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EU-TANASIA: IL DIRITTO DI MORIRE. IL CORAGGIO DELLA PAROLA, NON LA TRAPPOLA DEL SILENZIO. Una nota di Claudia Mancina, e di Luigi Manconi - a c. di pfls

lunedì 25 settembre 2006.
 

Il coraggio della parola

di Claudia Mancina (La Stampa, 24.09.2006)

ANCORA una volta Giorgio Napolitano ha dato una lezione di coraggio e di franchezza al mondo politico. Alla lettera di Welby, che chiede il diritto di porre fine alla sua vita di malato terminale di una terribile malattia, il presidente risponde non solo con le ovvie espressioni di partecipazione umana, ma con la sottolineatura dell’opportunità che sull’eutanasia si apra un dibattito nel paese e nel Parlamento.

Come già ha fatto su altri temi, il capo dello Stato mostra di interpretare il suo ruolo istituzionale come un ruolo che - sia pure con grande equilibrio - vuole essere di stimolo e di orientamento. La questione dell’eutanasia è certamente difficile e delicata, soprattutto in un paese cattolico e tanto più se governato da una maggioranza che già ha mostrato sensibili divisioni sui temi bioetici. Ma mettere la testa sotto la sabbia, come amerebbero fare molti politici per evitare guai, non è una soluzione.

Questi temi hanno già una grande presenza nel dibattito culturale e nella vita quotidiana, e non ci si può illudere di evitarli. Il caso Welby non è isolato, un caso pietoso, come vorrebbero alcuni. E’ la testimonianza di un problema che è anche un problema legislativo, che infatti diversi paesi intorno a noi stanno affrontando, sia pure con esiti diversi. Anche in Italia, del resto, esistono già da tempo proposte di legge, se non sull’eutanasia, su un tema contiguo come il testamento biologico. Vogliamo discuterne?

Vogliamo interrogarci su quali sono le ragioni, le buone ragioni, che impedirebbero a una persona giunta al termine della vita di scegliere una morte dignitosa e pietosa, una morte opportuna, come l’ha definita Welby? Certo nessuno di noi pensa ad una facile via all’eutanasia. Ma il discorso va affrontato con serenità e soprattutto con rispetto per le persone che soffrono, alle quali non si può rispondere con astrazioni dottrinarie.

Cerchiamo delle soluzioni che salvaguardino la dignità umana. E’ un dibattito che può dividere il paese? Certamente, ma questo è proprio di tutte le questioni veramente serie. Ci si può dividere con serenità, con sincerità, se si accetta un dialogo vero, senza avanzare immediatamente posizioni rigide e immodificabili. La politica, per sua natura, è il luogo in cui cercare soluzioni condivisibili dai cittadini nella loro diversità di opinioni e di valori. Non può essere altro che questo; se riesce a essere questo, realizza nel modo più alto la sua missione nella società. Siamo abituati alla mediazione politica per i conflitti tra interessi, siamo meno abituati alla mediazione per i conflitti tra valori etici. Eppure proprio questa è oggi la vera sfida.


La trappola del silenzio

di Luigi Manconi*

Dobbiamo davvero augurarci che l’invito del capo dello Stato - si discuta di eutanasia «nelle sedi più idonee» - sia accolto. E proprio perché, come ha aggiunto Giorgio Napolitano, «il solo atteggiamento ingiustificato sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabilità». Questo avrebbe, innanzitutto, una conseguenza assai grave: la morte - resa evento ordinario fino alla banalizzazione e oggetto di consumo, serial televisivo e prodotto di mercato - resterebbe un tabù solo per la sfera politico-giuridica. Così è stato finora.

Dopo che, nei primi anni 80, Loris Fortuna presentò un disegno di legge sull’eutanasia, tutto è rimasto immobile. Rigidamente immobile. Non che questo abbia cancellato, o ridimensionato, il problema. Si è continuato a patire e a morire spesso senza dignità, senza consolazione e senza misericordia: e, ancora più spesso,senza che nulla o nessuno lenisse la sofferenza (l’Italia è tra gli ultimi paesi europei per ricorso ai farmaci contro il dolore e alla morfina per fini terapeutici). Ora, è chiaro che su tali questioni la legge non può dire tutto e decidere tutto. Così come è evidente che i mille aspetti della vita reale e della sofferenza reale e dell’agonia reale non possano essere ridotti a una casistica burocratica. Il percorso di una malattia e i dilemmi che solleva non possono essere normati e regolamentati come i codicilli di un contratto d’affitto. E, tuttavia, alla legge spetta il compito di trovare una soluzione alle contraddizioni sociali più acute, per evitare che esplodano con effetti dirompenti e ancora più dolorosi.

Una soluzione che mai può essere perfetta, ma che deve perseguire - pazientemente e faticosamente - il male minore e la riduzione del danno. Ebbene, nella vicenda di Piergiorgio Welby, emergono alcuni punti inequivocabili. A chiedere di poter morire é una persona nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, che esprime un elevatissimo grado di consapevolezza e di lucidità, che conosce il proprio corpo e le sue possibilità, i suoi limiti e il suo degrado.

Il messaggio inviato al capo dello Stato esprime bene questa intelligenza di sè e delle cose, e contiene alcuni passaggi cruciali. In particolare, dove Welby dice di avere orrore per la morte, ma che non c’è nulla più di "naturale" in molte esistenze protratte artificialmente, solo grazie a macchine sofisticate («Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente- rimandata?»). E, poi, ecco un’affermazione essenziale, la più preziosa tra quelle che Welby ci consegna: «Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire.

Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo».

Guai a dimenticare queste parole: nella discussione pubblica che, grazie al coraggio di Welby, si dovrà sviluppare, non si confronteranno il "partito dell’eutanasia" e il "partito della vita". Non si misurano un club di necrofili e l’Esercito del Bene. Chi è a favore dell’eutanasia - a condizioni rigorose, con vincoli severi, in casi estremi - è mosso da un sentimento di pietas e da un’opzione ideale, che possono avere la stessa forza morale e la stessa fondazione etica dell’opzione di chi, all’eutanasia, si oppone incondizionatamente. Già partire da un simile presupposto condiviso aiuterebbe - e molto - una riflessione che, parlando della morte e delle "cose ultime", parla in realtà della nostra vita.

* www.unita.it, Pubblicato il: 25.09.06 Modificato il: 25.09.06 alle ore 4.49


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