Mercati
Grecia e deficit Usa
le Borse vanno a picco
Alle incertezze sul piano di aiuti si è aggiunto il ribasso di Wall Street e il downgrading del Portogallo da parte di Standard & Poor’s. Crolli dal 5 al 6% per Atene e Lisbona, oltre il 3 Parigi e Milano, poco meno le altre europee
di SARA BENNEWITZ *
MILANO - Tragedia greca sui mercati mondiali. Il quadro delle Borse europee è precipitato a metà pomeriggio sui timori per la situazione di Atene e dopo le parole del ministro delle finanze greco George Papacostantinou, che ha annunciato che senza gli aiuti la Grecia non può farcela, perché non può reperire nuove risorse sul mercato. "La data cruciale è il 19 maggio, quando scadranno i bond del governo greco per nove miliardi di euro", ha avvertito Papaconstantinou, esprimendo l’auspicio che i colloqui avviati mercoledì scorso ad Atene con la Commissione europea, la Bce e il Fondo monetario internazionale si concludano la prossima settimana.
E a mercati chiusi, S&p ha ridotto il rating sovrano greco a "junk" (letteralmente, "spazzatura"), con un taglio a Bb+ e prospettive ulteriormente negative. L’agenzia internazionale ha anche ridotto il giudizio sul Portogallo, il cui merito di credito scende ad A- da A+. Sulla vicenda è dovuto intervenire il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, nel tentativo di rassicurare gli investitori. "Un default della Grecia o dell’Eurozona è fuori questione", ha detto il banchiere centrale da Chicago, "il negoziato tra l’Ue e i greci dovrà essere basato sulla sostenibilità. E’ un concetto molto, molto importante". I 10 capi di governo dell’Eurogruppo hanno convocato un vertice sui problemi della Grecia il 10 maggio.
I ribassi più forti si registrano a Madrid (-4,4%) e Lisbona (-5,3%), ma un vero tracollo si abbatte su Atene, dove l’indice generale perde il 6,2% e quello dei titoli più importanti il 6,8%. Quanto al Portogallo, Standard and Poor’s ha tagliato il rating con previsioni negative, a fronte dell’elevato debito pubblico e della debolezza dell’economia. Ad affossare i mercati si sono aggiunti alcuni dati macro negativi dagli Usa e l’allarme sul deficit lanciato da Barack Obama e dal presidente della Fed, Ben Bernanke, tutti fattori che hanno spinto al ribasso anche Wall Street.
Le preoccupazioni sulla tenuta dell’economia ellenica hanno spinto al rialzo gli strumenti per assicurarsi contro il fallimento (credit default swap) di Grecia, Portogallo e Spagna, mentre i rendimenti sul debito a due anni di Atene sono saliti sopra il 15%, il livello più alto dal 1998. Tutte novità che hanno fatto vacillare nuovamente l’euro e rafforzare il dollaro nei confronti delle principali valute, e così la divisa unica è scivolata in area 1,33 (dopo aver toccato anche un minimo a 1,32) nei confronti del biglietto verde. Così anche il petrolio Wti quotato a New York, in conseguenza al rafforzamento del dollaro, è scivolato a 83 dollari al barile.
Tornando alle Borse contenentali, Parigi è scivolata del 3,8% Francoforte del 2,7% e Londra del 2,6%. A Piazza Affari il Ftse Mib ha perso il 3,28% a 22.036 punti, mentre il Ftse All Share il 3,10% a quota 22.602 punti. Il conto più salato lo pagano i titoli finanziari, sui timori che le nostre banche siano esposte in bond ellenici. La peggiore è stata Intesa Sanpaolo (-5,6%), tallonata da Bpm (-4,7%) e Unicredit (-4,4%). Tra gli assicurativi, Generali, Fondiaria-Sai e Unipol hanno perso quasi tre punti percentuali. Pesante flessione anche per Italcementi (-5,1%), dopo l’arresto di alcuni dirigenti della controllata Calcestruzzi nell’ambito di un’inchiesta sulla vendita di cemento impoverito. Tutti i 40 titoli principali sono finiti in rosso, tra questi il migliore è stato Enel (-1,6%) che è stata promossa da Morgan Stanley e in vista degli sviluppi sul nucleare, dopo gli accordi siglati ieri dal presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, con il premier russo Vladimir Putin. Meglio degli altri automobilistici anche Fiat (-1,4%) in vista del piano dello scorporo delle attività industriali. Tra i titoli minori, va poi segnalato il balzo di Stefanel (+2,5%) che ha raggiunto un accordo con le banche e si appresta a lanciare un aumento di capitale da 50 milioni.
© la Repubblica, 27 aprile 2010
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Mondo
Riassunto della crisi subprime
RIPENSARE L’ EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
È meglio rileggere Frankenstein
di FRANCESCO GUERRERA (La Stampa, 15/5/2010)
I dieci minuti da brivido vissuti dalla Borsa di New York la settimana scorsa sono una storia degna delle penne di Franz Kafka, Agatha Christie e Mary Shelley: un giallo surreale che ha messo a nudo i difetti di un sistema che tutti pensavano quasi perfetto. I fatti sono noti. Un bel pomeriggio primaverile, l’indice Dow Jones ha perso il 10% prima di rimbalzare in maniera altrettanto violenta e chiudere in lieve perdita.
Il problema è che, a dieci giorni da quel crollo improvviso, nessuno è riuscito a rispondere alla domanda che uno dei miei colleghi mi ha posto non appena ho messo piede in ufficio dopo un pranzo di lavoro alle 14,31 di quel fatidico giovedì 6 maggio. «Come mai?».
Investitori grandi e piccoli, da Syracuse nello Stato di New York a Siracusa in Sicilia, hanno perso miliardi di dollari quando il più grande mercato azionario del mondo si è trasformato in un enorme yo-yo ma il governo americano, le banche d’affari e gli operatori di Borsa ancora non sanno cosa sia successo.
Un veterano dei mercati americani, la cui voce ancora tremava a raccontare il giovedì nero, ha fatto un’analogia interessante e preoccupante. «Pensa che cosa succederebbe se le autorità non dicessero assolutamente nulla dopo un incidente aereo: questo silenzio istituzionale è terrificante». I soliti ben informati parlano di un errore grossolano di un operatore con «le dita grasse» - uno che voleva vendere un po’ di azioni e ha scritto «miliardi» invece di «milioni» sulla tastiera. Altri danno la colpa ai super-computer che dominano le Borse americane ed europee, cervelloni che comprano e vendono titoli ad una tale velocità che nessun essere umano li può frenare. Gli pseudo-psicologi, invece, parlano dell’insicurezza cronica di mercati che per mesi hanno dovuto digerire le cattive notizie provenienti dalla Grecia e altri Paesi del vecchio Continente.
Ma anche se tutte queste ragioni fossero vere, la Borsa di New York dovrebbe avere regole ed infrastrutture che non le permettono di comportarsi come un adolescente con la passione per il bungee-jumping. La vera perdita subita dai mercati americani è molto più grave dei passivi finanziari di migliaia di investitori. In quei 600 secondi di fuoco, la Borsa più famosa del mondo ha perso il diritto ad essere il faro del capitalismo internazionale, il metronomo che batte il tempo per l’economia mondiale.
Prima o poi, le perdite del Dow, del Nasdaq e la miriade di piccole Borse che sono colate a picco in quei dieci pazzi minuti verranno recuperate. La legge del mercato è simile alle storie d’amore raccontate da Lucio Battisti quando cantava, in Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi, di «discese ardite e risalite/ su nel cielo aperto/ e poi giù il deserto/ e poi ancora in alto/con un grande salto». L’unica certezza nel mondo arcano della compravendita di azioni è che un mercato ribassista - o «mercato dell’orso» nel gergo anglosassone - è sempre seguito dal mercato «del toro», in cui gli indici salgono e gli investitori guadagnano, e viceversa.
Perdere la faccia, però, per una Borsa che dipende dalla fiducia di investitori e operatori è un po’ come perdere la verginità: non si può più tornare indietro. Come ha detto Larry Tabb, uno dei santoni dell’analisi finanziaria made in Usa: «Non è tanto che non sappiamo esattamente cosa sia successo ma che sappiamo fin troppo bene che la liquidità di mercati che pensavamo solidi e robusti è evaporata in un battibaleno».
E se le Borse di Londra, Hong Kong e Tokyo - le grandi rivali di New York - pensano di poter approfittare delle disgrazie altrui, si sbagliano di grosso. La débâcle di Wall Street ha avuto ripercussioni in tutto il mondo (persino il petrolio, quotato a Londra, è sceso velocemente quel giovedì pomeriggio) ed investitori che sono stati bruciati sul mercato-guida non si sposteranno sicuramente su Borse più rischiose e meno liquide.
Gli operatori newyorchesi, quantomeno quelli seri e intelligenti, hanno capito subito la gravità della situazione. Le mie spie nella sede del New York Stock Exchange (Nyse) - il palazzone neo-classico che domina l’angolo tra Wall Street e Broad Street sulla punta di Manhattan - mi hanno detto che il baccano caotico della sala di contrattazione si è trasformato in un silenzio di tomba quando il Dow è incominciato a crollare. Nelle sedi delle banche d’affari, operatori che ne hanno viste di tutti i colori sono rimasti sbalorditi. «Non c’era nulla da fare: sono rimasto lì, con la bocca aperta, fissando uno schermo che è diventato tutto rosso», mi ha detto uno dei più esperti traders di una banca americana. In quindici anni di giornalismo finanziario su tre continenti non mi era mai capitato di sentire una confessione d’impotenza così sincera e disperata.
Il motivo per cui gli operatori sono passati da protagonisti a spettatori delle convulsioni del mercato è dovuto alla rivoluzione tecnologica e strutturale delle Borse americane negli ultimi decenni. L’invenzione di computer sempre più potenti ha trasformato il modo in cui gli investitori interagiscono con i mercati. Fino alla metà del XX secolo, la Borsa di New York ha funzionato più o meno come era stato deciso nel 1792 nell’«Accordo del Platano» - il patto tra 24 brokers riuniti sotto un albero vicino a Wall Street che creò il nucleo del primo Stock Exchange.
L’avvento dei super-computer ha fatto sì che il mercato fosse in grado di trattare molte più azioni, molto più velocemente e a prezzi così bassi (il costo-base di una transazione è passato da una media di 12 cents a meno di 1 cent) da permettere a milioni di risparmiatori di giocare in Borsa. La «democratizzazione» del mercato è avvenuta a spese degli operatori. Se le casalinghe del Wyoming potevano comprare General Electric e Ibm dalla camera da letto con un click del mouse, che bisogno c’era di tutti quei signori in giacche sgargianti che urlavano numeri e sgomitavano di fronte a un tabellone pieno di cifre? E così, negli ultimi dieci anni, gli esseri umani - i rumorosi, costosi e fallibili esseri umani - sono stati esclusi dal tourbillon finanziario che chiamiamo mercati. Oggigiorno, più del 90 per cento degli ordini eseguiti al New York Stock Exchange sono automatizzati.
Allo stesso tempo, i prezzi relativamente bassi delle nuove tecnologie hanno facilitato la nascita di mercati alternativi al vecchio Stock Exchange. Banche d’affari hanno creato «stagni scuri» - mini-borse che permettono ai loro clienti di comprare e vendere azioni in privato senza rivelare il prezzo ai loro rivali. Altri operatori di mercato - come il Nasdaq, che un tempo era dedicato a società di tecnologia e telecomunicazioni - hanno approfittato del progresso tecnologico per offrire azioni trattate sul Nyse.
Il risultato è stato una frammentazione che rende praticamente impossibile - a regolatori, investitori e operatori - avere una visione completa dei mercati. Nel 2009, solo il 13 per cento del volume di mercati è passato attraverso il Nyse.
Come se non bastasse, la possibilità di fare soldi (moltissimi soldi) usando computer per sfruttare piccole discrepanze di prezzo tra un mercato e l’altro ha spinto generazioni di laureati in matematica e fisica a creare algoritmi complicatissimi da applicare alla compravendita di titoli. La velocità con cui questi fondi «algos» agiscono li ha trasformati nei re del mercato. In un giorno normale, questi investitori senza faccia e senza una strategia chiara muovono circa due terzi del volume dei mercati americani.
La mancanza di regole comuni tra tutti questi attori è una delle ragioni del crollo del 6 maggio. A differenza del Nyse, per esempio il Nasdaq non ha un meccanismo per «rallentare» il mercato quando gli indici calano - una differenza che ha permesso ad investitori che volevano vendere a tutti costi di disfarsi di titoli a prezzi bassissimi. E mentre gli operatori del Nyse sono obbligati a ricevere ordini in tutte le condizioni, gli «algos» possono ritirarsi dal mercato in momenti di crisi - un fattore che ha fatto evaporare la liquidità ed esacerbato la caduta del Dow.
La confluenza quasi miracolosa di tecnologia e cervelloni (sia computerizzati che umani) ha portato dei vantaggi immensi ai mercati Usa, contribuendo alla crescita del settore bancario americano e consolidando la posizione di New York come capitale della finanza mondiale. Ma ha anche dato origine un sistema così astruso e complesso che è impossibile da sorvegliare e che non può essere fermato quando diventa ingestibile. Come con la crisi dei mutui subprime, la passione di Wall Street per creare prodotti nuovi e lucrativi ha creato un mostro che i suoi stessi artefici non sono più in grado di controllare. Invece di fissare quegli schermi verdi e rossi, gli operatori dovrebbero rileggersi «Frankenstein» - il capolavoro della Shelley - al più presto.
Francesco Guerrera è il caporedattore finanziario per il Financial Times a New York.
francesco.guerrera@ft.com
Dagli Usa un aiuto interessato
di ALBERTO BISIN (La Stampa, 13/5/2010)
Fino all’altro giorno l’Europa stava per crollare sotto l’assedio della speculazione. Ma poi i capi di Stato e i ministri finanziari dell’Europa, per una volta unita, la Banca Centrale Europea, e il Fondo Monetario Internazionale, con un aiutino del presidente Obama e del suo ministro del Tesoro Geithner, sono intervenuti con grande successo in salvataggio dell’euro. Meno male che l’Europa c’è. E meno male che gli Stati Uniti arrivano in suo aiuto quando non c’è.
Questa sembra essere la narrazione dei fatti che la politica e molti osservatori vorrebbero risuonasse nelle menti dei cittadini europei. Purtroppo non è così. La politica ha semplicemente rattoppato in fretta i danni che essa stessa ha prodotto all’economia europea. E l’aiuto degli Stati Uniti, naturalmente, è interessato.
Innanzitutto, occorre ricordare quali siano le cause di questa crisi dell’euro. L’Europa, specie quella mediterranea, ha da decenni intrapreso un percorso di finanza pubblica difficilmente sostenibile. Chi più chi meno ha finanziato, emettendo debito pubblico, una settore pubblico ipertrofico, un sistema previdenziale assurdamente generoso, una evasione fiscale rampante.
Molti Paesi europei, inoltre, hanno accolto la recente crisi economica e la recessione come un’ottima scusa per eccedere ancor più nella spesa pubblica, giustificando questa scelta con teorie economiche screditate da decenni. Il risultato è stato che quei Paesi che hanno raggiunto in questi anni di crisi deficit dell’ordine del 10% e più del Prodotto interno lordo, come la Grecia, la Spagna, il Portogallo, hanno avuto gravi difficoltà a piazzare nuove emissioni di debito ai mercati, se non al costo di un sostanziale premio al rischio. Altri Paesi, tra cui l’Italia, evitando saggiamente inutili interventi di spesa, hanno potuto invece navigare la crisi, senza immediati rischi.
La responsabilità della crisi dell’euro di questi giorni è quindi tutta delle politiche fiscali irresponsabili, dei deficit di bilancio di oggi e dei debiti accumulati nel passato. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, il loro interesse in una zona euro stabile è ovviamente dovuto principalmente alla globalizzazione dei mercati finanziari che rende ogni crisi finanziaria, anche locale, in prospettiva una crisi mondiale. Una ristrutturazione del debito della Grecia sarebbe dannosa per le banche, soprattutto tedesche e francesi, che tale debito detengono; e una crisi bancaria in Europa avrebbe immediate ripercussioni sulle ancora deboli banche americane.
Ma non è solo per questo che l’amministrazione Obama ha marcato stretto la cancelliera Merkel e il presidente Sarkozy durante la crisi dell’euro. I maggiori giornali americani e molti osservatori si sono chiesti e si chiedono quanto i problemi di finanza pubblica dell’Europa oggi non presagiscano il futuro dell’economia statunitense nel medio periodo. L’amministrazione Obama, infatti, ha intrapreso un programma di grande espansione del settore pubblico, e di conseguenza dell’indebitamento. Pochi credono alle promesse di riduzione del deficit nel prossimo futuro che l’amministrazione produce in continuazione. E la Cina, il cui risparmio ha fino ad ora sostenuto una gran parte dei debiti pubblici e privati americani, non potrà continuare a lungo a produrre senza consumare. Con le elezioni del Congresso a novembre, il presidente Obama e i democratici non possono rischiare che una crisi dell’area euro apra una discussione sul modello di spesa pubblica di stampo «europeo» sui cui binari essi stanno mettendo gli Stati Uniti. Anche all’amministrazione americana conviene quindi sostenere di aver sventato una crisi dell’euro, dovuta agli arbitrari attacchi speculativi dei mercati.
Ma i problemi veri, purtroppo, non hanno mai soluzioni finte. La crisi dell’Europa è una crisi di finanza pubblica e l’unica sua possibile soluzione sta nell’affrontare onestamente e drasticamente la questione della spesa pubblica. Ma per affrontare la questione della spesa pubblica occorre coraggio politico, merce tradizionalmente scarsa in Europa, specie nel Sud-Europa.
Gli stessi Stati Uniti farebbero bene a sollevare la testa dalla sabbia e a ripensare alla sostenibilità dei propri programmi di spesa pubblica. Essi hanno però un vantaggio rispetto all’Europa: mentre l’Europa non ha essenzialmente alcuna possibilità di manovra sul lato delle entrate, che sono già a livelli di soffocazione, gli Stati Uniti in linea di principio possono rientrare aumentando le tasse. Nulla succederà sino alle elezioni, ma con ogni probabilità gli americani troveranno sotto l’albero di Natale una bella tassa sul valore aggiunto.
I cerotti non curano la malattia
di MARIO DEAGLIO (La Stampa, 8/5/2010)
Non è sufficiente mettere un «cerotto» sulle ferite aperte dell’economia greca, come si apprestano a fare i leader europei nei prossimi giorni, concedendo ad Atene un prestito troppo a lungo rinviato. Non bastano parole e documenti solenni a dare ai guai di Atene la «risposta forte» auspicata dal presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama. I responsabili delle maggiori economie del pianeta sono troppo spesso vittime della propria retorica, troppe volte hanno parlato in maniera non sufficientemente meditata di crisi superata; troppe volte hanno apposto firme solo apparentemente rassicuranti.
In realtà appare più appropriato supporre che il virus all’origine di questa crisi abbia subito una nuova mutazione: sorto nel 2007 in un segmento secondario della finanza americana, quello dei mutui subprime, è mutato la prima volta nell’autunno del 2008 provocando una sensibile caduta di produzione e occupazione in tutti i Paesi ricchi dopo aver devastato la finanza internazionale e distrutto una parte non piccola del capitale finanziario mondiale. Ora sembra mutare nuovamente forma e percorso e ritornare, in maniera più aggressiva, a colpire quella che è forse la componente più sensibile della finanza mondiale, ritenuta fino a poco tempo fa intoccabile e invulnerabile: il «debito sovrano», ossia i titoli emessi in prima persona dai principali Paesi del mondo. La Grecia è un caso limite di debolezza in quanto Atene ha seguito politiche irresponsabili e platealmente truccato i dati per poter essere ammessa nella zona euro.
Un prestito europeo alla Grecia può forse servire a guadagnare tempo, anche se, come ha sottolineato Franco Bruni su queste colonne alcuni giorni fa, quella che ora viene proposta pare una soluzione malaccorta e troppo «violenta» in quanto è irrealistico chiedere a qualsiasi Paese un «rientro» da una situazione debitoria così pesante in soli tre anni. Servono altre cure, di natura strutturale, che riguardano il mercato finanziario internazionale e i Paesi che su questo mercato contraggono (e normalmente ripagano) debiti. Tali cure devono rivolgersi in primo luogo al funzionamento dei mercati. La Grecia sarà pure una grande peccatrice finanziaria, ma non è giusto che chi l’ha aiutata a peccare e ha tratto vasti guadagni dal suo peccato possa godersi tranquillamente tali guadagni. Il pensiero va naturalmente ad alcune grandi organizzazioni finanziarie, soprattutto americane che sembrano aver cancellato ogni senso di lealtà verso il cliente: hanno aiutato la Grecia a raccogliere prestiti emettendo titoli di debito, e subito dopo hanno scommesso sulla loro perdita di valore.
Senza neppure scomodare l’etica, sui mercati è essenziale una maggiore coerenza e continuità di comportamenti. È inoltre opportuno che le agenzie di rating, che svolgono un indispensabile compito di valutazione indipendente, seguano rigide procedure di comunicazione: in questi giorni i mercati sono stati sconvolti da annunci, che risultano francamente irresponsabili da parte di tali agenzie sul probabile declassamento dei debiti di alcuni Paesi. Una regolazione quasi immediata del loro comportamento sembra inevitabile per attenuare le convulsioni dei mercati. In questi mercati, un ruolo fondamentale spetta al debito pubblico. Si deve constatare, come risulta da un recentissimo studio della Banca dei Regolamenti Internazionali, che il livello di tale debito è destinato a salire nei prossimi anni e decenni in tutti i Paesi ricchi anche per effetto dell’invecchiamento della popolazione che porta a un aumento della spesa pensionistica e della spesa sanitaria. Occorrono forse misure drastiche di contenimento della spesa (come indicato dagli autori dello studio, Cecchetti, Mohanty e Zampolli) o forse l’accettazione di un tasso leggermente più elevato di inflazione, sempre che la si riesca a controllare; in Europa, in ogni caso, è indispensabile riscrivere con clausole più larghe il patto di stabilità che oggi appare perfino ridicolo.
In un più generale ambito mondiale, il livello strutturale di rischio di tutti i debiti pubblici, e più in generale di tutti gli impieghi finanziari, appare cresciuto dopo l’episodio greco. Queste variazioni strutturali delle finanze pubbliche si accompagnano a un crescente malessere politico: pressoché tutti i governi dei Paesi ricchi sono di fronte a situazioni difficili che riescono a controllare con sempre maggior fatica, a un malcontento di fondo che si esprime con la frammentazione del quadro politico tradizionale (come in Gran Bretagna, dove la formula del bipolarismo è saltata con le elezioni dell’altroieri, o in Belgio dove il parlamento si è sciolto in un clima di confusione) e con una generale fatica dei governi a mettere in pratica qualsiasi tipo di riforma (come in Italia). Instabilità politica e malessere economico sembrano così andare di pari passo e minacciano di soffocare il nostro futuro. Speriamo che abbia ragione il presidente Napolitano e che le vicende greche e il profondo tonfo delle Borse mondiali degli ultimi due giorni siano soltanto il «colpo di coda» della crisi mondiale. L’errore maggiore che possiamo fare è quello di cercare di affrontare questo «colpo di coda» soltanto con misure tecniche immediate anziché curarne le cause di fondo di tipo economico, sociale e politico.
mario.deaglio@unito.it
Atene e Roma società del ricatto
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 9/5/2010)
Ci vorranno non mesi ma anni, perché la Grecia trovi la forza, in se stessa, di assumere il fardello molto pesante di sacrifici che il primo ministro George Papandreou ha presentato giovedì alle camere. Molti demoni dovrà combattere, molte tribolazioni le si accamperanno davanti man mano che si snoderà la via stretta del risanamento, e in cuor loro i greci l’hanno appreso, in queste settimane di prova: non sono tutti esterni, i demoni; non vengono tutti dal mercato o dalle agenzie di rating le minacce, i sospetti, gli assalti. I mali della Grecia sono in massima parte interni: sono parte della sua storia, dell’uso che è stato fatto di essa, delle memorie paralizzanti che l’impacchettano. Se la resistenza ad accettare la nuova austerità è così vasta, se il coraggio di Papandreou fatica a imporsi, è perché dietro di lui c’è un paese smagato, disunito, radicalmente sfiduciato.
È una sfiducia che ha radici antiche e che risale all’impero ottomano, ma che non ha vissuto una catarsi nel dopoguerra. Lo Stato non ha tratto vigore dalla resistenza al nazifascismo, supinamente ha accettato per decenni di essere una guarnigione della Nato, ha consentito alla dilatazione di un potere militare abnorme: un potere che gli Stati Uniti hanno sfruttato a piacimento, nella guerra fredda. Fin dal dopoguerra Washington ha appoggiato costantemente le destre, non esitando a distruggere le energie della Resistenza e ad appoggiare la dittatura dei colonnelli fra il ’67 e il ’74. L’ingresso greco in Europa e nell’Euro non ha coinciso con uno Stato redento, e oggi i frutti avvelenati di quell’occasione mancata si toccano con mano. Nel giorno del grande esame lo Stato in bancarotta non c’è quella che Leopardi chiama una società stretta, addomesticatrice di egoismi e interessi particolari. Sono scettici e disillusi soprattutto i giovani, che hanno visto degradarsi ai vertici il senso dello Stato, dilagare una corruzione senza limiti, estendersi l’impunità di politici e partiti complici nella difesa dello status quo.
I manifestanti ateniesi domandano questo, in sostanza: come fidarsi di uno Stato che non si è limitato a truccare bilanci ma ha tragicamente fallito la propria rigenerazione? Il direttore del quotidiano Kathimerini, Alexis Papachelas, afferma che per uscire dal marasma servono misure non solo economiche, ma politiche, civili. Quel che urge recuperare non è l’identità offesa della Nazione, come reclamano alcuni, ma la dirittura e l’equità dello Stato: «La sola vera cura è un emendamento costituzionale concordato fra i politici che annulli l’immunità di cui godono ministri e parlamentari, la riduzione del numero dei parlamentari a 200, l’invio di farabutti ed evasori fiscali davanti alle corti o in carcere». Se la crisi vuol essere catarsi, devono emendarsi le scelte economiche ma anche le usanze della politica. Sullo stesso giornale, Nikos Xydakis chiede una «rinascita antropologica».
È il motivo per cui sono tante le somiglianze tra Grecia e Italia, e degne di esser studiate. Negli ultimi giorni si è parlato di un rischio Italia, oltre che spagnolo e portoghese: in genere a torto, per quanto riguarda la nostra economia, il risparmio delle famiglie, la salute delle banche, il deficit dello Stato. Finanziariamente, Roma non vacilla come Atene. È vero anche che la Resistenza non è stata svilita e soppressa con l’aiuto delle forze alleate, come nella guerra civile greca. Nella nostra storia antica e recente abbiamo potuto contare su uomini e istituzioni profondamente fedeli alla res publica, e non siamo stati tormentati, come in Grecia, da una casta militare potenzialmente sovversiva. Ma se si guarda alla fiducia che i cittadini hanno nell’imperio della legge e nella cosa pubblica, le affinità sono impressionanti. Esiste anche in Italia una fondamentale diffidenza verso lo Stato, la legge. Alcune regioni a Sud sono dominate da mafie che di tale miscredenza si nutrono da un secolo. Esiste a Nord e a Milano un disprezzo delle istituzioni pubbliche, del civismo, della legalità, non meno annoso e intenso. Anche qui lo sforzo di rinascere tarda a mobilitarsi. Tarda a nascere una destra autentica, che con Fini fabbrichi futuro e riempia il temibile vuoto. Tarda a sinistra un rapporto non intimidito con il conflitto.
Anche l’anniversario dell’unità d’Italia, lo prepariamo dolendoci più della scarsa identità comune che dell’incultura dello Stato. Si può certo vivacchiare senza cultura dello Stato, della legalità: sia i greci che gli italiani lo fanno da decenni. Ma quando arriva l’ora della prova, l’assenza di fiducia rischia di divenire un fatale cappio al collo per chi impone sacrifici. La gente semplicemente non segue, si sparpaglia, si scinde in mille corporazioni ingovernabili. Per aderire a sacrifici, la società deve pur sempre riconoscersi nello Stato risanatore: nella sua affidabilità, nella sua vocazione a mantenere la parola data, nella rettitudine dei suoi servitori. È la ragione per cui Daniel Cohn-Bendit, intervistato giovedì da la Repubblica, invita a riflettere sulla società e lo Stato ellenico, oltre che sull’economia: «Uno Stato in cui in Grecia non s’identifica nessuno o quasi nessuno. È sempre stato lo Stato degli altri, lo Stato dei ricchi e dei potenti, ognuno lo ha strumentalizzato per sé. È sempre apparso lo Stato dei corrotti, e la gente ha partecipato alla corruzione. Adesso bisogna cambiare tutto questo, ma ci vuole tempo».
Il deputato europeo ammira Papandreou, e critica chi confonde i manifestanti ateniesi con i pochi estremisti che il 5 maggio hanno provocato la morte di tre impiegati della Marfin Egnatia Bank. Il lettore, ascoltando queste parole, avrà legittimamente l’impressione di sentir narrata anche l’Italia: la nascita di uno Stato contaminato dalla corruzione fin dall’inizio della Repubblica, il peso esercitato da potentati esterni interessati all’esistenza di uno Stato parallelo e incontrollato, i patti stretti dalla politica con l’illegalità e la malavita, la magra incidenza che ha avuto Mani Pulite nell’ultimo ventennio, l’impunità dei politici, la magistratura sabotata. Non diversamente dalla Grecia, l’Italia è decaduta fra il dopoguerra e oggi perché piano piano si è creato, fra i partiti, un pericoloso consenso in difesa dello status quo: status quo fondato sulla svalutazione dello Stato, della legalità. Viene in mente, più che attuale, l’allarme lanciato il 22 febbraio ‘98 dal giudice Gherardo Colombo, in un’intervista a Giuseppe D’Avanzo sul Corriere: il male, disse, era in Italia la diffusa società del ricatto, non affermatasi di recente ma fin da quando gli americani, pur di esser facilitati nello sbarco in Sicilia, chiesero aiuto alla mafia.
È in quegli anni che «si è stabilito un rapporto di "quieto vivere" con questa organizzazione criminale, che ha caratterizzato decenni della nostra storia. (...) Il compromesso in Italia è stato sempre opaco e occulto. (...) Negli ultimi venti anni la storia della nostra Repubblica è una storia di accordi sottobanco e patti occulti». La democrazia degenera così, secondo l’ex magistrato di Mani Pulite: non a causa di una conflittualità troppo accesa e dai toni troppo alti, che sono anzi il suo sale. Le «nuove regole della Repubblica vanno organizzate non attorno al conflitto, ma attorno al compromesso». È quest’ultimo che va imbrigliato, assai più del conflitto. È straordinario come la crisi metta in luce proprio questa verità, apparentemente paradossale: se usciremo dalla crisi rinnovati, se sapremo radunare le forze in caso di tracolli, è perché avremo smosso gli opachi patti dello status quo. Non se difenderemo una democrazia fondata sulla discussione, la critica, il disvelarsi del nascosto e del sommerso. La crisi ha questo, di catartico. Porta alla luce difetti di fondo, politici e culturali più che finanziari. Suona il campanello: la ricreazione è finita. Dà nuovo senso ai tentativi di rigenerazione, anche quelli insabbiati e morti. La strada stretta consiste nel riconoscerlo.
Avvisate Marx
di Toni Jop *
Crisi, che passione! E che meravigliosi effetti collaterali! La Grecia sta passando un brutto quarto d’ora, il Portogallo rischia di finire nel tunnel, la Spagna è nel mirino, noi facciamo i pesci in barile ma occhio agli schizzi. È la vanitosa Europa che si sta decomponendo? Nossignori: c’entrano errori e sottovalutazioni e anche una certa disinvoltura nel truccare le carte dei bilanci. Ma la tragedia sono i mercati finanziari: dove sentono odore di cadavere si tuffano come quegli imprenditori che l’indomani del terremoto in Abruzzo, trepidavano, sognavano ricchezze e riconoscenti per la strage se ne andavano a dormire. Il bello è che non lo diciamo noi - anarchici disadattati - ma i capi di Stato invitati a darsi da fare per salvare euro ed europei. Sono loro - comunisti o che altro? - che lamentano la fisica di questa reattività del mercato dei soldi. Sono loro che parlano della necessità di misure di controllo, in pratica di togliere «libertà» a quel grande interprete che un tempo si chiamava capitalismo. Avvisate Karl Marx.
* l’Unità, 29 aprile 2010
CRISI
Grecia, la Merkel al Parlamento
"E’ in gioco il futuro dell’euro"
Il cancelliere tedesco al Bundestag chiede di approvare il pacchetto di stanziamenti. E -assicura: "Nessuna decisione sarà presa senza la Germania o contro la Germania"
dal nostro corrispondente ANDREA TARQUINI *
BERLINO - "E’ in ballo e in gioco il futuro dell’intera Europa e della moneta unica, non soltanto la salvezza della Grecia". Così, con un appassionato discorso di difesa delle sue scelte, la cancelliera federale Angela Merkel (Cdu, cristianoconservatrice) ha lanciato davanti al Bundestag, la determinante Camera bassa del Parlamento federale, un drammatico appello ai legislatori, invitandoli a votare d’urgenza il decreto legge sulla tranche tedesca di aiuti europei ad Atene. E al tempo stesso, Merkel ha ribadito con forza che il Patto di stabilità va cambiato e rafforzato, e ha lasciato capire che la Germania avanzerà chiaramente questa proposta al vertice straordinario di venerdì dei capi dell’esecutivo dell’Eurogruppo, cioè dei paesi aderenti all’Euro.
"Nessuna decisione sarà presa senza la Germania o contro la Germania", ha sottolineato la cancelliera, ammonendo, "ma proprio per questo il mondo guarda alla Germania, in queste ore in cui è in gioco il futuro dell’Europa intera e dell’Euro". L’avvenire dell’Unione europea e della moneta unica, ella ha insistito, dipende dal successo o dal fallimento del piano di salvataggio lanciato per la Grecia - in cambio di durissimi sacrifici che il governo ellenico sta introducendo e imponendo alla popolazione e all’economia - dalla Commissione europea, dalla Banca centrale europea e dal Fondo monetario internazionale. Gli aiuti sono di circa 110 miliardi di euro in 3 anni, di cui 80 forniti dall’Europa e 30 dal Fondo. La tranche tedesca è di 22,4 miliardi di euro, la più importante tra quelle fornite dai paesi dell’Unione monetaria.
Solo un successo del piano consentirà all’Europa e all’Euro di riacquistare la fiducia dei mercati, ha avvertito ancora Angela Merkel. Una nuova crisi finanziaria ed economica internazionale, come conseguenza del suo fallimento, ha messo in guardia la cancelliera, avrebbe gravi conseguenze per l’economia e i posti di lavoro, anche in Germania, la prima economia della Ue. Al tempo stesso il Patto di stabilità va cambiato, ha ripetuto la leader tedesca. Rilanciando la sua proposta di sospendere il diritto di voto nelle istituzioni dell’Unione europea ai paesi che non rispettano i vincoli di rigore del Patto di stabilità.
Per il governo Merkel e per tutta l’Europa sono ore cruciali. Venerdì prima il Bundestag, poi il Bundesrat, cioè la Camera delle Regioni, voteranno il decreto legge. Contestato anche da importanti esponenti della maggioranza di centrodestra al governo, cioè la Cdu della Merkel, la Csu cristianosociale bavarese, la Fdp (liberali) del vicecancelliere e ministro degli Esteri Guido Westerwelle. Venerdì stesso il capo dello Stato, Horst Koehler (senza partito ma vicino alla Cdu) firmerà il dl, e la Merkel con lo sperato sì del Parlamento in tasca andrà a Bruxelles al vertice-cena di lavoro con gli altri leader europei. Domenica poi affronterà il test del crescente malcontento popolare tedesco per il costo del salvataggio della Grecia: si vota nel Nordreno-Westfalia, il più popoloso dei 16 Stati della Repubblica federale, e la coalizione rischia una grave sconfitta. In tal caso perderebbe il controllo del Bundesrat.
© La Repubblica, 05 maggio 2010
CRISI
Eurogruppo, sì a piano da 110 mld
Trichet: "È una crisi sistemica"
Il vertice ha ratificato gli aiuti alla Grecia e le misure per dare sostegno alla stabilità dell’euro. In piedi nei prossimi giorni un meccanismo per aiutare Spagna e Portogallo. Obama e Merkel d’accordo "sull’importanza di una risposta politica forte" *
BRUXELLES - I 16 capi di Stato e di governo dell’Eurozona, riuniti a Bruxelles, hanno ratificato gli aiuti per 100 miliardi di euro per la Grecia in tre anni e si sono d’accordo sul rafforzamento delle regole di governo dei bilanci pubblici. L’Europa ha quindi raccolto l’appello formulato dal presidente Barack Obama e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel, secondo i quali la risposta politica da parte dei paesi interessati e quella finanziaria dalla comunità internazionale deve essere "forte". Anche per il presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, i leader dell’Eurozona devono prendere decisioni perché - ha detto durante la riunione - "siamo in emergenza".
Il monito di Trichet. Al vertice subito il presidente della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, ha messo in guardia i leader: "Attenzione, siamo di fronte ad una crisi sistemica". Trichet - riferiscono fonti - è intervenuto dopo il presidente della Commissione Ue Josè Manuel Durao Barroso e il presidente francese Nicolas Sarkozy, che hanno entrambi espresso insoddisfazione per il testo di dichiarazione che dovrebbe uscire dal Vertice. Secondo Barroso e Sarkozy, il messaggio "è troppo debole" e "non contiene segnali abbastanza forti per un’azione rapida, così come richiesto dalla situazione". Barroso e Sarkozy hanno chiesto ai partner "un linguaggio più forte" e "impegni più fermi".
Il documento. Il testo - secondo fonti spagnole - contiene "un forte messaggio sul sostegno alla Grecia, il secondo riguarda la disciplina di bilancio dell’eurozona, che include anche una dichiarazione dei leader dei 16 paesi a prendere anche misure aggiuntive", se sarà necessario per rispettare gli obiettivi di rientro dai deficit eccessivi. Il terzo messaggio riguarda il rafforzamento della governance economica dell’eurozona, mentre il quarto riguarda i mercati, e probabimente anche le agenzie di rating.
Le stesse fonti hanno chiarito che le conclusioni "saranno basate principalmente sulla lettera congiunta Merkel-Sarkozy" che la cancelliera tedesca e il presidente francese hanno inviato al presidente del Consiglio europeo Herman Van Rompuy e al presidente della Commissione Jose Manuel Durao Barroso, nella quale hanno chiesto un rafforzamento del Patto di stabilità, l’estensione della sorveglianza strutturale a questioni strutturali e di competitività e la creazione di un meccanismo permanente di soluzione delle crisi. Il premier greco Giorgio Papandreou arrivando al summit ha già detto che i leader dell’eurozona oggi intendono "ribadire la fiducia nelle nostre economie e nella moneta comune".
Oltre a questo una delle ipotesi a cui si starebbe lavorando in queste ore a Bruxelles riguarderebbe un meccanismo di "intervento rapido" da mettere in piedi già nei prossimi giorni per essere pronti ad aiutare Paesi della zona euro come Spagna e Portogallo. Il meccanismo potrebbe prevedere l’intervento della Bce e l’adozione di strumenti come l’emissione di titoli di debito pubblico europeo, i cosiddetti eurobond.
Gli incontri preliminari. Il vertice, preceduto da ben quattro ore di consultazioni bilaterali, nel corso delle quali tutti hanno parlato con tutti in incontri vorticosi che hanno indicato chiaramente quanto la situazione sia complessa e potenzialmente esplosiva, si può già considerare storico. I leader sono determinati a concludere l’incontro con un "messaggio forte e condiviso" di stabilità dell’eurozona e con concrete misure di contrasto ai rischi di eventuali nuove crisi. Nel pomeriggio la cancelliera tedesca Angela Merkel aveva già ribadito la necessità di un "inasprimento della disciplina di bilancio" e un’"accelerazione" degli sforzi di regolamentazione del settore finanziario. Il messaggio che i leader intendono inviare ai mercati dal vertice dell’Eurogruppo "non è sufficientemente forte" neanche per il presidente della Commissione Ue, Josè Manuel Durao Barroso. "Barroso sta lavorando per rafforzare la dichiarazione che deve lanciare ai mercati un messaggio per una volontà politica forte, qui e ora", hanno spiegato le fonti. I due punti su cui Barroso non è soddisfatto sono la creazione del meccanismo permanente per prevenire crisi future e il rafforzamento del governo comune dell’economia. "Il presidente ritiene che è arrivano il momento di fare quello di cui da tempo si discute". Anche secondo Berlusconi servono "misure chiare, concrete ed efficaci per difendere l’euro, rafforzare l’Europa e l’Unione monetaria", ha detto il premier negli incontri bilaterali avuti oggi a Bruxelles. "Oggi - ha aggiunto - non è più il momento di lanciare solo messaggi di buone intenzioni".
Obama: forte risposta. E sulla forza del messaggio l’ultima parola è stata quella del presidente americano, Barack Obama. "Siamo entrambi d’accordo sull’importanza di una risposta politica forte da parte dei paesi interessati e di una forte risposta finanziaria da parte della comunità internazionale", ha dichiarato da Washington. "Ho detto chiaramente che gli Stati Uniti sostengono gli sforzi intrapresi e in questo periodo critico vogliamo continuare a collaborare con i leader europei e con il Fmi", ha aggiunto.
Tremonti: incontro "storico". Per il ministro delle finanze "questa è una crisi globale e non si fermerà al nostro continente. Quella in atto a bruxelles è una discussione tra capi di stato e di governo di rilevanza storica - ha detto Tremonti -. Il ruolo dei capi di stato e di governo è fondamentale in questo momento. La discussione fra i membri del G7 è fondamentale". Tremonti ha concluso osservando che "se c’è la forza di una visione comune per capire che la speculazione è solo una parte del problema, credo che ci siano ragioni per essere fortemente ottimisti, altrimenti lo scenario può essere diverso".
* la Repubblica, 07 maggio 2010
LA CRISI
Sì della Merkel ai fondi per la Grecia
Procedura accelerata per gli aiuti
La decisione del governo tedesco: 8,4 miliardi di aiuti nel 2010 e altri nei due anni successivi
Le Borse riprendono fiato. Il governo ellenico perplesso sulle misure di austerity
dal corrispondente ANDREA TARQUINI *
BERLINO - Il pressing europeo e internazionale sulla Germania sta sortendo i primi, importanti effetti positivi. I colloqui a Berlino dei leader tedeschi con il presidente della Banca centrale europea (Bce), Jean-Claude Trichet, e con il direttore del Fondo monetario internazionale (Fmi), Dominique Strauss-Kahn, sembrano aver convinto la cancelliera Angela Merkel e il suo potente ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, a varare una procedura accelerata per aiuti tedeschi ad Atene nel quadro del programma di salvataggio dell’Unione europea. Merkel e Schaeuble vogliono preparare un disegno di legge entro il 3 maggio e farlo approvare dal Bundestag, il Parlamento federale, entro venerdì 7. Quindi prima delle elezioni nello Stato-chiave del Nordreno-Westfalia, che la maggioranza di centrodestra teme di perdere. Passi avanti dunque, ma manca ancora la sicurezza assoluta di un sì dei legislatori tedeschi. E intanto sui mercati la situazione si aggrava di ora in ora: l’euro è sceso a 1,31 sul dollaro, le Borse sono in flessione, tranne quella di Atene incoraggiata dai segnali positivi. Il differenziale tra bond greci e tedeschi vola oltre il 1000 per cento, e il tasso d’interesse sui bond greci decennali tocca la quota record del 13,1 per cento. Senza aiuti, in altre parole, Atene non potrà farcela, perché non è in grado di accollarsi i costi dei crediti necessari.
Una giornata di passione, con la mattinata dedicata da tutti i protagonisti a far pressione sui tedeschi, mentre le agenzie di rating continuano imperterrite a "picconare" l’economia europea. Nel pomeriggio, Standard&Poor ha rivisto al ribasso il rating spagnolo da "AA+" ad "AA" con outlook negativo. L’euro è subito scivolato verso il basso.
"E’ assolutamente necessario che il governo tedesca decida rapidamente", ha ammonito il presidente Bce Trichet in un colloquio con Schaeuble e con i dirigenti di quasi tutti i partiti tedeschi. Strauss-Kahn ha rincarato la dose: "La fiducia nell’euro è in gioco". Dopo quasi tre ore di colloquio, il ministro delle Finanze tedesco Schaeuble, parlando ai giornalisti insieme al presidente Bce e al direttore Fmi, ha detto che la Germania non lascerà cadere Atene, ed è pronta ad aiutarla, a condizione che i negoziati tra Atene, la Bce e il Fmi avranno successo.
Nell’attesa di dichiarazioni della cancelliera Merkel, Schaeuble ha spiegato la tabella di marcia a tappe forzate che il governo si vuole imporre per aver ragione dei numerosi no agli aiuti alla Grecia nei ranghi della sua stessa maggioranza. Entro il 3 maggio, la coalizione dovrà approntare un disegno di legge. E’ pronta, a livello di decisione politica, ad aiutare gli ellenici per 8,4 miliardi di euro quest’anno, e a garantire aiuti anche nel 2011 e nel 2012. "la stabilità dell’euro è a rischio, e la stabilità delle finanze greche è un problema dell’Europa intera, non di Atene", ha sottolineato Schaeuble. La condizione, hanno ricordato Trichet e Strauss-Kahn, è che la Grecia accetti le condizioni e richieste di duro risanamento. E su questo tema emergono già le prime difficoltà: il governo greco rifiuta la richiesta di tagli salariali nel settore pubblico, dominante nell’economia della penisola. Europa e Fmi, secondo il presidente dell’esecutivo europeo, il belga Herman Van Rompuy, sono pronti ad aumentare il pacchetto di aiuti: il Fmi accrescerebbe la sua quota da 15 miliardi attuali a 25. La quota dell’Unione europea è di 30 miliardi, di cui 8,4 miliardi spettano alla Germania. Nel complesso la cifra necessaria a salvare la Grecia sarebbe pari a 135 miliardi di euro nei tre anni.
Il governo, ha proseguito Schaeuble, presenterà poi al Parlamento il disegno di legge, con la richiesta di approvarlo entro venerdì 7 maggio. Merkel e Schaeuble, insieme a Bce e Fmi, hanno fretta. Primo, perché i conti e il rating greci (con i titoli greci degradati a ’spazzaturà da Standard & Poor) peggiorano ogni giorno e il 19 maggio scade un’altra rata di crediti per Atene. Secondo, perché dopo le elezioni del 9 maggio in Nordreno-Westfalia, in caso di sconfitta della maggioranza (la Cdu di Merkel, la Csu bavarese, i liberali, cioè Fdp, del vicecancelliere Westerwelle) umori negativi e tentazione di votare no, come franchi tiratori, potrebbero diffondersi pericolosamente nei ranghi della maggioranza.
Perplessità, timori, atteggiamenti anti-greci e anti-Ue, si diffondono. Secondo un sondaggio pubblicato oggi dall’autorevole Frankfurter Allgemeine crolla la fiducia dei tedeschi nell’Unione europea (Ue) e nell’euro: solo il 32 per cento ha fiducia assoluta nella moneta unica, il 45 per cento poca fiducia, il 14 per cento nessuna. Appena 31 tedeschi su cento si fidano della Bce, che pure governa la politica monetaria con i principi e le leggi della Bundesbank. Soltanto 20 tedeschi su cento paradossalmente sono persuasi che l’adesione alla Ue porti vantaggi al paese, 28 su cento pensano il contrario. 28 su cento dicono sì a un’uscita dalla Ue e il 47 per cento preferirebbe tornare dall’euro al marco, 65 su cento non vogliono aiuti alla Grecia: temono che poi Portogallo, Spagna e Italia battano cassa.
L’allarme, e la perplessità sulle aperture governative, si diffondono nei ranghi della maggioranza e tra gli economisti. Un gruppo di europarlamentari governativi tedeschi avvertono che di qui a fine 2012 Atene avrà bisogno di ben più degli aiuti promessi dalla Ue e dal Fmi, cioè le serviranno tra 100 e 120 miliardi di dollari. L’influente economista Hans-Werner Sinn afferma che "non riavremo mai quei soldi, perché la Grecia non è in grado di ripagarli". La partita continua col fiato sospeso per le sorti dell’Europa intera.
Obama. Preoccupazione anche negli Stati Uniti. Il presidente Usa, Barack Obama, "è molto preoccupato per la situazione finanziaria della Grecia e l’amministrazione segue la vicenda da vicino". E’ quanto riferisce un portavoce della Casa Bianca. "Il Tesoro e le altre Agenzie sono in stretto contatto con l’Europa in merito alla situazione del debito di Atene", ha aggiunto.
* la Repubblica, 28 aprile 2010
LA CRISI
"I titoli di Atene sono spazzatura" E’ il verdetto delle agenzie di rating
In Grecia nuova ondata di scioperi
Il ministro delle Finanze sfida l’Ue
"Poca chiarezza, così non aiutano"
Seduta nera per le Borse europee
ATENE La Grecia ha bisogno al più presto degli aiuti dell’Ue e dell’Fmi, non potendo più rivolgersi ai mercati nel mezzo di una situazione in cui l’Europa «non ci aiuta». Il grido d’allarme è stato lanciato dal ministro delle Finanze greco, George Papacostantinou, nel giorno in cui ha raggiunto un nuovo record lo spread con i bond. L’agenzia internazionale Standard And Poor’s annuncia di aver declassato il rating sovrano della Grecia, portandolo a livello ’junk’ (spazzatura). Il rating è stato tagliato di tre note a ’BB+’. L’outlook resta negativo, il che significa che il rating potrebbe essere ulteriormente declassato.
«La data cruciale è il 19 maggio, quando scadranno i bond del governo greco per nove miliardi di euro», ha avvertito Papaconstantinou, esprimendo l’auspicio che i colloqui avviati mercoledì scorso ad Atene con la Commissione europea, la Bce ed il Fondo monetario internazionale si concludano la prossima settimana. «Data la nostra incapacità di rivolgersi ai mercati, entro il 19 maggio la procedura dovrà essere completata, concordata e firmata e dovrà iniziare l’erogazione dei fondi» da parte dell’Ue e dell’Fmi, ha detto ancora il responsabile delle Finanze di Atene, denunciando la «mancanza di chiarezza» da parte dei 27.
«La situazione politica in Europa non ci sta aiutando, ci sono frequentemente voci diverse», ha denunciato ancora Papaconstantinou, ribadendo ancora che Atene resta «sotto pressione» da parte dei mercati, che «scommettono contro di noi». Il governo rilancia anche la retorica sulla conduzione dell’economia, tra promesse di svolte radicali - «cambieremo tutto», ha affermato il premier George Papandreou, per rimettere l’economia su un percorso sostenibile - e di nuove dure misure di risanamento dei conti pubblici, mentre aspetta il verdetto di Unione europea e Fondo monetario internazionale sugli aiuti che ha richiesto.
Il conto alla rovescia è iniziato, sul 19 maggio incombe la scadenza di 9 miliardi di euro in titoli di Stato. Sui mercati permangono forti tensioni, restano a livelli critici i rendimenti sui titoli a 10 anni - che si muovono nella direzione opposta al prezzo e riflettono le percezioni di rischio sulla solvibilità di un paese - oggi oltre il 9,5 per cento, a nuovi primati negativi. Nel pomeriggio la Borsa di Atene è arrivata a perdere circa il 7%. Dalla Commissione europea giungono messaggi tranquillizzanti: il parere preliminare sugli aiuti sarà pronto in tempi rapidi, al più tardi la prossima settimana. Poi sarà ai singoli paesi, ognuno con la sua procedura, stanziare effettivamente i fondi: 30 miliardi dall’area dell’euro più altri 15 miliardi dall’Fmi. Meno rassicurante su questo fronte è stata finora la linea intransigente seguita dalla Germania, a cui si aggiunge la più piccola Austria, sebbene ieri Berlino abbia mostrato un qualche ammorbidimento.
Ma intanto la tensione sul paese e le paure di «effetti contagio» tornano a farsi sentire anche sulle altre Borse europee, che oggi erano già orientate in negativo anche a causa di segnali su politiche restrittive in Cina, paese che finora ha in buona parte guidato la ripresa globale. Un nuovo sondaggio oggi su Die Welt ha ribadito che la maggioranza dei tedeschi, il 57 per cento, resta contraria a dare soldi alla Grecia. Ieri la cancelliera Angela Merkel ha assicurato che Berlino farà la sua parte, la più consistente dell’area euro, solo se Atene presenterà di contropartita un piano credibile sul risanamento. Ma si è anche detta fiduciosa sul fatto che così sarà. Il ministro delle Finanze tedesco ha inviato i suoi concittadini a essere «più amichevoli» con i loro partner, soprattutto visto che in ballo c’è la stabilità della moneta comune a tutti, l’euro. Ma sempre oggi da un altro sondaggio, pubblicato dalla tv greca Mega è emerso che anche la maggioranza dell’opinione pubblica ellenica è contraria a questi aiuti, specialmente quelli dell’Fmi che evidentemente viene vista come l’istituzione più severa sulle contropartite in termini di austerità di bilancio.
A rimarcare la drammaticità della situazione, oggi il ministro delle Finanze George Papaconstantinou ha avvertito che ormai la Grecia «non può più» prendere a prestito fondi sul mercato per rifinanziare il suo debito, e che entro il 19 maggio avrà bisogno degli aiuti. In questa situazione la Grecia «non è aiutata dall’Europa», ha aggiunto «dove manca chiarezza» sugli aiuti che sono stati richiesti. Mentre il deficit di bilancio del 2009 potrebbe essersi avvicinato al 14 per cento del Pil, ha riconosciuto Papaconstantinou dopo che nei giorni scorsi il dato è stato rivisto in peggio da Eurostat, al 13,6 per cento del Pil. «È giunta l’ora della verità», ha affermato oggi il premier Papandreou, incontrando i parlamentari socialisti, che hanno la maggioranza di governo: in Grecia bisogna «cambiare tutto, economia, Stato, mentalità, abitudini, comportamenti, per fondare un sistema sostenibile». Ma servono «tempo e serenità per poter riformare profondamente», laddove «da sei mesi non si fa altro che pensare agli spread», il divario di rendimento che i titoli di Stato greci accusano rispetto agli equivalenti della Germania, e che ora ha superato i sei punti percentuali.
Il sondaggio sui greci - va segnalato condotto prima che il governo chiedesse effettivamente gli aiuti, venerdì scorso, e su un campione di 1.400 cittadini - potrebbe riflettere un mutamento sugli orientamenti dell’opinione pubblica, che finora aveva appoggiato le dure manovre di risanamento ell’esecutivo Papandreou, nonostante l’opposizione di diversi tra i principali sindacati. Ma il governo tira dritto, il premier ha comunque ribadito il suo «ottimismo», così come la volontà di non arretrare sul risanamento. «Speriamo di poterci occupare finalmente di grandi cambiamenti e il meccanismo (di aiuti Ue-Fmi) ci garantirà l’indispensabile tranquillità e la disciplina per realizzare questi cambiamenti». La Banca centrale greca avverte che si rischia una recessione economia più accentuata del previsto quest’anno, e il governatore ha chiesto al governo unno sforzo supplementare sul risanamento del bilancio, con cui sorprendere i mercati: è l’unico modo per invertire la spirale di tensioni sui titoli di Stato ellenici. «Per ottenere una definitiva inversione delle tendenze negative, dobbiamo superare noi stessi e soprendere favorevolmente i mercati - ha affermato George Provopoulos - centrando miglioramenti anche superiori a quelli previsti». Ci vuole «una rottura con il passato», ha proseguito. «L’economia della Grecia si trova in mezzo a una profonda crisi su più versanti. L’uscita dalla crisi - ha concluso - richiederà per questo uno sforzo sistematico su più anni».
L’effetto Grecia colpisce anche le borse europee. Nella seduta odierna sono andati in fumo circa 160 miliardi di euro di capitalizzazione dell’indice paneuropeo Stoxx 600 che ha ceduto il 3,13%, con un ribasso accentuato negli ultimi minuti dopo il taglio di S&P al rating greco.
* La Stampa. 27/4/2010 (18:30)
Nobili ideali e interessi di bottega
di MARIO DEAGLIO (La Stampa, 27/4/2010)
La Grecia deve fare i compiti a casa prima di dar l’esame e ricevere gli aiuti». Così, in tono ironico e sprezzante, si è espresso ieri il leader liberale e ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle a proposito del nuovo veto che ha ancora una volta bloccato la concessione di un prestito europeo al governo di Atene. Come talvolta succede, la realtà è quasi l’esatto contrario: è il ministro Westerwelle a dover fare dei difficili compiti a casa. Il 9 maggio, infatti, nelle elezioni regionali del Land del Nord Reno - Westfalia i liberali di Westerwelle potrebbero non superare la barriera del 5 per cento. Gli equilibri politici nazionali e non solo quelli locali ne potrebbero uscire alterati.
Il governo tedesco, quindi, parla di principi ma guarda alle urne, si appella agli ideali della corretta amministrazione ma punta prima di tutto a far bella figura con i 15 milioni di elettori di una delle regioni più importanti della Germania. Non è la prima volta che nobili ideali coprono più prosaici interessi di bottega e non saranno certo gli italiani a scandalizzarsi troppo.
Superata, o comunque archiviata, la prova elettorale, la Germania dovrà aiutare la Grecia; anche perché se non aiuta la Grecia potrebbe procurare danni gravissimi alla Hre, un’istituzione finanziaria tedesca recentemente nazionalizzata per sottrarla al fallimento, che ha partecipato alle rischiose operazioni della finanza internazionale sul debito greco e potrebbe essere detentrice di un congruo pacchetto di tale debito. Per non dare qualche soldo alla Grecia si rischia quindi un possibile effetto devastante su tutto il mondo finanziario tedesco.
Nel frattempo, si lascia via libera alla caccia grossa della finanza internazionale che ha nel mirino il Portogallo, altro Paese debole. Le sue condizioni sono sensibilmente meno gravi di quelle della Grecia ma il suo «rischio Paese» è stato, per analogia, pesantemente rivisto all’insù dai mercati. E intanto, sempre per analogia, qualcosa si muove al rialzo anche sul rischio spagnolo. Portogallo, Grecia, Spagna: dei quattro paesi a rischio che compongono l’acronimo Pigs (maiali) inelegantemente coniato nei circoli finanziari, ne rimane uno solo che comincia per I. No, non si tratta, per ora, dell’Italia - che ha un rapporto deficit/pil del 5,3 per cento, nettamente inferiore alla media dei Paesi dell’euro - ma della disgraziata Irlanda che ha un terribile 14,3 per cento. C’è però poco da stare allegri: anche l’Italia comincia per I e il 9 maggio è ancora molto lontano.
Se tutto ciò venisse scritto in un romanzo di fantaeconomia sembrerebbe incredibile oltre che grottesco. Eppure è quanto si sta verificando in un’Europa senza istituzioni sicure, dove la Banca Centrale Europea sta chiusa in un elegante grattacielo, come isolata dal mondo, senza un ministero europeo dell’economia con cui dialogare mentre i singoli paesi vanno ciascuno per conto suo e il Belgio, che dovrebbe essere il più «europeo» di tutti, non foss’altro che per essere sede delle maggiori istituzioni dell’Unione, è entrato in una crisi politica al buio dopo un paio d’anni di effettivo non governo. Non si esce da questa situazione semplicemente mettendo una pezza sul debito greco. Per non affondare, per non andare indietro, l’Europa sarà costretta a fare un deciso passo avanti sulla via dell’integrazione. Tale passo in avanti non può che implicare un’ulteriore perdita di sovranità economica dei singoli stati dell’Unione a cominciare da quelli più deboli che dovranno accettare una supervisione a livello europeo. Alcune competenze economiche degli stati nazionali (per esempio relative alle grandi infrastrutture europee) dovrebbero poi passare a un governo centrale ed essere finanziate mediante un’imposizione fiscale europea, determinata e controllata dal Parlamento europeo. L’autonomia economica di paesi come Francia, Germania e Italia dovrebbe lentamente ridursi fino ad assomigliare a quella (peraltro non trascurabile) di California, Massachusetts o Nebraska all’interno degli Stati Uniti.
Per l’Italia, la situazione presenta un risvolto del tutto particolare. L’Italia ha pagato con 10-15 anni di non crescita, o di crescita insufficiente, l’adesione, peraltro indispensabile, ai parametri di Maastricht: pur non essendo riuscita a ridurre grandemente il rapporto debito/prodotto, ha mantenuto fede agli impegni concordati e i suoi conti pubblici sono abbastanza in ordine. Si tratta naturalmente di una situazione precaria che potrebbe volgere decisamente al peggio in caso di cambiamento improvviso del quadro politico. Uno scioglimento anticipato delle Camere potrebbe indurre le agenzie internazionali di rating, come Moody’s e S&P, delle quali ormai la politica di ogni Paese è succube, ad abbassare improvvisamente la valutazione del debito pubblico italiano. Gli uomini politici italiani, notoriamente loquaci, dovrebbero poi ricordare che, quando fanno dichiarazioni, Moody’s e S&P ascoltano e annotano. Se non dai richiami del Presidente della Repubblica, almeno dalla finanza internazionale dovrebbe venire al mondo politico il richiamo a una maggiore cautela.
mario.deaglio@unito.it
Una folle partita a poker
Nel martedì nero dei mercati si consuma una partita di poker mortale tra gli Stati e i mercati. C’è una posta in gioco, ed è decisiva: è la sopravvivenza dell’euro, che tra le macerie del Partenone rischia di crollare sotto i colpi della speculazione. C’è un giocatore, ed è risolutivo: è la Germania, che con una strategia nazionalistica rischia di accelerare la fine dell’Unione monetaria.
di MASSIMO GIANNINI *
Sembra un’altra "tempesta perfetta", quella che si sta abbattendo sulla Grecia e sull’Europa, sulle Borse e sui bond. Evidentemente non sbagliava il Financial Times, quando all’inizio di febbraio aveva avvertito il mondo: attenzione, gli hedge funds hanno pronti in canna 8-10 miliardi di dollari di posizioni a breve, pronte da usare per la scommessa sul collasso debitorio dell’eurozona. L’attacco è partito. E l’effetto-domino non solo è possibile, ma diventa probabile. Questo bagno di sangue costato 160 miliardi di euro ci insegna due lezioni fondamentali.
La prima lezione. I mercati puntano qualcosa, lassù in cielo. Come sempre gli sciocchi guardano il dito e non vedono la luna. Il dito è la Grecia. Un Paese ormai al default. L’ulteriore downgrading del suo debito trasforma i titoli di Atene in "spazzatura". Il governo Papandreou non ha più scampo, precipitato com’è nella micidiale "spirale mercatista". L’indebitamento viaggia verso il 15% del Pil. Il rendimento sui bond a due anni richiesto come "premio di rischio" sfonda il tetto del 13%. Secondo le banche d’investimento americane, è il più alto al mondo sul titoli a breve termine. Più di quello dei titoli dell’Argentina (8%) e del Venezuela (11%). In queste condizioni, più la Grecia cerca risorse sul mercato, più stringe il cappio intorno al collo della sua finanza pubblica. Più cerca di salvarsi, più finisce per soffocarsi. Era tutto previsto. E chi oggi finge di piangere, versa lacrime di coccodrillo.
Ma nella logica spietata degli speculatori Atene è un falso obiettivo. Quello vero, cioè la luna che non stiamo vedendo, è immensamente più grande. Si chiama euro. Nel piatto, al tavolo verde in cui si combattono gli stati e i mercati, c’è l’Unione monetaria. Questo dice l’offensiva già partita contro il Portogallo. Un Paese che segue lo stesso, inevitabile destino della Grecia. Il rating del suo debito è già stato declassato. Il rendimento dei suoi titoli decennali è già schizzato oltre il 5%, e il premio di rischio richiesto dai mercati ha fatto impennare lo spread sui titoli tedeschi fin quasi ai 70 punti base. È vero che il governo di Lisbona conta su un deficit pari "solo" al 9,4% e su un debito "limitato" al 77% del Pil. Ma è anche vero che sconta una crescita nulla e una competitività bassissima. In altre parole: il Portogallo è la prossima vittima sacrificale.
Ma fin qui saremmo al default di due economie periferiche dell’eurozona. Il disastro può cominciare subito dopo. Tragedia greca, fado portoghese, e in sequenza dramma mediterrraneo. Nella lista nera degli speculatori sono già iscritti Spagna e Italia. Le prime tensioni all’asta dei Bot di ieri sono un campanello d’allarme molto preciso. Ma qui il quadro cambia radicalmente. "Pigs" o non "Pigs", stiamo parlando della terza e della quarta economia di Eurolandia. Paesi considerati "too big to fail", cioè troppo grandi per fallire perché "too big to bail out", cioè troppo grandi per essere aiutati. Ma è chiaro che, se e quando toccherà a Madrid e a Roma, saremmo già a discutere di un altro mondo e di un’altra Europa. Uno spazio politico ed economico, cioè, nel quale l’euro come è stato fondato nel ’98 e come lo abbiamo conosciuto in questi dieci anni non esisterà già più. È questa la luna, che la speculazione ha preso di mira. I mercati stanno scommettendo sul collasso dell’Unione monetaria. E la notizia è che stanno vincendo.
E qui sta la seconda lezione. I mercati stanno vincendo perché gli stati stanno sbandando. E un Paese, soprattutto, sta sbandando più degli altri. L’asse franco-tedesco che ha guidato l’Europa nei momenti cruciali è crollato. Lo spirito di Maastricht, pur con i suoi parametri "stupidi" o intelligenti che fossero, unì a suo tempo Kohl e Mitterrand mentre oggi divide la Merkel dal resto del Continente. Il tracollo greco, con gli euro-deliri innescati dal piano di aiuti male e forse mai digerito dai tedeschi, sta disvelando l’altra faccia della Germania. Una nazione ripiegata su se stessa e guidata dal suo esclusivo interesse nazionale. Nella tempesta perfetta di questi mesi la posizione tedesca è "coerente ma sbagliata", come ha scritto a metà marzo Wolfgang Munchau. Per ragioni costituzionali, prima ancora che per opzioni politiche, punta alla stabilità dei prezzi e alla disciplina di bilancio. Dunque non vuole sentir parlare di aiuti. L’86% dei tedeschi è contrario al prestito da 8,4 miliardi di euro alla Grecia che competerebbe alle casse federali secondo l’accordo firmato all’eurogruppo due domeniche fa.
Al contrario di quanto accadde nei momenti più belli della storia tedesca degli ultimi due decenni (dalla riunificazione Est-Ovest in poi) la Germania di oggi affronta le sue responsabilità verso l’Europa con un approccio egoistico e unilaterale. Il paradosso di queste settimane di crisi sulla Grecia e sui mercati è che ogni decisione comune è stata condizionata dal governo di Berlino non in base all’enormità della posta in gioco, l’unione monetaria come fattore di stabilità internazionale, ma a una scadenza elettorale come fattore di stabilità interna: il voto in Nord Reno-Westfalia del 9 maggio prossimo. Persino il vertice europeo convocato d’urgenza ieri, in pre-default della Grecia e in pieno collasso dei mercati finanziari, è stato posposto a questo appuntamento tutto "domestico". Il governo Merkel, spostato a destra dai liberali di Guido Westerwelle, non può e non vuol dare alla sua opinione pubblica l’impressione di cedere ai soliti "latinos", cioè i Paesi lassisti e irresoluti del Club Med.
In realtà, questa volta, la vera irresponsabilità non abita nelle cancellerie dei "Pigs", ma piuttosto nella cancelliera di Berlino. Con il suo atteggiamento da "europeista riluttante", la Germania ha fornito armi formidabili alla speculazione arrembante. Come insegnano le disastrose esperienze dei primi Anni ’90, gli Stati nazionali hanno una sola possibilità di resistere alle aggressioni dei mercati finanziari: agire con una sola testa e un solo braccio, e costruire un muro granitico intorno alla propria economia e alla propria valuta. Quando questo non accede, come successe poco meno di vent’anni fa alla sterlina e alla lira, si fa la fine degli oriazi e dei curiazi (per ripetere un’efficace definizione dell’epoca di Carlo Azeglio Ciampi). È quello che rischia di ripetersi anche oggi. Se Eurolandia non è in grado di darsi regole uguali e condivise per la disciplina dei conti pubblici, la stabilità dei prezzi, la competitività dell’economia, allora l’euro alla lunga non può reggere. Gli speculatori di tutto il mondo lo capiscono, e per questo azzannano come una muta di cani gli esemplari più deboli del branco. I governanti e i cittadini tedeschi lo temono, e per questo sembrano già proiettati su un’idea "altra" dell’eurozona. Non più un’Unione allargata a 16 Paesi, con una moneta unica che non può contenere né esprimere la forza di nazioni sovrane troppo diverse tra loro. Ma un’Unione ristretta solo a quei Paesi che accettano norme comuni sul rigore contabile e il controllo dell’inflazione. In questo scenario non avremmo più una moneta unica, ma due. Un euro di serie A per i Paesi del Nord a maggiore virtù fiscale, e un euro di serie B per i Paesi del Sud a minor tenuta finanziaria. Inutile dire dove finirebbe l’Italia, a sua volta spaccata tra una ricca Padania e un depresso Mezzogiorno. Economisti tedeschi e banchieri anglosassoni come Taylor Martin lo hanno teorizzato apertamente, trovando addirittura un nome alle due nuove valute: il "neuro" e il "sudo". Sembra un gioco, ma non lo è affatto. I governi d’Europa non l’hanno capito. Continuano a scherzare sotto il vulcano.
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© la Repubblica, 28 aprile 2010