Usa: almeno 12 morti in sparatoria in Texas
Ferite 31 persone. Obama, è sconvolgente *
WASHINGTON - Uno psichiatra dell’esercito che non voleva essere inviato in Iraq ha commesso una strage giovedi’ nella base militare di Fort Hood (Texas) aprendo il fuoco contro i soldati in un edificio del complesso: 12 persone sono state uccise e altre 31 sono rimaste ferite.
Il maggiore Nidal Malik Hasan, un medico specializzato in malattie mentali, ha agito da solo usando un’arma semi-automatica ed alcune pistole: ha sparato in modo indiscriminato sui soldati impegnati in controlli medici prima di partire per la guerra. Per alcune ore si era pensato che anche lo sparatore fosse rimasto ucciso nella strage. Ma nella tarda serata di giovedi’ le autorita’ militari hanno rivelato che il maggiore Hasan, un cittadino americano di origine palestinese, e’ ancora vivo. E’ stato colpito da piu’ proiettili ma e’ in ’’condizioni stabili’’, ha annunciato il comandante della base, generale Bob Cone.
Il presidente Barack Obama ha parlato di ’’orribile tragedia’’. ’’E’ sconvolgente sapere che uomini e donne in uniforme muoiono in territori di guerra - ha detto il presidente - ma e’ ancora piu’ sconvolgente quando questo avviene in territorio americano’’. Quella di Fort Hood, la piu’ affollata base americana negli Usa (con oltre 50 mila militari), e’ la piu’ grave tragedia di questo tipo mai avvenuta nella storia recente degli Stati Uniti.
Il maggiore Hasan, 39 anni, nato in Virginia e laureato in biochimica alla Virginia Tech (teatro di un’altra famosa strage), aveva indossato la divisa per quasi venti anni e si considerava ’’un patriota’’ americano. Aveva studiato con il sostegno finanziario delle forze armate, impegnandosi in cambio a restare per un certo numero di anni in divisa.
Un familiare ha rivelato che il medico, che aveva lavorato per sei anni al famoso ospedale militare Walter Reed (a Washington) specializzato nelle cure ai soldati feriti, compresi quelle vittima di stress post-traumatico, si opponeva alla decisione delle autorita’ di inviarlo in Iraq. ’’Era contrario alla idea di finire in guerra, era il suo incubo, stava facendo tutto il possibile per evitare questa svolta della sua vita - ha raccontato il cugino Nader Hasan - Aveva ascoltato ogni giorno al Walter Reed i racconti dei soldati rientrati dal fronte e rimasti traumatizzati da cio’ che avevano visto’’.
Il medico, che non era sposato e non aveva figli, considerava l’esercito la sua casa ma era rimasto molto disturbato dagli attacchi verbali e dai sospetti che la sua origine mediorientale provocava anche tra gli uomini in divisa, specie dopo la strage dell’11/9. Si era anche rivolto ad un avvocato per vedere se esisteva la possibilita’ di uscire dalle forze armate. Un cugino ha detto che Hasan era di fede islamica fin dalla nascita.
I suoi genitori provenivano da un villaggio non lontano da Gerusalemme. Alcuni colleghi lo hanno descritto come un ’’solitario’’ ed un ’’irascibile’’. In aprile era stato trasferito da Washington a Fort Hood. Il mese dopo era stato promosso maggiore. L’esplosione di violenza e’ divampata alle 13:30 locali in un edificio della grande base militare, il Soldier Rating and Processing Center, dove decine di soldati erano impegnati in visite mediche di controllo e in pratiche amministrative in vista del trasferimento in Iraq o in Afghanistan.
Secondo alcuni testimoni il maggiore avrebbe sparato in modo indiscriminato sui soldati, uccidendo dodici persone e ferendone un’altra trentina, prima di essere bloccato dai proiettili sparati da un agente di polizia. Il generale, in un briefing ai media, ha detto che tutte le indicazioni disponibili ’’non sembrano portare a una ipotesi terroristica’’ anche se niente ’’puo’ essere escluso a priori’’. L’Fbi aveva indagato tempo fa sui messaggi online di qualcuno che si presentava come Nidal Hasan e che esprimevano approvazione per l’operato degli attentatori kamikaze che sacrificavano la loro vita ’’per proteggere i fratelli musulmani’’. Ma non e’ confermato che si trattasse dello psichiatra dell’esercito. Inizialmente erano stati arrestati dalla polizia di Fort Hood altri tre soldati risultati pero’ estranei alla strage. Una circostanza che aveva inizialmente alimentato l’ipotesi del complotto, ipotesi che ha poi perso consistenza. Un familiare ha raccontato che i genitori di Hasan, che sono morti, erano contrari a suo tempo alla sua decisione di vestire la divisa. ’’Sono nato e sono stato educato in America - aveva risposto il giovane Hasan - E’ mio dovere servire il mio Paese’’.
OBAMA, E’ SCONVOLGENTE - Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, ha definito "sconvolgente" quanto avvenuto oggi a Fort Hood. "Non si conoscono ancora i dettagli - ha detto Obama - sappiamo solo che c’é stata una sparatoria e che molti uomini in uniforme sono stati uccisi, e altri sono rimasti feriti. I miei pensieri vanno alle famiglie. E’ sconvolgente sapere che uomini e donne in uniforme muoiono in territori di guerra, ma è ancora più sconvolgente quando questo avviene in territorio americano".
LA Stampa, 10/11/2009 (20:58)
I FUNERALI
Obama ricorda i morti di Fort Hood "Nessuna fede giustifica la strage"
Il presidente Usa: «Difficile capire la logica di tale tragedia»
Barack Obama ha commemorato le 13 vittime di Fort Hood in Texas sottolineando che «nessuna fede può giustificare» le «azioni assassine e vigliacche» commesse dal maggiore Nidal Hasan, fervente musulmano.
Il presidente, accompagnato dalla moglie Michelle, ha osservato che «può essere difficile comprendere la logica contorta che ha portato a questa tragedia».
Giovedì il maggiore Hasan aprì il fuoco nella base di Fort Hood uccidendo a sangue freddo 13 commilitoni prima di essere fermato da un agente donna Secondo Obama «quello che dobbiamo sapere è che nessuna fede può giustificare queste azioni assassine e vigliacche; che nessun dio amorevole può approvarle, e per quello che (Hasan) ha fatto noi sappiamo che ne risponderà alla giustizia terrena e a quella divina»
Il maggiore, psichiatra di origine giordana, ha ucciso 13 persone e ne ha ferite 31
E’ sopravvissuto alla sparatoria. I testimoni: "Mentre sparava invocava Allah"
Texas, strage nella base militare
Hasan ha gridato: "Allah è grande"
Ancora da chiarire le motivazioni della carneficina. A quanto pare l’omicida
non voleva partire per l’Iraq. Obama: "Evitare conclusioni affrettate" *
NEW YORK - Malik Nidal Hasan, maggiore dell’esercito degli Stati Uniti d’America, professione psichiatra, non partirà più per l’Iraq. E non partiranno più neppure quei tredici ragazzi finiti sotto i suoi colpi: uccisi, sterminati nel Soldier Readiness Facility, il centro medico di Fort Hood, Texas. Ma a differenza di quei ragazzi, Malik, l’autore della strage che ha fatto ripiombare l’America nell’incubo del terrorismo, non morirà. Non per ora. "La sua morte non è imminente": ha detto proprio così il generale Bob Cone, "non è imminente", nell’ultima, incredibile conferenza stampa di una giornata d’inferno. L’ultimo colpo di scena.
Il killer di Fort Hoods non è morto. La rivelazione arriva più di sei ore dopo la strage, nella notte americana, quando tutti i giornali del mondo hanno già mandato in stampa la notizia dello psichiatra-killer ucciso. Invece Malik è vivo e nelle mani della polizia. Ma ormai c’è poco da scoprire. "Non voleva partire per l’Iraq", dicono i suoi amici alla base. Il colonnello Terry Lee, che ha lavorato con lui, racconta che il maggiore sarebbe stato spedito in Iraq. E che per quell’ex ragazzo single di 39 anni, musulmano religiosissimo, americano di origine giordana, ormai era diventata un’ossessione: Barack Obama ci porterà fuori da qui, il presidente ci porterà fuori dalla guerra.
Il maggiore che non voleva andare al fronte ha fatto una strage impugnando due pistole: fuoco sui soldati, fuoco sui civili, fuoco sui poliziotti. Spara, dicono i testimoni, urlando: "Allah Akbar", Allah è grande. Forse un’ultima invocazione nel momento in cui sapeva di dover morire. Quando un’agente riesce a colpirlo è la fine dell’incubo, di quella "terrificante esplosione di violenza", come la definisce il Comandante in Capo dell’esercito Usa, il presidente Barack Obama. La Casa Bianca in contatto con il Pentagono, mobilitato l’antiterrorismo. Allarme altissimo in tutte le basi militari Usa. Si ferma il Congresso in un minuto di silenzio. Il governatore del Texas, Dick Perry, ordina bandiere a mezz’asta. Tutta l’America paralizzata davanti alle tv. Oggi, comunque, davanti a un Paese terrorizzato all’idea di un rigurgito di terrorismo interno, lo stesso presidente ha invitato "a evitare conclusioni affrettate" sulla vicenda. Come dire, di non dare troppo peso all’ipotesi terrorismo.
Tredici vittime, 31 feriti: una carneficina. Tra quelli in pericolo di vita c’è anche Kimberly Munley, la poliziotta che, unica, ha avuto il coraggio di intervenire e ha sparato quattro proiettili contro il folle maggiore. Le prime voci l’hanno data per morta, adesso le autorità militari fanno sapere che Kim è sempre grave ma è stata "stabilizzata". Insieme alle notizie sulla sua salute arrivano anche elogi per la sua prontezza e la sua abilità. In soli tre minuti dall’allarme, la donna è arrivata nell’edificio, ha capito cosa stava succedendo e chi era l’assassino ed ha agito di conseguenza.
Fort Hood è una delle basi militari più grandi del mondo, la casa dei soldati che stanno per partire per l’Afghanistan e per l’Iraq. "Questa è un’esecuzione, un’azione deliberata, predeterminata" dice il generale Robert Scales, l’esperto militare della Fox. Ha ragione: ma non ci sono complici, non c’è il commando.
L’Fbi prima esclude la pista del terrorismo, poi la notizia del nome dell’attentatore riapre scenari inquietanti. C’è chi fa circolare il sospetto che si tratti di un americano che avrebbe cambiato il suo nome dopo essersi convertito all’Islam. Era uno psichiatra. Era stato riassegnato al Forte recentemente. Sarebbe dovuto partire per l’Iraq. Aveva passato sei anni al Walter Reed, l’ospedale militare più famoso d’America. Le ultime valutazioni non erano per niente buone, anzi.
La sparatoria si scatena nel centro medico dove vengono svolti gli ultimi accertamenti prima della partenza. A poca distanza c’è l’Hozwe, il teatro della base: c’è una cerimonia di fine corso. Nel Forte scatta lo stato di assedio. Il presidente viene avvisato, interviene in una conferenza stampa: "Non conosciamo ancora i dettagli, c’è stata una sparatoria, molti uomini in uniforme sono stati uccisi, altri feriti: è sconvolgente sapere che uomini e donne in uniforme muoiono in territori di guerra, ma è ancora più sconvolgente quando avviene sul territorio americano".
La base di Fort Hood è un pezzo di storia d’America, una struttura che risale alla seconda guerra mondiale trasformatasi in una vera e propria città militare, più di 30mila le persone ospitate tra soldati e familiari, centri commerciali, un teatro, un campo di softball. Fort Hood si trova a metà strada, cento chilometri, tra Austin e Waco, la città tragicamente famosa per il suicidio di massa della setta dei davidiani. Faizul Khan, l’ex imam della moschea di Silver Spring, se lo ricorda bene quel ragazzo che si lamentava di non trovare una moglie. Ma nessuno - come sempre in questi casi - avrebbe mai sospettato questo orrore.
© la Repubblica, 6 novembre 2009
La tragedia alla base di Fort Hood in Texas
di Stephanie Westbrook, Roma *
Leggendo della tragedia alla base di Fort Hood nel mio Texas, dove un soldato ha ucciso 11 dei suoi commilitoni e ne ha feriti 31, non potevo non pensare alla mia breve esperienza a Fort Hood. Era l’estate del 2006. Stavo a Camp Casey a Crawford, Texas, davanti al ranch di Bush nell’accampamento di Cindy Sheehan, madre che ha perso il figlio in Iraq. Era il secondo anno per Camp Casey. Questa volta Bush aveva scelto di trascorrere le vacanze altrove, il ché ci ha lasciato con più tempo libero.
Fort Hood, la più grande base armata negli Stati Uniti e dove passa la gran parte dei soldati destinati alla guerra, si trova ad un ora e mezza da Crawford. Abbiamo deciso di andarci per dare informazioni ai soldati. Avevamo con noi dei veterani della guerra in Iraq e volantini della GI Rights Hotline, un’associazione che fornisce assistenza ai soldati, anche su come uscire dall’esercito.
Ci siamo posizionati a cento metri dall’ingresso della base nel pomeriggio al momento dell’uscita. Mi aspettavo di trovare un ambiente ostile, ma non è stato così. Avevamo cartelli con un messaggio molto semplice, "Non devi andare". È bastato perché molti soldati si fermassero per saperne di più, anche in divisa, violando il codice militare e sotto gli occhi della guardia all’ingresso della base. Alcuni passavano in macchina e ci facevano il simbolo della pace. Altri si fermavano il tempo necessario per copiare il numero verde per la GI Rights Hotline scritto in grandi lettere sul nostro furgone. Si sono fermati anche familiari di soldati per prendere materiale da portare a casa.
Fort Hood ha il più alto tasso di suicidi di tutte le basi statunitensi. Nidal M. Hasan, il soldato che ha ucciso i suoi commilitoni, aveva passato sei anni, dal 2003 al 2009, come psichiatra all’ospedale militare di Walter Reed a Washington. Curava i soldati con la sindrome da stress post- traumatico. Era prossimo ad essere inviato in Iraq. Sono passati più di tre anni. Allora i Repubblicani controllavano la Camera, il Senato e la Casa Bianca. Ora i Democratici hanno la maggioranza. Ma sono sicura se dovessi andare di nuovo davanti a Fort Hood con lo stesso cartello, la scena sarebbe quella di tre anni fa.
Stephanie Westbrook, Roma
* IL DIALOGO,, Venerdì 06 Novembre,2009 Ore: 16:36
Il disagio delle truppe dopo 8 anni di guerre: già 134 suicidi nel 2009
Stress, violenza, ansia quel male oscuro che divora i Marines
di Francesca Cafarri (la Repubblica, 7.11.2009)
La grande famiglia è malata. Non serviva la strage di Fort Hood a scoprirlo, ma ora nasconderlo è diventato impossibile. Unità, solidarietà, coraggio: sono gli slogan delle Forze armate americane. Li vedi stampati ovunque, girando nelle caserme, negli accampamenti e negli ospedali. Siamo una "famiglia" e ci prendiamo cura di ogni membro, è il messaggio. Una parola sola aleggia costante nell’aria ma non compare mai: stress. O, nella sua forma più corretta, PTSD post-traumatic stress disorder.
Il male oscuro dei militari Usa, che il maggiore Nidal Malik Hasan aveva guardato in faccia per anni come medico al Walter Reed Hospital e che temeva l’aggredisse in Afghanistan, è racchiuso in queste quattro lettere: tradotte nella vita di tutti i giorni significano incubi, difficoltà di riadattamento a un’esistenza normale, violenza fisica, depressione, alcolismo. Come il male abbia potuto aggredire "la famiglia" è facile capirlo: due guerre che vanno avanti da otto anni ormai con turni sul terreno di 12 mesi che per un lungo periodo sono diventati di 15, hanno piegato le forze armate più potenti del mondo. Lo scorso anno 140 soldati si sono suicidati, il numero più alto mai registrato. Che sarà con tutta probabilità superato nel 2009: fra gennaio e ottobre ci sono già stati 134 suicidi. E non è questa l’unica statistica a evidenziare il disagio: il 35% di quelli che tornano da Iraq e Afghanistan, dicono gli esperti, soffre o soffrirà di PTSD. Il numero delle persone che hanno mostrato sintomi di disagio è cresciuto del 50% nel 2008 rispetto all’anno precedente. I tassi di divorzio sono in costante crescita, così come quelli sugli ex militari homeless e senza lavoro. E tutti i problemi aumentano proporzionalmente alla lunghezza dello schieramento sul terreno.
Il Pentagono ha cercato negli ultimi mesi di correre ai ripari: sono stati aumentati i finanziamenti, potenziati i servizi di assistenza e introdotto un test obbligatorio per i militari di rientro dai teatri di guerra. Inoltre il capo supremo delle Forze armate americane, generale Mike Mullen, ha invitato a più riprese i suoi uomini a non vergognarsi e a farsi curare senza temere conseguenze. Basterà? L’unica soluzione reale che gli esperti raccomandano è proprio quella che lo Stato maggiore non può scegliere in questo momento: tempi di permanenza a casa più lunghi per dare modo ai militari di recuperare il loro equilibrio. Un’utopia o quasi: secondo un recente studio dell’Institute for the Study of war, un think tank di Washington, solo tre brigate dell’esercito e una dei Marines (fra gli 11mila e i 15mila uomini e donne) potrebbero in questo momento mandare sul terreno soldati che sono rimasti a casa 12 mesi fra uno schieramento e l’altro. Un dato che Obama non può non tenere presente nel momento in cui deve decidere se inviare nuove truppe in Afghanistan.
L’apocalisse in casa
Lo psichiatra che ha ucciso preparava i soldati a morire
Li avrebbe dovuti curare, e programmare come diligenti soldatini di piombo da fondere nel crogiolo delle guerre fantasma del terzo millennio, l’ufficiale medico psichiatra, ma nessuno aveva pensato a curare lui, il medico, che ha ucciso i suoi pazienti futuri.
Una nuova apocalisse in casa per l’America sempre più fragile
di Vittorio Zucconi (la Repubblica, 6.11.2009)
Quei soldati che a migliaia tornano dalle guerre per «esportare la democrazia» avendo perduto per sempre, come lui, l’anima e la mente. Erano pronti e preparati a morire in Iraq o in Afghanistan, i suoi soldati, come quei cinquemila e 281 loro fratelli nelle uniformi delle forze armate americane che già sono tornati indietro nelle bare d’acciaio verniciato, non a essere abbattuti nella loro casa, nel forte più forte del Texas, Fort Hood, dove si sentivano invulnerabili e invincibili dentro i loro mezzi corazzati e sotto le insegne della Cavalleria, la più nobile delle armi. E da chi avrebbe dovuto convincerli e «strizzargli il cervello», come si dice nello slang americano di psichiatri e psicologi clinici.
E se non sappiamo davvero nulla dell’autore di questa Apocalisse «now and here», ora e qui, oltre il grado e la specializzazione medica, dell’ufficiale che ha aperto il fuoco sui propri soldati nel momento della loro promozione, alla vigilia della partenza per il fronte, oltre quel nome arabo che subito suscita pensieri sinistri, il maggiore Malik Nadai Hasan, nè dei suoi due complici arrestati, la domanda che da otto anni i comandi americani si pongono torna prepotente: fino a quando si può tendere l’elastico di un esercito formidabile, addestratissimo, armatissimo, motivatissimo, ma pur sempre fatto di essere umani? Bastano lo psichiatra, il cappellano militare, i discorsi, le marcette, le parole di circostanza dette da ogni presidente e anche ieri sera da Barack Obama, per illudersi che l’elastico di una mente non si strappi mai?
Sono ormai nove anni che in Afghanistan e sei in Iraq, più tempo di ogni altra guerra americana e vicinissimo all’orribile record del Vietnam, uomini e donne sono spremuti in combattimenti che non hanno altro che tunnel alla fine del tunnel, nonostante le solite promesse di tutti i generali e di tutti i governanti di tornare a casa per Natale, ma senza mai specificare «quale Natale». Il maggiore psichiatra che ha guidato questo ammutinamento, che a chi conosce la storia della guerra ricorda gli ammutinamenti dei soldati francesi sulla Marna nelle ore più truci della Grande Guerra, sarebbe dovuto partire per l’Iraq nelle prossime ore e in lui l’elastico troppo teso è saltato. Che lo abbia spezzato il suo essere evidentemente di sangue arabo, sembra nato in Giordania, di fronte alla continua strage di arabi e di mussulmani nel nome della loro liberazione, che sia stata la umana paura di andare a saltare su una mina, a essere catturato e torturato e sgozzata da terroristi mussulmani decisi a punire nell’orrore il suo tradimento della «umma», della comunità islamica, ancora non sappiamo.
Si indaga sul suo passato, sulle possibile affinità ideologiche con i combattenti e i terrorirsti anti cristiani, sull’ipotesi di cellule maligne infiltrate nel corpo della US Army, che a Fort Hood ha una delle proprie fortezze più gigantesche. Quasi 50 mila soldati, panzer M1A1, trasporti corazzati e le insegne della divisione di cavalleria più gloriosa nella storia militare americana, la Prima Divisione. Quella che da sola, nel 1950, rallentò l’invasione dei nord coreani e salvò almeno la metà di quella penisola. E che i registi dei film di guerra, come Coppola in Apocalipse Now, amano raccontare come i più coraggiosi, i più matti, i più temerari, nel segno della testa di cavallo nero sul fondo giallo.
Ma questa volta, la cavalleria non è arrivata in tempo a salvare la cavalleria. Nessun generale, nessun colonnello, nessun camerata o collega si era accorto che qualcosa era saltato nell’anima di quel Giordano divenuto medico, psichiatra, americano, ufficiale e gentiluomo sotto il segno della nazione che lo aveva adottato, gli Stati Uniti e che la sua fosse semplice e comprensibile pazzia, o tentacolo di un complotto arrivato dentro il santuario dell’americanità e delle sue forze corazzate, il Texas e già questo è, in ogni caso, «orribile» come ha detto Obama. Addirittura, nella confusione della notte, qualcuno aveva dubitato che la facoltà di medicina e psichiatria dove lui si era laureato, a Bethesda, nei sobborghi di Washington, esistesse, come invece esiste, parte dell’ospedale della Marina. Questa è la materia per indagini, ispezioni e polemiche.
Quello che rimane di questa Apocalisse ora, e qui, non a diecimila chilometri, è il fatto di essere il settimo incidente, dall’invasione dell’Iraq, di soldati americani che sparano ad altri soldati americani, con ormai più di 40 caduti. Il settimo.
Situazione normale, dunque. All’Ovest, generale, niente di nuovo.
Malik Nidal Hasan, 39 anni, maggiore e psichiatra, ha ucciso 12 persone e ne ha ferite altre 31
Texas, strage nella base militare
il responsabile è sopravvissuto
Ancora da chiarire le motivazioni della carneficina
A quanto pare l’omicida non voleva partire per l’Iraq
dal nostro inviato ANGELO AQUARO
NEW YORK - Malik Nidal Hasan, maggiore dell’esercito degli Stati Uniti d’America, professione psichiatra, non partirà più per l’Iraq. E non partiranno più neppure quella decina di ragazzi finiti sotto i suoi colpi: uccisi, sterminati nel Soldier Readiness Facility, il centro medico di Fort Hood, Texas. Ma a differenza di quei ragazzi, Malik, l’autore della strage che ha fatto ripiombare l’America nell’incubo del terrorismo, non morirà. Non per ora. "La sua morte non è imminente": ha detto proprio così il generale Bob Cone, "non è imminente", nell’ultima, incredibile conferenza stampa di una giornata d’inferno. L’ultimo colpo di scena.
Il killer di Fort Hoods non è morto. La rivelazione arriva più di sei ore dopo la strage, nella notte americana, quando tutti i giornali del mondo hanno già mandato in stampa la notizia dello psichiatra-killer ucciso. Invece Malik è vivo e nelle mani della polizia. Ma ormai c’è poco da scoprire. "Non voleva partire per l’Iraq", dicono i suoi amici alla base. Il colonnello Terry Lee, che ha lavorato con lui, racconta che il maggiore sarebbe stato spedito in Iraq. E che per quell’ex ragazzo single di 39 anni, musulmano religiosissimo, americano di origine giordana, ormai era diventata un’ossessione: Barack Obama ci porterà fuori da qui, il presidente ci porterà fuori dalla guerra.
Il maggiore che non voleva andare al fronte ha fatto una strage impugnando due pistole: fuoco sui soldati, fuoco sui civili, fuoco sui poliziotti. Quando un agente riesce a colpirlo è la fine dell’incubo, di quella "terrificante esplosione di violenza", come la definisce il Comandante in Capo dell’esercito Usa, il presidente Barack Obama. La Casa Bianca in contatto con il Pentagono, mobilitato l’antiterrorismo. Allarme altissimo in tutte le basi militari Usa. Si ferma il Congresso in un minuto di silenzio. Il governatore del Texas, Dick Perry, ordina bandiere a mezz’asta. Tutta l’America paralizzata davanti alle tv.
Dodici vittime, 31 feriti: una carneficina. Fort Hood è una delle basi militari più grandi del mondo, la casa dei soldati che stanno per partire per l’Afghanistan e per l’Iraq. "Questa è un’esecuzione, un’azione deliberata, predeterminata" dice il generale Robert Scales, l’esperto militare della Fox. Ha ragione: ma non ci sono colplici, non c’è il commando.
L’Fbi prima esclude la pista del terrorismo, poi la notizia del nome dell’attentatore riapre scenari inquietanti. C’è chi fa circolare il sospetto che si tratti di un americano che avrebbe cambiato il suo nome dopo essersi convertito all’Islam. Era uno psichiatra. Era stato riassegnato al Forte recentemente. Sarebbe dovuto partire per l’Iraq. Aveva passato sei anni al Walter Reed, l’ospedale militare più famoso d’America. Le ultime valutazioni non erano per niente buone, anzi.
La sparatoria si scatena nel centro medico dove vengono svolti gli ultimi accertamenti prima della partenza. A poca distanza c’è l’Hozwe, il teatro della base: c’è una cerimonia di fine corso. Nel Forte scatta lo stato di assedio. Il presidente viene avvisato, interviene in una conferenza stampa: "Non conosciamo ancora i dettagli, c’è stata una sparatoria, molti uomini in uniforme sono stati uccisi, altri feriti: è sconvolgente sapere che uomini e donne in uniforme muoiono in territori di guerra, ma è ancora più sconvolgente quando avviene sul territorio americano"
La base di Fort Hood è un pezzo di storia d’America, una struttura che risale alla seconda guerra mondiale trasformatasi in una vera e propria città militare, più di 30mila le persone ospitate tra soldati e familiari, centri commerciali, un teatro, un campo di softball. Fort Hood si trova a metà strada, cento chilometri, tra Austin e Waco, la città tragicamente famosa per il suicidio di massa della setta dei davidiani. Faizul Khan, l’ex imam della moschea di Silver Spring, se lo ricorda bene quel ragazzo che si lamentava di non trovare una moglie. Ma nessuno - come sempre in questi casi - avrebbe mai sospettato questo orrore.
© la repubblica, 6 novembre 2009
IL DRAMMA
Sparatoria alla base militare, è strage
La base si trova a Killeen, a metà strada tra Waco ed Austin
Una sparatoria ha provocato una strage in una base militare in Texas: almeno dodici persone sono state uccise e trenta sono state ferite. L’incidente è avvenuto nella base militare di Fort Hood, una delle più importanti basi dell’esercito Usa. Nella sparatoria sono stati coinvolti tre uomini in uniforme: due sono stati arrestati dalle autorità, l’altro è stato ucciso. Le autorità della base hanno ordinato la chiusura immediata invitando i militari a restare in luoghi sicuri. L’incidente è accaduto al Soldier Readiness Center della base militare di Fort Hood, che ha ogni giorno un intenso traffico di soldati in arrivo e in partenza. La base di Fort Hood si trova circa a metà strada tra le cittadine di Austin e Waco, in Texas.
L’assistente di un deputato che avrebbe dovuto partecipare ad una cerimonia nella base ha riferito che la sparatoria si è svolta poco lontano dall’ingresso e di aver visto un soldato con la divisa sporca di sangue correre urlando che qualcuno stava sparando. I primi colpi sono stati sentiti poco dopo le 13 (ora locale) in un complesso sanitario. Un’ora più tardi tutto il personale della base ha ricevuto una mail che avvertiva della chiusura della base e chiedeva a tutti di tenersi a disposizione. Chiuse anche le sette scuole elementari e le due scuole medie che servono l’area. Fort Hood non è nuovo a episodi di violenza: nel settembre del 2008 due soldati della Prima divisione di cavalleria uccisero due ufficiali e si tolsero la vita.
Il presidente degli Stati Uniti Obama ha definito «sconvolgente» la sparatoria. «Non si conoscono ancora i dettagli - ha detto Obama - sappiamo solo che c’è stata una sparatoria e che molti uomini in uniforme sono stati uccisi, e altri sono rimasti feriti. I miei pensieri vanno alle famiglie. È sconvolgente sapere che uomini e donne in uniforme muoiono in territori di guerra, ma è ancora più sconvolgente quando questo avviene in territorio americano».
Quella di Fort Hood è la maggiore base militare americana del mondo, e può ospitare oltre 50 mila uomini. La base si trova a Killeen, a metà strada tra Waco ed Austin, a circa 100 chilometri dalle due città. Attualmente vi si trovano poco più di 30 mila militari, essendo quasi la metà dei soldati di Fort Hood mobilitati in Iraq e in Afghanistan. Dedicata al generale confederale John Bell Hood, costruita nel 1942 per rispondere alla macchina da guerra nazista, la base ha una superficie di circa 40 chilometri quadrati ed è sede tra l’altro di due divisioni, la prima di cavalleria e la prima divisione ovest dell’esercito, che dapprima si trovava a Fort Carson in Colorado.
* La Stampa, 5/11/2009