo momento deve allontanarsi dai riflettori. Troppo pericolo, troppe minacce. In Campania è di nuovo emergenza.
Protezione di Stato. Chissà se Saviano, quando ha iniziato a combattere la camorra con le parole, immaginava di arrivare dove è arrivato. Alla scorta di Stato imposta dalla procura antimafia e dalla prefettura di Napoli. Alla protezione delle forze dell’ordine che devono evitare venga fatto fuori dalla camorra. Devono impedire che diventi un altro Siani. Un altro eroe borghese. Forse sì. Forse lo aveva messo in conto che Gomorra, suo primo e, per ora, unico romanzo (non a caso vincitore del premio dedicato a Giancarlo Siani, il giornalista del Mattino di Napoli assassinato nel 1985 su mandato del boss Lorenzo Nuvoletta) avrebbe suscitato tanto clamore da far arrabbiare i camorristi, il "Sistema", come lo ha definito lui.
E aveva messo forse in conto che andare in piazza a Casal di Principe - suo paese natale - e, da un palco, gridare i nomi di "Zagaria, Iovine, Schiavone" (i capi della camorra) era un gesto che avrebbe avuto, quale conseguenza, le minacce anonime, l’allontanamento forzato dai luoghi pubblici, persino l’ostracismo di certa politica. Forse, quello che non aveva considerato, è che, dopo questa denuncia, non sarebbe stato più solo.
Effetto domino. Le minacce hanno avuto uno straordinario effetto domino. Scatenando, immediatamente, la corsa alla solidarietà. Soprattutto in Rete dove è più facile far circolare le idee senza vincoli, dove Saviano era conosciuto prima di Gomorra perchè autore di "Nazione Indiana", sito letterario tra i più navigati, dove il 2 dicembre 2005 scriveva il post intitolato "Io so e ho le prove" (riproduzione di un testo pubblicato su Nuovi Argomenti di ottobre) in cui denunciava la palude camorristica, memoria personale e prove giudiziarie alla mano. Saviano come Pasolini.
La protesta sui blog. La Rete, dunque, risponde. E lo fa con i blog. Che moltiplicano come un’eco appelli, petizioni, lettere di solidarietà e di protesta. Alcuni coetanei di Saviano - perchè non va dimenticato che lo scrittore non ha ancora trent’anni - lanciano Sosteniamo Roberto Saviano dove nel giro di pochi giorni le firme raccolte diventano un fiume in piena. Centinaia di nomi e cognomi che si aggiungono quotidianamente come a voler esserci in questa sfida culturale ai boss, alla guapperia, alla strage continua e all’indifferenza. Poi c’è Io sto con Roberto contro la camorra, blog di alcune associazioni, dell’Arcigay e dei Ds di Caserta.
C’è tutta un’Italia che non accetta l’idea di soccombere alla malavita organizzata e che non vuole perdere il suo eroe. Il ragazzo che ha avuto il coraggio di non voltare lo sguardo dall’altra parte, che si è alzato è ha fatto i nomi mentre tutti li tacevano o al massimo li sussurravano. Gli appelli per Saviano invadono il web e rimbalzano da un blog all’altro, da un byte all’altro. Si mobilitano anche scrittori e intellettuali, Umberto Eco, Loredana Lipperini, Sandrone Dazieri, Massimo Carlotto.
Camorra uguale Gomorra. Su Google, per dire, sono 352mila le pagine sullo scrittore campano. Wikipedia gli dedica una pagina. Tutto questo perché Saviano ha puntato i riflettori su una organizzazione malavitosa che i più consideravano secondaria, quasi versione casereccia della mafia e che invece è una vera e propria holding economico-finanziaria con diramazioni e interessi nel mondo. Capace di condizionare politica, modelli, consumi, costumi. Di tutti, non solo di chi la camorra la vive tutti i giorni sul territorio.
L’azione politica. Eppure il rischio - sollevato anche da alcune voci del web - è che tutto questo mobilitarsi fosse fine a se stesso. Che non incidesse sull’azione politica, unico vero strumento per combattere le ramificazioni mafiose, uscendo dalla logica che la camorra si combatte solo con l’ordine pubblico. Ecco perché la decisione della regione Campania, notizia di ieri, di affidare a Saviano il coordinamento del gruppo interregionale per l’educazione alla legalità, è forse il primo vero segnale che qualcosa si muove nella giusta direzione.
Campania, Puglia, Calabria e Sicilia metteranno a disposizione una struttura - scomodando addirittura un emendamento alla finanziaria presentato dal gruppo di Rifondazione comunista per garantirne i fondi (tre milioni di euro per il triennio 2007-2009) - per lo sviluppo e la diffusione nelle scuole di azioni e politiche volte all’affermazione della cultura delle legalità e al contrasto delle mafie. Saviano, nelle intenzioni dei promotori, sarebbero la garanzia che le parole, le denunce, la mobilitazione, non resteranno fini a se stesse.
Solo che lui, in questo momento, rischia davvero la vita ed è costretto a declinare. Anche se non più solo suo malgrado è diventato un simbolo e i simboli sono pericolosi. (21 ottobre 2006)
www.repubblica.it, 21.10.2006
OMICIDI, AGGUATI, GIUSTIZIA FAI DA TE: PERIFERIA DI NAPOLI IN ALLARME *
NAPOLI - In poco piu’ di 24 ore, quattro storie di cronaca nera nel Napoletano. A Pozzuoli una lite tra giovani per gelosia e’ finita con un morto, un ferito grave e l’arresto di un sedicenne. A San Sebastiano al Vesuvio un titolare di un supermarket ha reagito a due rapinatori colpendone uno al volto con una violenta testata e spedendolo all’ospedale. Ad Arzano una donna di 63 anni e’ stata uccisa mentre si recava a fare acquisti. Si parla di esecuzione spietata e mirata. Intanto e’ indagato per omicidio e lesioni il titolare di una tabaccheria di Crispano che ha reagito a un tentativo di rapina uccidendo un malvivente e ferendone un altro. Ecco le quattro vicende.
LITE PER GELOSIA CON UN MORTO E UN FERITO, ARRESTATO MINORE
Un ragazzo di 18 anni, Daniele Del Core, morto ed un suo amico coetano, Loris De Roberto, gravemente ferito e ricoverato in gravissime condizioni in ospedale è il bilancio di una lite, avvenuta per motivi di gelosia nella tarda serata di ieri nei pressi della Solfatara di Pozzuoli, in provincia di Napoli. L’ assassino, un sedicenne incensurato, è stato arrestato in nottata dai carabinieri. Il ragazzo aveva una relazione sentimentale con una sua coetanea che in precedenza era stata fidanzata con De Roberto. Non è da escludere che Del Core sia morto per difendere il suo amico contro il quale si era avventato l’ assassino accecato dalla gelosia. I due ragazzi - entrambi di Pozzuoli - erano rimasti gravemente feriti ed erano stati portati nell’ ospedale Santa Maria delle Grazie. Del Core, raggiunto da tre coltellate al torace ed alla spalla destra, è morto poco dopo il ricovero. De Roberto, contro il quale l’ assalitore si era accanito con sette coltellate, all’ addome, al torace, ad un braccio e ad una spalla, è ricoverato in gravissime condizioni nel reparto di rianimazione. Nel corso della notte i carabinieri, grazie anche alle testimonianze delle altre persone presenti alla lite, hanno identificato il presunto omicida. Durante una perquisizione a casa del sedicenne, che è napoletano ed abita nella zona della Stazione Centrale, è stato trovato un borsone contenente indumenti insanguinati. Inoltre i carabinieri hanno sequestrato un motorino, di proprietà dello stesso ragazzo, riconosciuto dai testimoni presenti sul luogo dell’ aggressione. L’ omicida è stato trasferimento nel centro di accoglienza per i minorenni dei Colli Aminei a Napoli.
REAGISCE A RAPINATORE CON UNA TESTATA E LO METTE KO
Il titolare di un supermercato di San Sebastiano al Vesuvio (Napoli), ha reagito a due rapinatori colpendone uno al volto con una violenta testata e spedendolo all’ospedale. Questi i fatti: Gennaro T., di 20 anni, di Sant’Anastasia, ha fatto irruzione insieme con un complice, mentre altri due attendevano fuori a bordo di due scooter, in un supermercato in piazzale delle Mimose. Il giovane, armato di un fucile a canne mozze, ha minacciato la cassiera intimandole di consegnare loro tutto l’incasso, circa 3.500 euro. In quel momento è sopraggiunto il titolare insieme con il fratello, che hanno affrontato i due rapinatori, uno dei quali è stato colpito al volto e disarmato. Il complice, però, è riuscito a sfuggire ai titolari, portando con sé l’incasso. Assieme ai due complici che attendevano all’esterno del supermercato, ha fatto perdere le proprie tracce. Il titolare ha poi avvertito i carabinieri, che hanno soccorso il rapinatore accompagnandolo all’ospedale Apicella di Pollena Trocchia, dove i medici gli hanno curato la contusione alla testa, dichiarata guaribile in una decina di giorni. Il giovane, dimesso dall’ospedale, è stato poi arrestato con l’accusa di rapina aggravata in concorso, ed è stato trasferito al carcere di Poggioreale. I carabinieri ora sono alla ricerca dei tre complici del rapinatore ferito.
DONNA UCCISA IN UN AGGUATO AD ARZANO
Gestiva lo spaccio e organizzava personalmente il mercato della droga nelle piazze ereditate dai suoi figli, due giovani vicini al clan Di Lauro, uccisi nel giugno scorso dalla camorra: e forse, proprio in questi ultimi mesi, Patrizia Marino, 45 anni, freddata ieri dai proiettili di un sicario, ad Arzano (Napoli), aveva dato fastidio a qualcuno, con pretese ritenute eccessive da chi avrebbe per questo deciso di farla fuori. L’ennesimo omicidio, avvenuto nella serata di ieri nella periferia nord del capoluogo campano, in un negozio di articoli sportivi, riaccende l’attenzione anche sulla faida scatenata dai cosiddetti scissionisti del clan di Lauro, per la contesa del ’supermercato’ degli stupefacenti attivo fra i quartieri popolari di Scampia e Secondigliano. La donna era fra l’altro imparentata con un collaboratore di giustizia, Domenico Rocco, un nipote: elemento preso naturalmente in considerazione dalla dda della Procura di Napoli, coordinata dal pm Franco Roberti. Su questo caso prende corpo però nelle ultime ore l’ipotesi di un terzo clan, stuzzicato proprio da una donna ormai lanciata in una ’carriera’ pericolosa, titolare di una attività massiccia, che gestiva probabilmente da sola, avvicinandosi troppo all’area di interessi controllati da un altro gruppo criminale. Troppe richieste, la donna insomma si sarebbe avvicinata troppo a chi ne ha voluto poi la morte. La Marino conduceva gli affari ereditati dai due figli, Ciro e Domenico Girardi, di 22 e 26 anni, vicini al clan Di Lauro: fino alla fine, arrivata ieri sera, in via Volpicelli, dove si trovava con la figlia, una bambina di 12 anni, che ha fatto in tempo a fuggire. Secondo la prima ricostruzione dei fatti, a far fuoco ripetutamente - sul posto sono stati trovati quattro bossoli a terra - sarebbe stata una sola persona, a volto coperto, poi scappata. Sul fatto procede la squadra mobile della questura di Napoli. Due piste dunque, secondo gli inquirenti, che non tralasciano naturalmente l’ipotesi di una ’coda’ della faida di Secondigliano, e della classica vendetta trasversale, movente che, a meno di 24 ore dall’omicidio, sembra meno convincente agli investigatori.
TABACCAIO UCCIDE RAPINATORE: INDAGATO PER OMICIDIO E LESIONI
Omicidio volontario e lesioni aggravate: sono queste, per ora, le ipotesi di reato per le quali è iscritto nel registro degli indagati Santo Gulisano, il tabaccaio, ex poliziotto, che ha reagito a un tentativo di rapina uccidendo un malvivente e ferendone un altro. La procura attende che l’autopsia, nella giornata di lunedì, e l’analisi balistica accertino la dinamica dei fatti avvenuti a Crispano (Napoli): in base a questi elementi, l’accusa potrebbe essere modificata in eccesso colposo oppure rientrare nei casi previsti dalla recente normativa sulla legittima difesa. Gulisano, proprietario della tabaccheria, ha sparato un colpo mortale per difendere il figlio, minacciato con una pistola puntata alla nuca da un pregiudicato di 35 anni, Franco Amura, morto all’ istante. Un passato in polizia, nel corpo dei falchi e della squadra mobile, ora in pensione, Gulisano è apparso profondamente scosso in seguito all’accaduto: "In 30 anni di attività come poliziotto - ha spiegato agli investigatori - non mi è mai capitato di sparare ad un uomo".
*http://www.ansa.it/opencms/export/main/visualizza_fdg.html_2022286208.html
Alle porte di Napoli spunta un quartiere È abusivo, ma nessuno se ne accorge
29 palazzi costruiti a tempo di record, altri 21 edifici e una ventina di villette a schiera. Gli appartamenti vengono venduti, i notai registrano e le banche danno i mutui. Né il comune di Casalnuovo né le forze dell’ordine muovono un dito. Il 5 marzo una manifestazione di cittadini per la legalità
di Francesca Pilla (il manifesto, 24.02.2007)
Casalnuovo (Napoli) «È incredibile, dalla mia casa ho visto per mesi i lavori in corso di quei 29 palazzi, ma non avrei mai immaginato che fossero abusivi». E’ ancora incredula, come tutti a Casalnuovo, Fortuna Tizzano, candidata alle scorse amministrative per il Pdci proprio a Casarea, dove si è compiuto quello che nessuno credeva possibile. Ventinove palazzi, circa 300 appartamenti, eretti pietra su pietra a tempo di record, 21 stabili piantati invece a via Filighito in una zona centrale e un’altra ventina di villette a schiera in periferia, sono spuntati come funghi, molti già venduti con tanto di permessi, autenticazioni del catasto, firme notarili e accessi ai mutui. Un giro di connivenze enorme, un caso scoppiato da qualche settimana nel clamore generale e ora messo in sordina, mentre la magistratura lavora e la patata bollente politica è rimasta nelle mani dei circa 53 mila abitanti di questo comune alle porte di Napoli. Anello metropolitano dove la camorra opera senza dover spacciare in strada o ricorrere al pizzo, ma più strisciante si è inserita nell’imprenditoria edilizia e la fa da padrona.
«Quanto accaduto non è alla nostra portata», sostiene quella parte onesta della città che si è riunita giovedì sera nella chiesa di padre Tommaso a Licignano, per organizzare una manifestazione per la legalità e cercare di riprendere il filo della matassa. Ma è troppo ingarbugliato. «Vi rendete conto, di noi ha parlato la stampa nazionale e internazionale e perfino il New York Times - spiega Giuseppe Pelliccia, per anni consigliere comunale, attualmente esponente della Margherita - ora però qui non ci viene nessuno delle istituzioni. Vogliamo fare un corteo? Dobbiamo renderlo regionale o addirittura nazionale».
Il timore del neonato comitato dei cittadini è che il 4 marzo (data ancora provvisoria) in piazza non venga nessuno per paura. Così Pelliccia, preso dall’enfasi, propone addirittura un referendum per spostare l’area di Casarea sotto l’amministrazione di Volla. Ma Casarea non è una zona disgraziata da sbolognare a qualche altro comune, la distanza con il centro di Casalnuovo è di qualche km e lo stesso comune non è una terra di nessuno: raggiungibile da Napoli solo con un quarto d’ora di macchina, «ospita» uno dei centri commerciali più grandi dell’hinterland, sede di importanti catene di distribuzione nazionali e internazionali e di una mega multisala.
«La verità è che ci hanno abbandonato - dice un cittadino deluso - è un giro troppo grande, qui andrebbero destituiti tutti, dal sindaco alle forze dell’ordine, passando dalla Guardia di finanza. Durante i lavori in corso ho chiamato personalmente tutti e la risposta è stata sempre la stessa: non è di nostra competenza». «E’ certo - lo interrompe una signora - se anche andiamo dai vigili urbani per denunciare l’abusivismo nel mercato comunale, loro se ne fregano perché fanno la spesa gratis. Figurati con i palazzi».
Ma il sindaco, il consiglio comunale come rispondono a quanto è successo? «Dicono di non saperne niente», spiega Antonio Pelliccia, candidato del centrosinistra a primo cittadino, sconfitto da Antonio Manna del centrodestra che ha ottenuto un plebiscito del 75%, mentre la sua coalizione ha incassato addirittura l’80% nelle votazioni dello scorso maggio. «E’ un po’ strano - continua - se si pensa che alle politiche il Polo si era attestato al 35%. Il punto, lo abbiamo denunciato anche in campagna elettorale, è che Manna ha vinto grazie a consensi poco chiari. Noi a Casarea non abbiamo potuto organizzare nessuna manifestazione elettorale, i miei attacchini si rifiutavano di andare lì perché erano minacciati. Ora dovrà decidere la magistratura». Un compito difficilissimo, visto che sotto accusa si trova un’intera classe dirigente comprese le forze dell’ordine, la Finanza, i vigili urbani e chiunque non si sia accorto che era spuntato dal nulla un quartiere sano. Poi sono sotto accusa i tecnici del comune che hanno fornito i timbri per gli attestati di condonabilità degli immobili, i notai che hanno apposto le firme per legalizzare le compravendite, le banche che hanno concesso i mutui e infine la solitudine dei cittadini truffati che potrebbero trovarsi indebitati e in mezzo a una strada se dovesse passare la linea dell’abbattimento degli edifici. L’inchiesta è nelle mani della procura di Nola e per il momento si sa che uno dei costruttori si chiama Domenico Pelliccia, a capo della ditta Visagi.
«Quanto accaduto è il frutto di un patto scellerato tra imprenditoria, politica e camorra», ne è convinto Mario Sannino, segretario del Prc e operaio in un’azienda calzaturiera. «Sono gli edili i veri padroni di Casalnuovo - continua Sannino - le persone ora hanno paura perché quasi ogni famiglia ha ottenuto un lavoro nel settore. Per questo nessuno parla». Eppure fino agli anni ’80 Casalnuovo era una città operaia, qui solo l’Exide, la Tamoil e la Bibigas davano lavoro a una grossa fetta degli abitanti. «Non siamo un popolo di omertosi e abusivi - afferma Ignazio Ponticelli, Ds, uno dei 5 consiglieri all’opposizione - non siamo Corleone, con tutto il rispetto per i siciliani. Eppure lo stesso Antonio Bassolino qui non è mai venuto, nemmeno dopo lo scandalo. Ora ci serve aiuto». Ma giovedì sera alla riunione del comitato per la legalità c’era solo Bernardo Tuccillo, assessore provinciale del Prc.