Il coraggio della parola
di Claudia Mancina (La Stampa, 24.09.2006)
ANCORA una volta Giorgio Napolitano ha dato una lezione di coraggio e di franchezza al mondo politico. Alla lettera di Welby, che chiede il diritto di porre fine alla sua vita di malato terminale di una terribile malattia, il presidente risponde non solo con le ovvie espressioni di partecipazione umana, ma con la sottolineatura dell’opportunità che sull’eutanasia si apra un dibattito nel paese e nel Parlamento.
Come già ha fatto su altri temi, il capo dello Stato mostra di interpretare il suo ruolo istituzionale come un ruolo che - sia pure con grande equilibrio - vuole essere di stimolo e di orientamento. La questione dell’eutanasia è certamente difficile e delicata, soprattutto in un paese cattolico e tanto più se governato da una maggioranza che già ha mostrato sensibili divisioni sui temi bioetici. Ma mettere la testa sotto la sabbia, come amerebbero fare molti politici per evitare guai, non è una soluzione.
Questi temi hanno già una grande presenza nel dibattito culturale e nella vita quotidiana, e non ci si può illudere di evitarli. Il caso Welby non è isolato, un caso pietoso, come vorrebbero alcuni. E’ la testimonianza di un problema che è anche un problema legislativo, che infatti diversi paesi intorno a noi stanno affrontando, sia pure con esiti diversi. Anche in Italia, del resto, esistono già da tempo proposte di legge, se non sull’eutanasia, su un tema contiguo come il testamento biologico. Vogliamo discuterne?
Vogliamo interrogarci su quali sono le ragioni, le buone ragioni, che impedirebbero a una persona giunta al termine della vita di scegliere una morte dignitosa e pietosa, una morte opportuna, come l’ha definita Welby? Certo nessuno di noi pensa ad una facile via all’eutanasia. Ma il discorso va affrontato con serenità e soprattutto con rispetto per le persone che soffrono, alle quali non si può rispondere con astrazioni dottrinarie.
Cerchiamo delle soluzioni che salvaguardino la dignità umana. E’ un dibattito che può dividere il paese? Certamente, ma questo è proprio di tutte le questioni veramente serie. Ci si può dividere con serenità, con sincerità, se si accetta un dialogo vero, senza avanzare immediatamente posizioni rigide e immodificabili. La politica, per sua natura, è il luogo in cui cercare soluzioni condivisibili dai cittadini nella loro diversità di opinioni e di valori. Non può essere altro che questo; se riesce a essere questo, realizza nel modo più alto la sua missione nella società. Siamo abituati alla mediazione politica per i conflitti tra interessi, siamo meno abituati alla mediazione per i conflitti tra valori etici. Eppure proprio questa è oggi la vera sfida.
La trappola del silenzio
di Luigi Manconi*
Dobbiamo davvero augurarci che l’invito del capo dello Stato - si discuta di eutanasia «nelle sedi più idonee» - sia accolto. E proprio perché, come ha aggiunto Giorgio Napolitano, «il solo atteggiamento ingiustificato sarebbe il silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabilità». Questo avrebbe, innanzitutto, una conseguenza assai grave: la morte - resa evento ordinario fino alla banalizzazione e oggetto di consumo, serial televisivo e prodotto di mercato - resterebbe un tabù solo per la sfera politico-giuridica. Così è stato finora.
Dopo che, nei primi anni 80, Loris Fortuna presentò un disegno di legge sull’eutanasia, tutto è rimasto immobile. Rigidamente immobile. Non che questo abbia cancellato, o ridimensionato, il problema. Si è continuato a patire e a morire spesso senza dignità, senza consolazione e senza misericordia: e, ancora più spesso,senza che nulla o nessuno lenisse la sofferenza (l’Italia è tra gli ultimi paesi europei per ricorso ai farmaci contro il dolore e alla morfina per fini terapeutici). Ora, è chiaro che su tali questioni la legge non può dire tutto e decidere tutto. Così come è evidente che i mille aspetti della vita reale e della sofferenza reale e dell’agonia reale non possano essere ridotti a una casistica burocratica. Il percorso di una malattia e i dilemmi che solleva non possono essere normati e regolamentati come i codicilli di un contratto d’affitto. E, tuttavia, alla legge spetta il compito di trovare una soluzione alle contraddizioni sociali più acute, per evitare che esplodano con effetti dirompenti e ancora più dolorosi.
Una soluzione che mai può essere perfetta, ma che deve perseguire - pazientemente e faticosamente - il male minore e la riduzione del danno. Ebbene, nella vicenda di Piergiorgio Welby, emergono alcuni punti inequivocabili. A chiedere di poter morire é una persona nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, che esprime un elevatissimo grado di consapevolezza e di lucidità, che conosce il proprio corpo e le sue possibilità, i suoi limiti e il suo degrado.
Il messaggio inviato al capo dello Stato esprime bene questa intelligenza di sè e delle cose, e contiene alcuni passaggi cruciali. In particolare, dove Welby dice di avere orrore per la morte, ma che non c’è nulla più di "naturale" in molte esistenze protratte artificialmente, solo grazie a macchine sofisticate («Che cosa c’è di naturale in un buco nella pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c’è di naturale in uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l’aria nei polmoni? Che cosa c’è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con l’ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione artificiale, svuotamento intestinale artificiale, morte-artificialmente- rimandata?»). E, poi, ecco un’affermazione essenziale, la più preziosa tra quelle che Welby ci consegna: «Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita, non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire.
Chi condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione, prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare sempre più in avanti nel tempo».
Guai a dimenticare queste parole: nella discussione pubblica che, grazie al coraggio di Welby, si dovrà sviluppare, non si confronteranno il "partito dell’eutanasia" e il "partito della vita". Non si misurano un club di necrofili e l’Esercito del Bene. Chi è a favore dell’eutanasia - a condizioni rigorose, con vincoli severi, in casi estremi - è mosso da un sentimento di pietas e da un’opzione ideale, che possono avere la stessa forza morale e la stessa fondazione etica dell’opzione di chi, all’eutanasia, si oppone incondizionatamente. Già partire da un simile presupposto condiviso aiuterebbe - e molto - una riflessione che, parlando della morte e delle "cose ultime", parla in realtà della nostra vita.
* www.unita.it, Pubblicato il: 25.09.06 Modificato il: 25.09.06 alle ore 4.49
Il testamento biologico è legge
Cei contraria, medici cattolici divisi
L’associazione confessionale: non la applicheremo. Ma la sezione di Milano è favorevole
di M. D. B. (Corriere della Sera, 15.12.2017)
ROMA Mancano circa 10 minuti a mezzogiorno quando il tabellone si illumina di puntini verdi e dall’aula si alza un lungo applauso. «È la legge di Luca», piange dal palco Maria Cristina Coscioni, mamma del malato di Sla che aprì la campagna per il testamento biologico. Il Senato ha detto sì senza modificarlo al testo passato ad aprile alla Camera: 180 no, 6 astenuti, 71 contrari. Risultato di una coalizione atipica: Pd, Mdp e M5S. L’Italia trova a fine legislatura le norme sul fine vita, uguali per strutture pubbliche e religiose. Ed è qui che i cattolici perdono compattezza. Il direttore dell’ufficio Cei per la Pastorale della Salute, don Massimo Angelelli, pone l’altolà: «Non ci riconosciamo nella legge. Tutela i medici sollevandoli da responsabilità e le strutture pubbliche. E carica la scelta sui malati senza pensare ai sofferenti».
Uno dei punti più controversi è su idratazione e nutrizione artificiale, considerate trattamenti. La Cei distingue: «Se un paziente dovesse chiedere di interromperle negli ospedali cattolici non si procederà.
A favore i medici cattolici di Milano: «La mediazione trovata in Parlamento risponde in più parti al nostro documento». Ma il presidente dell’associazione nazionale Filippo Boscia prende le distanze: «Sono una minoranza. È incrinato il principio dell’indisponibilità della vita laicamente inteso». Il senatore Maurizio Sacconi: «Avremo casi Charlie Gard», il bimbo senza cervello cui è stato negato il proseguimento delle cure di sostegno.
«È una pagina di bella politica che spero possa segnare la storia dei diritti di questo Paese», si emoziona Emilia Grazia De Biasi che con la strategica mossa di dimettersi da relatrice in Commissione sanità del Senato ha tirato fuori le Dat da una caterva di emendamenti ostruzionistici. C’è un’altra donna fra i protagonisti, Donata Lenzi, pd, relatrice alla Camera. Le nomina al megafono Marco Cappato, leader dell’Associazione Coscioni, riunita ieri in piazza, in prima fila Mina Welby e Filomena Gallo. «Un passo avanti per la dignità della persona», scrive su Twitter il presidente del consiglio Paolo Gentiloni. Come lui i ministri Martina e Fedeli.
Una legge che prova ad allinearci agli altri Paesi
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, 15.12.2017)
Una volta tanto, anche se con qualche decennio di ritardo, proviamo ad allinearci con i Paesi più civili nel riconoscere, con una legge, che quando arriviamo alla fine della vita non possiamo perdere il diritto umano più fondamentale di ogni altro, quello all’autodeterminazione.
La legge sulle disposizioni anticipate di trattamento e il consenso informato, approvata ieri, cancella un’anomalia etica e legale, ovvero che mentre un cittadino italiano maggiorenne e cosciente può rifiutare un trattamento medico (come prevede l’art. 32 comma 2 della Costituzione), incluse alimentazione e idratazione artificiali, se questa stessa persona perde coscienza non dispone più di tale diritto. Ovvero decidono parenti e medici.
Le disposizioni anticipate di trattamento sono una continuazione del consenso informato, che finalmente è riconosciuto dalla legge come presupposto necessario per procedere a qualunque trattamento medico, ed entrano in gioco quando mancano le condizioni psicologiche per decidere (la coscienza per capire le informazioni e dare il consenso). È tutto qui ed è molto facile da capire.
Le direttive anticipate non sono un obbligo e quindi chi vuole continuare ad affidarsi a parenti e medici può farlo, ma si è almeno capito che una volta che sono state redatte devono essere rispettate da tutti, a iniziare dai medici, e che anche alimentazione e idratazione artificiale sono trattamenti medici (a predisporli peraltro non può essere che un medico). Un argomento che accade di ascoltare, è che le persone possono cambiare idea. Ma le disposizioni si possono cambiare in qualunque momento ed è auspicabile si costruiscano anche in Italia spazi informatici dove ognuno può aggiornare direttamente le proprie. E credere che una persona che non è più cosciente possa cambiare idea è ridicolo.
È giusto ricordare oggi Piergiorgio Welby, Giovanni Nuvoli, Eluana Englaro e Walter Pilulu, perché senza il loro coraggio e la loro determinazione, il tema non avrebbe raggiunto i livelli di consapevolezza culturale e politica che hanno portato a una legge, che però non è la migliore possibile sul fine vita. Questa legge non avrebbe risposto alle domande di dj Fabo e c’è ancora un tratto di strada da percorrere per diventare davvero civili.
Domande e risposte
Cosa c’è da sapere sul Biotestamento
Come decidere sul fine vita
Dalle disposizioni anticipate di trattamento alla libertà di scelta delle cure
I doveri dei sanitari e il ruolo del fiduciario
di Caterina Pasolini (la Repubblica, 15.12.2017)
ROMA Cosa sono le “dat”?
Sono le disposizioni anticipate di trattamento, ovvero le nostre volontà in materia di assistenza sanitaria in previsione di una futura incapacità a decidere o comunicare. La legge prevede che ogni maggiorenne indichi le preferenze sanitarie e possa nominare un fiduciario che parli e lo rappresenti col medico quando non potrà o non vorrà farlo. Le dat sono inserite nella legge che parla di consenso informato alle cure, di rifiuto all’accanimento terapeutico
Cosa tutela la legge?
La legge tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e soprattutto alla autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato e proseguito senza il consenso libero e informato del malato. In caso di impossibilità a comunicare, la sua scelta medica verrà rappresentata dalle dat e difesa dal suo fiduciario.
Cosa si può accettare o rifiutare?
Quando si è lucidi e coscienti si è liberi di scegliere o rifiutare cure o accertamenti. Così nelle dat la persona può accettare di sottoporsi in futuro a qualsiasi cura, chiedere di essere assistita a oltranza oppure rifiutare qualsiasi accertamento o terapia. Può entrare nel dettaglio: non voglio essere rianimato, intubato, voglio antidolorifici, oppiacei, rianimazione meccanica. Voglio o non voglio che siano iniziati trattamenti anche se il loro risultato fosse uno stato di demenza, uno stato di incoscienza senza possibilità di recupero. Oppure restare sul vago: non voglio essere rianimato.
Idratazione e nutrizione si possono rifiutare?
Sì. Sono considerate somministrazioni su prescrizione medica di nutrienti mediante dispositivo medici, come il sondino nella pancia, e quindi terapie alle quali si può decidere di rinunciare.
Si può cambiare idea, revocare le scelte?
La revoca è sempre possibile in ogni momento, e come l’accettazione o il rifiuto delle cure, va annotata nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
Il medico è obbligato ad ubbidire al malato?
Nessun medico può violare la volontà dei malati, ma al medico è riconosciuto il diritto di obiettare le scelte del paziente e rifiutarsi di eseguirle.
Quindi chi ha l’ultima parola?
Il paziente. Se il dottore si rifiuta per motivi personali di seguire le sue indicazioni, la struttura ospedaliera ha il dovere di trovare un sostituto che garantisca il rispetto delle volontà del malato.
Da quando si possono fare le dat?
Da subito, le disposizioni sono immediatamente valide. In futuro verrà istituito un registro nazionale e nei prossimi mesi si potranno inserire all’interno del fascicolo medico elettronico presente in numerose regioni. Così il medico, quando si arriva in ospedale, sa subito, anche se incoscienti, se vogliamo essere rianimati o meno. Evitando cosi il ripetersi di drammatici casi come quello tristemente famoso di Eluana Englaro.
Le Dat vanno scritte a mano?
Si possono scrivere a mano, a macchina o sul computer,
Si può videoregistrare?
Sì, si può anche videoregistrare.
Devono essere firmate?
Sì, devono essere sempre firmate a mano.
Davanti a chi vanno firmate?
In comune o davanti al notaio
A chi vanno consegnate?
Nei comuni dove ci sono i registri, sono più di 170 già ora, oppure al notaio. Andrebbero consegnate anche al fiduciario che si è scelti.
I compiti del fiduciario?
Deve rappresentare le nostre volontà quando non saremo in grado di esprimerci e, nel caso di nuove invenzioni e cure, valutare se siano coerenti col nostro pensiero.
Tutti possono fare il fiduciario?
Sì, purché maggiorenni. Non ci sono limitazioni. E una scelta personale.
Valgono i testamenti fatti prima della legge nei comuni o consegnati ai notai?
Si, valgono, non c’è bisogno di rifarli.
Si può chiedere l’eutanasia?
Suicidio assistito ed eutanasia nel nostro Paese sono vietati, quindi non si possono chiedere.
Si può chiedere la sedazione profonda?
Sì, è prevista per i malati in fase terminale ai quali altre terapie antidolorifiche risultano inefficaci. È garantita dalla legge sulle cure palliative
Cosa è previsto per i minorenni?
I minorenni non possono fare il biotestamento come le persone considerate incapaci. In questo caso il consenso informato è espresso dai genitori, dal tutore o dall’amministratore e sentito il ragazzo.
Cos’è il consenso informato?
Ogni paziente ha diritto a conoscere le proprie condizioni di salute, ad essere informato su diagnosi, prognosi, benefici e rischi dei trattamenti.
Il malato può nominare un fiduciario se non vuole ricevere informazioni sulla sua salute e per esprimere il consenso o il rifiuto al suo posto.
intervista a Gianni Vattimo
"Sulla dolce morte c’è ipocrisia in Italia molti casi nel silenzio"
a cura di Paolo Griseri (la Repubblica, 18 febbraio 2010)
L’unica cosa da evitare, in casi come questi, è l’ipocrisia. Il filosofo Gianni Vattimo sintetizza così il suo commento sulla vicenda Gosling: «La verità è che, anche in Italia, la libertà delle scelte dipende dalla classe sociale. Chi può si rivolge a un amico medico e nessuno sa nulla. Poi tutti discutono dei massimi principi».
Professor Vattimo, anni fa lei rivelò di aver fatto un patto con il suo compagno. Il caso Gosling è simile al suo?
«La principale differenza è che, a quanto risulta, il compagno di Gosling era lucido e cosciente. Noi avevamo stabilito che scelte di questo genere le avremmo compiute solo nel caso in cui uno dei due non fosse più consapevole».
Chi avrebbe dovuto materialmente compiere il gesto estremo?
«Ci siamo iscritti tutti e due ad un’associazione svizzera che si chiama Dignitas. Siamo andati a Zurigo e abbiamo aderito sapendo che sarebbe stato un ospedale di quella città ad accompagnarci nell’ultimo ricovero».
Una scelta che conferma oggi?
«Il mio compagno è morto nel suo letto, non abbiamo avuto bisogno di rivolgerci all’associazione. Ma io ho continuato a pagare la quota: ogni anno spendo 150 euro. L’obolo è l’occasione per riflettere. Ci sono momenti in cui mi immagino come un incubo di essere all’ingresso dell’ospedale di Zurigo ad accompagnare qualcun altro. Sono contento di non aver dovuto accompagnare il mio amico».
Lei è favorevole all’eutanasia?
«Assolutamente sì».
Si sarebbe comportato come Gosling?
«Non conosco il caso specifico ma certo se una persona che soffre mi chiedesse di farlo, credo che lo farei».
Lei continua a professarsi cattolico, nonostante queste sue posizioni?
«Certo».
Non c’è contraddizione tra questa sua posizione e la dottrina della Chiesa?
«Il fatto è che la morale cattolica è stata tutta virata sul tema della difesa della vita biologica. Una posizione strumentale, legata alle battaglie sull’aborto. Una posizione che contrasta con gli stessi insegnamenti della chiesa. La sopravvivenza biologica e la vita sono due cose diverse. Altrimenti non c’è differenza tra la masturbazione e il genocidio. Ma anche il martirio sarebbe in contrasto con quella dottrina. Da bambini ci indicavano come modelli i santi che avevano scelto il motto: "la morte ma non il peccato"».
Che cosa è cambiato da allora? Non è più vero? Lei sarebbe favorevole a una modifica dell’attuale legge italiana?
«Ovviamente. Altrimenti anche la mia iscrizione all’associazione svizzera rischia di diventare inutile».
Come mai?
«Perché in Italia l’omicidio del consenziente è vietato. E sarebbe trattato da complice di omicidio chi acconsentisse alla mia richiesta e mi trasferisse a Zurigo. Spero che, se fosse necessario, si trovi qualche amico disposto ad accompagnarmi almeno al confine. Spero soprattutto, ma temo che non succederà, che la legge italiana sia un giorno in grado di distinguere tra la sopravvivenza biologica e la vita».
In caso contrario?
«In caso contrario le cose continueranno ad andare come oggi: chi può trova un amico medico e chi non può soffre fino alla fine. Possiamo dirla così: le classi sociali più elevate se la cavano e gli altri si arrangiano».
Il caso Englaro e la necessità di una legge sul testamento biologico
Referendum sul diritto di morire
Un bilancio sul caso Eluana che ha segnato il confronto del 2008
Le libertà dell’uomo
Quando si nega il diritto di morire
Nessuno chiede la nostra opinione prima di metterci al mondo: perché non dovremmo
essere liberi di andarcene? E’ necessario un referendum sul testamento biologico
Anche se si tratta di un giovane sano con quale autorità si può impedirgli di togliersi la vita?
La Chiesa è anche contro l’aborto terapeutico di un ovocita appena fecondato
di Luca e Francesco Cavalli Sforza (la Repubblica, 2.1.2009)
Se uno di noi volesse negare a un altro il diritto di vivere (a una donna di partorire, per esempio, o a chiunque di esistere), tutti insorgeremmo, si spera, e cercheremmo, potendo, di impedirglielo. Tant’è vero che in Italia e in Europa non ammettiamo la pena di morte. Ma se qualcuno rivendica il diritto di morire, glielo si nega, anzi si va a qualunque estremo per rifiutarglielo. Il caso di Eluana Englaro ci getta in faccia con evidenza macroscopica, anzi spaventosa, questo dato di fatto. Perché una persona non dovrebbe avere il diritto di morire?
Che la persona sia vecchia e malata, tormentata da sofferenze insopportabili, o che sia giovane e sana, nel pieno delle sue forze: anche se avesse ogni ragione di vivere la vita, ma decidesse invece di togliersela, e qualunque fosse il motivo del suo gesto, che diritto avremmo di negarglielo? Privare se stessi della vita è una follia, d’accordissimo. Ci ripugnerà, non c’è dubbio. Sarà come minimo doveroso fare tutto il possibile per evitare che una persona commetta questa pazzia, darle un supporto che la possa aiutare a scoprire un senso nella vita. Ma se ha deciso di farla finita, con quale autorità glielo si può impedire?
In Italia, ci informa l’ISTAT, 2867 persone si sono uccise nel 2007: quasi 5 persone per ogni centomila abitanti. La vita è l’unico bene che abbiamo, la fonte di ogni altro bene: chi se la toglie lo fa di solito per disperazione o dolore o infelicità intollerabili, perché non sopporta più di vivere. Che sia la rovina economica a portare al suicidio, o il peso delle proprie azioni sbagliate, o un ricatto esterno, o la vergogna, o la semplice alienazione, perché con nulla e nessuno nella vita riusciamo a interagire, o qualunque altro sia il motivo, chi si suicida ha le sue ragioni per farlo, e ciascuna di queste è una sconfitta. In passato però, e per secoli, ci si è suicidati anche solo per onore (una tradizione che in Giappone è ancora viva). I suicidi imposti da tiranni, come quello di Seneca, non sono stati visti come sconfitte, ma come affermazioni di libertà interiore anche davanti alla morte. Libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta, dice Virgilio presentando Dante.
Che il suicidio sia una cosa terribile è un’affermazione che ci trova tutti d’accordo: siano più o meno felici o infelici, circa 99.995 italiani su 100.000 non si privano del proprio bene fondamentale. Ma cosa ci dà il diritto di vietare ad un altro di togliersi la vita, al punto di considerare il suicidio un reato? Se la persona in piena lucidità è determinata a porre termine ai suoi giorni, chi siamo noi per negarle la possibilità di farlo?
Cosa sappiamo della vita e della morte? Cosa ci autorizza a rifiutare il diritto di disporre della propria morte, mentre riconosciamo il diritto di indirizzare la propria vita? Chi è religioso invocherà la volontà di Dio, che avrebbe creato l’individuo, ma perché mai questa convinzione dovrebbe valere per chi non vede da nessuna parte la presenza di un Dio?
Che ogni individuo sia libero e responsabile delle proprie azioni: così vogliamo le nostre società. Se lo Stato o la Chiesa o la famiglia o chicchessia pensa di avere qualcosa da dare o da rivendicare, che lo faccia: parli con la persona, dia una mano se può. Ma se non può, o non ne è capace, o quanto fa non serve, che rispetti la scelta dell’aspirante suicida. Negare la libertà di morire è ridicolo per due ragioni: intanto perché chi vuole suicidarsi prima o poi ci riuscirà, se non è stretto in una camicia di forza o reso incosciente dai farmaci (e, beninteso, ci sono situazioni che lo esigono). Ma nessuno in definitiva può impedirgli di uccidersi, una volta tornato a casa. Seconda ragione: la nostra morte è certa, già che siamo vivi, anzi è forse l’unica certezza universalmente riconosciuta. Perché mai una persona nel pieno delle proprie facoltà mentali non dovrebbe essere libera di decidere il tempo e il modo della propria morte, anziché affidarli alla natura e al caso? Chi nasce è comunque destinato a morire.
Una società che voglia dirsi civile non può negare ai suoi membri il diritto di decidere della propria morte. Il testamento biologico, norma di elementare rispetto della libera volontà dell’individuo, è tabù da noi in sede legislativa. I tentativi di portarlo all’attenzione sono ricacciati come polvere sotto il tappeto. L’idea che una persona possa disporre le condizioni della propria morte, in determinate circostanze - per esempio, se si ritroverà in coma vegetativo permanente - è così controversa da terrorizzare i politici. Eppure, né i politici, né gli ecclesiastici, né i medici, né nessuno probabilmente, sa che cosa accade o non accade in quello spazio intermedio fra la vita e la morte che è il coma. Nessuno sa se rimanga qualcosa di ciò che consideriamo il nostro io o che chiamiamo "coscienza". Già che nessuno lo sa, perché la scelta non dovrebbe spettare al diretto interessato?
Nella vicenda di Eluana Englaro, in coma da quasi diciassette anni dopo averne vissuti ventidue, si è giunti allo scontro istituzionale, un po’ come se la magistratura ordinasse la scarcerazione di un detenuto ma il potere esecutivo lo ricacciasse in cella. Eppure la ragazza, sconvolta dall’analoga sorte di un amico, aveva espresso con forza e con chiarezza ai genitori la sua volontà di non essere intubata, se qualcosa del genere fosse accaduto a lei.
In un Paese dove ogni giorno muoiono in media quattro lavoratori per incidenti sul lavoro, per lo più dovuti al mancato rispetto di norme di sicurezza che i governi non si preoccupano di fare osservare, quale sadismo senza nome può spingere il ministro a tenere in vita chi è prigioniero del proprio corpo e ha espresso, quando poteva, il desiderio di liberarsene? in nome di quale vita? certo non di quelle che si perdono ogni giorno nelle fabbriche e nei cantieri. Perché il ministro del Lavoro e della Salute non esercita là la sua solerzia? Bisognerebbe chiedere ai cittadini se il testamento biologico è ammissibile. Può l’individuo decidere, in piena consapevolezza, quale deve essere la sua sorte se dovesse perdere coscienza per un tempo illimitato, o se non fosse più in grado di esprimere la propria volontà?
Può lasciare scritto: «Staccate i tubi»; oppure: «Tenetemi in vita comunque, finché possibile»; o ancora, poniamo: «Tenetemi in vita per sei mesi, poi lasciatemi morire»? Non si può pretendere che i cittadini si esprimano per referendum su temi che richiedono competenze speciali, come l’ingegneria genetica o le strategie energetiche, ma a chi spetta, se non a loro, decidere se chi è nato è libero di scegliere la propria morte? E sperabile credere che vincerebbe il parere: «Io sono padrone della mia vita». Se la Chiesa davvero crede nella libertà dell’uomo, perché non lascia le persone libere di morire? Nessuno ha chiesto la nostra opinione, prima di metterci al mondo: perché non dovremmo essere liberi di andarcene?
Cercare la morte non è nella natura dell’uomo, né di alcun essere vivente: ma quanti hanno cercato la morte nelle guerre, e peggio ancora l’hanno data, magari con la benedizione della stessa Chiesa? Se lo Stato invece ritiene che chi si uccide leda un diritto fondamentale e danneggi la comunità, privandola di se stesso, che si adoperi per creare le condizioni perché le persone non si gettino nella morte. Nessuno può credere che chi si suicida lo faccia volentieri. Il discorso è lo stesso per un altro punto fermo della Chiesa Cattolica, il divieto di aborto profilattico. E questa una situazione molto più frequente dei coma e assai dolorosa per il malato che è costretto a nascere e per la sua famiglia. Qui non sappiamo certo che cosa pensi il soggetto in gestazione, al terzo mese di gravidanza. La Chiesa, comunque, estende il diritto alla vita alla cellula-ovo appena fecondata dallo spermatozoo, in cui subito verrebbe ad abitare un’anima.
Il grande teologo San Tommaso d’Aquino non avrebbe avuto problemi con l’aborto profilattico, perché diceva che l’anima entra nel corpo solo quando il feto ha assunto forma pienamente umana. Nel caso di Eluana, come in quello di tutti i futuri malati di gravi malattie genetiche la cui nascita può venire oggi evitata, la sofferenza dei parenti e i costi alla società sono molto gravi, ma vengono ignorati. I genitori che fanno nascere coscientemente un bimbo gravemente e irrimediabilmente danneggiato si assumono doveri e pene tremende, e lo stesso ci sembra valere per i parenti di una persona in coma profondo, se, avendo tentato con ogni mezzo di riportarla in vita ed essendovi in qualche modo riusciti, se la ritrovassero con danni gravi e permanenti.
In un certo senso sorprende, questo attaccamento della Chiesa alla vita, anche quando non sia che un barlume cui solo le macchine impediscono di spegnersi, perché in fondo la Chiesa promette al fedele un futuro ben più luminoso di questa vita. Ma Chiesa o Stato che sia, chi può pronunciarsi o legiferare su ciò che non conosce? E chi fra i vivi può sindacare sulla morte?
Eutanasia
(ri)leggetevi
il catechismo
di ARRIGO LEVI (LA Stampa, 2/6/2008)
Mi stupisce, anche se non sono forse la persona più adatta a parlare di questi temi, che il dibattito sull’«accanimento terapeutico» e l’«eutanasia» sia condotto senza che da nessuna delle due parti sia chiamato in causa il Catechismo della Chiesa Cattolica, articolo 2278 (cito dall’edizione del 2006 della Libreria Editrice Vaticana). Si direbbe che, oltre alla Bibbia, gli italiani non abbiano l’abitudine di leggere nemmeno questo testo, che vuol essere «esposizione completa ed integra della dottrina cattolica», emanato da Giovanni Paolo II, nell’edizione preparata da una Commissione Interdicasteriale costituita a tale scopo dal Papa nel 1993, e presieduta da colui che sarà suo successore, l’allora cardinale Joseph Ratzinger.
Dice dunque l’articolo citato, che si trova a pagina 608 del volume: «L’interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente».
La rinuncia a intervenire
È bensì vero che il precedente articolo 2277 afferma che «un’azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore» costituisce comunque un «atto omicida», anche se compiuto «in buona fede». Nel caso in discussione, quale articolo si deve applicare?
Il discrimine tra i due articoli è in verità sottile, e a mio parere non privo di ambiguità. Nel caso della paziente di Modena, che ha rifiutato la tracheotomia, col consenso del giudice, sembra a me evidente che l’intervento avrebbe protratto per un periodo di tempo limitato la sua agonia, ma non le avrebbe salvato la vita. Si sarebbe trattato quindi di una procedura medica sicuramente «onerosa», per la paziente stessa, e «sproporzionata rispetto ai risultati attesi». Sicché la rinuncia all’intervento stesso, in base alla «ragionevole volontà» della paziente stessa, a suo tempo comunicata a chi di dovere, non mirava a «procurare la morte» della paziente, ma soltanto accettava «di non poterla impedire». E la rinuncia all’intervento era una «rinuncia all’accanimento terapeutico».
L’interpretazione corretta
A mio avviso è questa l’interpretazione corretta del dettato del catechismo, quale emerge peraltro dall’intervista concessa alla Stampa dal vicario episcopale di Bologna, monsignor Nicolini; secondo il quale «la dottrina è importante ma la compassione e la misericordia non lo è di meno», talché «è difficile rifiutare al singolo il diritto al rifiuto informato delle cure»; e che abbia in questo caso avuto torto il cardinale Giovanni Battista Re, anch’egli intervistato dal nostro giornale, che ha giudicato il tragico epilogo di vita della signora Vincenza Santoro Galani come «il primo caso di morte a comando».
Il mio giudizio, ovviamente, vale per quel che vale. Non sono io in grado di dire con assoluta certezza chi, fra i due illustri prelati, abbia torto, e chi abbia ragione. Trovo comunque lodevole che sia stata da noi resa pubblica questa divergenza d’opinione, che può dare il via a un utile dibattito all’interno della Chiesa stessa. Quanto a me, mi tengo all’articolo 2278, che mi è sembrato opportuno ricordare in questo caso, visto che non l’ho mai visto citato da nessuno in casi analoghi, e perché mi sembra convalidi, da una prospettiva rigorosamente cattolica, il giudizio, che condivido, di Michele Ainis, apparso sulla Stampa di venerdì, fondato sui nostri dettati costituzionali e sulle nostre leggi. Ma non nego che la lettura delle 982 pagine del catechismo è un esercizio un po’ faticoso, e forse poco diffuso. Ma è consigliabile, utile e istruttivo.
L’Osservatore Romano detta legge alla Cassazione *
Altra ingerenza del Vaticano sulle decisioni della giustizia italiana. «È inaccettabile il relativismo dei valori, soprattutto se questi riguardano la conservazione o meno della vita». Così l’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, commenta la sentenza della Cassazione che ieri ha deciso di consentire un nuovo processo sul distacco del sondino nasogastrico ad Eluana Englaro, la ragazza in stato vegetativo dal 1992 a seguito di un incidente stradale.
«Accettare, pure nel vuoto legislativo, una tale posizione - scrive il giornale vaticano -, significa orientare fatalmente il legislatore verso l’eutanasia. Di più: introdurre il concetto di pluralismo dei valori significa aprire una zona vuota dai confini non più tracciabili. Significherebbe attribuire appunto ad ognuno una potestà indeterminata sulla propria esistenza dalle conseguenze facilmente immaginabili, anche solo ragionando dal punto di vista etico».
L’Osservatore Romano ricorda le motivazioni della sentenza della Cassazione: il diritto all’autodeterminazione terapeutica del paziente, secondo la suprema corte, non incontra alcun «limite» anche nel caso in cui ne consegua «il sacrificio del bene della vita», poichè lo Stato italiano riconosce il pluralismo dei valori; lo stato di irreversibilità della sua condizione, «secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti».
«Premesse - sottolinea - che appaiono evidentemente confutabili. Nessun esperto potrebbe, allo stato attuale, dichiarare l’irreversibilità della condizione di stato vegetativo, se non in base ad una scelta puramente soggettiva. Sulla volontà di Eluana, poi, l’arbitrarietà appare palese. La dichiarazione di un momento non può evidentemente essere presa a parametro per presumere la volontà di una persona riguardo a scelte come quelle che riguardano la contrarietà o meno ad un trattamento che fra l’altro si pone al limite fra terapia e nutrizione».
«Dalla Cassazione una sentenza orientata al relativismo»: questo il titolo scelto dall’"Osservatore Romano" nell’articolo dedicato alla sentenza sul caso Eluana Englaro. Per il quotidiano d’Oltretevere le «premesse» della Suprema Corte «appaiono evidentemente confutabili». «Nessun esperto - chiosa il quotidiano vaticano - potrebbe, allo stato attuale, dichiarare l’irreversibilità della condizione di stato vegetativo, se non in base ad una scelta puramente soggettiva».
* l’Unità, Pubblicato il: 17.10.07, Modificato il: 17.10.07 alle ore 16.31
Welby, salviamo il dottor Riccio
di Furio Colombo *
Ci sono molte ragioni - umane e civili - per non dimenticare il caso di Piergiorgio Welby, la sua sofferenza, la sua residua ma forte voce che non ha smesso richiedere agli esseri umani che gli stavano intorno di intervenire e di porre fine, per dovere morale e secondo la legge, al suo disumano dolore.
Qualcuno lo ha fatto. Lo ha fatto l’appello ostinato dei radicali, di Marco Cappato, a cui in molti ci siamo uniti, medici, giuristi, politici, cittadini di tutta Italia.
Uno di loro, uno di noi, il medico anestesista Mario Riccio, lo ha fatto.
Seguendo scrupolosamente il poco che le norme italiane indicano e consentono per rispettare la dignità e la volontà di una persona che non può più soffrire, il Dottor Riccio ha fermato la macchina-tortura che stava comunque portando Welby alla morte, però più lenta, più indecorosa, capace solo di alimentare un dolore sempre più grande.
Ora - nonostante la richiesta di archiviazione del Procuratore della Repubblica e del Procuratore Generale di Roma, il Tribunale della stessa città annuncia di voler processare il medico e lo accusa di omicidio di persona consenziente, cioè di reato gravissimo. Non diremo che la decisione annunciata - se presa - avrà un fondamento teologico e non giuridico, per il rispetto sempre dovuto alla Magistratura.
Diremo che è tempo per tutte le persone guidate da un senso di umanità e solidarietà di essere presenti, attive e impegnate a sostenere due cause: la dignità del malato Welby, che aveva chiesto a lungo e invano - come in un film dell’orrore - che si ponesse fine alla sua sofferenza.
E l’atto di umanità da medico e da cittadino, compiuto a nome di tutti noi, dal medico Riccio, in base alla sua conoscenza, competenza e coscienza.
Chi di noi ha provato gratitudine - e anche riscatto per la propria incapacità di accorrere in aiuto - quando il Dottor Riccio è intervenuto, adesso ha l’impegno di essergli accanto e sostenerlo.
È giusto scrivere queste cose sul giornale di quella sinistra che della solidarietà, del soccorso, della dignità, del rispetto della persona e dei suoi diritti fondamentali ha sempre fatto la sua bandiera.
Propongo al nostro giornale di aprire una sottoscrizione: un fondo di difesa per sostenere al livello più alto le ragioni umane morali e civili che hanno guidato il Dottor Riccio nella sua decisione e nel suo intervento che ha posto fine al dolore.
In un mondo impegnato - anche con le sue migliori risorse tecnologiche - a creare dolore, occorre difendere Riccio ma anche il simbolo alto di ciò che ha fatto. Contribuisco a questo appello con 1000 euro. Ma anche un solo euro sarà contributo di testimonianza dovuta. È una buona, nobile, umanissima causa in cui nessuno deve tacere.
* l’Unità, Pubblicato il: 03.04.07, Modificato il: 03.04.07 alle ore 10.27
IL CARDINALE INTERVIENE NEL DIBATTITO DEL DOPO-WELBY
Eutanasia, Martini scuote i cattolici. “Va consentito il rifiuto di cure inutili”
di GIACOMO GALEAZZI (La Stampa, 22/1/2007)
CITTA’DEL VATICANO. «Sì a norme per il rifiuto delle cure da parte dei malati in fin di vita». Il cardinale Carlo Maria Martini, leader mondiale dell’episcopato progressista, apre alla necessità di una legge contro l’accanimento terapeutico e indica la legislazione francese come esempio da seguire anche in Italia. Con un intervento sul «Sole 24 Ore», Martini riapre nella Chiesa il dibattito sulla «dolce morte» esploso con il caso Welby.
«Evitando l’accanimento terapeutico non si vuole procurare la morte: si accetta di non poterla impedire - spiega il cardinale -. Il punto è che per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica». Quindi, «non può essere trascurata la volontà del malato» e, dal punto di vista giuridico, «rimane aperta l’esigenza di una norma che consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure e consenta di proteggere il medico da eventuali accuse, prendendo a riferimento la nuova legislazione francese sulla limitazione dei trattamenti».
Anche da parte della Chiesa d’ora in avanti «dovrà esserci più attenta considerazione anche pastorale»: un riferimento alle polemiche per i funerali religiosi negati a Welby. Martini, però, non risparmia critiche al sistema sanitario nazionale, le cui inefficienze non sono responsabilità di medici e infermieri. «Si tratta di problemi di struttura e sistemi organizzativi - osserva -. Siamo ancora ad una sorta di “negligenza terapeutica” e di “troppo lunga attesa” terapeutica». Martini invoca, quindi, «assetti istituzionali che, svincolati dalle sole dinamiche del mercato, consentano di accelerare le azioni terapeutiche e l’esecuzione degli esami necessari».
Da malato parkinsoniano che abbisogna di continue cure e terapie per «reggere alla fatica quotidiana e per prevenire malanni debilitanti», il cardinale affronta compiutamente gli interrogativi sul terreno e, riflettendo sulla vita e la malattia, riapre il dibattito politico. Un’apertura accolta con entusiasmo nella gran parte del centrosinistra e con cautela dalla Cdl e dai teodem della maggioranza. «E’ giusto mettere sempre di più il paziente al centro dei processi decisionali che lo riguardano - puntualizza la senatrice teodem Paola Binetti -.Serve un dialogo costante tra il malato e il medico, per giungere insieme a prendere le migliori decisioni possibili sotto il profilo scientifico, e le più giuste sotto il profilo etico».
Occorre fare chiarezza tra eutanasia, testamento biologico e accanimento terapeutico, evidenzia Gaetano Quagliariello di Forza Italia. E se l’Unione (Bersani, Castagnetti, Salvi, Marino, Monaco, Bonelli) si riconosce appieno nella strada indicata da Martini, Luca Volonté dell’Udc lancia un altolà: «Solo Marino e Salvi possono aver interpretato le parole del Cardinal Martini in favore dell’eutanasia. Un chiaro caso di lettura della realtà distorta dal desiderio». Il no alla «dolce morte», all’aborto e ai Pacs sarà ribadito oggi a Roma dal presidente della Cei Camillo Ruini in apertura del Consiglio permanente dei vescovi. Nelle stesse ore cui la Camera discuterà le sei mozioni del centrodestra sul tema delle unioni civili, la legge sui pacs sarà al centro della prolusione di Ruini.
Un intervento che si annuncia di gran peso, a dieci giorni dalla scadenza prevista dal governo per l’approvazione di una legge che legittimi le unioni di fatto. E se il dibattito politico è aperto (tra le posizioni del ministro Bindi e il ministro Pollastrini, che stanno lavorando per arrivare ad un unico testo), la Cei non può rimanere in silenzio di fronte alla minaccia di avere a breve una legge che possa equiparare, anche solo marginalmente, le coppie di fatto alla famiglia tradizionale.
PIETA’ PER LA LOGICA
Come si può scegliere la vita se la morte non è un’opzione? Quando l’ideologia corrompe il linguaggio non c’è libertà. Si diffonde l’arte di uccidere il senso e aumentare il rumore. Quando la politica si impadronisce del linguaggio, sono guai per la logica e la morale.
di Roberta De Monticelli (Il Sole-24 Ore/Domenica, 31.12.2006)
Ho sentito dire che la legge deve garantire la libertà di scegliere la vita, e non di scegliere la morte. E come si fa a “scegliere” la vita, se la morte non è un’opzione? Questo è un esempio dell’arte minima e onnipresente nei pubblici dibattiti, oggi, di uccidere il senso e aumentare il rumore, fosse pure quello di un flauto suadente, in luogo di una frase che non ha più senso.
La vita! E quale, la vita di un fagiolo, di una mosca? Oh no, la vita di un uomo, naturalmente. Di un individuo... No, no, ho sentito dire, non dite individuo, dite “persona”. Perché non “individuo”? Un grandissimo filosofo cristiano, diceva che l’individuo è il fine ultimo del creato, e la prima intenzione di Dio. Ma se si dice individuo subito scatta il mostro “individualismo”, e occorre allora scatenargli addosso La Solidarietà. Ho sentito dire che a decidere della vita o della morte di un individuo dev’essere (“deve”? e come mai? Del dovere di chi si parla? Conoscete doveri che non siano doveri di singole persone?). La Solidarietà.
C’è una frase più insensata, e insieme più inquietante? Come fa una virtù sociale a decidere? E se si vuol dire che la gente deve prendere decisioni in base alla solidarietà, quale gente deve prenderle, e le decisioni di chi, soprattutto? Anche le mie? E se per caso si tratta dei miei ideali, condivisi magari da tutti quelli che amo, con chi diavolo sarà solidale la gente che vi si oppone? Con se stessa, forse? Quale solidarietà vorrà tutelare la “legge”?
Ma lasciamo i preamboli logici e veniamo al caso. Una donna ha le gambe in cancrena, e la sua vita se la vuol tenere così, finché dura: senza gambe non vuole vivere. Speriamo che nessuno le rifiuti i sedativi, che l’accompagneranno dolcemente al morire. Bene: abbiamo tutti imparato che c’è addirittura nella costituzione un punto chiaro - la cui logica ed etica è semplicissima - nessuno può imporre a un altro la cura che l’altro non vuole, né di tenersi artificialmente la vita che l’altro non desidera più.
Ho sentito medici, politici e monsignori sostenere che il caso Welby era diverso. Come mai? Perché Welby non poteva levarsi la “cura” di dosso da solo? Sospetto che neanche quella povera donna sia stata in grado di andarsene da sola. Perché non era una cura, un trattamento per tenerlo in vita? E cos’era, allora? Amici, è questo genere di insulti alla logica in funzione di un principio ideologico, fosse pure ritenuto in buona fede, che ferisce chi vi ama e vi è grato per la Vostra difesa di un Regno della Grazia. Occorre che la ragione sia onorata e adulta - cioè laica - perché davvero viva un regno come quello oltre la ragione, non contro di essa. «Cattolico», universale, cioè, come lo spirito.
Welby aveva anche una sua battaglia, un suo ideale, e per questo ha combattuto. Anche combattere per i propri ideali è moralmente lecito quando non comporta danni a terzi. Al punto che si può anche dare la vita per questi ideali: per la propria fede, ad esempio, o per la verità. Dunque non è vero che la vita di una persona è il massimo valore di questa stessa persona. Anzi, che non lo sia, è ciò che la definisce come persona: la capacità di trascendere se stessi, che chiamiamo spirito. Lo spirito vale più della vita, per una persona che non sia proprio un Don Abbondio; fossero pure, i suoi valori, quelli di un libertario, o di un pagano. Welby ha lottato per i valori del libero arbitrio e della trasparenza, puntando il dito su un vuoto legislativo che costringe a fare di nascosto ciò che il libero arbitrio e l’umanità dettano.
Si può concordare o no sull’opportunità di farlo: in ogni caso questa era la sua battaglia. Ma cosa direste se un medico, se un sacerdote, di fronte a uno che combatte la sua battaglia, invece di rispondere da medico, o da sacerdote, facendo quello che richiesto loro, rispondessero in funzione delle battaglie combattute? Se un medico ragionasse così: di solito la mia arte è al servizio del paziente come tale; ma siccome questo fa una battaglia ideologica, allora non lo aiuto più e mi metto a fare una battaglia ideologica anch’io? Eppure ho incontrato medici che hanno fatto questo.
Ma questo distrugge la verità che è nelle professioni, l’onestà che è nelle arti. Peggio ancora: quella dell’ideologia è una malattia che sta divorando la nostra lingua. Ci sono parole sequestrate dalla politica. Parole che nessuno può più liberamente usare, nonostante si sforzi di farlo con la massima definitezza e chiarezza possibile, senza essere subito schierato, catalogato e di conseguenza aggredito o applaudito. Ma un Paese che lascia il verme dell’ideologia corrompere la vita del linguaggio, uccide la libertà di chi parla, e la sua responsabilità di fronte al vero. Quanta morte dello spirito, in questa battaglia “per la vita”.
Quella politica della vita che invoca la giusta morte
La richiesta di Piergiorgio Welby mette in evidenza la pretesa dello stato di regolare vita e morte dei suoi sudditi. Un tema ampiamente discusso dalla filosofia contemporanea e che va al di là della contrapposizione tra cattolici e laici Un percorso di lettura a partire dalla riflessione di Michael Foucault, dove diritto statale e affermazione dell’autonomia individuale incontrano ciò che la norma non può regolare
di Roberto Ciccarelli *
In un sondaggio condotto nel 2002 dal Centro di Bioetica dell’Università Cattolica di Milano tra 259 rianimatori, operatori di prima linea che curano persone la cui sopravvivenza è affidata a macchine, il 3,6% dei medici dichiarò di aver somministrato volontariamente farmaci letali (eutanasia attiva). Il 96,4% negò di averlo mai fatto. Il 15,8% degli intervistati considerò tuttavia questa iniziativa accettabile. Ma il dato più interessante fu senz’altro un altro: il 19,3% del campione negò di aver mai attuato la sospensione delle cure (ad esempio staccare il respiratore, interrompere l’erogazione dell’ossigeno). Il 38,6% riconobbe di averlo fatto almeno in un’occasione, il 42% «più spesso». In nessun caso questo «atto medico» è stato riportato sulla cartella clinica per il timore di essere denunciati dai parenti e finire in tribunale.
Nel 2004, in Gran Bretagna, 2865 malati terminali sono stati aiutati a morire dai medici. E’ il risultato di un sondaggio condotto anonimamente tra 857 specialisti lo scorso gennaio. Tra questi decessi assistiti, 936 furono provocati a seguito di una domanda esplicita del malato. Gli altri (1929 casi) non hanno fornito istruzioni specifiche sulla modalità della loro morte a causa del coma sopraggiunto. La pratica della «morte opportuna» è illegale in Gran Bretagna come nella maggior parte dei paesi europei, salvo Olanda, Belgio e Svizzera, ma sembra che questi dati siano addirittura inferiori alla media europea.
La sovranità sulla vita
Queste informazioni sono tornate d’attualità dopo che Piergiorgio Welby, co-presidente dell’associazione Luca Coscioni, affetto da distrofia muscolare progressiva, ha riportato l’attenzione sul continente sconosciuto dei malati terminali in Italia, evidenziando la difficoltà delle istituzioni di affrontare il problema in maniera chiara e definita. La sentenza del Tribunale di Roma che il 16 dicembre scorso ha definito «inammissibile» il suo ricorso, ha riconosciuto allo stesso tempo il suo diritto di chiedere l’interruzione della respirazione assistita. Il «vuoto legislativo» che la giudice Angela Savio ha riscontrato nella legislazione ha evidenziato un corto circuito nella prerogativa «biopolitica» e costituzionale degli stati di diritto occidentali che impone la protezione della vita, anche a costo di separarla dalla persona che la detiene. Davanti alla richiesta di Welby di interrompere le cure e scegliere la morte piuttosto che continuare a vivere in maniera disumana, lo stato non può autorizzare alcuna forma di «accompagnamento alla morte» che mette fine all’esperienza di una vita che vegeta artificialmente negli ospedali o nel buio delle nostre case, pena la legittimazione dell’eutanasia.
Nei gioni scorsi, molti degli interventi di commento attorno al «caso Welby», hanno sostenuto che è la difficoltà di distinguere tra eutanasia e accanimento terapeutico ad impedire una definizione normativa della situazione delle persone come Welby. Se fosse solo così, duplice sarebbe la soluzione: «staccare la spina» come atto di disobbedienza civile in mancanza di una legge. Oppure attendere l’elaborazione di linee guida da parte del Comitato di bioetica. Nel primo caso, avremmo una disobbedienza civile che mette a un nudo non l’insopportabilità di una legge, bensì la sua assenza. L’attesa di un pronunciamento del Comitato di bioetica congela una situazione, quella di Welby, e rinvia ogni decisione a tempi futuri. Ma uno degli aspetti rilevante di questa vicenda e che radicalizza un tema molto rilevante nella discussione filosofica di questi anni. Il «caso Welby» porta infatti alle estreme conseguenze la prerogativa «biopolitica» che Michel Foucault attribuiva ai moderni stati di diritto costituzionali: la presa del potere sull’uomo come essere vivente e la «statalizzazione» della sua vita biologica.
Quella di Welby, e di coloro che la sostengono, è infatti la rivendicazione più estrema del ruolo biopolitico dello stato: difendere la vita sino in fondo, sia che si tratti di garantirne le prerogative più alte, sia che si tratti di impartirle una «buona morte». Da questo punto di vista, è comprensibile la reazione di chi negli ultimi giorni ha respinto l’accusa secondo la quale si vuole attribuire per legge al paziente, o ai suoi familiari, un potere «tanatopolitico» che stabilisce, in base alla contingenza di un dolore proprio o altrui, quale vita sia degna di essere vissuta. A loro avviso, deve essere lo stato ad occuparsi di un problema che riguarda la vita dei suoi cittadini, dato che è la sua stessa costituzione repubblicana a prevederlo all’articolo 32.
La sacralità della tecnica
Il Tribunale di Roma, il ministro della Sanità Livia Turco e il Comitato di bioetica sono dunque in imbarazzo perché il caso di Welby ha portato alla luce una crepa nella biopolitica statale. La richiesta di ricevere una «morte dignitosa» rivela infatti la difficoltà delle autorità politiche a riconoscere quello che è il rovescio della loro logica, oppure la sua logica continuazione. Il potere biopolitico non dovrebbe infatti occuparsi solo della vita, ma anche della sua parte oscura, quella che si manifesta nella malattia, nella sofferenza e porta anche alla morte. La morte rimane però un oggetto sul quale la biopolitica sembra esitare, quasi fosse estraneo alla materia che intende amministrare, sebbene le sue prerogative dicano esattamente il contrario.
Né rivendicazione al suicidio, né invocazione di un dovere dello stato ad impartire la morte, l’azione di Welby può essere tuttavia intesa come un potenziamento della biopolitica contemporanea, ma è anche il suo punto massimo di crisi. Sebbene questi diritti siano stati sanciti dalla Convenzione europea di biomedicina sottoscritta dall’Italia nel 2001, dalla Carta dei diritti dell’Unione Europea, dalla Convenzione sulla biomedicina, dal Codice di deontologia medica del 1999, come ha ricordato Stefano Rodotà nel suo La vita e le regole. Tra diritto e non diritto (Feltrinelli, pp.288, € 19), la vita che s’intende proteggere manifesta un carattere inquietante e irregolare che rende manifesto un limite non giuridico e non politico oltre il quale anche il potere politico più attento ai diritti delle persone preferisce non avventurarsi.
Il problema è dunque più ampio di un scontro tra cattolici e laici. I primi, è noto, sostengono che nessuno può sottrarre la vita al suo decorso naturale, anche quando essa va incontro a sofferenze indicibili, perché rischia di ledere la «dignità inviolabile della vita umana». «La vita è un dono di cui il soggetto non ha completa disponibilità», ha affermato Benedetto XVI nel messaggio per la «Giornata della Pace» del 12 dicembre scorso, un discorso teso a stabilire vincoli all’azione del governo e a bloccare ogni possibile apertura del parlamento alle richieste di Welby. I secondi sono invece portati a «moralizzare» la natura umana attraverso la creazione di «nuovi tabù artificiali» che legano la vita al rispetto dei valori stabiliti dalle autorità (la chiesa o lo stato). Entrambe queste posizioni si scontrano in un dilemma altrettanto gravoso: la sacralità della vita chiede al malato di dipendere dalla macchina o di dire no? A questa domanda il filosofo cattolico Giovanni Reale ha risposto con parole sagge: «Dobbiamo guardarci dal pericolo di trasferire l’idea di sacralità della vita nella sacralità della tecnica».
Una posizione di mediazione tra la rivendicazione della «sacralità», fatta dai cattolici, e dell’«intelligenza» della vita, fatta dai laici, è stata proposta da Umberto Veronesi nel dialogo con Giulio Giorello, La libertà della vita (a cura di Chiara Tonelli, Raffaello Cortina Editore, pp. 115, euro 9). Il direttore dell’«Istituto Europeo di Oncologia» di Milano e il filosofo della scienza della Statale di Milano hanno il merito di avere portato alla luce l’elemento inquietante che tormenta la biopolitica contemporanea. A destare il disagio degli ambienti teologici, come di quelli laici, è infatti una certa idea della «natura umana»: crudele, imprevedibile e spaventosa alla quale si cerca di rimediare mediante un’ortopedia medica o giuridica. Con il risultato, talvolta paradossale, di separare la «vita» dal vivente, considerandola un valore morale o giuridico trascendente alle sue condizioni oggettive. Capita così di considerare intoccabile la vita della persona, ma tecnicamente modificabile il Dna dei vegetali (come ritiene la Chiesa). Oppure di estenuare la vita con le tecnologie alla ricerca di un rimedio impossibile ad una malattia cronica (il dilemma che ossessiona i medici davanti a casi di particolare gravità). Il risultato, possibile ma non certo, che entrambe queste visioni possono trasformarsi in una tirannia: teocratica o tecnica. Contro questi paradossi, l’appello di Veronesi e di Giorello a ciò che unisce scienza e religione: la tutela della dignità umana.
Roberto Mordacci, docente di filosofia morale al San Raffaele di Milano, autore, tra l’altro, di Una introduzione alle teorie morali. Confronto con la bioetica (Feltrinelli, pp.410, €26) ha condotto una riflessione utile per definire il contenuto della dignità umana dal punto di vista della bioetica. A differenza di Veronesi e di Giorello, Mordacci attribuisce alla bioetica un contenuto normativo che la distingue tanto dall’etica medica, il cui scopo è di orientare il giudizio morale nel contesto delle scelte cliniche, quanto dal bio-diritto che mira alla definizione della vita in ambito giuridico. La bioetica è una teoria morale di stampo kantiano che vincola il trattamento medico e giuridico della vita alla massima kantiana del rispetto: «agisci in modo da rispettare ogni persona come fine in sé». Da questo punto di vista, il bene del paziente è ritenuto superiore al «bene medico» e costituisce una sorta di ammonimento contro il «paternalismo» dello stato che intende occuparsi della sua vita fino al punto di portarla alla morte.
Davanti ai «casi cronici», scrive Mordacci, lo stato deve rispettare la dignità umana ed evitare di espropriare il bene di un paziente imponendogli l’obbligo della cura. In questo caso il rischio è di separare la protezione dei diritti della persona da quelli del suo corpo, considerando la vita come uno strumento del potere e non il suo fine. Casi come quelli di Welby, conclude Mordacci, dovrebbero essere trattati seguendo l’articolo 32 della Costituzione italiana: «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario». All’individuo viene riconosciuto il diritto di decidere quando una cura diventa accanimento terapeutico e, nel nome del rispetto di sé, di rifiutarla senza per questo arrivare al suicidio o invocare l’eutanasia.
Non c’è dubbio che è proprio la rivendicazione della «dignità umana» ad avere provocato un cortocircuito nella biopolitica statale. Per il filosofo tedesco Ernst Bloch, di cui l’editore torinese Giappichelli ha di recente tradotto il classico Diritto naturale e dignità umana (Giappichelli, pp.327, euro 30, a cura di Giovanni Russo), la dignità invocata dagli «oppressi» e dagli «umiliati» è una richiesta non assimilabile ai criteri statali che regolano la «giustizia», cioè l’adeguazione di una situazione ad una norma universale. Oggi questa rivendicazione, che per Bloch indicava una via d’uscita dalla società borghese, fa capolino nelle nuove battaglie per i diritti dei malati e, più in generale, per i cosiddetti diritti di «quarta generazione» che fanno attenzione alla vita dei singoli.
Per Bloch, la dignità umana non è una norma universale ratificata dallo stato, ma un fine da raggiungere che muove il desiderio di ciascuno. Per questa ragione è impossibile fornirne una definizione precisa. La dignità resiste allo sfruttamento economico, non si piega al bisogno e all’umiliazione, sfugge alla gabbia d’acciaio della legge. La giustizia è invece la manifestazione autoritaria di un comando dello stato e le sue disposizioni sono sempre autoritarie. Un cortocircuito che illustra la ragione per cui, quando si parla di «diritto alla morte dignitosa», lo stato erge quasi sempre le barriere protettive della giustizia contro la richiesta di riconoscimento della dignità personale. Per Bloch la dignità è invece l’espressione di una solidarietà più ampia degli esseri umani, e non solo del diritto soggettivo che lo stato riconosce ad un singolo. L’individuo non è una monade responsabile e autonoma, ma è un soggetto sociale che si affida alla solidarietà dei suoi simili quando si tratta di stabilire i confini politici e giuridici di una «vita dignitosa».
Diritto di resistenza
La lettura di Diritto naturale e dignità umana può tornare utile per neutralizzare il conflitto tra la legge e la morale, la sindrome che colpisce laici e neoconfessionali quando si tratta di legiferare sulla vita e, in generale, sulle questioni bioetiche. Qualcuno, forse a ragione, potrebbe lamentarsi del giusnaturalismo blochiano che attribuisce all’«umano» un valore superiore alle umane leggi. In parte è così, ed è un rischio che corrono tanto le vie laiche quanto quelle neo-confessionali alla biopolitica. Ma Bloch attribuisce a questa «umanità» il significato storico ed immanente di una costruzione condivisa che deriva da un atto politico: il diritto di resistenza. In principio diritto liberale rivendicato durante le rivoluzioni europee tra il XVIII e il XIX secolo per resistere ai soprusi del governo nella sfera personale e associativa degli individui, oggi quello della resistenza è un diritto comune evocato da chi chiede più dignità per sé e per gli altri nella malattia. Per usare il linguaggio di Bloch, la solidarietà umana che va oltre i legami parentali e si afferma come legame politico. Davanti alla crisi della biopolitica contemporanea, chi afferma la solidarietà tra gli uomini sani o malati, normali o anormali, auspica la prevalenza dei diritti soggettivi su quelli oggettivi, della dignità sulla giustizia, della vita sul potere normativo della legge.
Scaffali morali
Il diritto a caccia della vita. Da Ernst Bloch a Rodotà
Da quando è stata chiamata in causa dal dibattito sulla personalità giuridica degli embrioni, sulla proprietà privata dei geni, sulla privacy, la «vita» è diventata un tema ricorrente di confronto tra politici, giuristi e filosofi. Stefano Rodotà («La vita e le regole. Tra diritto e non diritto», Feltrinelli, pp.288, euro 19) ritiene che il diritto possa adeguare la crescente richiesta di dignità ad ambiti prima esclusi dalla regolazione normativa. Roberto Esposito («Bios, Biopolitica e filosofia», Einaudi, pp. 216, euro 18,50) ritiene invece che la vita si sottragga ad una definizione giuridica e mette in crisi la biopolitica sulla quale gli stati moderni sono fondati. Infine, per Ernst Bloch («Diritto naturale e dignità umana», Giappichelli, pp. 327, euro 30), la rivendicazione della dignità non è assimilabile alle leggi statali regolate dal criterio della «giustizia».
* il manifesto, 20.12.2006
Il passo della procura di Roma: "Lo stabilisce la Costituzione" Secondo il Consiglio di Sanità le cure non sarebbero accanimento Welby, il ricorso dei pm. "Suo diritto non curarsi" *
ROMA - La Costituzione riconosce la libertà del paziente di rifiutare le cure e quindi il medico ha la facoltà, ma non il diritto, di curare. La procura di Roma motiva così l’ordinanza che ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato da Piergiorgio Welby per chiedere l’interruzione delle cure. Intanto, secondo, una prima bozza del parere del Consiglio Superiore di Sanità, le cure applicate all’uomo non sarebbero accanimento terapeutico. Mentre il ministro Livia Turco vuole andare a trovare Welby "per capire se le cure che riceve sono adeguate".
Il reclamo della procura. La procura chiede che il tribunale civile affermi l’esistenza del diritto del malato ad interrompere il trattamento terapeutico non voluto. I pm (in quattro pagine, a firma del procuratore Giovanni Ferrara e dei sostituti Salvatore Vitello e Francesca Loy) parlano di "palese contraddizione" nell’ ordinanza del giudice del tribunale civile di Roma, Angela Salvio. Gli articoli 32 e 13 della Costituzione, sottolineano, indicano "l’esistenza di un vero e proprio diritto a non curarsi, ossia di un’assoluta libertà del paziente di rifiutare le cure mediche, lasciando che la malattia faccia il suo corso. Il medico, dunque, ha la potestà o la facoltà di curare e non il diritto di curare". Non si tratta, aggiungono, "di agevolare un diritto a morire, bensì di una scelta cosciente tesa ad evitare ulteriori ed inutili sofferenze al paziente irrimediabilmente malato".
Consiglio Sanità. La bozza di parere sarà esaminata domani ma da quel che si apprende il Consiglio sembra orientato a dire che le cure a Piergiorgio Welby non sarebbero un accanimento terapeutico. Il parere era stato richiesto dal ministro della salute Livia Turco e gli esperti sono riusciti nello sforzo di elaborare un documento unico. Qualsiasi sarà il documento approvato (il voto è previsto per la mattinata), il parere non si trasformerà automaticamente e immediatamente in nessun atto pratico. Gli esperti infatti forniranno la loro posizione tecnico-scientifica al ministro Turco ma sarà sempre lei a decidere se tenerne conto o no, con gli strumenti a sua disposizione.
* (la Repubblica, 19 dicembre 2006)
Le storie degli uomini e lo scandalo della morte
di Michel Vovelle (La Repubblica/DIARIO, 15 dicembre 2006, p. 55)*
«Ogni morte è nel dolore»: la vecchia formula nella sua brutalità ci informa subito sui limiti della tanto desiderata eutanasia, o morte dolce, che ci arriva dagli antichi, ma ciò non attenua l’aspirazione a umanizzare, quando è possibile, l’ultimo istante di vita. Per aver scritto di morte e Occidente dal 1300 ai giorni nostri, eccomi qui - dopo la scomparsa dei miei contemporanei, lo storico Philippe Ariès o l’antropologo Louis-Vincent Thomas - invitato a titolo di esperto a parlare di eutanasia, non senza qualche scrupolo. Nel dramma di questi giorni di Piergiorgio Welby ritrovo il riflesso crudele, al limite dell’insopportabile, della buona morte, da sempre impossibile. Senza voler risalire all’antichità, la nostra civiltà cristiana è stata portatrice del modello, esemplificato dalla morte dei santi, della buona morte che si raggiunge «giacendo a letto malati» e di cui parlano le migliaia di testamenti che ho consultato: è quel tipo di morte che consente di dare le proprie disposizioni, di mettersi in pace con il cielo, evitando la sorpresa della morte violenta, valorizzazione obbligata del dolore in un’epoca, fino a ieri o quasi, nella quale contro di essa non era possibile fare nulla o ben poco. Il colpo di grazia misericordioso era il privilegio rarissimo o clandestino di pochi: il medico Cabanis che da l’oppio a Mirabeau.
Tutto ciò oggi è diverso. Da quando? Non intendo ripercorrere tutte le tappe dell’evoluzione alla quale sono andati incontro i vari modi di prolungare la vita, a cominciare dalle odierne tecniche di rianimazione e di conservazione delle funzioni vitali. Ma questa innovazione, che incontra il proprio limite soltanto sulla soglia stessa della morte, si accompagna a un profondo cambiamento dei nostri atteggiamenti e delle nostre sensibilità. Nelle nostre società, in cui si vive più a lungo, si prende in considerazione la sorte dei malati terminali, ai quali si cerca di rendere più umano l’ultimo passaggio, nell’ambito di cure palliative, lottando contro il dolore, ma anche per salvaguardarne la dignità. Così come la auspicherebbe la maggior parte di coloro che rispondono ai sondaggi, la "morte dolce" oggi sarebbe rapida: ma i mezzi terapeutici invece fanno sì che ormai il concetto di morte naturale si stia facendo sempre più sfumato.
Negli ultimi decenni c’è stata un’accesa denuncia del potere dei medici, che si esplica attraverso quello che noi in Francia chiamiamo accanimento terapeutico, mentre gli anglosassoni parlano di "misure coraggiose". Chi ha torto? Chi ha ragione? La Chiesa, contraria all’accanimento terapeutico, resta ciò nondimeno contraria all’eutanasia, sia attiva sia passiva, al fatto di cessare di combattere, quando tutta una corrente - a dire il vero fino a questo momento ancora elitaria - nelle nostre società occidentali rivendica il diritto a una morte dignitosa. Sentiamo parlare, con progetti alquanto complicati, della possibilità per ogni persona di prescrivere, nell’ambito delle sue ultime volontà, di non voler essere sottoposta a una rianimazione così decisa da prolungare la vita in modo artificiale. In Francia questo problema è stato oggetto di discussioni a livello parlamentare e una nuova legge comincia a essere applicata con grande prudenza. Il fatto è che al di là della polemica in nome dei valori fondamentali "-l’assoluto rispetto della vita contro il diritto individuale a disporre della propria persona- le realtà oggettive si impongono in modo crudele per mezzo di situazioni drammatiche.
I media ci hanno messo in una condizione di familiarità con questi casi di mantenimento in vita vegetativa di morti-viventi, giovani e vecchi, in stato di coma irreversibile, ma talvolta anche in condizioni di assoluto decadimento del loro fisico, e in preda per questo motivo a uno sconforto profondo. Di fronte a questi casi i medici che rompono la consegna del silenzio hanno da tempo ammesso che, a un certo punto, occorre pur "staccare la spina". Alcuni personaggi - di levatura non certo inferiore (in Francia il professor Schwartzenberg) - hanno rivendicato il fatto di aver praticato l’eutanasia attiva in qualche caso senza speranza. Accanto a loro, le famiglie si dividono tra quelle che si aggrappano disperatamente alla tutela del più piccolo soffio di vita e quelle che compiono il gesto misericordioso, con o senza aiuti. La giustizia francese in alcuni casi recenti ha optato, premunendosi in vario modo, per un atteggiamento di comprensione. Il fatto è che i problemi sui quali si focalizza l’opinione pubblica contraria all’eutanasia non sono di secondo piano: a partire da quale stadio l’eutanasia è legittima? A chi tocca la responsabilità di questo gesto, al medico, al personale curante, alla famiglia? I nostri media evocano talora casi di infermiere assassine o di inquietanti anticamere della morte.
In definitiva, che ne è del pazie-te terminale? È sufficiente che quando è in salute esprima una scelta che in punto di morte potrebbe non essere più sua.
Ed eccomi qui, se non proprio al capezzale quanto meno accanto a Piergiorgio Welby. Dall’abisso del suo sconforto, con gli ultimi mezzi di comunicazione che ancora gli sono disponibili, chiede di essere liberato da quella che ormai rappresenta per lui soltanto una parvenza di vita. Pare quasi, leggendo le pagine della stampa italiana che sfoglio, che il suo grido faccia scandalo per il fatto stesso di essere ripreso e ripetuto. Eccolo, il nostro martire, accusato di aver pubblicizzato e strumentalizzato il proprio supplizio. Questo ci riporta evidentemente all’attuale situazione del nostro universo mediatico: da anni ormai abbiamo familiarizzato con l’idea del tabù moderno della morte, che ha scalzato quello di ieri del sesso. È vero, nella realtà oggettiva la morte contemporanea si è fatta clandestina, anonima. Non lasciamoci trarre in inganno, però: al contempo, infatti, noi viviamo la contraddizione del ritorno della morte manifesta, in immagini o in racconti, quella di massa o quella dei grandi personaggi. Si pensi, per esempio, a quella cronaca di una morte annunciata che, orchestrata da lui stesso, ha rappresentato la fine del presidente François Mitterrand. Nel caso più anonimo di Piergiorgio Welby, pare che lo scandalo sia nato dall’averne informato l’opinione pubblica. Ma su chi ricade la vergogna? Su colui che grida o su coloro che vorrebbero distogliere lo sguardo e che si attendesse in silenzio lo spegnersi degli ultimi rantoli? (Traduzione di Anna Bissanti).
* Lo storico Michel Vovelle ha scritto La morte e l’Occidente.
La Costituzione dà ragione a Welby
di Gilberto Corbellini*
È incredibile l’inadeguatezza di alcuni ragionamenti che stanno alimentando la discussione pubblica, e creano una vera e propria Babele di punti di vista intorno e sulla richiesta di Piergiorgio Welby di interrompere l’assistenza artificiale alla respirazione ed essere lasciato morire senza soffrire. L’ultimo riguarda l’investitura da parte della ministra Turco del Consiglio Superiore della Sanità, chiamato a stabilire se si tratta di accanimento terapeutico. Il ministro e i consiglieri, che sembra stiano davvero istruendo l’improbabile parere, non sanno o fingono di non sapere la questione è già risolta.
Esiste una Costituzione vigente e delle sentenze passate in Cassazione. Queste, in soldoni, dicono, come dice persino il Codice di Deontologia Medica, che il medico nulla può fare senza il consenso del paziente. Addirittura sembra che tutti si siano dimenticati che quando era ministro della sanità un medico peraltro abbastanza all’antica e quindi con un’impostazione etico-giuridica paternalistica come Girolamo Sirchia, questi riconobbe che nel caso di una signora che rifiutava di farsi amputare una gamba e che di conseguenza sceglieva di morire, non poteva fare nulla. Questo significa che esiste la dottrina del consenso informato, che nei paesi più civili viene insegnata agli studenti di medicina dal primo anno. Ma che in Italia sembra cosa ancora esoterica, nonostante consegua logicamente dal diritto vigente. Talmente esoterica, che, per quanto abbia letto nella stampa in questi giorni, mi pare che nessuno l’ha tirata in ballo.
Si preferisce, perché tocca accenti emotivi e consente di lanciare anatemi a chi ha il riflesso condizionato dell’intolleranza, chiamare in causa l’eutanasia. Che in questo caso non c’entra niente. Come, se si analizza bene la questione, non c’entra l’accanimento terapeutico. Mi correggo. Si cerca di far passare l’idea che spetti al medico, o alla ministra o a un giudice di stabilire se Welby è vittima di un accanimento terapeutico.
Signori, guardate che Welby non è ancora privo di coscienza. Né qualcuno ha chiesto una perizia per stabilire se è capace o meno di intendere. Quindi, se si tratta o meno di accanimento spetta solo a lui di deciderlo! Che cosa potrà mai dire il Consiglio Superiore della Sanità? Al massimo può stabilire se il medico curante segue le linee di trattamento efficaci per quel caso clinico. Che sono standardizzate in base a criteri di buona pratica clinica. E la buona pratica clinica prevede che un giudizio medico di accanimento terapeutico entri in gioco solo se e quando il paziente non è cosciente. Per caso, il Consiglio Superiore se la sentirebbe di giudicare accanimenti gli interventi che Welby non vuole, ma che un altro paziente nelle sue stesse condizioni richiede? Allora che parere medico potrà mai dare?
Welby sta semplicemente chiedendo di interrompere un trattamento medico. E questo è un diritto costituzionalmente garantito! Nessuno «deve staccare qualche spina» - espressione retorica e priva di senso. È lui che dice basta! E il medico ha l’obbligo morale e legale di alleviare ogni sofferenza che possa conseguire da questa sua decisione libera e consapevole. Cioè di sedarlo. Quindi, si deve semplicemente stabilire se è logicamente, in base alle norme del diritto, e moralmente, in base a un’etica del rispetto della persona, ammissibile che Welby possa chiedere l’interruzione di un trattamento - la respirazione artificiale - che avrebbe potuto non farsi applicare se avesse esplicitamente ordinato al suo medico di non farlo nell’occasione della crisi respiratoria che portò alla trachesotomia. Perché, come è stato nel caso di Luca Coscioni, che non ha accettato di farsi trecheostomizzare, Welby avrebbe potuto evitare di trovarsi in questa condizione, se vi fosse stata una normativa decente sul testamento biologico. Ha senso l’asimmetria creata solo da un’incertezza del diritto, e che la logica o persino il banale buon senso riconoscono assurda? Ha senso, cioè è moralmente giusto, che Welby debba aspettare il momento in cui non potrà più deglutire, per impedire l’intervento di gastrostomia necessario per alimentarlo artificialmente, e che quindi sia costretto ad avere l’opportunità di lasciarsi morire di fame per affermare la sua libertà di scelta?
Questo sta chiedendo il radicale e co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni, Welby, alle istituzioni di questo paese. Dando per scontata, perché Welby ne sa di più in materia di tanti che si fanno passare per esperti, la risposta. Come la considerano scontata quasi due italiani su tre. La sua domanda e la risposta che verrà data sollevano ulteriori riflessioni e implicano di affrontare tutti i problemi etico-giuridici creati dalla scelte mediche nella fasi finali della vita del paziente. È evidente che se chi deve rispondere a Welby non capisce di cosa si sta parlando, o fa finta di non capire, è inimmaginabile che si possa andare molto lontano nella discussione. Almeno, però, si abbia rispetto per Piergiorgio. E si diano risposte pertinenti. Soprattutto non si cerchi di aggirare il problema o di perder tempo. Nella manifesta speranza che nel frattempo il problema di estingua da solo.
*Co-presidente (insieme a Piergiorgio Welby) dell’Associazione Coscioni e Professore ordinario di Storia della medicina all’Università La Sapienza
l’Unità, Pubblicato il: 11.12.06, Modificato il: 11.12.06 alle ore 10.01
Il diritto di morire
di BARBARA SPINELLI *
Il volto di Piero Welby che da tempo ci accompagna con il suo sguardo non è un volto pacificato, passivo, docile. È un volto molto severo che interroga, un volto d’intranquillità che esige da ciascuno di noi pensiero profondo, partecipazione a una questione nuova e cruciale, decisioni non dettate solo da compassione ma da qualcosa di più esigente e di meno intimo: da un nuovo senso di responsabilità, che includa certo la pietas e l’amore ma che si estenda all’etica e alla legge, due categorie fatte non solo di compassione. È chiaro che Welby avrebbe potuto entrare nella morte con qualche personale sotterfugio: se ha scelto di non farlo è per trasformare la propria vicissitudine in vicissitudine che concerne noi tutti. L’incontro con il taciturno sofferente non potrebbe esser più parlante, essendo incontro con il suo morire e col nostro più o meno prossimo morire. Il diritto per cui si batte, lo vuol ottenere non solo per sé ma per chi patisce come lui. Di solito, quando parliamo di diritti pensiamo subito a beni ritenuti positivi, vitali: il diritto al lavoro, o a fare ed essere in un certo modo. In apparenza il diritto invocato da Welby è privo di questa positività, ha rapporti col buio, col nulla. La sua storia e i suoi scritti testimoniano della falsità di simile assunzione. La morte è forse quel passaggio verso il nulla o verso l’eternità, nelle mani della natura o di Dio. Ma il morire e il modo di morire ci competono interamente, sono un’essenza dell’esistere umano. Quando gli antichi greci davano agli uomini il nome di mortali, o effimeri, lo sapevano bene: il morire era un tempo del vivere, e addirittura il più importante perché dava all’esistere una speciale qualità. Il filosofo Hans Jonas ha parlato della mortalità come di una benedizione, essendo quel che rende la vita così preziosa. Se non sapessimo di esser mortali, se non sapessimo che la persona amata è mortale, ogni giorno distruggeremmo gli affetti e mai ci verrebbe in mente di dar loro l’improbabile colore dell’immortalità. I grandi amori sono tali quando poggiano sull’idea della morte non ipotetica ma sempre vicina: la nostra, e specialmente dell’essere amato. Parlare del morire è questione vitale per eccellenza, che riassume tutte le questioni dell’essere. Di qui quell’impressione strana, quando sugli schermi appare Welby: tutto quel che accade attorno a lui viene come oscurato. L’incontro con quel volto ci porta alle soglie dell’enigma più vitale e più sacro: a qualcosa che appartiene a noi e alla divinità, che è trafugato a noi e a lei.
La questione del diritto a morire è nuova e cruciale da quando la scienza e la tecnica medica hanno compiuto progressi che hanno stravolto il morire. Non si moriva così, quando non esisteva quest’enorme potere che può prolungare artificialmente la vita con medicamenti, tubi, macchine. Non c’era bisogno allora di fissare un limite all’accanimento terapeutico, o di permettere che l’accanimento sia rifiutato da chi è appeso alle macchine senza coscienza (il testamento biologico). La stessa parola eutanasia andrebbe adattata alla straordinaria mutazione che viviamo, e rinominata: non è in questione la bella morte. È in questione il ben-morire, la strada che precede il passaggio finale. Questa strada è stata sottratta alla capacità dell’uomo di darsi sue leggi, attraverso l’auto-nomia, ed è posseduta da macchine da noi inventate: macchine che trasformano l’uomo in un mezzo docile e utile, che si sorveglia e si punisce allo stesso modo in cui son sorvegliati e puniti, secondo Foucault, i prigionieri. Non a caso Welby parla di prigione, paragonando la propria condizione a quella di prigionieri del terrorismo come Moro. La prigione della medicina che s’accanisce in nome di valori morali è terroristica: taglia le ali alla preparazione della morte, che è la nostra più intima aspirazione; tratta l’essere umano non come fine ma come mezzo. Lo trasforma in uomo docile e utile per la politica o l’ideologia. Il volto di Welby dice questa indisponibilità, più umana e meno prometeica delle macchine mediche, all’esser docile, utile e consolato. Il progresso tecnologico ha dilatato le possibilità umane d’intervenire sulla natura, creando un potere bio-politico smisurato e invasivo (Jonas ricorda come potere e fare Macht, machen abbiano in lingua tedesca la stessa radice). E siccome siamo responsabili di quel che facciamo, è ovvio che le nostre responsabilità aumentano col ramificarsi di questo potere. La morte in sé non mette veramente spavento: il terribile dolore è di chi sopravvive, Epicuro dice parole sagge quando ricorda che «la morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è lei, e quando c’è lei non ci siamo più noi». Non così il morire, che invece crea panico perché quando c’è lui, può accadere che noi esistiamo senza più esistere, come morti-vivi. È un panico cresciuto mostruosamente non essendo il morire più nelle nostre mani, e per questo tocca riappropriarsene. Non è un diritto che s’accampa in opposizione a Dio, al sacro: in realtà il morire è stato tolto anche alla natura, a Dio. Se agissero la natura o Dio, moriremmo senza respiratori. Quel che vediamo guardando Welby è il trionfo della tecnica umana sull’umanità, il trionfo dell’artificio sulla natura e sul divino. Inutile parlare di silenzio di Dio: chi colpevolmente tace su simili mostruosità sono i politici, i pensatori, la Chiesa. L’autonomia del morente e il diritto di morire restituiscono naturalezza e sacralità a un capitolo fondamentale della vita. L’etica del morire è un’etica vitale, essendo la risposta responsabile all’estendersi del bio-potere.
Bisogna poter dire le proprie volontà in previsione di un morire incosciente: è il testamento biologico. Bisogna avere il diritto già esistente, riconosciuto dalla Chiesa di rifiutare l’accanimento terapeutico. Altra questione è l’eutanasia. Questione scabrosa, perché ci mette di fronte a contraddizioni spesso insanabili: il progresso medico-scientifico può esser pericoloso, e al tempo stesso offrire speranze a molti ammalati; porre un limite alla libertà di procurare la morte è necessario, anche se crudele. Nessuno può prendere alla leggera qualcosa di cui si è fatto abuso criminoso, non nell’antichità ma sei decenni orsono. Chi decide infatti se una vita debba considerarsi indegna d’esser vissuta? Il malato o la società, con la legge? Se decide il collettivo il rischio è grande che non avremo solo la bella morte ma la morte utile alla società, o alla razza, alla nazione, ai bilanci sanitari. L’eutanasia può divenire un’estensione del bio-potere, anziché frenarlo. Può anche snaturare la missione del medico, che vedrebbe i propri poteri ingigantiti nel bene e anche nel male. Ogni medico diverrebbe per il paziente una sfinge: obbedirà a Ippocrate, cercando di sanare e lenire, o mi ucciderà per una sua idea di pietà o convenienza? Tuttavia la questione va affrontata perché troppo grande è il mutamento del morire. Negarla vuol dire non vedere la mutazione, e consolarsi con concetti che significano ormai poco se non vengono radicalmente ripensati, innovati, vivificati. Si discute molto di valori eticamente sensibili, cui molti cattolici danno il nome di valori indisponibili, quasi esistessero valori che solo la Chiesa può curare. Qui è l’errore, fatto di pigrizia o presunzione.
L’etica del vivere e morire (ma anche del convivere, della famiglia) non è qualcosa che appartiene ai vescovi, disponibile solo al loro discernimento. Appartiene ai credenti, ai non credenti, e all’ultima istanza che per ambedue è la coscienza. Anche gli atei son chiamati a pensare l’eutanasia come tema eticamente delicatissimo, necessitante una rivoluzione linguistica e mentale. In Germania l’eutanasia è tabù per ragioni storiche, non religiose. Come aiutare allora a morire, come staccare la spina divenuta intollerabile al malato? L’amore e la compassione vogliono aiutare sempre più, man mano che cresce la responsabilità. La legge non è compassione ma può contemplare come mai si è così immensamente esteso questo bisogno d’amore legato al diritto di morire. Tutto sta nel muoversi lungo un crinale stretto, evitando le chine scivolose: una cosa è uccidere e un’altra il lasciar morire, il confine è tenue ma esiste. Lasciar morire è qualcosa di cui possiamo riprender possesso, fin d’ora: restando fedeli a valori irrinunciabili ma aprendoci a quegli «atti d’amore» e responsabilità cui accenna don Verzè, quando racconta come staccò la spina a un amico, anni fa. Se c’è consenso del sofferente si può lasciar morire interrompendo le cure, somministrando dosi crescenti di antidolorifici, staccando anche la protesi che è il respiratore. Non lasciare il malato solo con il suo morire, davanti all’onnipotenza della scienza medica: questo è oggi l’imperativo. Quel tipo di vita, appeso a una macchina impersonale e indifferente, ha da tempo cessato di essere un valore: tanto meno un valore indisponibile. Se la Chiesa lo considera ancora tale, vuol dire che s’identifica con quel potere e quella macchina dissacratrice.
* La Stampa, 10/12/2006
Lunga lettera del militante radicale al Tg3 che respinge le accuse di strumentalizzare e chiede nuovamente di poter staccare le macchine che lo tengono in vita
La rabbia e il dolore di Welby. "Vi scrivo dalla mia infame prigione"
"Mi torturate in nome dei vostri valori". "Stop allo sciopero della fame" *
ROMA - Rifiuta, sdegnato, le accuse di "strumentalizzare" la propria condizione per muovere a compassione, "per mendicare o estorcere in tal modo, slealmente, quel che proponiamo e perseguiamo con i miei compagni". Piero Welby affida ad una lunga lettera, affidata al Tg3 (che stasera nell’ approfondimento quotidiano "Primo Piano" tornerà ad occuparsi del caso), il suo ennesimo grido di dolore e di rabbia.
Immobilizzato a letto, in vita solo grazie ad un ventilatore polmonare, Welby torna a chiedere la possibilità di porre fine alla sua esistenza. "Dalla mia prigione infame, da questo corpo che - per etica, s’intende - mi sequestrano, mi tornano alla memoria le lettere inviate alla "politica" da un suo illustre, altro, "prigioniero": Aldo Moro - scrive Welby - Pagine nobili e tragiche contro gli uomini di un potere che aveva deciso di condannarlo (anche lui per etica, naturalmente) a morte certa, anche lui ad una forma di tortura di Stato, feroce ed ottusa. Quelle pagine non potrei farle mie. Anche perché furono perfette, e lo restano. Un pensiero, ancora, un interrogativo, un dubbio: dove sono mai finiti per tanti "credenti" Corpo mistico e Comunione dei Santi?".
C’è rabbia, nella lettera di Welby, che si scaglia contro chi lo accusa di "strumentalizzare" la sua condizione per la battaglia, condotta insieme ai radicali, per il diritto ad una morte giusta. Lo stesso destino, continua Welby, che toccò a Luca Coscioni: "Infamandoci come meri oggetti o come soggetti plagiati. (O indemoniati, vero... Signori?). Strumenti? Sono, invece, limpidi obiettivi ideali, umani, civili, politici".
"Addio, Signori che fate della tortura infinita il mezzo, lo strumento obbligato di realizzazione o di difesa dei vostri valori - continua welby - Chi siano (e in che modo) i morti o i vivi che rimarranno tali quando saremo tutti passati, non sappiamo, né noi né voi".
Infine la richiesta, fatta ai 700 militanti radicali impegnati in uno sciopero della fame, di sospendere la protesta "che ha contribuito a dare vita ad un momento di dialogo nel paese". Nel frattempo martedì 12 dicembre si terrà l’udienza del Tribunale di Roma sul ricorso presentato da Welby per ottenere l’interruzione dell’accanimento terapeutico.
* la Repubblica, 8 dicembre 2006.
Ministro Turco, vada da Welby
di Maurizio Mori*
Gentile Signor Ministro Turco,
come è ormai noto, le ripetute richieste di Piergiorgio Welby di uscire dalla vita in maniera dignitosa hanno suscitato un ampio dibattito pubblico nella società italiana. Alcuni, come la professoressa Patrizia Borsellino, presidente del Comitato per l’Etica di Fine Vita, ha autorevolmente sostenuto che già oggi il diritto italiano permette di accogliere la sospensione voluta da Welby e che rischia di violare la legge chi non presta ascolto alla richiesta esplicita di sospendere le cure espressa da un paziente cosciente. Altri, come Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica alla Cattolica, sembrano propensi a credere che il rispetto della volontà di Welby sia una forma di abbandono (terapeutico o sociale) che apra la strada ad un atteggiamento rinunciatario nei confronti della disabilità.
Dalla sua fondazione nel 1989 la Consulta di Bioetica ha promosso la cultura del rispetto del consenso informato del paziente, per cui auspica che la richiesta di Welby sia accolta. Ma non è questo il momento di aggiungere un nuovo parere a quelli già esposti. La mia proposta è un’altra: il caso Welby richiede uno speciale approfondimento. Per questo, signor Ministro, La invito a recarsi di persona al letto di Welby, in modo da poter conoscere meglio la reale situazione di questo paziente. Avendo informazioni dirette e di prima mano, sono sicuro che Lei riuscirà a dare un parere autorevole sulla questione.
Ritengo che il Suo giudizio in materia sia di grande importanza non solo nel caso specifico, per tutelare il diritto (costituzionalmente garantito) del cittadino Welby, ma anche perché quello di Welby non è affatto un caso isolato - come a volte alcune fonti vogliono far credere. Moralità e giustizia vorrebbero che il caso di Welby fosse considerato col massimo rispetto anche se fosse unico ed isolato, ma il problema è che la realtà è ben diversa: Welby è riuscito a dar voce a molti cittadini affetti da malattie analoghe. Per questo la politica non può restare in silenzio di fronte a tali situazioni.
Lei, signor Ministro, ha una speciale responsabilità al riguardo. Conosciamo la Sua particolare sensibilità per le situazioni critiche e di sofferenza - sensibilità che l’ha portata ad istituire nei giorni scorsi una apposita Commissione per studiare i problemi di fine-vita - ed è per questo che sono sicuro che accoglierà la proposta qui avanzata: il tempo stringe e non si possono frapporre indugi. Una Sua tempestiva visita a Piergiorgio Welby sarebbe un segno tangibile che la politica sa essere vicino ai cittadini - a prescindere dal parere che Lei verrà a dare.
*Presidente della Consulta di Bioetica
l’Unità, Pubblicato il: 06.12.06, Modificato il: 06.12.06 alle ore 8.23
Il nuovo comitato per la bioetica: Casavola presidente*
Il neo presidente del comitato CasavolaÈ stato rinnovato, con decreto del Presidente del Consiglio, Romano Prodi, il Comitato Nazionale per la Bioetica. Da oggi sarà presieduto dall’ex Presidente della Corte costituzionale e attuale Presidente dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Francesco Paolo Casavola.
I criteri sulla base dei quali è stata elaborata la formazione del nuovo Comitato, in base a quanto si legge in un comunicato di palazzo Chigi, sono i seguenti: sensibile riduzione del numero dei componenti; riequilibrio del rapporto uomo/donna; complessivo abbassamento dell’età media; ampio ricambio nella composizione dell’organismo.
Il Comitato sarà composto da 35 membri (erano 52) di cui 14 donne, più i 5 Presidenti onorari. Questi, oltre al Presidente, i nomi dei componenti il nuovo Comitato nazionale per la Bioetica: Salvatore Amato, Luisella Battaglia, Stefano Canestrari, Cinzia Caporale, Elena Cattaneo, Mauro Ceruti, Isabella Maria Coghi, Roberto Colombo, Gilberto Corbellini, Bruno Dallapiccola, Antonio Da Re, Lorenzo d’Avack, Maria Luisa Di Pietro, Riccardo Di Segni, Emma Fattorini, Carlo Flamigni, Romano Forleo, Silvio Garattini, Marianna Gensabella, Laura Guidoni, Aldo Isidori, Claudia Mancina, Luca Marini, Assunta Morresi, Demetrio Neri, Andrea Nicolussi, Laura Palazzani, Alberto Piazza, Vittorio Possenti, Rodolfo Proietti, Lucetta Scaraffia, Monica Toraldo Di Francia, Giancarlo Umani Ronchi, Grazia Zuffa. Questi i Presidenti onorari: Giovanni Berlinguer, Adriano Bompiani, Francesco D’Agostino, Adriano Ossicini, Rita Levi Montalcini. I Vicepresidenti verranno indicati tra i membri del Comitato.
Soddisfazione per le nomine di Prodi è stata espressa dal segretario dei Radicali Rita Bernardini, ma anche dalla senatrice "teodem" della Margherita Paola Binetti.
Il Presidente del Consiglio ha poi proposto Francesco Donato Busnelli quale membro dell’European Group on Ethics in Scienze and New Technologies al posto di Carlo Casini, dimissionario dal 12 luglio 2006.
* l’Unità, Pubblicato il: 07.12.06, Modificato il: 07.12.06 alle ore 19.55
Dopo lo sciopero della fame iniziato da Emma Bonino scende in campo. Fabio Mussi. Partono due giorni di mobilitazione con i Poli divisi al loro interno
"Non tenete in vita il dolore" Anche due ministri per Welby
ROMA - "Non ci si può accanire a tenere in vita il dolore". Le parole sono di Fabio Mussi, ministro per l’Università e la Ricerca, e sanciscono un intervento del governo nel caso di Piergiorgio Welby dopo l’annuncio del ministro Emma Bonino che ha iniziato lo sciopero della fame per l’uomo - malato di distrofia muscolare - che ha chiesto ufficialmente di di "staccare la spina" delle macchine che lo tengono in vita. Si allarga dunque la protesta a sostegno dell’uomo che chiede di morire e che fece esplodere questa sua richiesta con una drammatica "video-lettera aperta" al presidente Napolitano. Oggi e domani due giornate di mobilitazione, che sono destinate a dividere nuovamente le coscienze. In modo trasversale, come dimostrano le prese di posizione opposte proprio su "Repubblica" del presidente della Commissione Sanità del Senato Ignazio Marino (favorevole) e del ministro per la Famiglia Rosy Bindi (nettamente contraria).
(la Repubblica, 4 dicembre 2006)
In poche parole esiste una soglia del dolore oltre la quale si ha il "santo" diritto di morire ??
Cosa è il dolore ? Perchè esiste ? È un valore la sofferenza ?
"Dio non è venuto a togliere la sofferenza, non è venuto a spiegarla, ma è venuto a riempirla della sua presenza".
Paul Claudel
Sondaggio Ipr marketing per Repubblica.it. sulla vicenda che divide il Paese Il co-presidente dell’associazione Luca Coscioni chiede ai medici di staccare le macchine Eutanasia, anche i cattolici favorevoli Il 50% dei praticanti dice sì a Welby Sul totale i sì al 64%, i no al 20% Cappato: "In linea con tradizione democratica" Micromega: referendum contro l’articolo del cp che punisce chi assiste
di CLOTILDE VELTRI *
ROMA - Gli italiani - e anche i cattolici praticanti - sono in maggioranza favorevoli all’eutanasia per Piergiorgio Welby, il malato terminale che ha chiesto ai medici di staccare la spina, ma che ha ricevuto in cambio un diniego. Il problema, ha spiegato il dottore che lo ha in cura, è che facendolo violerebbe la legge. Oggi, a conforto della richiesta di Welby, co-presidente dell’associazione radicale Luca Coscioni, da mesi al centro di una battaglia personale e politica in favore della "morte dolce", arrivano i clamorosi risultati del sondaggio Ipr Marketing per Repubblica.it, da cui emergono in sostanza due cose: gli italiani hanno una visione diversa dalla legislazione in vigore; chi si definisce cattolico praticante, sull’argomento, non sembra seguire i dettami della Chiesa.
Alla domanda se i medici dovrebbero accogliere la richiesta di Welby, il 64% degli intervistati (un campione di mille cittadini residenti in Italia) non ha dubbi nel rispondere un secco sì, contro il 20% dei contrari e un 16% che preferisce non esprimere la propria opinione in assenza di un’idea chiara in materia.
Ma ben più significativo è il dato se si tiene conto della fede religiosa degli intervistati: in particolare tra coloro che vedono l’eutanasia come una soluzione praticabile per Welby, il 50% si dichiara cattolico praticante, mentre il 71% abbraccia la fede cattolica, ma non pratica.
Anche tra coloro che dichiarano di professare un’altra religione la percentuale dei favorevoli all’eutanasia è elevatissima: si parla del 68%. Mentre la percentuale diventa quasi bulgara quando la richiesta viene fatta agli atei che, per il 95%, si dicono favorevoli a staccare la spina.
I contrari. Tra gli intervistati che invece si dicono contrari ad accogliere la richiesta di Welby si conta un 28% di cattolici praticanti; un 15% di cattolici non praticanti e il 18% di cittadini che appartengono ad altri credo religiosi. Gli atei che non ritengono sia giusto praticare l’eutanasia sono solo il 3%. Infine il 51%, quindi una percentuale elevata, spiega che preferisce non rispondere alla domanda se i medici "non" dovrebbero staccare la spina.
Intanto proprio oggi Welby ha dato mandato ai suoi legali affinchè ricorrano alla magistratura per ottenere il via libera alla sua richiesta: "il distacco del ventilatore polmonare sotto sedazione terminale".
E sui risultati del sondaggio di Repubblica interviene Marco Cappato, segretario dell’associazione Luca Coscioni secondo il quale "anche i cattolici non seguono il Vaticano e resistono alla propaganda di strumentalizzazione".
Cappato spiega che "il presidente dell’associazione francese per il diritto all’eutanasia è stato per molti anni Jacques Pohier, uomo di chiesa ed ex-direttore della rivista post-Concilio Vaticano II, ’concilium’. Fu lui a coniare l’espressione ’morte opportuna’, ripresa da Welby come alternativa a ’morte dignitosa’, proprio per riservare alla vita l’obiettivo della dignità".
Questa, per Piergiorgio Welby, è "la migliore testimonianza di un cattolicesimo possibile, rispettoso del dramma della sofferenza e della libertà - conclude Cappato - contro i dogmi di quei fondamentalisti clericali che, nell’assolutizzare la ’vita’, impongono una concezione materialistica di esistenza biologica privata di volontà, trasformando il diritto alla vita dignitosa in condanna alla tortura infame". Secondo l’esponente radicale i dati pubblicati da Repubblica "sono in linea con la storia democratica e referendaria del nostro paese".
E Micromega, la rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais in edicola da venerdì, lancerà la proposta di un referendum che decida "finalmente, una volta per tutte", di abrogare l’articolo del codice penale che stabilisce una condanna fino a 15 anni di carcere per chi ’assiste’ al suicidio.
"Oggi chi aiuta un malato terminale che rifiuti di continuare ad essere torturato - si legge nell’editoriale non firmato, e dunque attribuibile al direttore - rischia una condanna fino a 15 anni di carcere. Questo commina l’articolo del codice penale che sanziona l’assistenza al suicidio. Articolo abnorme. Articolo che un paese civile dovrebbe avere da tempo abrogato. Nasca quindi un movimento referendario che, abrogandolo, renda il nostro Paese meno lontano dagli standard europei di civiltà".
* la Repubblica, 29 novembre 2006
Caso Welby, il tempo delle scelte
di Marco Cappato *
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, interpellato dalla lotta di Piergiorgio Welby per una vita dignitosa e una morte «opportuna», è stato il primo a dichiarare «ingiustificabile» l’eventuale «silenzio, la sospensione o l’elusione di ogni responsabile chiarimento». L’invito di Napolitano non è caduto del tutto nel vuoto. Il Presidente della Commissione Sanità del Senato, Ignazio Marino, non sta risparmiando nulla della propria passione e competenza sia nel percorrere lo stretto cammino parlamentare del provvedimento sul testamento biologico, sia nel compenetrarsi al dramma di Welby. Insieme al suo omologo alla Camera, Mimmo Lucà, ha ribadito l’«impegno per giungere nei tempi più rapidi possibili all’approvazione di una legge sul testamento biologico e contro l’accanimento terapeutico».
Un obiettivo che Marino ha definito, insieme alla capogruppo dell’Ulivo al Senato Anna Finocchiaro, un «obbligo morale», pur riconoscendo «l’impossibilità di poter proporre una soluzione concreta accettabile» per Welby.
Oltre 200 cittadini, tra i quali personalità del mondo della politica e della scienza, stanno conducendo da giovedì uno sciopero della fame, insieme a cinque persone seriamente ammalate che si stanno autoriducendo le terapie, per aiutare la ricerca di una risposta alla richiesta di Welby. Una risposta che il Senatore Furio Colombo considera doverosa, pur ritenendo che non vi sia «il tempo ragionevole e paziente richiesto dai normali processi della politica». I tempi del nostro co-Presidente, e della tortura alla quale è sottoposto, non sono effettivamente quelli del Parlamento. Forse non sono nemmeno i tempi del Potere, capace di travolgere ogni regola quando è in gioco la propria sopravvivenza, eppure imbrigliato ora dalla contraddittorietà di leggi che proibiscono sì l’accanimento su un corpo sequestrato, ma che al tempo stesso minacciano, con la giurisprudenza prevalente, una dozzina d’anni di carcere per chi dovesse compiere quello che Don Verzé ha finalmente definito come un possibile e necessario «atto d’amore».
Sapremo nelle prossime ore se qualcuno - medico, politico, magistrato - potrà fornire un’alternativa alla disobbedienza civile evocata e preannunciata da Welby, a quell’affermazione di coscienza che consideriamo obbligata da parte nostra per interrompere la violenza in atto contro di lui, come contro tanti altri «ignoti». Non intendiamo però consentire che il «confronto sensibile e approfondito» chiesto dal Presidente della Repubblica - e accettato, a parole, da quasi tutti - continui ad essere privato di strumenti previsti per legge, che sarebbero fondamentali sia sui temi delle decisioni di fine vita, sia sulle questioni relative alla libertà di ricerca scientifica.
Il Comitato Nazionale di Bioetica, nominato da Silvo Berlusconi e scaduto il 15 giugno 2006, non è stato ancora rinnovato da Romano Prodi. Persino il posto dell’Italia lasciato libero da Carlo Casini al Gruppo Europeo di Etica rimane vacante da mesi. Il rinnovo del Cnb, previsto da impegni internazionali dell’Italia, non è compito semplice. Il Comitato si era ormai trasformato in pletorico parlamentino, ostaggio troppo spesso di dinamiche correntizie e di pressioni vaticane. Ma è proprio la difficoltà della nomina a esigere una decisione politica chiara ed immediata, per un Comitato finalmente adeguato ai suoi compiti. Scaduto il tempo delle necessarie verifiche di competenze e disponibilità, il ritardo che si accumula è solo utile ad alimentare logiche spartitorie e a pregiudicare l’autorevolezza e credibilità del futuro Comitato Nazionale di Bioetica.
Il tempo delle scelte - per Welby e per il Paese - è arrivato.
* www.unita.it, Pubblicato il: 28.11.06 Modificato il: 28.11.06 alle ore 9.22
IL MEDICO RISPONDE A WELBY. "MI RIMETTO A DECISIONI AUTORITA’ " *
ROMA - Il medico che ieri ha ricevuta la richiesta da parte di Pier Giorgio Welby di staccare la spina del suo respiratore risponde di non poter esser lui a decidere e di rimettersi quindi alla decisione delle autorità competenti. "Su richiesta del paziente - scrive il medico - rispettandone la volontà ed essendo egli lucido, dovrei staccare e sedare per evitare sofferenze. Nel momento che il paziente è sedato e quindi non è più in grado di decidere, risultando in pericolo di vita dovrei procedere immediatamente a riattaccarlo e ristabilire la respirazione. Pertanto sono obbligato per legge a rispettare la volontà, ma allo stesso tempo sono obbligato a rispettare la legge nel momento che perde conoscenza e quindi non è più in grado di decidere. Pertanto, ritenendo in questo caso di non poter decidere io in prima persona, mi rimetto alle decisioni delle autorità competenti". Ma il medico aggiunge anche che "il paziente sta soffrendo in una maniera incommensurabile sia dal punto di vista psicologico che spirituale". Il co-presidente dell’associazione Coscioni, malato di distrofia muscolare, lo scorso 22 settembre ha rivolto un video appello al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.
"Noi siamo per la vita ma contro l’accanimento terapeutico’. Lo ha affermato il sottosegretario alla Salute Antonio Gaglione commentando la richiesta al proprio medico del coopresidente dell’Associazione Coscioni Piergiorgio Welby di ’staccargli la spina’. "Come medico - ha detto Gaglione a margine della presentazione al ministero della Salute del libro ’L’Attività fisica nella terza eta" - non posso pronunciarmi non conoscendo personalmente il caso. Comunque, penso che bisogna lottare fino alla fine. Io stesso - ha aggiunto - ho conosciuto tanti casi dati per spacciati e che poi hanno avuto un miglioramento". Ad ogni modo, ha concluso il sottosegretario, "personalmente non lo farei e non accetterei la richiesta di staccare la spina".
* ANSA » 2006-11-28 12:10
La chiesa britannica ammette la possibilità di staccare la spina in casi "gravissimi": un esempio quello dei bambini nati con pesantissimi handicap
Gli anglicani aprono all’eutanasia "Prevalga la compassione cristiana" *
LONDRA - La pietà cristiana contempla - in alcuni casi - l’eutanasia. Lo dice la Chiesa anglicana, che per la prima volta si apre alla possibilità dell’eutanasia passiva se si tratta di neonati con gravissimi e irrimediabili handicap. E spiega che è possibile che "ci siano situazioni in cui per un cristiano la compassione debba prevalere sul principio secondo cui la vita va preservata a tutti i costi".
La questione è diventata di nuovo di scottante attualità in Gran Bretagna una settimana fa, quando una prestigiosa associazione di ginecologi e ostetrici britannici - il Royal College of Obstetricians and Gynaecologists - ha proposto l’eutanasia (in qualche caso persino attiva) per i bambini che vengano alla luce con devastanti invalidità e che siano quindi condannati ad una vita vegetativa e spesso di grande sofferenza.
Per ginecologi e ostetrici il problema non è soltanto di astratta natura morale: l’accanimento terapeutico su casi più o meno disperati porta ad un ingente spreco di risorse preziose e limitate che sarebbero molto più utili se dirottate verso la cura di bambini risanabili. Poi, a sorpresa un vescovo anglicano di spicco, il reverendo Tom Butler, a capo della diocesi di Southwark, ha fatto sue parecchie delle preoccupazioni e delle raccomandazioni del Royal College, che da più parti è stato accusato di avere una visione nazistoide della vita e di voler sopprimere i portatori di handicap.
In una lettera a una commissione indipendente di bioetica che deve pronunciarsi su questa delicatissima e controversa materia e formulare nuove direttive per i medici (il ’Nuffield Council on Bioethics’), l’alto prelato afferma che "in alcune circostanze può essere giusto fermare o togliere una cura, sapendo che è possibile, probabile o anche certo che ciò provocherà la morte".
Il vescovo formula quest’approccio non a titolo personale, ma a nome della chiesa anglicana. Non precisa quali siano le circostanze ’eccezionali’ in cui si può praticare l’eutanasia passiva, ma insiste sul tasto che la decisione va presa "con reticenza", quando tutte le altre possibilità siano state esplorate e scartate. Che cosa fare dei neonati con pesanti handicap (in genere si tratta di prematuri) è un tema particolarmente sentito in Gran Bretagna per via di un’aspra battaglia giudiziaria per mantenere in vita una bimba che oggi ha tre anni, Charlotte Wyatt, nata prematura di tre mesi.
Alla nascita Charlotte pesava appena cinquecento grammi. I genitori sono riusciti a farla mantenere in vita nonostante il parere negativo dei medici, che non volevano farlo a qualsiasi prezzo. Malgrado i grossi danni al cervello e ai polmoni Charlotte è sopravvissuta, in stato vegetativo e alimentata artificialmente. Nel frattempo i genitori si sono separati e hanno lasciata in ospedale la figlia per la quale si sta adesso cercando una famiglia disposta all’adozione. In Olanda, il Paese europeo dove più si pratica l’eutanasia, i bambini che nascono con un anticipo superiore a 25 settimane vengono lasciati morire.
* la Repubblica, 12.11.2006
Dopo le aperture della chiesa britannica all’eutanasia in caso di prematuri gravissimi. La Santa Sede replica: "Mettere fine alla vita di un innocente è un’azione mostruosa"
Eutanasia, Vaticano contro gli anglicani "Rischio di una grave deriva etica" *
CITTA DEL VATICANO - "La compassione invocata dai vescovi anglicani per i bambini prematuri gravemente ammalati nasconde in realtà il rischio di una grave deriva etica, quella che in diversi paesi sta portando a leggi che autorizzano l’eutanasia dei minori". A sostenerlo è il dicastero vaticano per la pastorale sanitaria per voce del card. Lozano Barragan.
Questo in risposta alle affermazioni fatte, negli ultimi giorni, dalla Chiesa anglicana, che per la prima volta si aperta in merito alla possibilità dell’eutanasia passiva nel caso si tratti di neonati con gravissimi e irrimediabili handicap. E ha spiegato che è possibile che "ci siano situazioni in cui per un cristiano la compassione debba prevalere sul principio secondo cui la vita va preservata a tutti i costi".
Immediate sono arrivate le opposizioni da parte del Vaticano che, attraverso il porporato messicano, ha spiegato: "Mettere fine alla vita di una persona innocente, anche nel caso di un bambino prematuro gravemente ammalato, equivale - spiega il porporato messicano - a praticare l’eutanasia, e questo resta un’azione illecita, oltre che un atto di crudeltà".
Secondo il ministro vaticano della Sanità, "tutto questo è molto diverso dall’accanimento terapeutico". Il card.Barragan, infatti, è d’accordo con la decisione dei sanitari di astenersi da cure inutili, "quando cioè si tratta di un uso di medicinali inutili e sproporzionati che servono a prolungare la dolorosa agonia di una persona che sarebbe ormai vicina alla morte".
E ancora: "Nessuno è obbligato ad accettare queste terapie. In questo caso possiamo parlare di compassione. Ma se si tratta di ammazzare, bisogna ricordarsi che il quinto comandamento dice non uccidere. La vita è nelle mani di Dio e noi non possiamo disporne".
"Il problema - spiega il presidente del Pontificio Consiglio per la pastorale sanitaria - è che in diversi paesi ora si vuole applicare l’eutanasia ai bimbi, oltre che agli anziani. E questa è una mostruosità. L’eutanasia è un’azione o omissione diretta ad estingere una vita e questo non lo ammettiamo. Di fronte alle aperture dei vescovi anglicani, dunque, non possiamo - conclude Barragan - che ricordare la posizione che è la stessa che la Chiesa ha di fronte al tema dell’eutanasia".
* la Repubblica, 13.11.2006
Scienza & Vita dà vita a una nuova rivista
di Sandro Magister *
Assieme al lancio della campagna “Né accanimento né eutanasia”, l’associazione Scienza & Vita ha presentato il 28 novembre a Firenze, nella Sala del Cenacolo, il primo numero della sua nuova rivista, intitolata appunto: “I Quaderni di Scienza & Vita”.
L’associazione, sorta nel dicembre del 2005, è la diretta erede dell’omonimo comitato che si è battuto con successo in difesa della legge 40 sulla procreazione assistita dal referendum abrogativo svoltosi nel giugno dell’anno scorso. Da allora ha esteso la sua azione ad altri ambiti: difesa della vita non solo al suo inizio ma anche nelle fasi terminali, valorizzazione del femminile, sostegno alla ricerca nell’ambito delle malattie rare, aiuto alle famiglie provate da tali situazioni. Presiedono l’associazione il genetista Bruno Dallapiccola e la bioeticista Maria Luisa Di Pietro.
Direttore dei “Quaderni” è la storica Lucetta Scaraffia, che è anche vicepresidente di “Scienza & Vita”.
“Dietro a questioni come il diritto a ‘morire dignitosamente’, si nascondono inquietanti cambiamenti della nostra cultura che implicano la perdita di quello che era considerato il più essenziale dei diritti umani: quello alla vita, in qualunque condizione di presentasse”, scrive Lucetta Scaraffia nell’introduzione al primo quaderno della nuova rivista, intitolato “Né accanimento né eutanasia”.
Chiude il quaderno un glossario la cui ultima voce è “Vita degna e indegna”. In essa si legge: “Questa divisione cancella l’idea, fondamento dei diritti umani, che ogni vita sia da rispettare. La vita umana è considerata secondo una gerarchia di valore che annnulla completamente l’uguaglianza”.
Assieme alla femminista non cattolica Eugenia Roccella, Lucetta Scaraffia ha pubblicato nel 2005 il volume “Contro il cristianesimo. L’ONU e l’Unione Europea come nuova ideologia”, presentato in www.chiesa nel servizio: “ONU e Unione Europea hanno il loro enfant terrible a Roma”.
Il "diritto mite" ad una buona morte
di Gabriella Caramore *
Come contributo all’attuale dibattito su etica, eutanasia, testamento biologico, pubblichiamo (con un titolo redazionale) un testo inedito scritto da Gabriella Caramore, che il quotidiano dei vescovi Avvenire avrebbe dovuto pubblicare domenica 9 luglio 2006 nello spazio riservato alla rubrica "Sul confine", che la Caramore curava dal settembre 2005. L’articolo, che contiene un approccio aperto e problematico alla questione del testamento biologico, è stato bloccato prima che venisse mandato in stampa, per esplicita volontà del direttore Dino Boffo. In seguito a questa censura, la Caramore ha deciso di terminare la sua collaborazione con Avvenire.
"Oh Signore, dai a ciascuno la propria morte, ma una morte che sia davvero una morte...". Questa era la struggente invocazione di Rainer Maria Rilke, in uno dei suoi sonetti più celebrati e più rivelatori, insieme, di una visione delle malattie della modernità e della speranza di rinvenire comunque, in essa, qualcosa che sia antidoto al disfacimento. Una supplica che per noi oggi ha il sapore come di un sogno antico: chi di noi può pensare davvero di andare incontro a una morte che sia "davvero" una morte, e cioè a un momento di congedo che sia una ricapitolazione di senso, un meditato distacco dagli affetti, una delega di eredità di ciò che in una vita abbiamo, eventualmente, costruito? Oggi le nostre vite sembrano, per lo più, composizioni casuali di disgregati frammenti, e le prefigurazioni della morte non possono che rifletterne, come in uno specchio, il disordine e la vanità, il silenzio e il vuoto. Il timore di ciascuno è, per questo, credo, di andare incontro a un precipitare buio dentro la morte, nella privazione di ogni coscienza, in balìa di decisioni altrui, che ci potrebbero far trascorrere mesi o anni della nostra esistenza biologica in sofferenze non lenibili, o in stati prolungati di incoscienza o di demenza. Ed è perciò che accade di sentire sempre più spesso persone che auspicano, per sé e per i propri cari, una morte "rapida e improvvisa", come se soltanto un trapasso di cui non ci si rende nemmeno conto possa essere "davvero una morte".
Credo che il dibattito intorno al testamento biologico, che, se non erro, dovrebbe essere in discussione alle Camere proprio in questi giorni, abbia come sua radice profonda un’esigenza che andrebbe presa in seria considerazione e salvaguardata il più possibile, cioè quella di tentare di dare di nuovo un senso al momento finale della propria vita, affidato non soltanto all’artificio della tecnica, capace di prolungare l’esistenza biologica al di là di ogni umana sopportazione, o al di là di ogni ragionevole parvenza di esistenza umana, ma anche - come accadeva un tempo, nello spegnimento dei vecchi quando arrivava il momento della "sazietà" dei giorni - al desiderio, se lo si può chiamare così, di separarsi finalmente da una vita che non si può più chiamare tale, in virtù di una sofferenza che cancella ogni sensazione, ogni affetto, ogni pensiero, o di un azzeramento totale di ogni funzione umana. Come ha detto Ignazio Marino, un medico di cui più volte abbiamo avuto modo, credo, di saggiare la delicatezza intelligente nei confronti dei pazienti e la ragionevolezza nell’approccio ai temi sollevati dalla medicina in relazione all’etica comune, e oggi Presidente della Commissione Sanità al Senato, "come medico, so bene quale dramma possa comportare l’assenza di un testamento biologico di un paziente per i familiari, ma anche per i medici curanti, che oggi in Italia rischiano l’accusa di omicidio volontario se decidono di sospendere le terapie ad un malato il cui corpo è stato ormai abbandonato dalla vita".
Non si tratta, è ovvio, di voler cancellare dall’orizzonte dell’umano la sofferenza, sia fisica che mentale, o la debolezza del corpo e della psiche, che non solo fanno parte della condizione di noi creature, ma che sono la pasta in cui, dolorosamente ma inevitabilmente, lievita la nostra statura umana. Si tratta proprio del contrario. Non lasciare il patimento dei corpi e dei cuori privato di un orizzonte di senso, non permettere che l’esperienza dello spegnimento di quella straordinaria e irripetibile avventura che è ogni esistenza umana rimanga nuda di uno sguardo compassionevole che l’accompagni.
Certo, non tutto è semplice, e comporta responsabilità gravi tracciare delle linee di comportamento buone per ogni situazione specifica, perché nulla è lineare nelle nostre intricate biografie. A volte, nella morte come nella vita, è inevitabile assumersi il rischio di decisioni dure. Per questo è così arduo - ma non impossibile - tracciare delle leggi che possano rispondere agli infiniti "gesti" che ogni morte mette in scena. Per questo andrebbe, in questa come in altre delicate materie, elaborato qualcosa che assomigli a un "diritto mite" (Gustavo Zagrebelsky), un diritto che tuteli la dignità di ciascun essere, senza nulla imporre e senza nulla impedire. Parlare di "libertà", nella scelta di morire, non dovrebbe sembrare a nessuno una difesa arrogante del disprezzo della vita indebolita. Ma un atto d’amore per un’esistenza che ci è stata data, affinché, anche nel momento estremo, almeno in un barlume di coscienza, rimaniamo "immagine e somiglianza" di chi ce l’ha donata.
9 luglio 2006
Gabriella Caramore
* Curatrice e conduttrice di programmi radiofonici, tra cui, dal 1993, "Uomini e profeti", programma di cultura religiosa, in onda su Radio Tre
Da Agenzia ADISTA N.69 del 07-10-2006
www.ildialogo.org, Martedì, 3 ottobre 2006
Il leader radicale torna sul caso del malato terminale: "Se questa fosse la volontà di Piergiorgio, lo farei"
Eutanasia, la provocazione di Pannella: "Pronto a staccare la spina a Welby" *
ROMA - Se Piergiorgio Welby dovesse decidere di farsi staccare la spina, Marco Pannella sarebbe pronto a farlo materialmente. E’ la disponibilità dichiarata oggi dal leader radicale ed alla quale si associa anche Marco Cappato dell’associazione Luca Coscioni di cui Welby è co-presidente.
"Se Piero decidesse di procedere verso ciò che la sua etica gli chiede - ha affermato Pannella oggi alla Camera in una conferenza stampa per la presentazione di due proposte di legge della Rosa del Pugno sui temi dell’eutanasia e del testamento biologico - sarò immediatamente pronto a compiere tale atto, che è un atto di rispetto della vita e dei principi di civiltà che sono oggi negati da un potere talebano e da chi occupa il Vaticano".
Pannella è tornato dunque ad affrontare il tema spinosissimo dell’eutanasia rilanciato, giorni fa, dal video appello di Piergiorgio Welby - malato terminale - al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato aveva inviato una lunga lettera di risposta a Welby auspicando un dibattito "approfondito" sulla materia. Attualmente, in commissione Sanità al Senato, sono in discussione una serie di proposte di legge - delle diverse forze politiche - che affrontano soprattutto il tema del testamento biologico. (2 ottobre 2006)
*
www.repubblica.it, 02.10.2006
In attesa della sentenza del tribunale, parla il segretario Rita Bernardini. "Quando Piergiorgio ce lo chiederà, compiremo l’atto di disobbedienza"
Radicali: "Staccheremo la spina a Welby" Il Papa: "Curare i malati terminali"
Bertinotti: "Sì a una ricognizione in Parlamento sul tema dell’eutanasia" *
ROMA - Mentre si aspetta la sentenza del Tribunale di Roma, che ieri ha deciso di prendere ancora un po’ di tempo prima di deliberare sul caso di Piergiorgio Welby, il Papa scende in campo sul tema dei malati terminali: "Vanno curati e non abbandonati". Sulla sponda opposta, anche oggi i radicali si dicono pronti all’azione di disobbedienza civile più volte annunciata: quella di staccare la spina, ’’in qualsiasi momento" il protagonista della vicenda lo decida. E sul caso interviene anche Fausto Bertinotti, che si esprime a favore di una "ricognizione" parlamentare sul tema dell’eutanasia.
Le parole di Benedetto XVI. In un messaggio preparato per la Giornata mondiale del malato, che si terrà l’11 febbraio prossimo, il Pontefice scrive: "La Chiesa sostiene il malato incurabile e terminale, chiedendo politiche sociali giuste che aiutino ad eliminare le cause di molte malattie e richiamando una sempre maggiore attenzione per il morente e per quei malati per i quali che non ci sono cure disponibili". "C’è bisogno - prosegue il Papa - di promuovere politiche che creino le condizioni nelle quali gli esseri umani possano sopportare degnamente malattie incurabili ed anche la morte". Infine, Benedetto XVI esorta "i cari fratelli e sorelle sofferenti a contemplare le sofferenze di Cristo: la Chiesa è al vostro fianco, aiutandovi nell’ora del bisogno".
La sfida dei radicali. A parlare, questa mattina, è il segretario del movimento Rita Bernardini: "Ogni momento è buono per la decisione - dichiara - perché non vogliamo renderci complici della tortura cui Piergiorgio è sottoposto, e che lui stesso definisce come tale. Come in ogni azione di disobbedienza civile, abbiamo predisposto tutto. Nel momento in cui Piergiorgio stabilirà che è giunto il momento, al di là di ogni pronunciamento interverremo’’.
Le condizioni del paziente. Rita Bernardini racconta che ’’la moglie che lo assiste 24 ore su 24 è costretta a spostare in continuazione la cannula respiratoria che gli fa molto male per trovare posizioni diverse che gli diano un po’ di sollievo". "Il foro della cannula si sta restringendo - continua - gli induce crisi respiratorie ma non so se vorrà che gliela cambino’’.
Bertinotti sull’eutanasia. Il presidente della Camera oggi dichiara: "Raccolgo la sollecitazione che è venuta dai firmatari dell’appello, primo firmatario Welby stesso, e anche la sollecitazione arrivata da parecchi parlamentari perché si proceda ad una ricognizione sulla condizione reale dello stato del Paese rispetto a questo tipo di fenomeni. Lo trasmetterò alla commissione con una sottolineatura del valore etico della sollecitazione che viene proposta".
Il Consiglio superiore di Sanità. Su questo caso così delicato, e in generale sul tema dello ’staccare la spina’, interviene oggi anche il presidente del Consiglio, Franco Cuccurullo: "La riunione della nostra assemblea sarà tra il 19 e il 22 dicembre. Quindi il nostro parere sarà formalizzato sicuramente prima di Natale". "Rimane comunque difficile - prosegue - individuare una regola generale univoca, perché ogni caso è diverso dall’altro. Ci può essere un indirizzo, ma rimangono le specificità di casi clinici e pazienti".
Famiglia cristiana: "Sarebbe eutanasia". Per il settimanale cattolico, "la domanda di sospendere tutte le cure, comprese quelle ordinarie, è oggettivamente una domanda di eutanasia". Al caso Welby "Famiglia cristiana" dedica una nota a firma del teologo Luigi Lorenzetti. "Il ricorso alla ventilazione e alimentazioni artificiali è terapia straordinaria?", si chiede l’articolo. Pur ammettendo che è "saggio e prudente verificare se i trattamenti medici ai quali il malato è sottoposto, rientrano o no nell’ambito di forme di accanimento terapeutico".
* la Repubblica, 13 dicembre 2006.
L’esclusiva del Vaticano
di Filippo Gentiloni (www.ilmanifesto.it, 26.09.2006)
Ma perché, secondo alcuni, di eutanasia non si dovrebbe neppure parlare? Così, infatti, stanno reagendo non pochi - politici e non - dopo l’appello lanciato dal presidente della repubblica Napolitano in risposta alla lettera di Piergiorgio Welby, malato di distrofia muscolare. Vale pena di riflettere sulle loro «ragioni». In primo piano c’è una radicata convinzione cattolica: la fascia di terreno - di tempo - fra la vita e la non vita sarebbe di esclusiva proprietà cattolica. Così per la nascita, così per la morte. Una fascia di tempo che è stretta e corta dal punto di vista della sua durata, ma essenziale: vi si gioca davvero tutto. La chiesa ne vuole mantenere una sorta di proprietà esclusiva, sapendo bene che chi domina quelle strette fasce di tempo, domina tutta la vita. Perciò la condanna assoluta dell’eutanasia: considerata una sorta di «ingerenza laica» su quella che sarebbe la soglia della vita, la porta dell’al di là.
Ma anche una certa cultura laica si unisce a quella cattolica. La cultura per la quale la vita è qualche cosa di meccanico, per non dire di materiale. Un movimento di qualche arto, un respiro. Un «io» isolato da tutto e da tutti. La vita prescinderebbe da tutto ciò che, invece, non soltanto la arricchisce ma la fa essere davvero tale: relazioni, rapporti, affetti, parole, sguardi. La vita sarebbe così affidata a qualche macchina, chiamata a farla continuare. Sopravvivere: vivere al di là, cioè, della vita vera.
Per tutti costoro, laici e cattolici, niente eutanasia: sarebbe sufficiente a ogni bisogno l’ormai famoso «testamento biologico» di cui si parla tanto, una dichiarazione destinata ad evitare quell’accanimento terapeutico che tutti detestano e che vorrebbero escludere per sé e per gli altri, ma i cui confini sono difficili da definire da lontano, quando si è ancora sani.
E’ vero che anche l’eutanasia non ha confini facili. E’ ben vero che chi vuol escludere vecchi e malati dalle cure e così liberare più in fretta qualche letto di ospedale potrebbe domani servirsi di una legge permissiva. Perciò è necessario discutere ogni aspetto di una situazione che ci riguarda tutti, da vicino o da lontano: non si può né ignorarla né delegarla a qualche autorità competente.
Della riflessione sulla vita fa parte essenziale anche quella sulla morte. Mia e degli altri. I più direttamente interessati sono i medici, ma non è giusto lasciare la morte - meglio: il morire - esclusivamente nelle loro mani. La morte si prepara contribuendo, giorno per giorno, alla bellezza e ricchezza della vita, quella vita vera che la malattia, quando è inguaribile, porta via.
Con la minore sofferenza possibile: anche la lotta al dolore fa parte essenziale della vita. E alla lotta contro il dolore il dibattito sull’eutanasia può dare un contributo essenziale, positivo. Forse insostituibile.
Beppino Englaro, padre di Eluana in coma da 12 anni: «Valga la volontà della famiglia»
di Maristella Iervasi*
Cinquemila 366 giorni. 12 anni, 8 mesi e 9 giorni di battaglia. A Eluana Englaro in stato vegetativo permanente servirebbe una legge sul testamento biologico? Beppino, il suo papà, è fiducioso. «Bisogna che la volontà del malato espresse in casa - sottolinea il genitore al telefono - siano equiparate al consenso scritto».
Cosa chiede da 14 anni per voce di Eluana?
«Non chiedo l’eutanasia ma una richiesta di rifiuto delle cure. Mia figlia giace in una clinica di Lecco da quando ventenne ebbe un incidente stradale: la sua auto si schiantò contro un muro e poi contro un palo. Fin da subito non ci furono e non ci sono tutt’ora divergenze cliniche: mia figlia è in stato vegetativo permanente, non ha stimoli di fame e di sete. Viene alimentata forzatamente con un sondino nasogastrico. Chiedo per voce di Eluana che possa morire in pace. E invece è prigioniera del giuramento di Ippocrate e dell’ordinamento giuridico».
Ora, dopo il caso Welby si profila in Parlamento un accordo sul testamento biologico. Basterebbe?
«I pazienti in stato vegetativo permanente necessitano - oltre all’alimentazione e all’idratazione forzata - di diversi altri supporti terapeutici per mantenerli liberi da embolie polmonari, da decubiti e da alterazioni metaboliche. Queste tre cose sono anche dentro un progetto di legge a firma Ignazio Marino. Lo spirito era affrontare questo problema, lasciando flessibilità per tutte le situazioni come quelle di Eluana. Serve proprio la concretezza di persone fuori da carri politici e voti. E Ignazio Marino e Umberto Veronesi lo sono.
Marino ora è presidente della Commissione Sanità del Senato...
«Sul caso Welby ha già parlato il Capo dello Stato Napolitano, ora tocca a Marino».
Ha fiducia?
«Marino è un uomo di scienza al servizio della politica. Ho proprio davanti a me la sua proposta di legge, dove si può capire che siamo indietro di 30 anni rispetto agli Usa. Bisogna confrontarsi su queste cose, parliamo di scienza. E le libertà fondamentali di una persona devono essere svincolate da ideologie politiche o confessionali».
Sua figlia non ha lasciato nulla di scritto.
«Sono io il suo portavoce. Lei sapeva cos’era cos’era la rianimazione ad oltranza. Un suo amico, Alessandro, entrò in coma nella stessa rianimazione dove capitò a Eluano un’anno dopo e un giorno. Lei, ogni volta che andava a trovarlo in ospedale tornava a casa sconvolta. Ci diceva sempre: "Quella non è vita. Non è dignità. Non ha senso tenerlo così. Se capitasse a me fatemi morire in pace". E invece le volontà di Eluana vengono ignorate da medici e giudici».
* www.unita.it, Pubblicato il: 27.09.06 Modificato il: 27.09.06 alle ore 9.52
Lozano Barragan, ministro della Salute vaticano: "Noi sempre per la vita". MA CHI NON E’ SEMPRE PER LA VITA?!: EVITIAMO LE CROCIATE, E AFFRONTIAMO IL PROBLEMA - CON IL DIALOGO, NON CON I MONO-LOGHI DI MESSA A MORTE (DELL’ALTRO)!!!
Si accende la discussione dopo la lettera di Welby a Napolitano. Lozano Barragan, ministro della Salute vaticano: "Noi sempre per la vita"
Eutanasia, interviene il cardinale: "Per la Chiesa è un percorso di morte"
(www.repubblica.it, 25.09.2006)
CITTA’ DEL VATICANO - Si accende il dibattito dopo la lettera sul diritto all’eutanasia di Piergiorgio Welby al capo dello Stato. La discussione, trasversale agli schieramenti, si sposta in Parlamento dove si accelera l’iter dei numerosi disegni di legge giacenti.
Per la Chiesa, la posizione resta sempre la stessa: "L’eutanasia è e resta un percorso di morte" dice il cardinale Javier Lozano Barragan, ministro della Salute vaticano. Il prelato ribadisce che la Chiesa "è sempre per la vita" e, dunque, contro ogni ipotesi di dolce morte sia attiva che passiva. "Spetta ai parlamentari cattolici essere coerenti ed esprimere il pensiero cattolico dentro i Parlamenti, secondo le regole e le procedure democratiche".
Sul delicatissimo tema parla anche il vicepresidente della Camera, Pierluigi Castagnetti (Margherita): "La discussione si sviluppa su due presupposti assolutamente discutibili: che siamo di fronte a una nuova divisione laici-cattolici e che non si possa ignorare l’orientamento favorevole all’eutanasia della maggioranza degli italiani (almeno secondo i sondaggi)". "Contesto il primo assunto", dice Castagnetti. "Non è necessario essere cattolici per affermare la sacralità della vita e dunque la sua indisponibilità per chiunque a partire dal soggetto titolare sino ai medici e ancor meno lo Stato. E’ questo un principio laico illuminato dalla fede ma non necessariamente verità trascendente la ragione. Nè può essere condivisa l’idea che la vita appartiene a chi la possiede e che debba essere tutelata la sua libera determinazione al riguardo. In questo modo si arriverebbe non solo alla legittimazione di ogni forma di eutanasia anche in assenza di presupposti apparentemente oggettivi (sempre di impossibile definizione per via legislativa) ma anche alla legittimazione morale del suicidio".
E il ministro dell’Università e Ricerca, Fabio Mussi invita a riflettere sui "limiti": "Siamo continuamente alle prese con problemi creati dalla tecnica, non dalla natura - dice - la tecnica consente di salvare un’enorme quantità di vite che non avevano speranza; la tecnica consente di prolungare il dolore oltre ogni immaginazione. L’interrogativo sul limite, su quanto è nel potere della società e quanto nelle mani della persona, è ineludibile. Evitiamo crociate - ha concluso Mussi - ma affrontiamo il tema".
(25 settembre 2006)
EUTANASIA Protestanti italiani: il paese deve raccogliere l’invito al dibattito sull’eutanasia lanciato dal presidente Napolitano.
di Agenzia NEV del 25-9-2006 *
Gianni Long, presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia: “E’ un tema delicato e difficile, che impone un confronto parlamentare serio, laico, ed attento al pluralismo della società italiana”.
Roma, 25 settembre 2006 (NEV-CS72) - “Non ho dubbi. Il Parlamento, il paese e le comunità di fede devono raccogliere l’invito del Presidente Napolitano a riflettere sul tema dell’eutanasia”. Lo afferma il presidente della Federazione delle chiese evangeliche in Italia (FCEI), Gianni Long che ha proseguito: “Come cristiani che credono nel dono divino della vita avvertiamo la delicatezza del problema e ci confrontiamo con diverse sensibilità teologiche e pastorali. Tuttavia come evangelici italiani siamo uniti nella convinzione che il problema debba essere affrontato in sede pubblica, con serietà e attenzione alle diverse posizioni, nel rispetto della laicità e del pluralismo culturale e religioso della società italiana. I protestanti italiani intendono contribuire con convinzione a un dibattito di così alto rilievo etico e politico”. Così i protestanti italiani intendono inserirsi nel dibattito sull’eutanasia rilanciato dopo l’appello di Piergiorgio Welby al presidente della Repubblica per poter ottenere il diritto a morire. Affetto da distrofia muscolare progressiva Welby, che è anche vicepresidente dell’associazione "Luca Coscioni", è in vita solo grazie all’aiuto delle macchine. Il presidente Napolitano ha auspicato l’apertura di un dibattito sull’argomento, ma l’atteggiamento da parte di numerose forze politiche rischia di troncare subito la discussione. Il presidente della camera Fausto Bertinotti ha chiesto di non fare cadere nel vuoto l’invito del Capo dello Stato. In ambito protestante, l’Agenzia NEV ha raccolto una serie di commenti. Ermanno Genre, teologo protestante e docente alla Facoltà valdese di teologia ha affermato: “L’invito del presidente della Repubblica e del presidente della camera a discutere della questione eutanasia è il meno che si possa fare. Discutere non vuol dire che si debba prendere ora una decisione pro o contro l’eutanasia, ma assumersi responsabilmente il problema posto e non eluderlo. La questione non è di dire sì o no ad una legge ma cercare delle risposte concrete che rispettino la dignità della persona. Nessuna legge dello stato e nessuna morale religiosa potranno mai sostituirsi alla decisione di una singola persona che viene a trovarsi nelle condizioni di Welby e di altri come lui”. Il pastore Salvatore Rapisarda, vicepresidente dell’Unione cristiana evangelica battista in Italia (UCEBI), si è detto favorevole alla discussione, “purché non si tratti del solito dibattito fra sordi. Il dialogo è utile solo se le persone coinvolte sono d’accordo nell’arrivare ad una posizione nuova”. il pastore Holger Milkau, decano della Chiesa evangelica luterana in Italia (CELI), quello sull’eutanasia è “un dibattito molto difficile, ma non impossibile, e senz’altro auspicabile”, anche se il Sinodo della CELI di qualche anno fa ha espresso la sua contrarietà a decidere sulla vita delle persone, considerata dono divino. Quanto agli avventisti la loro Conferenza generale ha formalmente accettato la possibilità dell’eutanasia passiva, rifiutando quella attiva. Lo assicura Dora Bognandi dell’Unione italiana delle chiese cristiane avventiste in Italia (UICCA), che accoglie favorevolmente l’invito del presidente della Repubblica.
Articolo tratto da NEV - Notizie Evangeliche Servizio stampa della Federazione delle chiese evangeliche in Italia via Firenze 38, 00184 Roma, Italia tel. 064825120/06483768, fax 064828728, e-mail: nev@fcei.it sito web: http://www.fcei.it
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www.ildialogo.org, Lunedì, 25 settembre 2006
EUTANASIA E COMPASSIONE
Il colpo di grazia
di Guido Ceronetti *
Da che l’uomo civilizzato esiste, l’eutanasia esiste. Il problema eutanasia, da che sappiamo di essere mortali, esiste. Non potendo sfuggire alla morte, vittoriosa sempre, ci sforziamo di farla meno cattiva che si può. In guerra e nelle esecuzioni capitali il suo nome è colpo di grazia, invenzione tra le più umane. Nella postmoderna attualità bioetica, quando si dice eutanasia si evocano incroci di frontiere del diritto e del pensiero, che bruciano. Qualcosa è cambiato.
La crudele novità propria del tempo, del mondo come oggi è e diviene, è nello stretto rapporto tra i progressi della medicina, l’allungamento della vecchiaia, lo stress esistenziale e modi di morire sempre meno naturali ed in ambienti improprii: l’ospedale, dove per lo più oggi si muore, non è un luogo per morire. La casa lo era, lo è. La camera da letto lo è. In ospedale ci sono tanti viventi-male, nessuno è un vero morente. Moriamo sì, ma da falsi morenti, tra macchinari e tecnici. E dove non c’è vero morire, l’eutanasia è un rimedio falso, pur rappresentando una possibilità di scampo dal dolore e dall’assurdità mostruosa di un coma senza fine, di una fisiologia separata dal corpo sofferente. Qui compare un dolore nuovo: il dolore del pensiero costretto ad accettare la non-verità medica che riempie ospedali e ospizi, trionfalmente, di non-vite, e quindi, necessariamente accogliere come vero il falso rimedio dell’eutanasia ministrata dalla stessa non-verità medica in cui siamo immersi. Con l’unica consolazione filosofica superstite: che in qualche modo e qualunque cosa facciamo, il tragico fondamentale della vita VIVE, porta di salvezza e schiarita sul dolore. Ma tu, uomo semplice, donna pratica, amico preoccupato, vuoi sapere se, caduto in qualche seggio di legislatore, voterei sì o no all’introduzione di questa falsa Buonamorte di cui si discute e che mi trova diffidente, oltre che pensieroso: ebbene posso dire che voterei sì, non per progressismo idiota, ma per pura e rigorosa compassione umana, che per me sopravanza ogni altra motivazione possibile.
Motivato e così motivabile il mio sì di cauto legislatore vale in quanto opportunità e bisogno sociale del presente. Lascio fuori dall’uscio ogni legittimazione ideologica. Il colpo di grazia farmacologico, se ha (e ce l’ha) un futuro, è un futuro di generalizzata fuga dalla vita: la nostra capacità di sopportazione del dolore psichico e di quello fisico, dell’infelicità e delle frustrazioni di un’esistenza che si autodistrugge tra lavoro-dovere familiare-pensionamento, e di sopportare anche l’immane sforzo di una determinazione suicida, si va sempre più riducendo, e la stessa pletora di divertimenti e di consumi di amori indolori ne è un sintomo. L’eutanasia stessa sarà scelta di consumatore. Già oggi, per chi può muoversi, è un semplice viaggio all’estero di sola andata. Il genere di vita che ha ormai consolidato il predominio tecnico è contrario alla natura e all’istinto umano, e in questa enigmatica prigione tutta l’esistenza esteriore e buona parte dell’interiore (leggi anima e lascia lo scandalo agli imbecilli) si fanno sviluppo economico, processi di meccanizzazione costrittiva, che culminano in una specie di sinistra «innovazione tecnologica» della morte. Seguitando a invecchiare, e coetanei e amici intelligenti a rarificarsi, mi domando: troverò ancora qualcuno con cui scambiare pensiero realmente libero, non emanato dal Dio Nulla - che poco meno di due secoli fa Georg Büchner qualificava come Dio nascente - un pensiero davvero vivo, senza barriere di terra e cielo? E della morte con chi parlare? Bisognerà surrogare ogni voce umana con parole di libro?
L’eutanasia è un rimedio: disumano rifiutarla a chi la richiede. Ma, ripeto, affidata al potere tecnocratico, fonte unica della sua legittimazione, questa morte buona è un rimedio falso, messo in coda nell’universale patologia di una falsa e fuorviata vita. E un modello sociale diverso non siamo più in grado neppure di immaginarlo.
Thànatos, crudele amico. Con eu o senza eu, questo è il problema che, in Occidente, in ogni suo punto abitato, morde di più (e sempre di più) i vivi.
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www.lastampa.it, 04.10.2006
"Dio non è venuto a togliere la sofferenza, non è venuto a spiegarla, ma è venuto a riempirla della sua presenza"
Paul Claudel
Messaggio del Pontefice letto in Vaticano. "La corsa al nucleare getta ombre minacciose sull’umanità". Appello a tutti i cristiani: "Siate strenui difensori della dignità della persona e dei diritti umani"
Il Papa: "Eutanasia e aborto sono attentati alla pace"
CITTA’ DEL VATICANO - Benedetto XVI denuncia "lo scempio" che nella nostra società si fa del "diritto alla vita". Nel messaggio per la Giornata mondiale della Pace, che si celebra il primo gennaio 2007, Papa Ratzinger parla con dolore delle morti silenziose "provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia". E si chiede: "Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace?"
Il testo, letto questa mattina in Vaticano dal cardinal Raffaele Martino e da monsignor Giampaolo Crepaldi, presidente e segretario del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, affronta diversi temi. Pensando in modo speciale ai bambini vittime di soprusi e violenze da parte di adulti senza scrupoli, il messaggio è stato titolato ’’La persona umana, cuore della pace’’.
I pericoli per la pace, dalle diseguaglianze sociali al terrorismo. "Se si pone la persona umana al centro del sistema sociale e dei rapporti culturali e religiosi si riesce più facilmente a garantire la pace che ora nel mondo è sottoposta a numerosi pericoli e sfide costituite dalla violazione dei diritti umani, dalle disuguaglianze sociali e di genere, dal terrorismo, dal pericolo nucleare, dagli attentati alla vita con la fame, l’aborto, l’eutanasia, la sperimentazione sugli embrioni, il degrado ecologico", scrive Benedetto XVI.
Libano, violato il diritto internazionale. Durante il recente conflitto che ha scosso il Libano del sud non è stato osservato l’obbligo di proteggere la popolazione civile e dunque è stato violato il diritto internazionale umanitario, denuncia il Papa nel suo messaggio, ricordando la necessità per gli stati di rispettare anche in caso di guerra il diritto internazionale umanitario.
Corsa al nucleare, ombre minacciose sull’umanità. "Purtroppo ombre minacciose continuano ad addensarsi all’orizzonte dell’umanità", dice ancora Benedetto XVI. Non cita mai apertamente l’Iran o la Corea del Nord ma le sue parole non possono che essere lette in questo contesto quando parla della corsa al nucleare da parte di alcune nazioni: "Suscita grande inquietudine" la "volontà, manifestata di recente da alcuni Stati, di dotarsi di armi nucleari". "Ne è risultato ulteriormente accentuato - si legge nel messaggio - il diffuso clima di incertezza e di paura per una possibile catastrofe atomica. Ciò riporta gli animi indietro nel tempo, alle ansie logoranti del periodo della cosiddetta guerra fredda".
Rispetto e intesa fra religioni e culture. Benedetto XVI propone poi il rispetto ’’della grammatica scritta nel cuore dell’uomo dal divino suo Creatore’’ in base alla quale è possibile trovare una base comune di intesa tra religioni e culture. Infatti, sostiene il Papa, ’’il riconoscimento e il rispetto della legge naturale costituiscono anche oggi la grande base per il dialogo tra i credenti delle diverse religioni e tra i credenti e gli stessi non credenti. E’ questo un grande punto di incontro e, quindi, un fondamentale presupposto per un’autentica pace’’.
E’ importante - rileva inoltre papa Ratzinger - questo convenire di culture, religioni e non credenti sul riconoscimento della legge naturale anche nei riguardi della persona umana, dal momento che persistono nel mondo concezioni riduttive dell’uomo che mettono in serio pericolo i suoi diritti fondamentali, non negoziabili e, quindi, la pace stessa.
Appello ai cristiani: difendete i diritti umani. Ogni cristiano sia "un infaticabile operatore di pace" oltre che uno "strenuo difensore della dignità della persona umana e dei suoi inalienabili diritti". Papa Ratzinger conclude il messaggio con un "pressante appello" al popolo di Dio. "Non venga quindi mai meno il contributo di ogni credente - scrive - alla promozione di un vero umanesimo integrale, secondo gli insegnamenti delle Lettere encicliche ’Populorum progressio’ e ’Sollicitudo rei socialis’, delle quali ci apprestiamo a celebrare proprio quest’anno il 40esimo e il 20esimo anniversario".
Come ogni anno, il testo e’ stato inviato a tutti i vescovi del mondo e sara’ recapitato dai nunzi a tutti i capi di Stato e di governo, accreditati presso il Vaticano, ma attraverso opportuni canali sarà fatto pervenire pure a quei paesi che non hanno relazioni diplomatiche con la S.Sede.
Distribuito in italiano, inglese, francese, spagnolo, portoghese, tedesco, il messaggio sarà tradotto in altre lingue dalle rispettive conferenze episcopali, e anche in arabo.
(la Repubblica, 12 dicembre 2006)