L’INTERVISTA.
L’ottantottenne cardinale parla del ruolo della Chiesa in Sicilia.
«La nostra missione
ci porta a essere schierati col popolo». «Il pizzo uccide l’economia».
E su don Pino Puglisi: «Non
faceva il poliziotto antimafia, ma la sua fede vissuta nel sociale era un affronto alla criminalità»
Pappalardo: col Vangelo sviluppo e lotta alla mafia
di ARIEL LEVI DI GUALDO (LA SICILIA, LUNEDÌ 22 MAGGIO 2006)
Nel 1981 Giovanni Paolo II si rivolse ai vescovi siciliani dicendo: «la struttura, o la cosiddetta mentalità mafiosa, crea misfatti nocivi al buon nome della Sicilia. Questa mentalità, protetta da omertà, pretende di fare a meno della Legge. So che la Chiesa locale ha sempre reagito cercando di aiutare i fedeli a maturare una coscienza etica».
Dopo un primo testo pubblicato nel 1952 la Conferenza Episcopale di Sicilia emanò un sunto dei precedenti atti nel 1994: «La Mafia fa parte del regno del peccato e fa dei suoi operatori operai del Maligno. Chi fa parte della Mafia è fuori dalla comunione ecclesiale».
Nell’ottobre 2005 il Metropolita di Messina, mons. Giovanni Marra, dichiara: «La Città è lasciata in mano alla mafia. Solo certi gruppi di potere possono portare voti, favorendo piccoli uomini e tenendo fuori le menti oneste".
Nel gennaio 2006 il Metropolita di Siracusa, mons. Giuseppe Costanzo, attacca il racket delle estorsioni e dichiara: "La condanna dei vescovi è ferma, ma la nostra rimane una missione socio-religiosa, il resto compete alla D.I.A».
Il tempo scorso non ha cancellato il manifesto della Curia Metropolitana di Siracusa, che da vari angoli recita sbiadito: «La Chiesa è con voi vittime del pizzo. Voi non siete soli a lottare!». Tutt’intorno una Terra dove piccolezza politica e accettazione del malaffare, uccidono spesso più crudeli della vecchia lupara.
Il Card. Salvatore Pappalardo, classe 1918, Arcivescovo Metropolita emerito di Palermo e protagonista di quest’intervista, è una figura che non richiede presentazioni.
Cardinale Salvatore Pappalardo |
Eminenza, il 15 gennaio di quest’anno l’arcivescovo di Siracusa definì "sanguisughe" i mafiosi in un manifesto di solidarietà alle vittime del pizzo che avevano affisso volantini anti-racket e ribadì la condanna della Chiesa alla mafia. Politici e leghe anti-racket non lo sostennero. Si possono eludere certi temi e poi lanciarsi accuse d’insensibilità sui problemi di mafia in campagna elettorale?
«Non avranno avuto la sensibilità di capire che si trattava di una condanna condivisibile. Non ci vedo malafede, solo superficialità. La nostra missione ci porta ad essere schierati col popolo che è nostro dovere servire, non carezzare all’occorrenza per poi tornare a deludere. Col popolo i vescovi sono abituati a condividere gioie e dolori, n’è prova quel manifesto di Mons. Giuseppe Costanzo».
Malgrado le recenti proteste a Palermo otto commercianti su dieci seguitano a pagare il pizzo. A quando il salto dal silenzio alle denunce?
«La Sicilia è fonte di ricchezza per tutto il Paese, che dal Mediterraneo potrebbe rilanciare l’economia nazionale. Il pizzo uccide l’economia e il mercato del lavoro. Chi impianterebbe imprese, sapendo che già prima di aprire busseranno alla porta gli estortori?»
Sei giovani siciliani su dieci lavorano in nero. In privato alcuni politici replicano: "Possiamo togliere ai giovani il lavoro che la piazza offre?". A chi produce occupazione così, ed a chi non applica la Legge perché troppo "sensibile" al problema della disoccupazione, che vorrebbe dire?
«L’illegalità genera illegalità, talora anziché combatterla si altera la realtà dando all’illecito una dignità salvifica. Lo sfruttamento si muta così nella perversa "bontà" del solo lavoro possibile. Dove arriverà in sviluppo un Paese in cui una gran fetta d’economia è sommersa? C’è poi un altro sommerso: quello della criminalità che produce anch’essa lavoro, consensi e favori da ricambiare. L’uomo non è uno strumento da sfruttare facendo leva sui suoi bisogni vitali, a partire dal lavoro, ma un patrimonio di dignità da rispettare e valorizzare. Un onesto lavoro dato, svolto e retribuito, genera una società etica e civile».
Alcuni amano citare il Card. Ruffini che disse: "La Mafia è un’invenzione dei comunisti". Perché la scomunica emanata nel 1994 dai Vescovi di Sicilia non estingue questa frase detta mezzo secolo fa da un vescovo appena giunto a Palermo da Mantova?
«A estrapolare sospiri da discorsi legati ad anni lontani chiunque finirebbe condannato. I Vescovi di Sicilia hanno emanato una scomunica contro gli autori di certi omicidi già nel 1952. Quando nel 1983 fu rivisto il Codice di Diritto Canonico, nella nota pastorale del 1994 replicammo che mafiosi e collusi dovevano ritenersi fuori dalla comunione della Chiesa. Senza mutar sostanza usammo un lessico più adeguato per ribadire una scomunica latæ sententiæ che opera in capo ai mafiosi ed a chi ne favorisce traffici e crimini. La lotta alla Mafia, la Chiesa deve farla con l’amore del Vangelo, senza i proclami oggi tanto di moda».
Altri accusano che Don Pino Puglisi fu ucciso "perché lasciato solo dalla Chiesa nella lotta contro la Mafia". Chi, meglio di lei, potrebbe smentirlo?
«Questa figura è stata spesso falsata. Don Pino faceva il suo dovere di parroco e di educatore in un quartiere dove si reclutava manovalanza mafiosa, non faceva il poliziotto antimafia. Il suo Vangelo vissuto nel sociale era un affronto alla criminalità. Quell’assassinio è stato anche un monito rivolto ai preti che svolgevano lo stesso lavoro in zone a rischio di Palermo, dove ancora operano.
Un’educatrice cattolica disse: "Ai giovani hanno rubato i sogni, resta da rubargli la vita". Nei salotti della politica siciliana ci si destreggia tra i delicati equilibri, nelle parrocchie si cerca di educare alla legalità giovani trascurati da chi è preso da delicati equilibri. La ricerca di consensi, potrebbe assopire la lotta a Cosa Nostra, alla quale bisognerebbe strappare la borsa di voti che ancora detiene?
«Non basta osservare la legalità, se il senso del dovere morale e della giustizia non forma prima le coscienze. Tutto passa per la rottura d’equilibri di collusione tra politica e Cosa Nostra, ma purtroppo è sempre diffusa un’ idea letale: "Se le cose non possono esser cambiate vanno lasciate come sono". Così si accetta che la politica sia stata scissa dall’etica, se non peggio fusa talora al malaffare. Per i cristiani, la rottura d’equilibri perversi, è in mano all’uomo sin da quando Dio ci ha donato il libero arbitrio».
È giusto continuare a far piovere pesci in questa Regione che per territorio e arte è la più ricca d’Italia, piuttosto che iniziare a fornire i siciliani di canne da pesca, strappandoli ad un serbatoio di voti che produce politici mediocri e manipolabili?
«I fondi piovuti nel tempo sono stati sprecati anche in modi assurdi, anche in opere illecite. In trentacinque anni di episcopato a Palermo ho lamentato spesso le devastazioni di un assistenzialismo che inibiva l’ingegno creativo dei cittadini e che li poneva in stato di asservita sudditanza. Questo ha rovinato la Sicilia, ed i frutti si vedono ancora. Spero che nessuno prosegua su questa falsariga».
Criticare un imam non è permesso, mentre si può usare la Santa Sede per il tiro al piccione. Invitare i rabbini a tacere farebbe urlare all’antisemita, mentre i vescovi sono esortati a tacere su temi che toccano nel vivo i cattolici. I preti dell’integralismo laico, giungeranno a togliervi il diritto di parola?
«Il termine "laico" usato oggi per indicare i non credenti, nasce dal lessico ecclesiale e indica i credenti che non sono ministri di culto. Magari ci fosse in Italia un sano laicismo capace a dibattere per lo sviluppo del Paese e la felicità dei cittadini! Pensiamo all’armonia della Costituzione, nata da uomini contrapposti per appartenenze politiche diverse, ma mossi da un fine comune: il bene dell’Italia e degli italiani. Il laicismo che oggi molti ostentano è una ricottura di vecchi vezzi non più proponibili. Non c’è bisogno d’agitare il laicismo contro una Chiesa che cerca solo d’aiutare lo Stato fornendogli buoni cittadini».
E i radicali anticlericali che hanno celebrato la presa di Porta Pia?
«La Chiesa li benedice! Papa Paolo VI disse che il 20 Settembre 1870 liberò il papato dalla zavorra dello Stato Pontificio, restituendo la Chiesa alla sua naturale missione pastorale. Basterebbe documentarsi, anziché fabbricarsi nemici, che peraltro ignorano d’esser tali».
La Casa del Grande Fratello e l’Isola dei Famosi non hanno ancora spento il cervello degli italiani, anche se siamo sulla buona strada. Molti ricordano le sue parole dal pulpito di Palermo, sotto il quale sono finite le bare dei servitori dello Stato. Oggi quale augurio rivolge agli italiani, in particolare a quelli di Sicilia?
«All’Italia auguro di rimanere unita, lasciando da parte certe idee federaliste che potrebbero creare altre divisioni e portare la ricchezza nazionale a infelici ripartizioni. Il nostro Paese ha costruito le cose migliori col tributo dei suoi cittadini meridionali, morti all’occorrenza per lasciare ai figli un’Italia libera e unita. Auguro ai siciliani di trovare in sé stessi la forza che non può cadere dall’alto. Basta dire che "manca lo Stato", lo Stato sono i cittadini. Se un boss come Provenzano è stato quarant’anni latitante, vuol dire che anziché volontà a isolare c’è un malcostume che protegge. Si ribellino e scendano in piazza a protestare affinché Cosa Nostra sia isolata, se vogliono sanno farlo».
Eminenza, grazie per l’intervista. Posso dire agli amici d’aver conosciuto un pezzo di storia d’Italia?
«Dica loro d’aver conosciuto un uomo che ha amato il popolo che Dio gli ha affidato ed un italiano che ogni giorno prega per l’Italia e gli italiani».
Ariel Levi di Gualdo, 2 Febbraio 2006
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MAFIA: LA CHIESA, L’ITALIA.... e W O ITALY. L’URLO DI KAROL J. WOJTYLA AD AGRIGENTO (1993)
ANNIVERSARIO
Napolitano: "Istituzioni sostengano i giudici"
Fini: "La memoria rafforza lotta contro la mafia"
Il presidente della Repubblica e della Camera alla commemorazione dell’uccisione avvenuta 28 anni fa del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo
ROMA - In occasione del ventottesimo anniversario dell’uccisione del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, della moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente Domenico Russo, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha sollecitato le istituzioni a sostenere magistrati e le forze dell’ordine che combattono le organizzazioni mafiose.
"Il ricordo del sacrificio del generale Dalla Chiesa", ha scritto in un messaggio inviato al prefetto di Palermo Giuseppe Caruso, è "ancora oggi preziosa occasione" per "rinnovare un convergente e deciso sostegno delle istituzioni repubblicane e della società civile all’attività di contrasto delle organizzazioni criminali svolta dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, al fine di contenerne la capacità di controllo del territorio e di infiltrazione nella economia, nazionale e internazionale".
"Servitore dello Stato di grande rigore civile e morale - si legge nel messaggio di Napolitano -, da alto ufficiale e da prefetto della Repubblica, il generale Dalla Chiesa pose costante impegno nell’azione di contrasto al terrorismo e alla mafia adottando metodi investigativi atti a fronteggiare efficacemente l’espandersi di fenomeni criminali che andavano segnando tragicamente il nostro Paese. Le sue capacità, il suo coraggio e la sua determinazione lo resero punto di riferimento della comunità nazionale, ma anche obiettivo della delinquenza mafiosa che ne eseguì l’omicidio con modalità spietate nell’intento di provocare un diffuso stato di intimidazione. La sua morte contribuì invece a far crescere un ancora più ampio e diffuso moto di indignata e consapevole difesa di quei valori di giustizia, democrazia e libertà per i quali egli si era battuto anche a costo della vita".
Alla commemorazione era presente anche il presidente della Camera, Gianfranco Fini, che in un messaggio inviato al prefetto di Palermo, Giuseppe Caruso, ha ribadito come "il tempo trascorso non possa scalfire il ricordo di questa straordinaria figura di servitore dello Stato, impegnato con coraggio e con profondo senso del dovere nella lotta al terrorismo e alla mafia, fino all’estremo sacrificio della vita".
"Dopo l’assassinio del generale Dalla Chiesa qualcuno scrisse su un cartello ’Qui finisce la speranza dei palermitani onesti’. Onorare la sua memoria - ha aggiunto Fini - significa innanzitutto dimostrare che quella speranza si è rafforzata grazie al lavoro risoluto e generoso di quanti sono intensamente impegnati nella lotta contro la criminalità organizzata. E’ soprattutto in questo impegno, testimonianza delle grandi energie di onestà e di passione civile del Paese, che si sublima il sentimento di coesione del popolo italiano contro il crimine organizzato, nemico della democrazia e della libertà, e la sua volontà di riaffermare con forza la dignità dello Stato attraverso la difesa dei valori della legalità e della giustizia. A lei, alle famiglie delle vittime di quel vile attentato e ai cittadini di Palermo - ha concluso - desidero esprimere, a nome di tutta la Camera, i miei sentimenti di intensa partecipazione".
* la Repubblica, 03 settembre 2010
Messaggio del capo dello Stato al prefetto di Palermo per il 27esimo anniversario
del "vile agguato" nel quale furono uccisi il generale, la moglie e l’agente di scorta
Napolitano ricorda Dalla Chiesa
"Vigilanza continua contro la mafia"
"Il Paese ricorda con immutata emozione la cieca violenza di quell’atto" *
ROMA - "Il sacrificio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e quello di tanti altri caduti per mano di mafia debbono restare vivi nella memoria di tutti e imporre alle istituzioni, alla società civile e alle nuove generazioni una continua vigilanza contro le persistenti forme di presenza e di infiltrazione della criminalità organizzata, non meno pericolose anche quando meno appariscenti". E’ il monito che lancia il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano nel messaggio inviato al prefetto di Palermo Giancarlo Trevisone, in occasione del ventisettesimo anniversario del "vile agguato" nel quale furono uccisi il prefetto generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.
Il capo dello Stato, "interpretando i sentimenti di tutti gli italiani e rinnovando il personale e sentito omaggio", sottolinea che "il Paese ricorda con immutata emozione la cieca violenza di quell’atto con il quale la mafia volle colpire un fedele servitore dello Stato, pronto a contrastarla con nuovi ed efficaci metodi investigativi e con il coinvolgimento e il sostegno dell’intera popolazione: così come aveva fatto negli anni precedenti quando, con determinazione e intelligenza, aveva combattuto la feroce aggressione terroristica".
Napolitano ricorda significativamente che "il barbaro attentato provocò un unanime moto di indignazione, cui seguì un più deciso e convergente impegno delle istituzioni e della società civile, che ha consentito di infliggere colpi sempre più duri alla criminalità mafiosa ed alla sua capacità di controllo del territorio. Le dolorose immagini di quella tragica sera - avverte - non debbono però essere dimenticate".
* la Repubblica, 3 settembre 2009
IL PROFILO
Già nunzio in Indonesia,ha guidato la Chiesa del capoluogo siciliano dal 1970 al maggio 1996
Voce coraggiosa nell’ora più difficile
Da Palermo Alessandra Turrisi (Avvenire, 12.12.2006)
Siciliano di nascita, il cardinale Salvatore Pappalardo seppe interpretare la voglia di riscatto di una regione che si è trovata a subire per decenni la violenza mafiosa, con decine di vittime eccellenti, fra cui il sacerdote don Giuseppe Puglisi.
Il cardinale Pappalardo nacque a Villafranca Sicula, in provincia di Agrigento, il 23 settembre 1918, figlio di un maresciallo dei carabinieri. Dopo la maturità classica, l’arcivescovo di Catania lo inviò nel Seminario romano maggiore. A Roma seguì i corsi di filosofia e teologia dell’Università Lateranense; qui fu ordinato sacerdote il 12 aprile 1941 da Luigi Traglia e incardinato nella diocesi di Catania. Giovane sacerdote entrò nella Pontificia Accademia ecclesiastica, seguendo contemporaneamente i corsi della facoltà Utriusque iuris della Lateranense, presso la quale si laureò in teologia. Nel 1947 fu chiamato in Segreteria di Stato, dove fu addetto alla sezione degli affari ecclesiastici straordinari, nella quale rimase fino al 1965.
Paolo VI lo nominò pro-nunzio apostolico in Indonesia il 7 dicembre 1965; venne consacrato vescovo il 16 gennaio 1966 dal cardinale Amleto Giovanni Cicognani. A Giacarta, dove rimase per quattro anni, visitò e sostenne l’opera dei missionari operanti nell’arcipelago indonesiano. Al suo rientro a Roma, nel 1969, fu incaricato della direzione della Pontificia accademia ecclesiastica.
Il 17 ottobre 1970 la nomina ad arcivescovo di Palermo, dove entrò solennemente il 6 dicembre successivo. Paolo VI lo creò cardinale il 5 marzo 1973. Da allora a oggi la sua storia è anche quella di Palermo. In questa terra «dedicò speciale attenzione alle innovazioni post conciliari e, particolarmente, al rinnovamento liturgico, alla promozione del laicato, alla pastorale degli emigranti, dando nuovo impulso alle organizzazioni sorte dalla base per il servizio e la pastorale fra gli emarginati» si legge nel rogito che verrà inserito all’interno della sua tomba.
Un’opera pastorale che si è intrecciata costantemente con la condanna della cultura e della violenza mafiose. Il cardinale Pappalardo provava un moto di ribellione quando i cronisti sintetizzavano il suo lungo episcopato solo con i suoi discorsi contro la mafia. Ma ammetteva che nei suoi 26 anni di episcopato alla guida della complessa diocesi di Palermo si trovò ad affrontare la sfida di una società colpita dalla stagione delle stragi.
Faceva molto caldo quel giorno di settembre del 1982, quando il cardinale Salvatore Pappalardo, durante l’ultimo saluto al prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e alla moglie Emanuela Setti Carraro, appena assassinati da Cosa Nostra, pronunciò l’omelia che divenne celebre: «Mentre a Roma si discute, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici». Era una denuncia forte contro l’assenza dello Stato in una Palermo insanguinata. Vennero altre morti: il cardinale Pappalardo fu costretto a seppellire uno dei suoi sacerdoti, don Giuseppe Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso da Cosa Nostra nel settembre del 1993. «Coloro che uccidono i propri fratelli sono cristiani ma traditori, sono cristiani ma disonorati in se stessi. La città di Palermo, la Chiesa di Palermo non si fermeranno, ma dal sangue sparso da altri cittadini e funzionari dello Stato, e ora da questo ministro della Chiesa, sapranno assumere nuova determinazione e nuovo vigore - disse nell’accorata omelia dei funerali -. Non si può combattere e sradicare la mafia se non è il popolo tutto che reagisce alla sua presenza e prepotenza».
Il cardinale Pappalardo non ha mai temuto di farsi voce dello smarrimento e dell’indignazione dei cittadini. In una recente intervista ad InformaCaritas (la rivista della Caritas palermitana), in occasione dei 40 anni di episcopato, chiariva: «Toccò alla Chiesa interpretare il risentimento, la paura, lo sdegno, l’appello ad una maggiore consapevolezza tanto della Chiesa quanto pure della società civile». Cercando, però, anche di non far passare l’equazione Palermo uguale mafia: «In occasione del maxiprocesso ho voluto, ad ogni costo, difendere Palermo dal rischio che venisse processata dinanzi all’opinione pubblica». In quel periodo, però, si prese coscienza che per la Chiesa «le azioni mafiose non sono solo crimini, ma peccati. E che la mafia costituisce un problema per la pastorale, che deve interessarsi della formazione dei fedeli. Bisogna parlarne nel senso che, se la gente capisce appieno il messaggio evangelico, capisce anche che la mafia è antievangelica».
Nell’83 il presidente Sandro Pertini lo nominò Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana per l’impegno profuso nell’azione sociale, soprattutto nella sollecitazione delle coscienze contro la criminalità mafiosa. Ricoprì la carica di presidente della Conferenza episcopale siciliana e di vicepresidente della Conferenza episcopale italiana. Fu il padrone di casa del Convegno delle Chiese d’Italia del 1995, che si tenne a Palermo. Pappalardo lasciò la guida della diocesi il 24 maggio 1996, ritirandosi nell’oasi di pace della casa diocesana di Baida.
Arcivescovo preveggente e illuminato
Pappalardo, una pastorale più ampia dell’antimafia
di Giuseppe Savagnone (Avvenire, 12.12.2006)
Un vescovo e il suo popolo: questa l’immagine che si impone, davanti all’ininterrotto flusso di gente che da ieri pomeriggio sfila per rendere il suo muto omaggio alla salma del cardinale Pappalardo. Un legame che sopravvive anche alla morte e che sarà custodito nella memoria non solo della comunità cristiana, ma dell’intera città di Palermo. Perché Salvatore Pappalardo non è stato soltanto la guida spirituale della sua diocesi: nell’immaginario collettivo dei palermitani ha costituito, in tempi difficili, il simbolo di una Chiesa capace di parlare il linguaggio degli uomini, per farsi portavoce di sentimenti e di esigenze condivisi non soltanto dalla comunità ecclesiale, ma da quella civile. È in questa luce che bisogna leggere anche le prese di posizione nei confronti della criminalità mafiosa. Si deve in larga misura al cardinale Pappalardo se la Chiesa palermitana ha preso definitivamente coscienza della gravità del fenomeno e ne ha messo in luce con tutta la chiarezza e la fermezza necessarie il carattere fondamentalmente antievangelico. Questo non significa che l’opera del cardinale si possa ridurre alla "lotta contro la mafia", come sbrigativamente è stato fatto dai mass media. Si guardi, per esempio, al documento con cui la Conferenza episcopale siciliana, sotto la guida del cardinale, prendeva spunto dal cinquantesimo anniversario dello Statuto speciale della Sicilia (1946-1996) per denunziare non solo le offese subite dal bene comune ad opera dei mafiosi, ma anche e soprattutto quelle dovute alle gravissime carenze e responsabilità dell’intera classe politica isolana.
In realtà, il cardinale Pappalardo teneva molto a sottolineare che il suo non era tanto un "combattere contro" qualcuno, quanto piuttosto lo sforzo di promuovere una cultura e una società diverse. Questa positività emerge chiaramente dalla sua attenzione alla cultura e alla dimensione missionaria. Quindici anni prima che il terzo convegno delle Chiese d’Italia lanciasse il Progetto culturale, il cardinale aveva già colto che proprio sul terreno della cultura si sarebbero giocate le sorti dell’evangelizzazione e aveva costituito un apposito Centro pastorale. Si deve a lui anche il sorgere, a livello regionale, della Facoltà teologica "S. Giovanni Evangelista" e, all’interno della diocesi palermitana, delle scuole teologiche di base, volte alla formazione intellettuale dei semplici fedeli.
Come si deve a lui l’iniziativa delle "missioni popolari", per cui il vangelo veniva portato al di fuori delle mura delle parrocchie, nelle case, nei condomini, ad opera di laici che testimoniavano la loro fede ad altri laici, anticipando di fatto quella "conversione missionaria della parrocchia" di cui si sarebbe parlato (e molte volte purtroppo solo parlato) molti anni dopo. Dove è evidente la piena fiducia che il cardinale Pappalardo ha sempre dato al laicato, valorizzandone le qualità e promuovendone effettivamente - e non solo a parole - la responsabilità. Un ultimo cenno merita il coordinamento regionale della pastorale, garantito, per suo impulso, da un’apposita Segreteria della Conferenza episcopale siciliana, che - senza intaccare l’autonomia delle singole diocesi - le ha aiutate a coordinare il loro impegno nei diversi settori della pastorale, promuovendo anche la celebrazione di quattro grandi convegni regionali. Limiti, errori, problemi irrisolti, in questa intensa attività, non sono evidentemente mancati. Le intuizioni e le iniziative precorritrici non sempre sono state seguite da una coerente attuazione. Alcuni progetti sono rimasti sulla carta. Critiche e polemiche hanno accompagnato alcune scelte. Su tutto questo la storia avrà modo di fare chiarezza, distinguendo le luci dalle ombre. Ma a noi rimane l’immagine di un vescovo che il suo popolo - al di là della distinzione tra credenti e non credenti - non dimenticherà.
Pappalardo, quel grido in cattedrale
di Nando Dalla Chiesa *
Un merito ebbe sopra ogni altro, Salvatore Pappalardo vescovo di Palermo. Di avere dato dignità alla chiesa siciliana. Perché certo nessuna dignità poteva riconoscersi a chi, incaricato di predicare il vangelo in una terra di ingiustizie e di violenze, chiudeva gli occhi con complice prudenza di fronte alla prepotenza mafiosa. Era andata avanti, quella prudenza complice, per decenni. Fino a diventare un classico del giornalismo d’inchiesta e della letteratura sulla mafia: la foto di gruppo - tra sepolcro imbiancato e abbraccio sudaticcio - di uomo d’onore, onorevole e uomo di chiesa.
na leggenda vera i funerali solenni assicurati ai boss, con processione compunta e salmodiante di tanti timorati di Dio dimentichi di ammazzamenti e ruberie. Una leggenda vera le chiese tirate su con i soldi del crimine, un’offerta volontaria del nostro fratello che ha dato lustro e tanto bene ha fatto a questo paese, moderna simonia che infestava le relazioni civili nelle comunità siciliane.
E il massimo esponente della chiesa palermitana, il cardinale Ruffini, che giurava che mai potesse esistere qualcosa chiamato mafia. E che se pur esisteva qualcosa di così impropriamente chiamato, esso era comunque benefico presidio di democrazia, rigorosamente attestato sulla trincea dell’anticomunismo. La funzione più cristiana dell’uomo di chiesa consisté di massima, per tutto quel tempo, nel celebrare la messa di commiato per la vittima di turno e nel consolarne i familiari, purché non pensassero insanamente di chiedere giustizia.
Ci furono delle eccezioni, naturalmente. E anche la prudenza si vestì di mille sfumature secondo l’umanità di chi portava la tonaca, quant’è vero che si può essere don Abbondio in tanti modi. Negli anni settanta il mondo ecclesiastico iniziò però a mostrare le sue prime impazienze. Tra Concilio e Sessantotto si aprirono spazi nuovi, nuovi modi di essere uomini di chiesa nell’isola di Salvo Lima e di Giovanni Gioia. A quegli anni risalgono anche i primi sforzi di elaborazione intellettuale condotti dai religiosi siciliani (di allora un intervento su sottosviluppo e mafia di un gesuita che anni dopo sarebbe stato conosciuto in tutta Italia, Ennio Pintacuda). Parroci più giovani iniziarono a porsi interrogativi scomodi su quale dovesse essere il loro ruolo in una terra di sangue e di diritti negati. Davvero dovevano limitarsi a «curare le anime», come reclamavano i perbenisti, o dovevano impegnarsi in un pubblico apostolato in difesa della dignità e dei diritti della persona?
Quei parroci trovarono un punto di riferimento in Salvatore Pappalardo vescovo di Palermo. Uomo prudente nel cambiamento, attento a non generare rotture, ma tutt’altro che complice. Anzi, assai deciso nello schierarsi accanto a chi, dall’interno delle istituzioni, cercava faticosamente di costruire in Sicilia il senso delle leggi e delle istituzioni. La sua azione, e l’idea che aveva della funzione della chiesa in Sicilia, divennero però un giorno dirompenti al di là della sua volontà. Sulla pura spinta dei fatti.
Accadde quando il prefetto Carlo Alberto dalla Chiesa venne mandato a Palermo con l’incarico di coordinare la lotta alla mafia. Era l’aprile del 1982. Il Prefetto e il Cardinale si erano conosciuti circa dieci anni prima, quando l’allora colonnello dalla Chiesa guidava la Legione Carabinieri di Palermo. Ne era nato un rapporto di stima e di fiducia reciproca. Quando tornò a Palermo il nuovo prefetto capì subito che dalle autorità politiche locali non poteva aspettarsi un grande aiuto. Il sindaco, Nello Martellucci, e il presidente della Regione, Mario D’Acquisto, erano entrambi di stretta osservanza andreottiana, appartenenti a quella che egli stesso aveva indicato per iscritto al presidente del Consiglio Spadolini come la «famiglia politica più inquinata del luogo».
Il prefetto si guardò intorno per cercare i suoi alleati. E guardò, tra gli altri, alla cattedrale, ai parroci, alla chiesa di base, ai gesuiti del liceo Gonzaga (quello in cui tenne il suo primo incontro con gli studenti), a padre Michele Stabile, ambasciatore del cardinale sui territori delle periferie. Per cento giorni infuriò un pubblico dibattito sull’opportunità di tenersi a Palermo il prefetto antimafia o disfarsene. La sera del 3 settembre il dibattito ebbe fine. Tali erano la colpa e la fretta di liberarsi dell’incomoda presenza che i funerali si tennero a San Domenico nemmeno diciotto ore dopo il delitto. E lì, mentre la gente di Palermo urlava la sua rabbia contro i politici e la sua disperazione per i destini della città, la voce del cardinale si levò forte e netta a rappresentarla tutta, quasi sostituendo lo Stato in ritirata. Vale la pena riascoltare oggi quelle parole che cambiarono il ruolo della chiesa in Sicilia e ne riscattarono in parte il passato: «Si sta sviluppando - e ne siamo tutti costernati spettatori - una catena di violenza e di vendette tanto più impressionanti perché, mentre così lente ed incerte appaiono le mosse e le decisioni di chi deve provvedere alla sicurezza e al bene di tutti, siano privati cittadini che funzionari ed autorità dello Stato medesimo, quanto mai decise invece, tempestive e scattanti sono le azioni di chi ha mente, volontà e braccio pronti per colpire». La gente ristette muta a quelle parole, mentre i filmati di allora testimoniano lo stupore infastidito che si andava imprimendo sui volti delle prime file governative. «Sovviene e si può applicare», continuò Pappalardo recitando il passo più celebre di quell’omelia, «una nota frase della letteratura latina, di Sallustio mi pare, nel De Bello Jugurtino: ’Dum Romae consulitur Saguntum expugnatur’; mentre a Roma si pensa sul da fare la città di Sagunto viene espugnata dai nemici! Povera la nostra Palermo! Come difenderla?». I filmati mostrano a questo punto il senso di liberazione esplosivo della folla. Un applauso salvifico, un urlo di giustizia. Nulla poteva cambiare quel che era accaduto. Ma fu come se, grazie a quelle parole, i cittadini palermitani avessero finalmente trovato una guida morale, il senso di sé e del coraggio civile nel buio delle istituzioni, simboleggiato mezz’ora dopo dalla fuga di Spadolini verso le auto blu sotto una pioggia di monetine.
Da lì trasse slancio un apostolato diverso, che irritò diverse parrocchie palermitane, alcune delle quali giunsero a disdire l’abbonamento a Famiglia Cristiana, troppo schierata su posizioni antimafiose. Da lì l’appoggio alla lista civica di una «Città per l’uomo», agli uomini del rinnovamento democristiano come Leoluca Orlando, la moltiplicazione di esperienze cattoliche di base, tra cui sarebbe poi giunta al sacrificio finale quella di padre Pino Puglisi nel quartiere del Brancaccio.
Né quello dei funerali a San Domenico fu l’unico momento cruciale in cui Pappalardo fu capace, nella sua prudenza, di parole e di gesti simbolici. Si ripeté, ad esempio, il 3 settembre dell’85, alla fiaccolata per il terzo anniversario del prefetto, che cadeva poche settimane dopo gli omicidi dei commissari Montana e Cassarà e dell’agente Antiochia e le infuocate polemiche che avevano coinvolto la polizia palermitana. Quando il corteo dei trentamila passò davanti alla cattedrale egli ne uscì e si mise alla testa dei «suoi» palermitani verso la questura ancora in lutto. Con lui se ne va un uomo che, pur nella sua veste religiosa, pur rappresentando la fede e non le leggi, ha contribuito a costruire la cultura civile degli italiani, a dare forza alle loro istituzioni.
* l’Unità, Pubblicato il: 11.12.06 Modificato il: 11.12.06 alle ore 10.00
CARD. PAPPALARDO, UNA VITA IN TRINCEA
PALERMO - Accanto a Papa Giovanni Paolo II nella valle dei templi quando il pontefice lanciò l’anatema ai mafiosi, "Convertitevi, convertitevi, un giorno verrà il giudizio di Dio!", chino sulla salma del parroco padre Pino Puglisi ucciso con un colpo di pistola alla testa dai mafiosi di Brancaccio, promotore dell’evento che vide nel capoluogo i delegati di tutte le chiese italiane, nel ’95.
Sempre in prima linea il cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo di Palermo dal ’70 al ’96 (3 anni dopo la scadenza naturale per anzianita’) morto nella casa diocesana di Baida, afflitto, a 88 anni, da un male incurabile, e scomparso in silenzio com’ era suo stile. Il card. Pappalardo ha lavorato per tutta la sua vita per la chiesa, per migliorarla a Palermo e in Sicilia, per avvicinarla di più alla gente.
Sarà comunque ricordato per quel dito alzato il 9 settembre 1982, nel pantheon di San Domenico davanti alle bare del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie, quando rivolto alla classe politica condannò un "sistema" che della mafia parlava tanto, ma nulla riusciva a fare per estirparla: così "mentre Roma discute... Sagunto è espugnata", disse citando Tito Livio ma attribuendo la frase a Sallustio, sbagliando come lui stesso poi disse sorridendo.
A Palermo, proveniente dalla direzione della Pontificia Accademia Ecclesiastica di Roma, Pappalardo era giunto come arcivescovo il 17 ottobre 1970. Siciliano dell’ agrigentino orientò la sua attività pastorale al riscatto di Palermo e della Sicilia.
E’ stato a volte accusato di non denunciare tutto ciò che non andava per il bene della gente ma non si può non ricordare che in realtà ha sempre sferzato, con toni pacati, sfuggendo ai riflettori, la classe politica come ogni 4 settembre, ricorrenza della patrona di Palermo, Santa Rosalia. L’ arcivescovo di Palermo ha invitato a superare "contrapposizioni e divisioni" spronando gli amministratori pubblici a dare risposte coerenti ai mali della Sicilia.
Anche durante il "riposo" dalla sua attività il card. Pappalardo è sempre stato presente sui fatti di attualità, sia che si trattasse dell’ arresto di Provenzano che dell’ occupazione della cattedrale da parte di cento ex detenuti che chiedevano lavoro, ha sempre espresso il suo parere lucido e forte di esperienza. E oggi la classe politica, da Destra a Sinistra, riconosce il possente lavoro pastorale da lui svolto tributandogli il giusto riconoscimento e abbracciandolo un’ ultima volta come la marea di palermitani che già in serata, appresa la triste notizia, è andata nella sala Filangieri del palazzo arcivescovile dov’é stata allestita la camera ardente.
E tra la gente in fila per un ultimo sguardo alla salma non è stato dimenticato il saluto di congedo del cardinale siciliano quando in Cattedrale disse rivolto ai suoi fedeli: "Mi rendo conto che di più e meglio avrei potuto fare per voi e spero che delle mie deficienze, così come mi avete sopportato, ora mi perdonerete".
ANSA » 2006-12-10 13:59
Aveva 88 anni. Fece scalpore la sua omelia al funerale di Dalla Chiesa. Leoluca Orlando: "Un esempio umano ed etico per tutti"
Palermo, è morto il cardinale Pappalardo simbolo della lotta contro la mafia *
PALERMO - Il cardinale Salvatore Pappalardo, 88 anni, arcivescovo emerito di Palermo, è morto oggi nell’oasi di Baida, dove risiedeva. Da sempre era impegnato in prima linea nella lotta alla mafia, contro la quale aveva scagliato più volte le proprie omelie. I suoi funerali saranno celebrati nella Cattedrale di Palermo dal cardinale De Giorgi. L’arcivescovo emerito di Palermo, nato a Villafranca Sicula, diocesi di Agrigento, il 23 settembre 1918, per le sue benemerenze nell’impegno sociale e nella lotta alla criminalità mafiosa, era stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana. Fece scalpore pronunciando, durante l’omelia al funerale di Carlo Alberto Dalla Chiesa, la frase di Tito Livio "mentre a Roma si discute, Sagunto viene espugnata".
Fu ordinato sacerdote il 12 aprile 1941 è incardinato alla diocesi di Catania. Nel 1947 fu chiamato in Segreteria di Stato dove fu Addetto alla sezione degli affari ecclesiastici straordinari, nella quale rimase fino al 1965. Negli stessi anni Pappalardo fu professore di diplomazia ecclesiastica nella Pontificia Accademia Ecclesiastica e di diritto nella Facoltà Lateranense, esercitando contemporaneamente il ministero sacerdotale nelle parrocchie romane di San Giovanni Battista dè Rossi e di Santa Lucia, dove si occupò in particolare modo delle organizzazioni giovanili cattoliche. Paolo VI lo nominò Pro-Nunzio apostolico in Indonesia il 7 dicembre 1965, assegnandogli la Chiesa titolare Arcivescovile di Mileto dove rimase per quattro anni. Il 17 ottobre 1970 fu nominato arcivescovo di Palermo, il 4 aprile ’96 divenne Arcivescovo emerito di Palermo.
"Il Cardinale Salvatore Pappalardo è stato per tanti un esempio umano ed etico. E’ stato, nel suo essere uomo di Chiesa e pastore di fede, un esempio di laicità, di attento rispetto per le istituzioni e di grande sensibilità ed attenzione nei rapporti fra Chiesa e Stato". Leoluca Orlando commenta con queste parole la morte dell’Arcivescovo emerito di Palermo, che da anni era anche componente dell’Istituto per il rinascimento siciliano, la fondazione nata dopo la fine dell’esperienza di Sindaco di Orlando.
"Il Cardinale Pappalardo - prosegue Orlando - è stato soprattutto il protagonista ed il motore di una stagione di grandi cambiamenti in Sicilia, avendo chiaramente indicato come un cammino di fede sia del tutto incompatibile con un comportamento di incertezza, di silenzio o peggio di connivenza con il sistema di potere mafioso e la sua cultura. Oggi - conclude - la Sicilia ha perso un uomo che fino all’ultimo è stato un punto di riferimento per tantissime cittadine e cittadini, per tanti credenti e non credenti".
Condoglianze anche da parte del capogruppo del Prc al Senato Giovanni Russo Spena: "Esprimo a nome di tutto il gruppo di Rifondazione al Senato profondo cordoglio per la morte di Salvatore Pappalardo, un uomo di chiesa che ha significato molto per tutti i siciliani impegnati a combattere la mafia".
* la Repubblica, 10 dicembre 2006.
CHIESA IN ITALIA
Intorno al tema dell’iniziazione cristiana la riflessione che nelle prossime settimane farà tappa nelle parrocchie «La formazione delle coscienze l’ambito d’azione privilegiato»
«Testimoni della fede col coraggio di Puglisi»
Nell’anniversario dell’uccisione del parroco freddato dalla mafia il cardinale Salvatore De Giorgi ha aperto l’anno pastorale dell’arcidiocesi di Palermo
Da Palermo Alessandra Turrisi (Avvenire, 16.09.2006)
«Testimone della speranza padre Puglisi lo è stato con l’insegnamento e con la vita, suggellata dalla testimonianza del sangue». La Chiesa di Palermo si avvicina al Convegno di Verona commemorando colui che più di tutti nella diocesi siciliana ha interpretato profondamente la chiamata alla testimonianza di Cristo senza compromessi. Si è aperta ieri nella cattedrale di Palermo l’assemblea pastorale diocesana, in coincidenza col tredicesimo anniversario dell’uccisione di don Giuseppe Puglisi, il parroco di Brancaccio divenuto scomodo a Cosa nostra. Un appuntamento che offre al cardinale Salvatore De Giorgi l’occasione per riaffermare le priorità pastorali in una realtà in cui si fa sempre più profonda «la frattura tra fede e vita» ed è sempre più urgente una spinta missionaria. Come quella che interpretò don Puglisi: «Coraggioso testimone della verità del Vangelo, sacerdote impegnato nell’annunciare il Vangelo e nell’invitare i fratelli a vivere onestamente, ad amare Dio e il prossimo, come fu definito da Giovanni Paolo II, noi lo ricordiamo ogni anno in questo giorno, dando inizio con la sua memoria al nuovo anno pastorale - spiega nell’omelia l’arcivescovo di Palermo -. Lo consideriamo presente in mezzo a noi, in questa assemblea diocesana, che coinvolge strutture e operatori pastorali come segno della comunione ecclesiale e della missione della Chiesa palermitana».
Un sacerdote che il popolo considera già un martire, anche se l’iter per la beatificazione è ancora in corso. «Il riconoscimento ufficiale da parte della Chiesa - aggiunge De Giorgi - sarebbe come la conferma ufficiale della grandezza morale e spirituale di un sacerdote fedele ed esemplare, autentico testimone di Gesù Cristo e annunciatore della speranza cristiana soprattutto in mezzo alle nuove generazioni. Ma sarebbe anche il sigillo della perenne attualità del suo messaggio, che con la voce del sangue invita tutti al coraggio, alla coerenza, alla fortezza, alla santa audacia nell’esercizio sia del ministero sacerdotale come di ogni altro servizio nella Chiesa. Per il trionfo delle forze del bene su tutte le aggressioni e le perversioni del male, soprattutto se, come quello mafioso, agisce da perversa struttura di peccato, antiumana e antievangelica, tanto più subdola e pericolosa quanto più si ammanta o si circonda di segni e di riferimenti religiosi».
Eppure sarebbe riduttivo parlare di don Puglisi come prete-antimafia. Lui combatteva Cosa nostra «con le armi proprie dell’azione pastorale - sottolinea l’arcivescovo -: la testimonianza personale di sacerdote secondo il cuore di Dio, la preghiera, l’evangelizzazione, la formazione e la mobilitazione delle coscienze, l’amore privilegiato per gli ultimi, la ferma denuncia del male, l’invito alla conversione del cuore, al cambiamento della mentalità e della vita, nel ritorno a Dio, che accoglie sempre i peccatori, anche i più criminali, quando ritornano a lui, riconoscendo il male commesso e riparando i danni inferti alla società. È stata questa la strategia pastorale di padre Puglisi. Ed è questa la strategia pastorale indicata con chiarezza dall’episcopato siciliano e da me costantemente ribadita. È così che si accende e si costruisce la speranza».
E la commemorazione del parroco di Brancaccio si intreccia col tema attuale del convegno di Verona. «Testimone della speranza - afferma l’arcivescovo - è colui che, attraverso la propria vita, cerca di lasciare trasparire la presenza di Colui che è la Speranza assoluta, ossia Cristo Risorto. È qui il cuore del tema di Verona, che si collega con quello della nostra assemblea diocesana: "Il cammino di iniziazione cristiana modello di riconversione pastorale". Le assemblee che si svolgeranno in questo mese nei Centri pastorali diocesani e nei Consigli pastorali parrocchiali, costituiscono momenti privilegiati di quel discernimento comunitario che tutti siamo chiamati a compiere per dare risposte concrete, lungimiranti, coraggiose a domande sempre più urgenti ».
EMOZIONE A PALERMO
L’annuncio durante la festa di santa Rosalia. Il via libera è arrivato dalla Congregazione delle Cause dei Santi che ha acconsentito alla traslazione dal cimitero di sant’Orsola
Don Pino Puglisi torna a Brancaccio
Il cardinale De Giorgi dà l’annuncio: la salma tumulata nella sua parrocchia (www.Avvenire, 05.09.2006)
Manca dal suo quartiere da 13 anni, da quando la mano vigliacca di un killer di mafia lo colse alle spalle, strappandolo via ai suoi ragazzi. Ma adesso don Pino Puglisi tornerà a Brancaccio. C’è l’autorizzazione della Santa Sede ad un evento (la data è ancora da stabilire), che farà riaccendere i riflettori su quella borgata della periferia industriale di Palermo, per troppo tempo sinonimo di degrado sociale e mafiosità.
La salma di don Puglisi, il sacerdote ucciso per ordine di Cosa nostra il 15 settembre 1993, troverà posto all’interno della parrocchia di San Gaetano, che per tre anni fu il quartier generale dell’opera pastorale di don Pino, divenuta troppo scomoda per i boss della zona. Lo ha annunciato il cardinale Salvatore De Giorgi, nel corso dell’omelia tenuta al santuario di Santa Rosalia su Monte Pellegrino. Davanti ad una folla di pellegrini, giunti da tutta la città per rendere omaggio alla patrona di Palermo e chiedere aiuto e protezione per sé e per i propri cari, l’arcivescovo ha rivelato che «la Congregazione delle Cause dei Santi ha accolto la mia richiesta della eventuale traslazione della sua salma dal cimitero di Sant’Orsola nella chiesa parrocchiale di Brancaccio».
Una bella notizia, data dopo aver passato in rassegna i tanti esempi di santità vissuti in diocesi, i servi di Dio, i venerabili, i beati e i santi, testimonianza delle mille luci che illuminano Palermo. «In particolare mi è caro additare alla nostra attenzione i due sacerdoti dei quali è in atto il processo super martirio. Del bocconista Francesco Spoto il Papa ha già riconosciuto il martirio, per cui tutta la nostra Chiesa palermitana, insieme con i Padri Bocconisti, si prepara a celebrarne la beatificazione che, secondo le nuove norme, si svolgerà, per la prima volta nella storia, a Palermo - spiega l’arcivescovo -. Di don Pino Puglisi è ancora in corso a Roma il processo, che auguriamo abbia lo stesso esito positivo, da tutti desiderato. Una beatificazione congiunta dei due Ser vi di Dio a Palermo sarebbe un evento storico, ricco di significati, di stimoli e di impegni». «Come si vede - continua il cardinale De Giorgi -, in questa corona di testimoni di Cristo Risorto, speranza del mondo, sono rappresentate tutte le componenti del popolo di Dio. Essi c’interpellano, insieme con Santa Rosalia, ad unirci a loro nella testimonianza della speranza cristiana, e ce ne indicano le vie e le modalità: vedere, incontrare e annunciare Gesù Risorto».
Un invito alla santità e alla sequela di Cristo nella vita di ogni giorno. «Gesù Crocifisso e Risorto è la speranza del mondo» afferma l’arcivescovo di Palermo, ricordando l’imminente appuntamento di Verona, «la speranza vera che non delude, perché ha vinto il peccato e la morte: morendo ha distrutto la morte, risorgendo ha ridato a noi la vita. Ci ha dato la certezza che il male non avrà l’ultima parola nella lotta della storia». E il primo compito del cristiano è la testimonianza nel mondo, per la costruzione di una civiltà dell’amore, anche dove dominano la violenza, il bisogno, l’ingiustizia. «Chi incontra Gesù Risorto non può tenerlo solo per sé, deve annunziarlo agli altri, ovunque opera e vive: in famiglia, a scuola, sul posto di lavoro, nel mondo complesso e vasto della sofferenza, della cultura, dell’economia, della politica e dello sport - sottolinea il cardinale De Giorgi -. L’annuncio deve essere reso credibile dalla testimonianza. È quanto attende da noi Santa Rosalia, perché nella nostra città cresca la speranza con la grazia del Signore Risorto e con l’impegno solidale delle istituzioni e dei cittadini, animati da un unico intento, la sua promozione religiosa, morale, culturale, economica e sociale per un futuro migliore del presente».
Il generale che «disobbedì»
di Gian Carlo Caselli *
Per anni, dovendomi occupare (Giudice istruttore a Torino) di «Brigate rosse» e «Prima linea», ho avuto l’opportunità di lavorare fianco a fianco con il generale Dalla Chiesa e con i suoi uomini. Dire che ho imparato da loro un sacco di cose è persino banale. Mi limito a ricordarne una per tutte: la capacità di mettersi in gioco direttamente, di spendersi senza risparmio, di provare sempre a governare le situazioni senza subirle.
Più volte mi è capitato di dovermi recare d’improvviso, magari in piena notte, nella caserma in cui erano custoditi (per i necessari sviluppi investigativi) i reperti rinvenuti nei covi ancora «caldi». Quasi sempre trovavo il generale nel suo ufficio, intento a piantare e spostare bandierine multicolori su un’enorme carta topografica, seguendo un suo disegno d’intervento sul territorio: segno che non staccava mai e che con l’esempio sapeva motivare come pochi altri i suoi collaboratori.
Ciò premesso - ricordando anche quest’anno la strage di mafia del 3 settembre del 1982 che causò la morte del generale, della moglie Emanuela e del loro autista Domenico Russo - vorrei tracciare di Carlo Alberto Dalla Chiesa un ritratto non troppo convenzionale.
Prima di tutto occorre dire che era un carabiniere tutto d’un pezzo. Spesso amava dire che gli alamari se li sentiva cuciti sulla pelle, più che sulla divisa. Ma il rispetto della gerarchia militare non gli impediva di essere intelligentemente duttile. Quando le Br sequestrarono il giudice Sossi (1974), venne istituito un Nucleo speciale - di fatto comandato da Dalla Chiesa - con l’incarico di individuare gli autori di quello specifico delitto. Ebbene, Dalla Chiesa in un certo senso «disobbedì», perché non si limitò a cercare i sequestratori. Quel che si mise a cercare erano le Br come gruppo organizzato, in forza di un’intuizione vincente ma per quei tempi rivoluzionaria (mai nessuno l’aveva fatto prima). Solo ricostruendo le caratteristiche logistiche ed operative della banda armata si sarebbero potuti «decifrare» i singoli delitti (sequestro Sossi compreso), altrimenti destinati a restare avulsi dal contesto che li aveva prodotti e perciò perennemente avvolti nel buio. «Disobbedendo», le Br Dalla Chiesa le trovò davvero e le disarticolò in profondità, contribuendo in modo determinante alla cattura e condanna dei «capi storici», responsabili anche del sequestro Sossi.
Carabiniere a 24 carati, professionista della repressione nel rispetto delle regole, sapeva anche che polizia e magistratura - da sole - contro il crimine organizzato non possono tutto. Aveva constatato, a Torino, come l’inizio del declino dell’eversione brigatista fosse coinciso con la stagione delle assemblee che in progresso di tempo (spazzando via ambiguità o contiguità scaturenti dalla miope, se non peggio, teorizzazione dei «compagni che sbagliano») aveva contribuito al decisivo isolamento politico dei terroristi. Sapeva bene, quindi, quanto sia fondamentale coinvolgere la società civile, per renderla consapevole dei terribili guasti che la violenza organizzata produce sulla qualità della vita di ciascun cittadino. Non è un caso, allora, che il carabiniere - una volta nominato superprefetto antimafia a Palermo - abbia impiegato gran parte dei 100 giorni trascorsi in questa città ad incontrare studenti (dalle elementari all’università), familiari di giovani con problemi di tossicodipendenza e maestranze dei cantieri navali. E si spiega anche come sia stato non un sociologo ma proprio quel carabiniere tutto d’un pezzo, uno «sbirro» nato (uso il termine, ovviamente, con assoluto rispetto), a lasciarci in eredità un insegnamento che costituisce ancora oggi una pietra miliare nella lotta alla mafia. Quello secondo cui per sconfiggere la mafia occorre anche «un abile, paziente lavoro psicologico per sottrarle il suo potere». Perché «gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti». Diritti da assicurare, se si vuole «togliere potere alla mafia» e fare «dei suoi dipendenti i nostri alleati» (così in un’intervista resa dal gen. Dalla Chiesa a Giorgio Bocca pochi giorni prima del suo assassinio).
Nello stesso tempo, nessuno come Dalla Chiesa sapeva essere «nei secoli fedele» (alla legge, allo stato, al dovere, all’interesse pubblico...). Nel senso del rifiuto di ogni compromesso, di ogni tentazione all’accomodamento e al quieto vivere, anche quando si dovessero effettuare scelte o percorrere strade non proprio gradite «in alto loco». Furono i suoi uomini, ad esempio, che arrestarono in Francia il figlio di un potente uomo politico dell’epoca, rifugiatosi all’estero non appena il «pentito» Roberto Sandalo cominciò a picconare «Prima linea», rivelando identità e ruoli di tutti i militanti che conosceva, fra cui il «comandante Alberto» (nome di battaglia di Marco Donat Cattin).
Nel diario di Dalla Chiesa si legge che fu lui personalmente - in occasione dell’insediamento come prefetto di Palermo - ad ammonire Giulio Andreotti che non avrebbe avuto riguardi per gli uomini della sua corrente operanti in Sicilia, già allora «chiacchieratissimi» per i loro rapporti con mafia e dintorni. Coloro che hanno lo stomaco forte e riescono a digerire tutto o quasi in tema di rapporti fra mafia e politica dovrebbero avere il buon gusto - almeno oggi - di astenersi dal celebrare il sacrificio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Sarebbero voci stonate, decisamente incompatibili con la grandezza dell’uomo caduto a Palermo 24 anni fa e con il rispetto dovutogli.
* www.unita.it, Pubblicato il: 03.09.06 Modificato il: 03.09.06 alle ore 7.24
Il cordoglio del Papa per la morte del Cardinale Salvatore Pappalardo
Il Cardinale Salvatore Pappalardo, Arcivescovo emerito di Palermo, è morto domenica 10 dicembre. Aveva 88 anni. Appresa la notizia, Benedetto XVI si è raccolto in preghiera. Ha quindi inviato i seguenti telegrammi al Cardinale Salvatore De Giorgi, Arcivescovo di Palermo, e alla Sorella del compianto Porporato, Signora Maria Pappalardo. Ecco i testi:
Ho appreso con dolore la mesta notizia della scomparsa del Signor Cardinale Salvatore Pappalardo Arcivescovo emerito di Palermo e nell’elevare fervide preghiere a Dio perché conceda il riposo eterno a questo zelante e generoso pastore mi unisco spiritualmente al cordoglio di codesta comunità diocesana dove egli esercitò con sollecitudine il ministero episcopale. Ricordo con ammirazione la sua feconda e molteplice attività apostolica animata dal desiderio di annunciare Cristo e di accompagnare con il suo illuminato magistero il cammino di crescita morale e culturale della società palermitana. Nell’esprimere le mie sentite condoglianze ai familiari del compianto Porporato a Lei al presbiterio alle comunità religiose ed a tutti i fedeli di codesta cara Arcidiocesi di cuore imparto la confortatrice Benedizione Apostolica quale segno di fede e di speranza cristiana nel Signore risorto.
BENEDICTUS PP. XVI
Appresa con tristezza la notizia della morte del suo amato fratello il Cardinale Salvatore Pappalardo desidero esprimere a Lei e ai familiari la mia profonda partecipazione al loro dolore pensando con stima e affetto a questo benemerito Porporato che ha saputo servire generosamente e sapientemente la Chiesa. Ricordando con gratitudine al Signore l’ampia messe di bene da lui raccolta mediante una intensa e paziente opera pastorale elevo fervide preghiere al Signore perché gli conceda il premio eterno promesso ai giusti e di cuore imparto a Lei ai congiunti e a quanti ne piangono la scomparsa la confortatrice Benedizione Apostolica
BENEDICTUS PP. XVI
Analoghi telegrammi sono stati inviati dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato.
(©L’Osservatore Romano - 11-12 Dicembre 2006)
TESTIMONI DI CRISTO
Palermo dà l’addio al cardinale Pappalardo
La sua bussola: il Vaticano II. Si è spento domenica il pastore che fu tra i primi a dire «no» alla mafia nel nome del Vangelo
Da Palermo Alessandra Turrisi (Avvenire, 12.12.2006)
Tre suore sono raccolte in preghiera. Una giovane donna singhiozza come se avesse perso suo padre. Un sacerdote attraversa velocemente il salone proprio come quando era segretario di quel vescovo al quale migliaia di persone da due giorni vengono a rendere l’ultimo omaggio.
Ognuno sceglie il suo modo per essere vicino per l’ultima volta al cardinale Salvatore Pappalardo, arcivescovo emerito di Palermo, morto domenica mattina all’età di 88 anni nella casa diocesana di Baida, la frazione palermitana divenuta la sua residenza dopo essere andato in pensione. La sera dell’Immacolata aveva voluto raggiungere la sorella a Catania, ma sabato aveva cominciato ad avere la febbre alta. Così domenica il medico ha deciso di trasportarlo in ambulanza a Baida.
Il cardinale Pappalardo era un uomo che, nei suoi 26 anni di episcopato a Palermo, aveva saputo portare il vento di rinnovamento del Concilio in Sicilia, promuovere il laicato, affrontare la sfida di una società in grande trasformazione, drammaticamente colpita dalla stagione delle stragi di mafia. «Ci ha lasciato più soli - dichiara commosso il cardinale Salvatore De Giorgi, arcivescovo di Palermo - ma, come ci ha insegnato lui che ha predicato la speranza cristiana della Resurrezione, il cardinale Pappalardo lavora per Palermo in modo ancora più intenso di prima. Continueremo il nostro cammino senza dimenticare il messaggio che ci ha rivolto in 26 anni, ricordando il coraggio della fede che ha sempre manifestato contro ogni forma di prepotenza». E alla camera ardente allestita nel palazzo arcivescovile sono decine i ricordi e gli aneddoti che affiorano nella mente di chi ha lavorato con lui, dai quali emerge la figura di un pastore lungimirante, capace di dare fiducia e autonomia ai suoi collaboratori.
«Teneva conto dei contributi che ciascuno poteva dare - racconta don Carmelo Cuttitta, segretario negli ultimi sei anni di episcopato -. Era un vescovo infaticabile, senza orari, attento all e parrocchie. La gente amava stargli vicino, perché aveva una capacità di relazione improntata alla semplicità. Era uno che, se arrivavamo in ritardo in arcivescovado, scendeva dalla macchina e apriva lui il portone con le chiavi. Amava scherzare, sdrammatizzare e imparare, fino alla fine. Lo ha dimostrato diventando bravissimo ad usare il computer».
E credeva nel ruolo dei laici. «Pappalardo è stato un uomo che ha avuto una visione globale dell’uomo e della società - afferma Ina Siviglia Sammartino, docente di antropologia teologica alla Facoltà teologica di Sicilia -, capace di progettualità graduale e prudente. Ha dato responsabilità ai laici, ha inserito i religiosi nella rete diocesana, ha puntato sulla formazione dei giovani sacerdoti. Ma ha capito anche che bisognava lavorare sul piano culturale. Da questa consapevolezza nasce la Facoltà teologica San Giovanni Evangelista». E una scelta controcorrente fu mandare un giovanissimo don Salvatore Lo Bue a studiare scienze sociali all’Angelicum negli anni ’70: «Non era facile trovare allora nella Chiesa un’apertura alla sociologia. Pappalardo lo fece. Da lì nacque poi il mio impegno per realizzare le strutture di accoglienza per tossicodipendenti, sieropositivi, donne vittime della tratta, che il cardinale Pappalardo ha sempre seguito personalmente e sostenuto fino all’ultimo».
Un impegno nel rinnovamento delle parrocchie, nella promozione culturale, nell’attenzione agli ambienti più disagiati con la Missione Palermo, nell’evangelizzazione casa per casa con le Missioni popolari, che camminò parallelamente alla denuncia della violenza mafiosa che si colloca in contrasto col Vangelo. «Non fu mai un cardinale antimafia - ricorda Maria Saccone, che ha sempre curato il suo archivio di omelie e discorsi - perché, diceva, un sacerdote non può essere anti, ma per l’uomo. "Io sono un pastore", diceva. Ma ebbe il merito riconosciuto da tutti, anche dal procuratore Caselli, di essere stato la prima istituzione ad aver pronunciato pubblicamente la parola mafia». «Il cardinale Pappalardo era cittadino della storia - aggiunge Ina Siviglia -, si è occupato della società perché la Chiesa è per il mondo. La denuncia era conseguenza dell’essere pastore, non era ingerenza».
Suo fedele collaboratore, come vicario generale e vescovo ausiliare, fu monsignor Rosario Mazzola, oggi vescovo emerito di Cefalù: «Ha saputo creare la comunione delle Chiese e dei vescovi, ha promosso una pastorale unitaria a livello regionale». Un episcopato costellato da grandi segni di rinnovamento e da grandi dolori e amarezze. «Soffriva per i tristi eventi degli anni di fuoco - ricorda don Pippo Oliveri, segretario dal 1983 al 1991 -. Le sue omelie hanno segnato una svolta, prima di tutto nella consapevolezza all’interno della Chiesa». «E soffrì come un padre per aver perso un figlio, quando giunse la notizia che avevano sparato a don Puglisi - aggiunge don Cuttitta -. Andammo subito in ospedale, lo accarezzava con dolcezza. Prima del trigesimo si sedette e scrisse personalmente le frasi da mettere nell’immaginetta-ricordo. Perché il cardinale Pappalardo conosceva bene in suoi preti, li conosceva come un amico, come un padre».
L’INCHIESTA.
Tornano in Sicilia i figli dei boss scappati negli Usa per sfuggire ai Corleonesi. E si riprendono il potere perduto
La riscoperta dell’America
nuovo fronte di Cosa Nostra
di ATTILIO BOLZONI e GIUSEPPE D’AVANZO *
PALERMO - Chi è Frank Calì, e perché tutti lo cercano? Quel nome - il nome di un siculo-americano - ritorna ossessivamente nelle "parlate" degli uomini di Cosa Nostra. Lo fanno a Palermo, lo ripetono nel New Jersey, lo bisbigliano a Corleone. Di Frank sentiremo ancora parlare, giurateci. Eppure, al Dipartimento di Giustizia, Calì non appare mai nei report sulle cinque "grandi famiglie" di New York, i Gambino, i Bonanno, i Lucchese, i Genovese e i Colombo. Soltanto poche, quasi distratte, righe in un dossier dell’Fbi. Più o meno un "signor nessuno" che deve avere però un potere invisibile o ancora sconosciuto, se negli ultimi tre anni per lo meno una mezza dozzina di "delegazioni" di mafiosi siciliani lo hanno raggiunto dall’altra parte dell’Oceano per discutere di "affari". Ma di quali affari? E, soprattutto, di quale portata e per quali progetti?
Questa è la storia, o meglio il primo paragrafo di una storia che soltanto il tempo potrà scrivere. Vi si rintracciano indizi di un prepotente risveglio di Cosa Nostra dopo un muto decennio di ibernazione. La mafia sembra volersi liberare dall’arcaicità violenta dei Corleonesi per ritrovare dalla Sicilia - come in un passato glorioso - ruolo e protagonismo sulla scena internazionale. Nelle loro casseforti ci vogliono mettere soldi, molti soldi. Non vogliono più cadaveri per le strade o "picciotti" nelle galere. A che cosa sono serviti il sangue, le bombe contro lo Stato, gli ergastoli che hanno umiliato le famiglie? A niente. Ecco perché adesso tutti cercano Frank Calì.
Del "signor nessuno" si può dire subito - per quel pochissimo che se ne sa - che è un uomo di rispetto della Famiglia Gambino designato per trattare, con i Siciliani, la nuova avventura. Se sono buone le intuizioni degli investigatori, i mafiosi vogliono ritornare ad essere brokers nel mercato illegale/legale mondiale. Frank Calì serve a tutto questo. È "l’ambasciatore" americano.
Frank Calì ufficialmente è un imprenditore della Italian Food Distribution a New York. Da almeno tre anni, gli agenti dell’Fbi lo vedono intrattenersi con vecchi trafficanti della "Pizza Connection".
E con giovani rampolli delle Famiglie palermitane, nati però negli Stati Uniti. E con gli emissari di Bernardo Provenzano e Totò Riina, i Corleonesi. Un’agenda di incontri che mette insieme amici e nemici di antiche guerre e di mai dimenticati stermini, tutti a far la fila da Frank Calì. L’elenco è lungo. Da lui vanno in più occasioni Nicola Mandalà e Nicola Notaro della Famiglia di Villabate, Gianni Nicchi della Famiglia di Pagliarelli, Vincenzo Brusca della Famiglia di Torretta. Ma forse la traccia più rilevante per capire che cosa sta accadendo è nelle triangolazioni telefoniche tra le utenze di Calì e i cellulari degli uomini di Salvatore Lo Piccolo, ricercato da 27 anni, oggi al primo posto della lista dei latitanti dopo la cattura di Bernardo Provenzano.
Il suo "scacchiere diplomatico" non è stretto alla Sicilia. Un rapporto congiunto dell’Fbi e della Royal Canadian Mounted Police svela "i legami tra Frank Calì, Pietro Inzerillo e i membri del cartello criminale "Siderno" della ’ndrangheta". Alla sua corte ci sono proprio tutti, dunque. È la circostanza che spinge Fbi e Polizia criminale italiana a lavorare insieme, a scambiarsi informazioni e analisi come negli Anni Ottanta, quando Giovanni Falcone faceva squadra con il procuratore distrettuale Rudolph Giuliani. Si preparano a fronteggiare il nuovo piano di Cosa Nostra: la riscoperta dell’America. Con inaspettati protagonisti. Con nomi che, soltanto fino a qualche anno fa, a Palermo non si potevano nemmeno pronunciare.
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Sono tornati gli Inzerillo. Erano stati massacrati dall’aprile del 1981 all’ottobre del 1983 dai Corleonesi. "Di questi qua - disse Totò Riina - non deve rimanere sulla faccia della terra nemmeno il seme". Morì Totuccio, il rispettato capo di Passo Rigano, e poi morì suo figlio Giuseppe. Morirono in ventuno. Fratelli e zii e nipoti e cugini. Molti scomparvero afferrati dalla "lupara bianca", un impero di 27 società di riciclaggio rimase senza padroni. La scia di sangue si interruppe soltanto con l’intercessione dei parenti di Cherry Hill. Uomini potenti. Allora i più potenti d’America come Charles Gambino. Trattarono una resa senza onore. La Commissione siciliana pretese che gli Inzerillo avrebbero avuta salva la vita a condizione che non tornassero più nell’Isola. Mai più. E’ la regola che dettò la Cosa Nostra di Totò Riina. Allora fu nominato, e lo è ancora oggi, un "responsabile" del rispetto di quel patto. Si chiama Saruzzo Naimo. Ma le regole, in Cosa Nostra, esistono per essere violate e interpretate per gli amici e applicate per i nemici. Così alla spicciolata gli Inzerillo sono rientrati a Palermo. Abitano tutti nella loro borgata di nascita, a Passo di Rigano.
E’ tornato Francesco Inzerillo, figlio di quel Pietro che l’Fbi e la polizia canadese "vedono" sempre con Frank Calì. E poi Tommaso Inzerillo, cugino di Totuccio e cognato di John Gambino, il figlio del vecchio Charles. E un altro Francesco, fratello di Totuccio. Espulso come "indesiderato" dagli Stati Uniti è tornato Rosario, un altro fratello di Totuccio. E’ rientrato Giuseppe, figlio di Santo, ucciso e dissolto nell’acido solforico. Soprattutto è tornato l’unico figlio ancora vivo di Totuccio, Giovanni, nato a New York nel 1972, cittadino americano. A lui è toccato riaprire dopo venticinque anni la casa di via Castellana 346. Insieme a loro, sono riapparsi in città gli Spatola dell’Uditore, i Di Maggio di Torretta, i Bosco, i Di Maio, qualche Gambino. Insomma, quell’aristocrazia mafiosa che i contadini di Corleone avevano spazzato via con "tragedie", tradimenti, agguati. A Palermo gli Inzerillo hanno ricostituito la loro Famiglia. Con quale "autorizzazione"? Con quali appoggi? Con quali garanzie e impegni?
Se la questione è un enigma per gli investigatori, impensierisce ancora di più alcuni alleati palermitani dei Corleonesi che erano stati in prima fila, nella strage degli Inzerillo. La preoccupazione diventa apprensione quando, nei viaggi in America, scoprono che accanto a Frank Calì c’è sempre un Inzerillo. A New York come a Palermo, per uscire dall’isolamento e pensare finalmente alla grande, bisogna fare necessariamente i conti con "quelli là" e le loro influenti parentele d’Oltreoceano.
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Nelle ultime intercettazioni ambientali - una vera miniera di inaspettate informazioni - "il discorso dell’America" è un tormentone tra i mafiosi. Riserva un punto di vista inedito su Cosa Nostra. Liquida ogni lettura convenzionale. Cosa Nostra non è il quieto monolite governato con i "pizzini" dalla furbizia contadina del vecchio Provenzano né è attraversata, come pure si è sostenuto, da una frattura territoriale e culturale. Da un lato, i contadini e i paesi di campagna. Dall’altra, i cittadini, la grande città, le borgate. E’ invece un mondo smarrito e, al tempo stesso, eccitato dalle nuove opportunità. Ora, come per un riflesso condizionato, tentato di mettere mano alla pistola per eliminare ogni irritante contraddizione; ora convinto di dover cercare, senza sparare un colpo, compromessi per far valere la sola ragione che tutti può entusiasmare: fare i piccioli. Fare i soldi. Gli esiti della contesa sono del tutto imprevedibili. Nei prossimi mesi, la guerra ha la stessa possibilità di scoppiare quanto la pace. Chi lavora, con ostinazione paranoide, a una nuova contrapposizione si chiama Antonino Rotolo. E’ il capomandamento di Pagliarelli. Basta ascoltare quali erano i suoi argomenti qualche giorno prima di finire in galera.
"Questi Inzerillo - dice Rotolo ai suoi - erano bambini e poi sono cresciuti, questi ora hanno trent’anni. Come possiamo, noi, stare sereni... Se ne devono andare. E poi uno, e poi l’altro e poi l’altro ancora... Devono starsene in America. Si devono rivolgere a Saruzzo (Naimo) e se vengono in Italia li ammazziamo tutti. Come possiamo stare, noi, sereni quando io per esempio - l’ho detto e lo ripeto - so di un tizio che dice a uno dei figli di Inzerillo: "Non ti preoccupare tempo e buon tempo non dura sempre un tempo"... Noialtri non è che possiamo dormire a sonno pieno perché nel momento che noi ci addormentiamo a sonno pieno, può essere pure che non ci risvegliamo più. Alzando la testa questi, le prime revolverate sono per noi. Vero è... Picciotti, non è finito niente. Gli Inzerillo, i morti, li hanno sempre davanti. Ci sono sempre le ricorrenze. Si siedono a tavola e manca questo e manca quello. Queste cose non le possiamo scordare. Questi se ne devono andare, punto e basta, non c’è Dio che li può aiutare... Ce ne dobbiamo liberare e così ci leviamo il pensiero... Per il bene di tutti, noi questo dobbiamo fare. L’avete capito o no che quello, Lo Piccolo, li utilizza già gli Inzerillo? Questa storia non finisce, non finirà mai...". Antonino Rotolo affronta con Alessandro Mannino, nipote prediletto di Totuccio Inzerillo, "il discorso dell’America". Senza giri di parole, in modo brusco.
Gli dice: "Tu sei il nipote di Totuccio Inzerillo il quale, con altri, senza ragione alcuna sono venuti a cercarci per ammazzarci, ma a loro nessuno gli aveva fatto niente. Ci hanno cercato e ci hanno trovato. Peggio per loro. Non siamo stati noi a cercarli. Così si è creata questa situazione di lutti e di carceri. La responsabilità è di tuo zio e compagni, se ci sono morti e se ci sono carcerati. Quindi io ti dico che non c’è differenza tra voi, che avete i morti, e le famiglie che hanno la gente in galera per sempre, perché sono morti vivi. Quindi, i tuoi parenti devono rimanere all’America, devono rimanere sempre reperibili. Ai tuoi parenti garanzie non ne può dare nessuno. I tuoi parenti se ne devono andare e ci devono fare solo sapere dove vanno perché noi li dobbiamo tenere sempre sotto controllo".
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Anche Antonino Rotolo ha spedito a New York il suo fidato "messaggero", Gianni Nicchi, giovane e "sperto". Al rientro dalla missione, si fa raccontare e quel che ascolta non gli piace. Rotolo, se sono sincere le sue parole, non si fida delle promesse di Frank Calì. Crede che siano soltanto "chiacchiere" per restituire Palermo agli Inzerillo. I suoi sospetti lo isolano dentro Cosa Nostra. Salvatore Lo Piccolo - il suo competitore nelle borgate - ha già chiuso l’accordo con gli Americani. L’ago della bilancia è Provenzano. Però anche a Provenzano fa gola riallacciare i rapporti con i suoi antichi nemici e ritrovarseli dopo un quarto di secolo al suo fianco. Negli ultimi mesi della sua latitanza, finita l’11 aprile del 2006, mette in moto tutta la sua sapienza ambigua. In un rosario di "pizzini" inviati ai suoi, finge di non sapere che gli Inzerillo sono già tutti a Palermo. Minimizza la rilevanza di quel ritorno. Quando gli capita, consiglia di accoglierli "se vogliono passare il Natale con i loro parenti" o se devono scontare scampoli di pena in Italia, una volta espulsi dagli Stati Uniti. E’ l’abituale inganno "corleonese". In realtà, il lavorio di mediazione con gli Americani è l’ultima grande fatica del Padrino di Corleone.
Da due anni, "il vecchio" si adopera per il recupero totale alle fortune di Cosa Nostra degli Inzerillo, soprattutto dei loro legami con la mafia americana. Nicola Mandalà è l’uomo più fidato dell’inner circle di Bernardo Provenzano. Lo aiuta a farsi operare alla prostata in una clinica di Marsiglia. Fa due viaggi a New York per incontrare Frank Calì e Pietro Inzerillo. E’ possibile che Mandalà, generosamente finanziato con 40 mila dollari a trasferta, abbia fatto tutto questo senza un mandato di Provenzano? Un altro "contadino" di Corleone va in America. E’ quel Bernardo Riina che sarà poi arrestato come "ultimo anello" che conduce i poliziotti nel rifugio di Montagna dei Cavalli. Bernardo Riina costituisce una società a New York insieme a suo figlio nel gennaio del 2006. Appena cento giorni prima della cattura del suo Padrino. E’ il ponte lanciato dalla Sicilia all’America. E’ un capovolgimento di schemi e di logiche dove i Corleonesi - dati per spacciati dopo l’arresto dei suoi rappresentanti più famosi - non solo non stanno abbandonando i posti di comando di Cosa Nostra ma, al contrario, provano a penetrare un altro mondo: gli Stati Uniti. Il personaggio chiave è, dunque, il nostro misteriosissimo Frank Calì che distribuisce Italian Food su tutta la costa atlantica. Ancora più misteriose, al momento, sono le occasioni economiche e finanziarie che le due mafie prevedono di cogliere insieme. Tempo e buon tempo non dura sempre un tempo. Cosa Nostra si prepara alla sua nuova stagione.
* la Repubblica, 12 luglio 2007
La vera emergenza
di Claudio Fava *
Ci voleva il presidente dell’Associazione degli Industriali siciliani per farci capire che, nel Paese reale, l’emergenza mafiosa non sono i lavavetri ma i mafiosi: con un gesto senza precedenti Ivan Lo Bello ha comunicato che caccerà dalla sua associazione gli imprenditori che pagano il pizzo a Cosa Nostra. Sono bastate due righe d’agenzia per ribaltare il suggerimento di consociativismo mafioso che l’ex ministro dei Trasporti Lunardi propose qualche anno fa ai siciliani spiegando che alla mafia non c’è rimedio, e che dunque conviene abituarsi a conviverci. Un rimedio dunque c’è: basta non pagare. Ci perdonerà l’assessore Cioni di Firenze, ma ci sembra lontanissima, parole da un altro pianeta, anche la sua fiera intervista di qualche giorno fa.
Quella con cui annunciava la crociata contro gli stracci e i secchi dei maghrebini agli incroci della città. Se parliamo di sicurezza (e di rischi: quelli veri), il Paese reale oggi non sono i semafori di Firenze ma la periferia di Catania. Al signor Vecchio, presidente dei costruttori edili, hanno fatto quattro attentati in otto giorni: bombe, incendi, saracinesche divelte... L’ultimo, due giorni fa, dopo che era già stata disposta dal prefetto la protezione ventiquattrore su ventiquattro nei suoi confronti: una tanica piena di benzina lasciata davanti al deposito di un suo cantiere. Come dire: lo Stato può pure tentare di proteggervi con scorte e vigilanza, ma se noi mafiosi vogliamo farvi saltare in aria l’azienda, non ci ferma nessuno. Dal canto suo, il signor Vecchio ha fatto sapere, per la quarta volta (con una lettera aperta che l’Unità ha pubblicato ieri in prima pagina), che alle cosche lui non pagherà un centesimo.
In altri tempi, tempi non troppo remoti, a un imprenditore così tenace nel rivendicare la propria dignità di cittadino e di uomo, avrebbe fatto subito eco il saggio ammonimento degli altri imprenditori: non fare l’eroe, paga, campa tranquillo, pensa ai figli,che tanto per recuperare i piccioli ti basta evadere un poco di tasse... Andò più o meno così sedici anni fa con l’imprenditore Libero Grassi a Palermo. Grassi non pagò, andò il televisione e davanti a qualche milione di italiani spiegò che se si fosse piegato a quel miserabile ricatto mafioso non avrebbe più avuto la forza di guardare in faccia i figli. Due giorni dopo il presidente della sua associazione di categoria gli fece sapere, a mezzo stampa, che era un fesso, che a Palermo pagavano tutti e che quel baccano non serviva nemmeno al buon nome della Sicilia. Per Grassi fu una condanna a morte: isolato, umiliato, a completare il lavoro ci pensarono un paio di ragazzotti assoldati dalla cosca che pretendeva il pizzo. Lo ammazzarono sotto casa scaricandogli una pistola in testa, così gli altri avrebbero imparato da che parte stare.
Non tutti hanno imparato, non tutti si sono rassegnati. Il presidente degli industriali siciliani, che non fa solo accademia ma rischia anche le proprie aziende e la propria pelle, è uno che non s’è rassegnato. E che ha deciso di portare solidarietà al signor Vecchio senza chiacchiere ma nell’unico modo possibile: mandando a dire ai mafiosi che in Sicilia, tra quelli che non pagheranno più il pizzo, non ci sarà solo il costruttore catanese.
Certo adesso arriveranno i primi pelosissimi distinguo. Qualche commerciante si agiterà dicendo che lui il pizzo non sa cosa sia. Qualche collega di Lo Bello argomenterà che sì, certo, adesso denunciamo, però lo Stato, signori miei, dov’è lo Stato? che fanno a Roma? e cosa c’entriamo noi poveri cristi siciliani? Qualche gioielliere palermitano continuerà a pensare quello che ha sempre pensato: lui non paga il pizzo, al massimo fa un regalo, ecco, un regalino ogni tanto a certi amici, che così non gli fanno più rapine, risparmia sulla vigilanza e tiene la saracinesca alzata fino alle dieci di sera. E a Firenze qualcuno continuerà a lustrarsi con lo sguardo con gli strofinacci sequestrati durante la giornata ai lavavetri. Come se fossero kalashnikov e non scopette.
* l’Unità, Pubblicato il: 02.09.07, Modificato il: 02.09.07 alle ore 13.01
QUEL 3 SETTEMBRE IN VIA CARINI A PALERMO
di Lara Sirignano*
Fecero a gara a chi sparava più colpi. "Me li avete fatti trovare morti", disse ai complici Pino Greco Scarpa, killer del gruppo di fuoco di Cosa nostra, rammaricato di essere arrivato quando il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, prefetto di Palermo per 100 giorni, e la moglie, Emanuela Setti Carraro, erano già morti. Respirava ancora, agonizzante, l’autista, Domenico Russo. Lo finì Pino Greco. Il 3 settembre del 1982 la guerra che la mafia aveva dichiarato allo Stato segnò uno dei momenti più tragici. Sotto una pioggia di piombo cadde un simbolo delle istituzioni, costretto, negli ultimi giorni della sua vita, ad affidare al giornalista Giorgio Bocca l’amaro sfogo di chi ha capito di essere solo.
"Un uomo viene colpito quando viene lasciato solo", disse. Parole che descrivevano le condizioni difficili in cui il generale svolgeva il compito di superprefetto contro la mafia. Nell’ uccisione di Dalla Chiesa, massacrato a colpi di kalashnikov in via Isidoro Carini, mentre era in auto con la moglie, seguito dall’alfetta di scorta dell’autista, il ruolo esecutivo della mafia è ormai accertato. A distanza di 25 anni dall’eccidio, però, restano intatte le zone d’ombra di cui parlano gli stessi giudici di Palermo che hanno condannato i killer. Le sentenze sottolineano l’ "coesistenza di specifici interessi - anche all’ interno delle istituzioni - all’ eliminazione del pericolo costituito dalla determinazione e dalla capacità del generale".
La giustizia si è fermata ai mandanti mafiosi, dunque, e agli esecutori materiali. All’ergastolo sono stati condannati i killer Raffaele Ganci, Giuseppe Lucchese, Vincenzo Galatolo, Nino Madonia e a 14 anni i collaboratori di giustizia Francesco Paolo Anzelmo e Calogero Ganci.
Gli uomini della "cupola", Totò Riina, Bernardo Provenzano e Michele Greco, erano già stati condannati al maxiprocesso, nato proprio da un rapporto di Dalla Chiesa contro 162 esponenti di Cosa nostra. Quello che accadde la sera del 3 settembre in via Carini ha provato a descriverlo la Procura, attraverso una simulazione dell’eccidio realizzata dagli esperti della scientifica.
L’ A112, su cui si trovavano il prefetto e la moglie, venne affiancata e superata da una Bmw 518. A bordo c’erano Antonino Madonia e Calogero Ganci. A fare fuoco con un kalashnikov fu Madonia che sparò dando le spalle al parabrezza. Una seconda vettura, guidata da Anzelmo, seguiva il prefetto, pronta ad intervenire per bloccare l’ eventuale reazione dell’ agente di scorta. La A112, dopo essere stata investita dal fuoco del kalashnikov, sbandò, costringendo l’ auto dei killer a sterzare bruscamente a destra.
Dal giorno del suo insediamento erano passati poco più di 3 mesi, 100 giorni. Il 30 aprile 1982 Dalla Chiesa era giunto in Prefettura a bordo di un anonimo taxi. Durante i giorni che precedettero la strage di via Carini cercò di rispondere allo strapotere delle cosche e di spezzare il legame tra mafia e politica. Le iniziative di Dalla Chiesa furono frenate da ostilità politiche ambientali e da una ridotta capacità di intervento. Il prefetto reclamò continuamente la concessione di poteri di coordinamento che solo dopo la sua morte, però, vennero formalizzati
Per approfondimenti, si cf.:
L’Unità nazionale in pericolo
di Giorgio Ruffolo (la Repubblica, 09.09.2009)
Altri grandi paesi europei non celebrano la loro unità. Per alcuni è troppo remota per avere un significato attuale. Altri come la Francia preferiscono celebrare il loro più grande conflitto storico: la rivoluzione. Tutti considerano l’unità come un fatto acquisito che non ha bisogno di essere celebrato. Per noi non è così. Perciò finiremo per celebrarla controvoglia.
Il fatto è che l’unità italiana è scarsamente sentita dagli italiani. Lo testimonia la svogliatezza con la quale l’attuale governo, pur pressato dal Presidente della Repubblica, ha abbandonato le celebrazioni ormai prossime del centocinquantesimo anniversario alla fantasia burocratica e dissipatrice di Regioni e Comuni. Né maggiore interesse è dimostrato dall’opposizione.
Solo una minoranza politica, diciamo la verità, coltiva il mito del Risorgimento. Per la maggioranza Mazzini e Garibaldi fanno parte del folklore domestico, non certo di una salda coscienza patriottica. C’è anche chi, come un giovane e intelligente studente, addirittura se ne vergogna pubblicamente. E in effetti ragioni, se non di vergogna, di grande perplessità non mancano sul modo in cui quell’unità fu raggiunta: tra l’altro, in forme impreviste e persino indesiderate dai suoi protagonisti.
Tra questi il suo massimo artefice, Cavour, l’aveva fin quasi al suo compimento definita una "sciocchezza" restando all’ipotesi del "Belgio grasso" al Nord e di un Regno del Mezzogiorno al Sud, con una mediazione pontificia al centro: il tutto nell’ambito, al massimo, di una lasca confederazione.
È vero dunque che l’unificazione politica del Paese fu il risultato di una conquista sabauda, non di una patriottica intesa. Se poi si vuole infierire, fu anche il risultato di umilianti sconfitte militari. Ma due cose non sono vere.
La prima è che manchi all’unità del Paese la sua base storica. L’Italia si riconosce non solo nella pizza, nel gioco del pallone e nell’autocompiacenza amatoria, ma in una grande lingua e in una grandissima civiltà. La seconda è che il Risorgimento non fu soltanto conquista effimera e frutto di fortunose sconfitte. Fu anche movimento di popolo. Ci fu certamente il Risorgimento freddo, ma ci fu anche un Risorgimento caldo, fiammeggiante nelle giornate di Milano e di Brescia, nella repubblica romana, nella resistenza di Venezia, nell’avventura garibaldina.
Non soltanto. Contrapposto alla storia che inopinatamente si realizzò, il Risorgimento fu anche un grande disegno alternativo fallito ma ancora oggi carico di significato. Fu il progetto di una Federazione nella quale le realtà storiche del Paese, così ricche di irriducibile "personalità", costruissero, sulla base di una loro gelosa autonomia, una cangiante e meravigliosa unità.
Questo era il grande disegno di Cattaneo, di Salvemini, di Dorso. Un federalismo unitario, come tutti gli autentici federalismi vittoriosi, da quello americano a quello svizzero a quello tedesco. Unitario e patriottico. Niente da spartire con un leghismo protezionistico, tendenzialmente separatista e desolantemente, caro ragazzo, bigotto.
Questo grande disegno alternativo risultò sconfitto con grave danno dell’intero Paese al quale veniva a mancare la dorsale di sostegno: l’integrazione tra il Nord e il Sud d’Italia.
Ciò che ancora i "belgi" del Nord non hanno capito è la diversità sostanziale tra la questione meridionale e quella settentrionale. Quest’ultima è la sacrosanta espressione di interessi locali e di culture specifiche da tutelare. La prima invece è la colonna vertebrale dell’intero Paese.
Ecco perché i grandi meridionalisti hanno sempre mantenuto le distanze da un sudismo becero: hanno parlato non a nome di Palermo e di Napoli, ma dell’Italia e dell’Europa.
La prima vittima della soluzione unitaria-autoritaria è stato proprio il meridionalismo. All’ombra di quella la questione meridionale si è sbriciolata in una poltiglia di pretese locali; la classe politica si è decomposta in una serie di consorterie clientelari; il disegno dell’intervento straordinario, concepito inizialmente come grande progetto unitario di scala nazionale si è sminuzzato in una serie di interventi particolari esposti alle sollecitazioni e pressioni "private".
La tremenda minaccia che si addensa oggi sul Mezzogiorno non è più, come Gramsci denunciava, l’asservimento del Sud agli interessi dominanti del Nord. La depressione politica del Mezzogiorno non si identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa e nello scambio elettorale tra la garanzia politica che essa assicura al governo centrale e le risorse finanziarie che ne riceve e che gestisce come un gigantesco "pizzo" attraverso i governi locali.
La "tremenda minaccia" è che il governo di quelle risorse sfugga anche a quella intermediazione e cada direttamente nelle mani delle grandi reti della criminalità internazionale.
Non accade già in certe regioni del Sud?
Queste domande ripropongono a centocinquant’anni di distanza il problema dell’unità d’Italia. Non è mai troppo tardi.