LA LETTERA DI MORATTI
"Caro Cipe, con un filo di voce
mi parlavi ancora dell’Inter" *
MILANO - "Caro Cipe, non sono riuscito a dirti quello che volevo, per paura di farti capire che il tempo era inesorabile e la malattia terribile. Scusami, ma credo che ti debba ringraziare soprattutto per la pazienza che hai sempre avuto con me. Per i tuoi occhi che sorridevano, fino alla fine, ai miei entusiasmi o all’ironia con cui cercavo di superare insieme a te momenti difficili". Sul sito nerazzurro, la lettera che Massimo Moratti dedica a Giacinto Facchetti.
"Pochi giorni fa, pochissimi - ricorda Moratti sul sito nerazzurro - mi parlavi dell’Inter con un filo di voce e con l’espressione di chi ti vuole bene, proiettando il tuo pensiero in un futuro che andava oltre le nostre povere, ignoranti, possibilità umane".
"Qualche mese fa - prosegue Moratti - ti chiedevo un po’ scherzando un po’ sul serio come mai non riuscivamo ad avere un arbitro amico, tanto da sentirci almeno una volta protetti. E tu, con uno sguardo fra il dolce e il severo, mi rispondesti che questa cosa non potevo chiedertela, non ne eri capace.
Fantastico. Non ne era capace la tua grande dignità, non ne era capace la tua naturale onestà, la sportività intatta dal primo giorno che entrasti nell’Inter, con Herrera che ti chiamò Cipelletti, sbagliandosi, e da allora, tutti noi ti chiamiamo Cipe. Dolce, intelligente, coraggioso, riservato, lontano da ogni reazione volgare. Grazie ancora di aver onorato l’Inter, e con lei tutti noi". (4 settembre 2006)
* www.repubblica.it, 04.09,2006
ADDIO FACCHETTI.
Un hombre vertical, una bandiera, un gentiluomo
Giocava in difesa, ma attaccava appena poteva e segnava
Il gigante buono
che amava fare gol
Come Herrera, teneva un diario: sulla prima pagina una frase
di Tolstoj.
Una sola espulsione in tutta la carriera
di GIANNI MURA (www.repubblica.it, 05.09.2006)
QUANDO muore uno come Giacinto Facchetti (un hombre vertical, un campione, una bandiera) ci si sente un po’ più poveri. Non solo gli interisti, ovviamente: Facchetti è stato il capitano della nazionale per 94 partite, quando nessuno chiedeva ai calciatori di cantare l’inno, ma a vederli allineati, impalati si era certi che avrebbero dato tutto e che il primo a rimproverare chi sgarrava sarebbe stato lui, il capitano. Perché Facchetti, lo dico per chi non l’abbia visto giocare, nel calcio significava correttezza, serietà, lealtà, anche potenza, cattiveria mai.
Una sola espulsione in tutta la carriera, per proteste. Un gigante buono, come John Charles. Ma Charles era attaccante, Facchetti difensore. Lo si può paragonare a Scirea, semmai.
Facchetti era un difensore che attaccava, appena poteva. Il verbo fluidificare non era ancora entrato in un calcio più semplice e chiaro (più umano, vorrei aggiungere): difesa, attacco, avanti, indietro. In un’Inter (e un’Italia) sotto l’accusa costante di protervia catenacciara, Facchetti era la smentita vivente. Di un terzino-attaccante avevo già sentito parlare dai colleghi più anziani, era Virgilio Maroso. E nel Lanerossi Vicenza avevo visto Giulio Savoini.
Facchetti era più alto (1.88). E biondo. Scopigno diceva che in campo i biondi si notano di più, in Italia, e a quei tempi era vero, come oggi nella Svezia o nell’Ucraina si notato di più i bruni. Facchetti giocava in difesa già da ragazzo e già da ragazzo avanzava cercando il gol, a Treviglio. Ultimo di sette figli (cinque femmine e due maschi), figlio di Felice (ferroviere, come il padre di Rivera) ed Elvira, un personale di 8"9 sugli 80 metri a 17 anni, quando primatista era Ottolina con 8"8. Lo voleva l’Atalanta quando Giacinto aveva 14 anni ma la famiglia s’oppose: troppo giovane per andare a vivere in una città tentacolare come Bergamo. Più in là, scattò il sì all’Inter. Una vita all’Inter, solo una parentesi dirigenziale all’Atalanta, e una morte da presidente dell’Inter.
"El pica mia, l’è trop bù", non picchia, è troppo buono diceva suo padre agli amici, all’osteria del Colleoni, e di questo non picchiare Facchetti figlio ha fatto una sorta di comandamento. Sembrerà strano, oggi che ogni palla alta contesa vale una gomitata all’avversario, ma c’era più correttezza nel calcio senza moviole. Nel senso che potevano esserci entrate terribili, ma non sistematiche, solo in situazioni estreme. Oggi riescono a ricostruire un ginocchio sfasciato (vedi Tommasi), allora si smetteva di giocare per un semplice menisco (vedi Radice). E questa precarietà del lavoro (credo, ma è da dimostrare) influiva sul rispetto degli avversari: non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Facchetti conservava una foto del padre, con la squadra di calcio allestita sotto la naja. Per ognuno c’è scritto un soprannome e quello di Felice Facchetti era Ammazzacristiani. C’entra Freud? Non lo so.
Ho trovato questo particolare mesi fa , leggendo "Ribot e il menalatte" di Andrea Maietti, sottotitolo "Viaggio intorno a Giacinto Facchetti". Perché Facchetti una sua biografia non l’ha mai voluta, lui che era finito sulla copertina di "Azzurro tenebra" di Giovanni Arpino, e ne era protagonista mestamente positivo. Maietti, lodigiano e interista, incassato il rituale "no, grazie, meglio di no", ha scelto per il titolo un’immagine breriana, quella del purosangue umiliato a tirare il carretto del lattaio, ovvero del centravanti potenziale ("il mio centravanti privato") stretto nei panni del difensore di fascia. Giuseppe Meazza spediva il giovanissimo Facchetti nell’area avversaria quando il risultato era contrario, nell’ultimo quarto d’ora (buttarla in mezzo, qualcosa succederà) e oggi si fa ancora così, ma il bello di Facchetti è che molti gol li ha segnati su azione manovrata, non da palla inattiva, e forse il più bello resta il 3-0 al Liverpool, su apertura di Corso, con Mazzola lanciato sulla destra. Maggio 1965.
Facchetti, si direbbe ora, attaccava lo spazio. A me faceva venire in mente l’arrivano i nostri del Settimo Cavalleggeri. Prima ancora, Garrone. Oppure, sarà stato l’effetto di un padre carabiniere e interista, Salvo D’Acquisto. Uno che si prendeva le sue responsabilità e anche quelle degli altri. Uno che non portava per caso la fascia da capitano, e la portava come uno sceriffo la stella. Uno che avuto in regalo una palla (non un pallone) la mattina di Natale del ’52, è uscito a giocarci e dopo mezzora era bucata, contro un fil di ferro. Uno che, come Helenio Herrera, maestro mai rinnegato, teneva dal ’77 una specie di diario e sulla prima pagina aveva messo una frase di Tolstoj: "Più crederemo dipendere solo da noi l’esito delle nostre azioni, più questo sarà possibile". Uno capace di dire "no, grazie, meglio di no" a Bearzot che lo avrebbe portato volentieri nel ’78 in Argentina, ma lui non si sentiva all’altezza, dopo un pesante infortunio.
Paradossalmente (ma solo inizialmente) a non percepire la profonda serietà di Facchetti fu Giovanna, sua moglie. Si erano conosciuti in una balera a Rivolta d’Adda (lei è di Spino), suonava Fausto Papetti. Appuntamento a Milano, dopo qualche giorno. Lui è puntuale, lei non si fa vedere: può essere serio un calciatore di serie A? Cinque anni di fidanzamento le hanno fatto poi cambiare idea. Due bambine, quindi due maschi. Uno ha provato a fare il portiere, adesso è attore, l’altro gioca in attacco. Una delle ultime annotazioni sul diario di Facchetti, autunno scorso: "Bisogna fare in modo che gli ideali sportivi ed etici abbiano sempre la meglio su considerazioni puramente finanziarie".
Quando avevo scritto il suo nome, con pochi altri, indicandolo come buon presidente federale, mi aveva telefonato per ringraziare, cosa che non usa più. Altre volte, da presidente dell’Inter e con molto garbo, per dirmi che ero andato giù troppo duro con uno dei loro (fosse Materazzi o Recoba, o Adriano o Stankovic). Per me era facile replicare: tu una cosa del genere non l’avresti mai fatta. E lui: "Sì, ma bisogna capirli, non sono più i nostri tempi. Ti ricordi? Ci giravano intorno così pochi giornalisti che con qualcuno c’era il tempo di fare amicizia. E i divi erano alla tv o al cinema. Adesso è più facile montarsi la testa. Ai nostri tempi andare in prima pagina sulla Gazzetta era un evento per pochi, da festeggiare, adesso bastano due gol o una cavolata, devi tenerne conto". Ne tengo conto, ma non posso impedirmi di risentire il profumo di pane di certe chiacchierate di allora, senza barriere né addetti-stampa, e di fare paragoni. Facchetti diceva che certe regole (e il loro rispetto) s’imparano all’oratorio, e poi tutto è conseguente, quasi un’abitudine all’onestà.
Sarà un caso, ma quei difensori rocciosi portavano i nomi di un’altra Italia (e anche i valori, temo). Tarcisio, Aristide, Armando, Giacinto.
Capitano di pulizia e di forza, capitano sempre a testa alta, capitano onesto e chiaro, capitano senza arroganza, voglio salutarti con un silenzio più lungo d’un minuto. E la promessa di tener conto (stavolta sì, prometto) del fatto che con gli innamorati del calcio in cui credevi ti piangeranno i coccodrilli, i topacci, i simulatori, gli imbroglioni, i trafficoni, gli squali, i camaleonti, i ladri, i bari, tutti quelli che hanno ridotto il calcio così com’è, quelli che ai nostri tempi si sarebbero vergognati a uscire di casa e adesso dettano legge e morale. Farò finta di non sentirli, capitano, è il solo regalo che ormai posso farti.
(5 settembre 2006)
Dopo una grave malattia si è spento il presidente dell’Inter
"Ha stretto i denti, ha lottato fino alla fine da vero campione"
E’ morto Giacinto Facchetti
"Ci lascia una persona perbene"
La Nazionale mercoledì a Parigi con il lutto al braccio
(www.repubblica.it, 04.09.2006)
ROMA - Una grande foto troneggia sul sito dell’Inter. E’ il volto sorridente di Giacinto Facchetti, stella nerazzurra e attuale presidente della società. Facchetti se n’è andato a 64 anni, stroncato da una grave malattia. Un lutto che colpisce la società di Moratti e l’intero calcio italiano. Una vita in nerazzurro quella di Facchetti, prima come giocatore e poi come dirigente. Una classe innata, un’eleganza in campo, uno stile confermato anche da dirigente. "Se ne va una persona perbene" si legge sul sito dell’Inter.
Ma non se ne va solo un grande nerazzurro, se ne va un giocatore che è stato 94 volte in Nazionale. Per ricordarlo, la squadra azzurra giocherà mercoledì a Parigi contro la Francia con il lutto al braccio. Come Scirea, Facchetti è stato simbolo di attaccamento alla maglia, lealtà, correttezza. Espulso una sola volta in tutta la carriera, ne parlava qualche volta con rimpianto.
E il suo nome è in tutte le filastrocche, in tutte le formazioni imparate a memoria da quelli che hanno intorno ai cinquant’anni. Sarti, Burgnich, Facchetti... ma mitica formazione dell’Inter di HH, l’Inter di Angelo Moratti.
Nato a Treviglio, in provincia di Bergamo, il 18 luglio 1942. Il salto nel calcio che conta ci fu nel 1960-1961, quando Helenio Herrera rimase colpito dalle sue qualità e lo volle a tutti i costi nella sua Inter per il finale di stagione. Il Mago Herrera fece di lui uno dei più grandi giocatori italiani di sempre, impiegandolo come laterale sinistro con compiti sia difensivi che offensivi. Facchetti verstì la maglia nerazzurra fino al 1978 (18 stagioni), collezionando con la maglia nerazzurra 634 partite e 75 gol. Nel suo palmares vantava 4 scudetti, 2 Coppe Intercontinentali, due Coppe Campioni e una Coppa Italia. Sotto la sua presidenza l’Inter ha vinto due Coppe Italia e una Supercoppa italiana. Poi l’addio al calcio giocato e il passaggio alla dirigenza sempre al fianco dell’Inter. E’ vice-presidente, membro del Cda, direttore tecnico. Il 30 gennaio 2004 Massimo Moratti gli lascia la massima carica: Facchetti è il primo calciatore della storia nerazzurra a essere nominato Presidente.
Ha potuto almeno vedere lo scudetto sulle maglie dell’Inter. In prima persona aveva vissuto le polemiche dell’ultimo scandalo. Il giorno dopo la vittoria sulla Roma, Marco Materazzi ha voluto portargli la Supercoppa vinta, in ospedale. Dedicata al presidente anche quella.
Toccanti le parole che si leggono sul sito dell’Inter: "Giacinto Facchetti ci ha lasciato troppo velocemente per non confondere, in questi attimi, il dolore e la rabbia, il senso d’ingiustizia e la preghiera. Ci ha lasciato dopo aver giocato, con determinazione e stile, l’ultima partita. Spinto nel campo del dolore da un destino nascosto, improvviso, bastardo. L’atleta, nella testa e non solo nel fisico, nella morale e nei riti di una vita quotidiana all’insegna della lealtà e dello sport, ha lasciato il posto all’uomo di 64 anni sorpreso, colpito, ferito, ma non vinto. Ha stretto i denti, ha combattuto sorretto dall’affetto dei suoi cari, di Massimo Moratti, di tutta l’Inter e di tutti gli interisti, mai abbandonato dal campionato infinito di amici che aveva, che ha, che lascia attoniti, storditi, in Italia e nel mondo".
(4 settembre 2006)
Questa mattina migliaia di persone in fila alla camera ardente Sulla bara la maglia nerazzurra e quella della nazionale
Grande folla in Sant’Ambrogio per l’omaggio a Facchetti
Il figlio lo ricorda citando Bradbury: "Ognuno deve lasciarsi qualcosa dietro" Applausi al passaggio della bara dentro e fuori la basilica (www.repubblica.it, 06 settembre 2006)
MILANO - Un lunghissimo applauso ha accompagnato il feretro di Giacinto Facchetti che attraversava la navata centrale di Sant’Ambrogio. E applausi lo hanno accolto anche all’uscita della basilica, poco prima delle 16, dove migliaia di persone lo attendevano da ore. Non sono mancati cori da stadio e bandiere nerazzurre. "Arrivederci in Dio, in quel paradiso che è un grande stadio in cui tutti saremo vincitori". Così lo ha salutato, al termine dell’omelia, il vescovo di Lodi Giuseppe Merisi. L’ultimo viaggio del campione sarà verso la cappella di famiglia a Treviglio, nel bergamasco.
La commemorazione del figlio. Gianfelice ha citato un passo tratto da "Fahrenheit 451" di Ray Bradbury. "Ognuno deve lasciarsi qualcosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno, un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l’albero o il fiore che abbiamo piantato noi saremo là".
"Non ha importanza -ha aggiunto Gianfelice Facchetti- quello che si fa, diceva mio nonno, purchè si cambi qualche cosa da ciò che era prima in qualcos’altro che porti poi la nostra impronta. La differenza tra l’uomo che si limita a tosare un prato e un vero giardiniere sta nel tocco, diceva. Quello che sega il fieno poteva anche non esserci stato, su quel prato; ma il vero giardiniere vi resterà per tutta la vita".
In dodicimila alla camera ardente. E questa mattina circa dodicimila persone hanno reso un silenzioso omaggio al campione nella camera ardente. Due maglie sulla bara: quella nerazzurra e quella della nazionale italiana. Le sue, quelle degli anni Sessanta. Così, nella cappella di San Sigismondo attigua alla basilica di Sant’Ambrogio, i familiari di Giacinto Facchetti hanno allestito la camera ardente. E poi due foto, da giocatore e da presidente, il gonfalone dell’Inter listato a lutto, fiori bianchi.
Anziani e giovani, padri con i bambini, pensionati e lavoratori, hanno sfilato davanti alla bara, molti con un fazzoletto dell’Inter. Segno di un’identità collettiva che, ai loro occhi era, ed è, impersonata dal grande Facchetti. Sul piazzale uno striscione: "Grazie per aver onorato l’Inter e tutti noi". Le stesse parole pronunciate da Massimo Moratti nell’addio al campione.
Decine i volti noti presenti all’ultimo saluto al presidente nerazzurro. C’erano il patron dell’Inter Massimo Moratti, i dirigenti e la squadra al completo; il presidente della Lega Calcio Antonio Matarrese e il presidente della Federcalcio Guido Rossi; i presidenti di Juve e Milan, Cobolli Gigli e Galliani, e l’ex presidente di Lega Franco Carraro. Tanti anche i grandi calciatori degli ultimi trent’anni: Giuseppe Bergomi, Dino Zoff, Michel Platini, Karl Heinz Rummenigge, Franco Baresi.
(6 settembre 2006)
Giacinto Facchetti è sempre stato un’uomo buono... non ho mai sentito parlare male di lui come lo si può sentire di altra gente. Come dice il testo pubblicato da Susanna Werlingerl sul sito dell’inter...Giacinto ci ha lascia troppo velocemente per non confondere,in questi attimi, il dolore e la rabbia,il senso di giustizia e la preghiera. Giacinto è stato e lo sarà per sempre un’uomo molto importante per il mondo dello sport e non solo, perchè con la sua umilta e lealta ha fatto capire a tutti cosa vuol dire attendere che un giorno tutte le truffe vengono scoperte e così i truffatori e tra questi emergeranno solo chi è stato capace di lottare e di andare avanti solo ed esclusivamente con le sue forze, senza cercare aiuto da nessuno. Il 4 settembre ci ha lasciato un’uomo che nel mondo sarà ricordato per sempre da tutti per il suo carattere buono, umile, generoso,coraggioso,...... Giacinto scompare dalla terra solo fisicamente perchè il suo ricordo rimarrà eterno.
In onore di Facchetti, il posto allo stadio dove era solito lui sedersi, dovrebbe essere lasciato libero in modo tale che quando si guarda verso le tribune donore, ci si accorge di quel posto vuoto che però, finchè in vita è stato sempre occupato dal MITICO Facchetti. CIAO GIACINTO CI MANCHERAI
Dite a Massimo Moratti di fare in modo che non sia dimenticato. Mai. Intitolategli la curva. Se si dovesse un giorno lasciare San Siro, intitolategli il nuovo stadio. Ma soprattutto ditegli di fare in modo che l’Inter abbia sempre la stessa onestà, dignità, moralità, educazione, lealtà e civiltà di Giacinto Facchetti e di Massimo Moratti stesso. Non importa se si vincerà o no. Ciò che importa è che l’Inter abbia uomini di questo stampo, in campo e fuori. Non l’ho conosciuto di persona, non ne ho mai avuto l’occasione, ed è un vero peccato. Ma, per capire che tipo di persona era Giacinto, è stato sufficiente ascoltarlo e vederlo in tv fin da bambino. Quel gigante buono, mi colpì subito. E gli volli subito bene.
Cristiano B. (prov. di Modena)