Per l’Accademia di Stoccolma l’economista bengalese, fondatore della Grameen Bank, ha "creato sviluppo sociale dal basso"
Il Nobel per la pace a Yunus ha inventato il microcredito
Il vincitore: "Sostenete il sogno di un mondo libero dalla poverta"
di CRISTINA NADOTTI *
ROMA - Ha dato dignità e una speranza a milioni di poveri e con la sua Grameen Bank ha dato anche uno schiaffo alla Banca mondiale. Il premio Nobel per la pace del 2006 è Muhammad Yunus, bengalese, noto come "il banchiere dei poveri", perché ha istituzionalizzato i piccoli prestiti che hanno consentito, come dice la motivazione dell’Accademia di Stoccolma, "di creare sviluppo economico e sociale dal basso". Il Nobel conferito oggi a Muhammad Yunus fa seguito a quello per l’economia assegnato nel 1998 all’indiano Amartya Sen: Sen aveva enucleato i principi teorici che sono alla base del microcredito di Yunus.
Yunus e i suoi collaboratori hanno cominciato battendo a piedi centinaia di villaggi del poverissimo Bangladesh, concedendo in prestito pochi dollari alle comunità, somme minime che servivano per avviare progetti imprenditoriali. Un’azione che ha avviato anche un circolo virtuoso, con ricadute sull’emancipazione femminile, poiché Yunus ha fatto leva sulle donne per creare cooperative e promuovere il coinvolgimento di ampi strati della popolazione.
Il professor Yunus è nato nel 1940 a Chittagong, il più importante centro economico del Bengala Orientale. Terzo di 14 figli, cinque dei quali morti ancora bambini, ha studiato nella sua città poi, dopo la Fulbright, ha conseguito il dottorato all’università Vanderbilt di Nashville, nel Tennessee. Nel 1972 è diventato capo del dipartimento economico dell’università di Chittagong. Nel 1983 ha fondato la banca Grameen e nel 1997 ha presieduto a Washington la prima conferenza mondiale sul microcredito. La sua storia personale e i fondamenti del sistema della Grameen Bank sono descritti nel libro "Il banchiere dei poveri", che gli è valso numerosi premi in tutto il mondo.
La Grameen Bank oggi ha 1.084 filiali e vi lavorano 12.500 persone. I clienti in 37mila villaggi sono 2 milioni e 100mila, per il 94 per cento donne. Il sistema non è in perdita: il 98 per cento dei prestiti viene restituito. Nel suoi libro Yunus rivolge critiche feroci al sistema della Banca Mondiale e dei sussidi ai paesi sottosviluppati e non tace dei tentativi fatti dall’organizzazione internazionale per inglobare la sua Grameen Bank, tentativi che l’economista bengalese ha sempre respinto decisamente.
Tuttavia il "sistema Yunus" ha provocato un cambiamento di mentalità anche all’interno della Banca Mondiale, che ha cominciato ad avviare progetti simili a quelli della Grameen. Il microcredito è diventato così uno degli strumenti di finanziamento usati in tutto il mondo per promuovere sviluppo economico e sociale, diffuso in oltre 100 nazioni in tutto il mondo, dagli Stati Uniti all’Uganda. "In Bangladesh, dove non funziona nulla - ha detto una volta Yunus - il microcredito funziona come un orologio svizzero".
"Attraverso culture e civiltà, Yunus e la Grameen Bank hanno dimostrato che anche i più poveri fra i poveri possono lavorare per portare avanti il proprio sviluppo", si legge nelle motivazioni, scritte dalla giuria di cinque membri che ha assegnato il Premio Nobel per la Pace 2006 a Muhammad Yunus. "La pace duratura non può essere ottenuta a meno che larghe fasce della popolazione non trovino mezzi per uscire dalla povertà - continua la motivazione - il microcredito è uno di questi mezzi".
"Sono felicissimo, non posso credere che sia accaduto davvero. Voi sostenete il sogno di un mondo libero dalla poverta" è stato il commento a caldo fatto da Yunus ai microfoni di una radio norvegese. "Il Nobel è una grande cosa - ha continuato Yunus - per me e per la nazione, ma ci carica di nuove e maggiori responsabilità. Il Bangladesh deve sradicare la povertà dal paese e impegnarsi per combatterla ed eliminarla in tutto il mondo". L’economista bengalese, nonostante l’enorme successo ottenuto dal sistema da lui inventato, non ha mai smesso di lavorare dal basso, seguendo passo passo le attività dei suoi collaboratori e accettando gli inviti di organizzazioni in tutto il mondo per parlare e diffondere il microcredito. (13 ottobre 2006)
www.repubblica.it, 13.10.2006
Muhammad Yunus. La ricetta del Premio Nobel è preziosa in un momento di fragilità economica e politica
Combattere gli squilibri. Con successo
di Mauro Campus (Il Sole-24 Ore, Domenica, 30.09.2018)
Una sensazione più di altre rimane alla fine della lettura di questo lavoro dell’economista bengalese Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006. Si tratta della necessità - direi dell’indispensabilità - di cambiare angolo visuale quando si ragiona delle soluzioni per affrontare l’attuale (pessimo) stato di salute del capitalismo. Un cambio più che mai urgente, considerati i guasti e le torsioni nella produzione e distribuzione della ricchezza che il mercato abbandonato a sé stesso ha prodotto.
Danni le cui conseguenze hanno scardinato la fiducia nei confronti dei tradizionali sistemi politici occidentali, che sono parsi protesi alla difesa del “sistema” piuttosto che a coglierne e rettificarne le debolezze strutturali e le abnormi anomalie.
La conservazione di uno stato di per sé comodo poiché noto e percepito come dogma ha definito parti crescenti del discorso dell’establishment occidentale, aprendo spazi enormi a chi anche nella maniera più grossolana ed elementare - emblematici i casi del nazionalismo di destra o la vittoria di Trump - si è presentato all’elettorato come forza antisistema.
Yunus non dà un giudizio di merito sulla deriva populista che ha travolto certezze che parevano incrollabili e come un’epidemia ha raggiunto un numero inimmaginabile di adepti. Si limita a inscrivere la bancarotta della “politica moderata” nel novero delle vittime del capitalismo contemporaneo.
La ragione di quello che può apparire un espediente retorico - poiché le forze antisistema sono assai diverse e operano in contesti multiformi - è presto detta: quella politica non è stata in grado di confrontarsi dialetticamente con il sistema nonostante i danni prodotti dallo stesso lievitassero senza tregua. I numeri dell’anomalia nella quale vive l’economia di mercato contemporanea sono conosciuti. Ma ogni volta che si ricorda quanto la forbice della diseguaglianza continui a divaricarsi e che oggi otto individui possiedono una ricchezza pari a quella di circa 3,6 miliardi di persone, non si può fare a meno di pensare che le non-regole che hanno consentito tale situazione non siano al servizio del bene comune.
In realtà è il capitalismo, nella forma anarchica definitasi negli ultimi trent’anni, che si è dimostrato inefficiente a limitare il dramma dell’impoverimento e della marginalizzazione delle classi medie occidentali, i quale sono solo una delle facce di una disuguaglianza che erode la tenuta delle conquiste democratiche degli ultimi secoli.
Così come lo è l’angosciosa distanza maturata da oltre i 2/3 della Generazione Y, i millennials, nei confronti della versione attuale del liberal-capitalismo. Ma il dissenso nei confronti del sistema nel quale viviamo sembra destinato solo a crescere, se è vero che la tenuta del welfare divenuto universale nel secondo dopoguerra in Europa occidentale appare sempre meno sostenibile davanti a una realtà che vede in costante restringimento la platea degli attori economici con capacità di incidere in un sistema dominato da pochissimi pachidermi che camminano su una moltitudine di formiche. Mai come oggi l’esplosività di questa realtà è apparsa pericolosa e a tratti irreversibile, specie se confrontata con la desolante miseria delle ricette che la politica è riuscita ad attuare anche davanti alla crisi detonata nel 2008.
Le soluzioni - suggerisce Yunus - risiedono nella ridiscussione di alcuni assunti basilari della teoria dell’equilibrio generale che ha qualificato l’essere umano capace di compiere solo scelte ottimizzanti, governato dal desiderio di essere dipendente e non imprenditore e come incapace di altruismo. Uno spostamento di prospettiva che metterebbe in discussione l’architettura del sistema di idee neoclassico pervicacemente difeso da alcuni sacerdoti dell’infallibilità della mano invisibile, a proposito della quale l’economista bengalese si limita a notare quanto poco abbia servito gli interessi della comunità.
Gli argomenti portati a sostegno di quelle che solo una caparbia dabbenaggine potrebbe liquidare come bonarie utopie di un visionario sono legati a esperienze concrete prima ancora che a una generica fiducia nel genere umano e nella sua capacità di sovvertire un ordine inceppato. In primo luogo la diffusione e il funzionamento del sistema di microcredito attraverso la Grameen Bank - un istituto indipendente che presta senza garanzie - fondata 41 anni fa proprio dal Nobel bengalese per favorire l’avvio di attività imprenditoriali femminili. Una realtà solida e diffusa in migliaia di villaggi, che vanta un tasso di restituzione dei crediti di oltre il 99 per cento.
Dal 1977 il sistema inventato da Yunus ha fatto il giro del globo, finanziando anche imprese gestite da donne negli Stati Uniti e servizi sociali nelle zone più povere della Francia. È questa l’esperienza attraverso la quale Yunus fonda il suo argomento che l’essere umano non può essere ridotto all’idealtipo attribuitogli dal modello neoclassico.
Il “mondo a tre zeri” dell’economista è una “Città del Sole” nella quale non esistono né disoccupazione, né povertà, né inquinamento. Tre cose apparentemente non legate fra loro, ma in realtà problemi che egli connette all’inefficienza del mercato e che in alcuni casi sono stati affrontati con serietà in contesti che apparivano resistenti al cambiamento. È il caso della Conferenza sul clima di Parigi del 2015, che ha rappresentato un passaggio epocale nell’ammissione di quanto l’inquinamento minacci l’esistenza umana. Ed è forse proprio qui il punto maggiormente innovativo dell’analisi di Yunus: nel riconoscimento che l’esperienza umana non può essere rinchiusa a una elementare e frustrante vita di consumi e di sopravvivenza all’interno di uno schema indiscutibile.
Non è possibile adeguare politiche e sviluppare strategie legate solo al mantenimento dello status quo registrando le contrazioni o le espansioni del Pil, e a esse adeguando il futuro del genere umano. Sono queste le pagine nelle quali Yunus riconcilia la scienza economica con la sua origine e con la sua ragion d’essere: una scienza sociale che si deve occupare del benessere dell’uomo e che può essere matematizzata o archetipizzata solo se riesce a rispondere al bisogno di inclusione e partecipazione dell’essere umano. Si tratta di una lezione che difficilmente potrà essere seguita se non sarà percepita come desiderabile, e potrà attuarsi solo se le generazioni che oggi si stanno formando avranno la possibilità di realizzare un sistema alternativo (o complementare) rispetto a quello che oggi trovano insopportabile.
Confidare nel contributo di chi il mondo lo può cambiare davvero non è da inguaribili sognatori e ingenui pacifisti: si tratta di un compito non più rimandabile che spetta soprattutto ai sistemi d’istruzione, i quali appaiono invece troppo spesso narcotizzati dalla ripetitività manichea dei modelli in cui si sono autoimprigionati.
Muhammad Yunus. La potenza della povertà
di Cosma Orsi (il manifesto, 11 Luglio 2013)
«Un giorno i nostri nipoti andranno a visitare i musei della povertà per vedere che cosa era la povertà». Questa frase racchiude il pensiero di Muhammad Yunus, economista del Bangladesh diventato banchiere e vincitore del Premio Nobel per la Pace nel 2006. Come professore di economia ha sviluppato i concetti di microfinanza e microcredito, e più recentemente quello di business sociale, una tipologia economica che ha come missione la realizzazione di obiettivi sociali anziché la massimizzazione del profitto. Nel 1977 ha fondato un istituto di credito indipendente, la «Grameen Bank», la cui missione consiste nel fornire il microcredito senza garanzie ai più poveri tra i poveri respinti dagli altri istituti di credito. L’impegno di Yunus ad ampliare il raggio d’azione della Grameen l’ha portata a essere presente in più di 50 paesi nel mondo, oltre che a servire 36 mila villaggi del Bangladesh.
Il fatto che non sia un sogno ad occhi aperti è dimostrato dal fatto che l’azione di Yunus ha aiutato il Bangladesh a ridurre di quasi la metà il tasso di povertà in poco più di trent’anni. Grazie a questo modo di intendere la finanza, è stato infatti possibile che centinaia di migliaia di persone si affrancassero dall’usura riuscendo così ad allargare, gradualmente, la propria base economica.
Negli ultimi anni, la microfinanza e il social business hanno cominciato ad attrarre e coinvolgere multinazionali, fondazioni, banche, singoli imprenditori, organizzazioni no-profit in ogni parte del mondo. Autore di diversi saggi tra i quali ricordiamo Un Mondo senza povertà, Si può fare! Come il social business può creare un capitalismo più umano e Il banchiere dei poveri tutti editi da Feltrinelli. Abbiamo incontrato il Yunus a Lugano dove, su invito di Samantha Caccamo - fondatrice di Social Business Earth -, ha partecipato alla seconda edizione della Social Business Conference presso l’Università della Svizzera Italiana (Usi).
Lei ritiene che l’attuale crisi economica possa essere superata e a quale costo per i poveri del mondo?
Molti governi e studiosi sono impegnati a trovare misure in grado di farci ritornare a un livello di crescita economica pre-crisi. Sono convinto che questa strategia non sia efficace. Inseguire quel traguardo ci riporterebbe, in tempi assai brevi, a dover affrontare gli stessi problemi che stiamo ora cercando di risolvere. Sono più interessato a ricercare soluzioni a lungo termine capaci di stabilizzare l’intero sistema economico. Non sarà un’impresa facile. Al contrario. Prevedo che il tentativo di evitare situazioni di future crisi (alimentari, energetiche, ambientali e disoccupazione di massa) si rivelerà un’impresa assai difficile, se non dolorosa. D’altra parte questa è diventata una priorità. Ritengo che l’attuale momento sia propizio per cominciare a pensare a soluzioni economiche non più basate sul profitto fine a se stesso. Dico questo perché constato che l’attuale è un periodo storico in cui ciò che un tempo era considerato impossibile è ora diventato realtà. Se confrontiamo il presente col passato, solamente 20/30 anni fa una miriade di beni e di servizi non esistevano. Questo mi suggerisce che la distanza tra il possibile e l’impossibile si stia assottigliando sempre più. Un mondo senza poveri non è più una cosa impossibile da ottenere.
In un’intervista rilasciata al New Statesman lei ha dichiarato che il problema degli economisti eterodossi riguarda la loro errata interpretazione della natura umana. Può dirci di più a riguardo?
Il sistema economico che ho in mente non potrà che basarsi su di una visione dell’essere umano molto diversa da quella che oggi guida il pensiero economico dominante, che riduce gli esseri umani a cacciatori di denaro. Questo modo di ritrarre l’individuo e la società mi pare superficiale. Gli esseri umani sono molto più che dei robots. Come già faceva notare Adam Smith, possiedono una personalità multi-dimensionale e dinamica. Non nego che a volte gli individui siano egoisti, ma sono anche, contemporaneamente, cooperativi e altruisti. Dobbiamo investigare in maniera molto più approfondita il lato altruistico dell’essere umano. Solamente tale esercizio ci consentirà di dare una solida base teorica al tentativo di creare un diverso modo di organizzare l’attività economica. Io vedo un’economia di mercato (for-profit) finalizzata a rispondere ai problemi della comunità capace di crescere al fianco di attività economiche che mirano solo a massimizzare il profitto. La differenza è che nel social business tutti i dividendi vengono reinvestiti nell’impresa per raggiungere l’obiettivo sociale.
Quando uso il termine comunità, non mi riferisco alle piccole realtà a cui ognuno di noi appartiene; piuttosto, faccio riferimento alla ben più estesa comunità in cui tutti gli esseri umani coabitano assieme a tutte le altre forme di vita.
L’effetto ottenuto dalle politiche di austerità applicate in Europa è stato quello di aumentare la disoccupazione, senza riuscire a stabilizzare i mercati. Non sorprende che tale strategia abbia generato un forte dissenso e crescente scetticismo. Esiste un percorso alternativo che permetta alle società Europee e più in generale a quelle occidentali di combinare crescita economica e riduzione delle diseguaglianze?
Le opzioni di politica economica praticabili entro un sistema economico capitalista sono limitate. In un regime di economia mista, mentre ai governi si chiedeva di proteggere le vittime della tumultuosa crescita economica attraverso un forte Welfare State, alle multinazionali era richiesto di accumulare sempre più ricchezza. Questa dicotomia ha condotto l’umanità sull’orlo del baratro.
Parto da alcune domande. Che cosa è la disoccupazione? Una massa di persone potenzialmente creative il cui potenziale giace inutilizzato. Il sistema economico e politico si cura poco o nulla dedi disoccupati; soprattutto il loro accesso al credito diventa pressoché nullo per via dell’elevato rischio di non poter recuperare il capitale dato in prestito. In un mondo dove l’accesso al credito è negato a quasi la metà della popolazione, la microfinanza diventa un’opportunità fondamentale. Se tutti gli individui possiedono illimitate potenzialità, allora ognuno ha il diritto ad avere un accesso al credito come ogni altro individuo. Il microcredito è un aiuto offerto a tutti coloro che desiderano investire parte del proprio tempo e delle proprie capacità in attività economiche che hanno un’elevata rilevanza sociale. Investire nelle illimitate capacità umane, questo è il futuro. Ogni volta che si produce qualche cosa, si aprono nuove opportunità, proprio perché si genera un reddito per chi prima non ne aveva. Non politiche di austerità ma business sociale, questa è a mio avviso la risposta.
I critici del suo approccio, però, continuano a sostenere che la microfinanza vada bene solo per i paesi del Terzo Mondo perché se davvero si volesse aiutare i poveri, si dovrebbero sostenere industrie di grandi dimensioni e ad alta intensità di lavoro. Come risponde all’insinuazione che la filosofia che sta alla base della sua proposta non possa essere messa in pratica nell’occidente industrializzato e individualista?
In primo luogo, non ho mai sostenuto che il microcredito sia in antagonismo con altre tipologie di organizzazione economica. Sicuramente, non è in contrasto con la produzione ad alta intensità di lavoro. Le attività economiche orientate alla massimizzazione del profitto non esauriscono tutte le forme di attività economica. Oltre alla dimensione del profitto, vi sono infiniti beni e servizi che il mercato non può o non vuole produrre. Il microcredito nasce dall’esigenza di creare opportunità di lavoro per milioni di individui che pur essendo disoccupati hanno ancora molto da dare. A chi sostiene che il microcredito e il social business siano innervati da una filosofia inadatta per i paesi occidentali faccio presente che abbiamo ben sei filiali nella sola New York City. Per definizione il luogo che maggiormente si identifica con il modello capitalista occidentale.
Le persone hanno bisogno di denaro in ogni angolo del globo, dunque anche nella «Grande mela», dove serviamo più di 12.000 persone. E il loro numero continua a crescere. Per la maggior parte sono donne che ripagano i debiti contratti con noi con estrema puntualità. L’esperimento si sta espandendo in altre città nevralgiche degli Stati Uniti, come San Francisco, Omaha, e Los Angeles. Con il passare del tempo ci stiamo rendendo conto che le possibilità di espansione sono pressochéillimitate. Va inoltre ricordato che sempre più spesso ricchi filantropi elargiscono ingenti somme di denaro al microcredito, così come alcune importanti banche a livello planetario (Citigroup Inc. e DeutscheBank AG) hanno creato fondi destinati al microcredito. Questo è quello che vedo. Non credo vi siano differenze sostanziali tra paesi ricchi e paesi poveri quando si parla di microcredito.
Come valuta la proposta di un reddito minimo garantito?
Per rendere attivi gli individui bisogna aiutarli a liberare le loro potenzialità non garantirgli una vita confortevole. Il reddito garantito è una forma subdola di carità, un palliativo temporaneo. Raramente la carità (elemosina, fls) è un buon rimedio; la si può accettare solo per un periodo di tempo limitato e nei casi più estremi. Inoltre, il reddito minimo non mi sembra una buona soluzione perché rischia di abbassare il livello degli incentivi al lavoro e perché il denaro necessario al suo finanziamento sarebbe tolto dalle tasche di qualcun’altro attraverso la tassazione generale.
Il bene comune è un ideale universale o è destinato a rimanere un concetto culturalmente relativo? Che ruolo gioca all’interno del suo pensiero?
Non credo che il bene comune sia un concetto relativo legato alle differenti culture. Al contrario è una nozione universale che appartiene a tutta l’umanità. L’aria, gli oceani, le foreste non devono essere controllate da nessuno (nemmeno dai governi) e nessuno dovrebbe ricavare un profitto dal loro sfruttamento. Le multinazionali stanno sfruttando le risorse naturali del pianeta al punto che oggi si parla del loro esaurimento. Se, ad esempio, il legname diventa un business profittevole, le multinazionali si danno da fare a distruggere intere foreste in giro per il mondo. E questo deve essere fatto nel più breve tempo possibile, così da far salire il prezzo delle loro azioni sul mercato. Questo è precisamente il punto dove l’idea del social business entra in gioco.
Il social business non ha fretta; non persegue la modalità dello sfruttamento dell’ambiente e degli esseri umani. Non si fanno soldi tagliando foreste, ma piantando alberi per far ricrescere quelle foreste sacrificate sull’altare del profitto delle multinazionali. Quello che sto cercando di fare è offrire a questa tipologia economica uno spazio sempre maggiore. Come si vede, il bene comune e il social businesss ono due lati della stessa medaglia.
Se non si vuole fare un ragionamento ingenuo è però necessario porsi il problema degli incentivi. Il mio pensiero a riguardo è il seguente. Gli incentivi economici sono di varia natura e forma. Gli economisti ortodossi ritengono che il profitto sia l’unico l’incentivo capace di spingere gli imprenditori a rischiare i loro capitali. Il profitto, tuttavia, non è l’unico incentivo, bensì un incentivo tra gli altri. Provo a fare un esempio. Nel 1953 Hillary e Norgary conquistarono il Monte Everest. Dopo la loro ascensione, a scapito dei rischi connessi a una tale impresa, centinaia di alpinisti hanno continuato a scalare la montagna. Perché? Pur non esistendo nessun incentivo monetario, c’è un incentivo dato dalla sensazione di gioia, dall’essere stati capaci di superare una difficoltà così grande. Tradotta in termini economici, l’esempio ci dice che il profitto è un incentivo fortissimo, ma rendere le persone felici è un super-incentivo.
Dal Nobel per la Pace alle accuse di truffa
la triste parabola di Muhammad Yunus
Il "banchiere dei poveri" premiato nel 2006 per la sua rete di microcrediti a bassi interessi è finito nel mirino del governo
del Bangladesh per evasione fiscale. I dubbi sulla sua moralità condivisi anche da molte ong
di RAIMONDO BULTRINI *
BANGKOK - Il Premio Nobel per la Pace Muhammad Yunus è stato invitato senza troppi complimenti dal governo del Bangladesh a farsi da parte nella gestione della creatura che gli procurò fama e onori, la Banca per i poveri Grameen. La premier Sheikh Hasina ieri ha fatto dire "diplomaticamente" dal suo ministro delle Finanze che Yunus era sì, "un uomo di alta statura e rispetto", ma che ora "è vecchio e noi dobbiamo ridefinire le regole della banca e portarle sotto stretta sorveglianza".
In un paese islamico dove l’usura è bandita, la leader del Congresso accusa senza mezzi termini l’uomo-simbolo per milioni di bengalesi e contadini di mezza Asia, il Banchiere dei diseredati per eccellenza, di aver sfruttato la sua Grameen bank per accaparrarsi migliaia di clienti che pagano interessi più bassi, ma pur sempre esosi per le tasche di contadini che vivono alla giornata tra Dhakka e i confini con il Bengala indiano.
Il governo di Hasina è titolare di un quarto dell’Impero Grameen, che si estende ora dal tradizionale microcredito alla telefonia e oltre. La Lady di ferro ha deciso di prendere formalmente la maggioranza dell’Istituto di credito, fondato negli anni ’80 da Yunus a Chittagong per aiutare le donne a iniziare un piccolo business come coltivare verdure e allevare animali. Hasina non è nuova a campagne barricadere che rompono tabù nazionali, a costo di risultare impopolare o rischiare la sua stessa vita. A distanza di 40 anni esatti sta portando a processo i collaborazionisti che aiutarono i soldati di Islamabad a uccidere tre milioni di dissidenti o sospetti tali - incluso suo padre e tutta la sua famiglia - dopo la Partizione che assegnò il Bangladesh al Pakistan dei dittatori militari.
Recentemente lady Hasina aveva accusato senza mezzi termini il prestigioso premio Nobel di aver usato "tricks", trucchi, per evitare di pagare le tasse. Il governo norvegese aveva anche indagato su un presunto sdoppiamento di contabilità denunciato da un documentario tv, ma poi tutto si era concluso con un’insufficienza di prove. Gli amici di Yunus, personalità influenti in campo internazionale come l’ex Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani Mary Robinson, hanno subito accusato la primo ministro di aver avviato una campagna di discredito per eliminare un temuto avversario politico. Hasina non ha infatti mai perdonato al Nobel la sua decisione di fondare un Partito per tentare la scalata al potere, poi fallita.
Da parte sua Yunus ha affidato alle agenzie di stampa solo poche battute indirette: "Quando il tempo arriva - ha detto alla Reuters - ogni transizione richiede un clima amichevole e il supporto sia dentro che fuori dai consigli di amministrazione della banca, per assicurarci di poter continuare a restare fedeli alla nostra missione per i poveri". Un appello chiaro alla comunità internazionale che gli ha concesso l’ambito riconoscimento per sostenerlo nella battaglia legale che seguirà di certo le dichiarazioni ufficiali di ieri.
Ci vorranno tre mesi prima che un’apposita commissione d’inchiesta appena nominata finisca di scrutinare i conti della Grameen e passare all’azione, se l’indagine finirà come pensa e vuole il governo. In ballo ci sono dieci miliardi di dollari in piccoli prestiti assegnati finora da Yunus a famiglie e donne in particolare. Ma nonostante i successi della campagna umanitaria attraverso il microcredito, il governo non è il solo a sospettare "qualcosa di illecito". Diverse organizzazioni non governative si sono chieste se davvero la Grameen offriva un sostegno, o piuttosto un cappio al collo, dei clienti. Nonostante l’alto tasso di restituzione dei crediti, quelli che non ce l’hanno fatta si sono visti sequestrare tutto quello che avevano conquistato, oltre ad affrontare spesso il carcere.
* la Repubblica, 17 febbraio 2011
YUNUS PORTA IN ITALIA IL MICROCREDITO
ROMA - Il ’banchiere dei poveri’ e premio Nobel per la pace Muhammad Yunus porta anche in Italia il microcredito senza garanzie per dare prestiti ai più poveri, soprattutto donne, che non possono avere credito da una banca tradizionale e permettere loro di avviare imprese ed evitare di cadere nelle mani degli usurai. Un sistema che resiste, anzi si rafforza, con l’attuale crisi, rivendica Yunus che vede nel momento attuale l’opportunità di cambiare le cose.
Quindi sciorina con orgoglio l’altissima percentuale (98%) di restituzione dei prestiti a fronte di una generale insolvenza del credito e invoca le aziende italiane a siglare accordi sociali sul modello di quanto hanno fatto Danone o Volkswagen. Nel nostro paese il premio Nobel, che ha presentato il suo libro ’un mondo senza poverta’ a Milano e partecipato a un incontro della Fondazione Ducci a Roma, punta a una collaborazione con Unicredit e l’Università di Bologna per dare vita a un’iniziativa "entro l’anno" mentre la Fondazione Cariplo, grande socio di Intesa Sanpaolo (già attiva nel campo con Banca Prossima e i prestiti d’onore) auspica la partecipazione di altri istituti di credito.
Nata in Bangladesh nel 1976 la Grameen Bank, che nel nostro paese assumerà la forma di una Organizzazione Non Governativa e non di una banca, opera già in diversi paesi industrializzati quali gli Stati Uniti o la Spagna. Il premio Nobel ha spiegato che "non è stata ancora decisa la città" in cui aprirà; la sua speranza che possa entrare in funzione "entro l’anno". Il ’banchiere dei poveri’ spiega così che con la crisi, determinata da un ’pugno di uomini’, siamo arrivati al punto in cui non vale più la pena di aggiustare la macchina "va cambiata", cioé va smontato e rifatto "mattone su mattone" il sistema finanziario.
Il messaggio è che questo si può fare. La sua idea è quella di mettere a fianco del ’business’ che mira solo a far profitto anche quello che chiama ’business sociale’ che arriva al pareggio senza guadagni e permette di aiutare la gente basandosi sulla fiducia e non sulla garanzia di solvibilità. Per il presidente dell’Ispi, Boris Bianchieri, l’aspetto straordinario di Yunus è che "sa suscitare sorrisi" di speranza nelle platee "caso raro in questi ultimi tempi" e che "sa inventare rimedi, avendo creato un’organizzazione straordinaria di cui peraltro non è azionista ma un dipendente".
La conferma che questo può funzionare è proprio l’esperienza del microcredito che non vive la crisi attuale. "Non ha alcun impatto - ha spiegato Yunus -. La crisi è del sistema finanziario che costruisce castelli in aria. Quando noi facciamo un prestito è per cose concrete, come una mucca".
ANALISI
Yunus: Il microcredito vince la crisi (Avvenire, 1 Marzo 2009)
«Non bisogna buttare via il capitalismo, ma è come se in esso ci fosse una voragine che va colmata. L’ironia è che la crisi ha dimostrato che i più poveri sono solvibili, eccome! Mentre chi lo sembrava, come i banchieri, alla fine non lo è affatto» È una verità che andrà bene per il 2009: i beneficiari di microcrediti nel mondo non sono direttamente indeboliti dalla crisi finanziaria, hanno il loro business e i rimborsi sfiorano il 100 per cento. Meglio: il microcredito può venire in aiuto dei poveri del Nord. Abbiamo infatti lanciato, nel gennaio 2008, un programma di microfinanza nel quartiere di Queens, a New York, chiamato « Grameen America » e rivolto ai quei newyorchesi che sono esclusi dal sistema bancario. Vi abbiamo inviato una delle nostre squadre del Bangladesh, gente che non aveva mai messo piede negli Stati Uniti. Applicano esattamente gli stessi metodi dei villaggi del Bangladesh. E funziona! Quando abbiamo lanciato il programma, alcuni giornalisti ci hanno chiesto: « Ma perché avete deciso di portare la Grameen Bank nel cuore di New York? » .
Ho risposto: « Siamo venuti a New York proprio perché è la capitale mondiale della banca. Le vostre banche lavorano per il mondo intero, ma queste rifiutano di lavorare per quanti vivono all’ombra dei vostri grattacieli: i poveri che vivono qui non vi hanno accesso. Negli Stati Uniti ci sono milioni di persone che non possono aprire un conto. Siamo qui per dimostrarvi che è possibile, senza essere sconvolgente, purché lo si faccia mettendo al centro la persona umana. Oggi la crisi ci offre l’occasione di meditare su questa ingiustizia; dobbiamo ripensare le istituzioni bancarie e finanziarie affinché si aprano a tutti » .
Quando ho cominciato a riflettere sul microcredito, mi sono posto questa domanda: perché non estendere i servizi bancari ai poveri cosicché ne possano approfittare? Mi dicevano: impossibile! L’unico argomento che avevano era questo: i poveri non sono solvibili. Allora mi sono chiesto: sta alle banche decidere se i poveri sono o non sono solvibili, o non sta piuttosto ai poveri scegliere la banca più adatta a loro? L’ironia è che la crisi ha dimostrato che i più poveri, chi utilizza il microcredito, sono solvibili, eccome! Mentre chi sembrava solvibile, in particolare i banchieri, alla fine non lo è affatto. Non bisogna buttare via il capitalismo, ma è come se in esso ci fosse una voragine che va colmata. Io dico: colmiamola e completiamo questo modello. Il sistema capitalistico è stato sviluppato a metà, bisogna aggiungere l’altra metà, e finora c’è stata un’unica possibilità di scelta, nel mondo degli affari: io sto proponendo un’alternativa. Poi sta ad ognuno decidere dove orientarsi. Oggi siamo davvero in un momento molto importante: c’è la crisi del petrolio, abbiamo avuto per lungo tempo l’aumento dei prezzi dei cereali, ora il rallentamento dell’economia mondiale. Tutti fatti che hanno concorso a creare povertà e sono destinati a complicarsi nell’immediato futuro.
Il concetto teorico di business ad esempio è molto limitato, perché si fonda sul concetto che l’essere umano è una macchina per fare soldi. È come se, quando entra nel mondo degli affari, l’essere umano si mettesse degli occhiali che gli permettono di vedere come unico obiettivo soltanto l’utile, l’utile, l’utile. Ma l’occhio umano non è fatto per questo: è la teoria che ha creato questi occhiali. Il risultato è che per l’utile si creano molti problemi alla gente: povertà, malattie, degrado ambientale. Oggi serve una leadership visionaria, che sappia dare prospettive nuove al futuro del Pianeta. Una realtà come il G8 deve prendere in pugno la situazione, ma si tratta di vedere se abbiamo solo leader dalle vedute ristrette, o se ci sono leader di grande statura e visionari.
(traduzione di Anna Maria Brogi)
Nei villaggi della Grameen Bank Pubblichiamo un reportage realizzato nel dicembre 1997 in Bangladesh
La scelta di puntare sulle donne, e quella di aggirare la corruzione. Già nove anni fa il microcredito di Yunus era diventato in Bangladesh un’istituzione forte e riconosciuta
di Marina Forti (il manifesto, 14.10.2006)
Dakha. I funzionari della Grameen Bank, banca rurale per il micro-credito - forse l’istituzione del Bangladesh più nota nel mondo - teorizzano: è meglio concedere prestiti alle donne piuttosto che ai loro mariti. «Sono più affidabili. Pensano al bene della famiglia, ai figli, a risparmiare. Gli uomini non sempre hanno una visione ampia delle cose, appena hanno un po’ di soldi vanno a spenderli al mercato, a bere con gli amici. Le donne sono intraprendenti, pensano al futuro. Se prendono un prestito, si sentono impegnate a restituirlo», mi dice M. Shahjahan, vice amministratore generale della Grameen.
E’ per questo, per una scelta precisa, che il 94 per cento dei «clienti» della banca rurale sono donne, povere contadine senza terra che lottano per migliorare il proprio ménage. I funzionari della Grameen sono incorsi a volte negli anatemi di qualche mullah che non vede di buon occhio la partecipazione femminile in attività che creano reddito e le fanno uscire di casa. «Ma succedeva all’inizio. Ora siamo un’istituzione familiare, nota, non solleviamo più tanto sospetto». Di sicuro la banca per il micro-credito rurale toglie molto potere agli usurai che campavano sui prestiti concessi a braccianti e contadini poverissimi.
La storia della Grameen Bank è ormai quasi leggendaria. E’ stata fondata da un professore di economia dell’università di Chittagong, il signor Mohamad Yunus, che nel ’75-’76 vedeva interi villaggi ridotti alla disperazione per la carestia. Molti non riuscivano neppure a comprare le sementi. Potevano rivolgersi agli strozzini, certo: i più erano indebitati per parecchi anni di lavoro e di raccolti. Eppure, dice Yunus, sarebbero bastati pochi soldi - a volte pochi dollari - per interrompere il circolo vizioso di povertà, indebitamento, ancora più povertà. Solo che le banche commerciali non concedono prestito a un bracciante o contadino povero, perché non dà garanzie. Sono quelle «garanzie» che il professor Yunus ha voluto sfidare. Nel ’76 a Chittagong ha garantito personalmente, presso una banca commerciale, il prestito alle famiglie del villaggio di Jobra. Poi ha avviato un progetto pilota finanziato dalla Banca centrale del Bangladesh.
Nell’83 la Grameen Bank è nata come istituzione finanziaria indipendente, sia pure con una partecipazione della banca di stato. Era basata su un principio semplice: come ogni banca, presta denaro a interesse (20 per cento su un anno). Però presta solo ad alcune condizioni: essere nullatenenti (sono considerati tali coloro che possiedono i due o tre acri di terreno su cui abitano e tengono al massimo un orto), condizione che per qualsiasi banca «normale» sarebbe uno svantaggio. Inoltre: unirsi in gruppi di almeno cinque persone che garantiscono l’una per l’altra, essere madri di famiglia, restituire piccolissime somme settimana per settimana: una forma di risparmio obbligatorio.
L’altra innovazione della «banca dei villaggi» (gram significa villaggio in bengalese) è che «poiché i poveri non vanno in banca, deve essere la banca ad andare dai poveri». Oggi la Grameen ha 14 uffici zonali e 11mila filiali locali, con una media di 200 clienti ciascuna. Sono gli impiegati delle filiali a girare per villaggi e circondari, promuovere i gruppi di clienti, aiutarle a iniziare un’attività, seguirle, consegnare i prestiti e andare a riscuotere le rate della restituzione.
Così è il villaggio di Duptara, distretto di Narayanganj, una trentina di chilometri dalla capitale, dove seguiamo l’addetto della Grameen che una volta alla settimana visita i bari - un circondario, gruppo di case di solito abitato da famiglie tra loro imparentate - per riscuotere le rate dei crediti. Le clienti qui sono una quindicina e hanno preso a prestito somme che vanno da 60 a 100mila taka, 1.400-2.300 dollari: sono ormai clienti di vecchia data. Il primo prestito, una decina d’anni fa, ammontava a 500 taka, 11 o 12 dollari.
Con quei soldi una signora aveva comprato una mucca e cominciato a vendere il latte al mercato. Altre avevano comprato un telaio. Ormai tutto il bari si dedica alla tessitura a mano di certi tessuti finissimi detti jamdani, molto ricercati per gli eleganti sari delle signore: i prestiti servono a finanziare l’acquisto della seta da filare e tessere. Prestiti hanno permesso di costruire belle case con pavimenti di argilla tanto levigata e pulita da sembrare lucida, pareti di bambù intrecciato, tetti di lamiera. Gli addetti della Grameen hanno finanziato la costruzione di latrine igieniche. Le anziane ora si preparano a continuare le attività senza altri prestiti e cederanno il posto alle figlie.
A tutt’oggi la Grameen Bank ha concesso prestiti per due miliardi di dollari e ha un giro di clienti di oltre due milioni di persone, donne per lo più, che prendono a prestito all’inizio somme pari a meno di 200 dollari - restituito il primo prestito ne possono chiedere anni. Il tasso di restituzione è del 97%: sarebbe considerato ottimo da qualsiasi banca «normale».
Come impresa commerciale «for profit», spiega il signor Shahjahan, la banca ha avuto un profitto di 90 milioni di taka nel ’96, pari a 2 milioni di dollari, interamente reinvestito. Grameen ormai è un gruppo che comprende un’impresa di esportazione di tessili e abiti come i sari jamdani delle donne di Duptara. Poi c’è GrameenPhone e c’è il provider di servizi elettronici chiamato Grameen Cybernet. Come organizzazione per lo sviluppo, la Grameen promuove cooperative di piscicoltori e agricoltori, finanzia piccole imprese commerciali, organizza programmi sanitari e di formazione.
L’impresa commerciale e l’organizzazione commerciale sono strettamente legate. Banca, istituzione riconosciuta dal governo del Bangladesh e citata a modello dalla Banca Mondiale: ma soprattutto la Grameen Bank è un’organizzazione che promuove un’idea di sviluppo basata sull’industriosità dei singoli e la solidarietà. Ne testimoniano le «sedici decisioni» a cui deve aderire ogni nuova cliente: lavorare per il bene della famiglia, mandare i bambini a scuola, bere acqua dei pozzi (potabile) e non dei fiumi (infetta), non dare o accettare dote per le figlie che prendono marito, cooperare e promuovere la convivenza comunitaria...
Aveva scoperto che il mercato premia sempre i potenti
di Sabina Siniscalchi (www.liberazione.it, 14.10.2006)
Sarebbe stato meglio gli avessero assegnato il Premio Nobel per l’Economia, visto che il professor Yunus è un economista e ha fondato un istituto di credito che non ha precedenti nella storia economica mondiale. Ma forse va bene così: che gli abbiano dato il Nobel per la Pace. Lo dico per due motivi. Il primo è che Yunus ha scarsa fiducia nelle teorie economiche; in un passaggio del suo libro, uscito qualche anno fa in Italia per Feltrinelli con il titolo “Il banchiere dei poveri”, afferma: «Le eleganti teorie economiche che insegnavo all’Università non riuscivano a spiegare il mondo reale, non davano una risposta al dramma quotidiano dei poveri...Queste teorie sono forse servite a mettere in evidenza i meccanismi che regolano l’economia, ma hanno trascurato l’esistenza dei poveri e hanno eluso la dimensione sociale dei problemi». Il secondo motivo è che il Nobel per la Pace, dato a un uomo di pensiero e di azione economica, viene a confermare che la pace è anche il risultato di scelte, orientamenti e ricette economiche.
Non si può ottenere la pace con un’economia di guerra, non si persegue la pace se si investono risorse sempre più ingenti in produzione, commercio e utilizzo di armamenti. E’ vero, invece, che si costruisce la pace garantendo i diritti e la coesione sociale. Lo dimostra Muhammad Yunus in Bangladesh, uno dei paesi più poveri e difficili del mondo, con i suoi programmi di microcredito ha non solo diffuso benessere, ma contribuito ad arginare conflitti sociali e religiosi.
La ricetta di sviluppo economico, applicata dalla Grameen Bank, punta a promuovere la coesione sociale non la competizione, a rafforzare le comunità non a premiare i singoli individui, a garantire il soddisfacimento dei diritti basilari non l’espansione dei consumi. E’ una ricetta che funziona, come confermano gli apprezzamenti che giungono da tutti gli ambienti economici internazionali, Banca Mondiale in testa.
E allora, se la Grameen Bank di Muhammad Yunus è un successo, dovremmo tutti chiederci a cosa servono le teorie economiche dominanti, visto che non riescono a garantire benessere, dignità e futuro agli esseri umani. A cosa serve l’economia se metà della popolazione mondiale vive nella miseria.
Si dirà che la colpa è della politica che non fa le scelte giuste e anche questo è vero, ma qualche responsabilità l’avranno pure gli economisti se il mondo va così male!
Dovrebbero, tanto per fare un esempio, valutare prima gli effetti su popolazioni e ambiente delle loro ricette, invece di attendere che i danni si producano.
Negli ultimi venticinque anni abbiamo visto ovunque, ma soprattutto nel Sud del mondo, gli errori delle teorie neoliberiste, abbiamo toccato con mano i guasti provocati dai tagli agli investimenti sociali, dalle privatizzazioni dei servizi, dalla cosiddetta deregulation delle attività produttive.
Eppure queste ricette ci vengono riproposte, identiche, come il modello di sviluppo vincente, eventualmente con qualche dubbio da parte degli economisti più sensibili che, però, ne considerano i danni sociali e ambientali come un pegno inevitabile da pagare alla crescita economica. Possibile che solo a Yunus sia venuto in mente che “un’altra economia è possibile”? Viene il sospetto che altri abbiamo avuto le stesse intuizioni, ma se le siano tenute per sé. Purtroppo i poveri sono sempre di più, ma contano sempre di meno in questo mondo e l’economia - si sa - deve essere utile ai ricchi.
«Negli Stati Uniti - dice Yunus - ho scoperto che l’economia di mercato libera l’individuo dischiudendogli un più ampio ventaglio di opzioni, ma c’è anche l’altra faccia della medaglia e cioè che il mercato opera sempre a favore dei potenti».
Teniamolo in mente, in questi giorni di discussione della legge finanziaria
Muhammad Yunus ha fondato in Bangladesh, nel 1976, la Grameen Bank. *
Grameen è una banca rurale (grameen in bengalese significa contadino) che concede prestiti e supporto organizzativo ai più poveri, altrimenti esclusi dal sistema di credito tradizionale. Fino a oggi la banca ha concesso prestiti a più di 2 milioni di persone, il 94 per cento delle quali donne. Grameen ha attualmente 1.048 filiali ed è presente in 35.000 villaggi e in diverse città nel mondo. Grameen non solo presta denaro ai poveri ma è posseduta da questa stessa gente, che nel tempo è diventata azionista della banca. Fondata in Bangladesh , Grameen , è ora un modello anche per la Banca Mondiale.
Amina Ammajan era una mendicante del Bangladesh, vale a dire una delle persone più povere della terra. Vedova e madre di due figlie, era sul punto di morire nel 1976, quando la casa le crollò letteralmente sulla testa. Oggi sua figlia possiede la casa, un pezzettino di terra e del bestiame. Non è ricca, ma vive dignitosamente. La sua vita, come quella di milioni di altre persone, soprattutto donne, è cambiata completamente da quando ha incontrato Grameen, la banca del Bangladesh che teorizza e mette in pratica il credito ai derelitti: pochi soldi, dati a fronte di un progetto minimo e senza nessuna richiesta di garanzia. Ma con percentuali di restituzione che fanno invidia alle più solide banche tradizionali. E’ una storia a dir poco sorprendente quella raccontata dal libro di Muhammad Yunus, Il banchiere dei poveri appena uscito per Feltrinelli (£ 35.000, 268 pp.). Tutto comincia quando Yunus, un docente universitario di economia del Bengala laureatosi negli Stati Uniti, si mette in testa di cercare nuove strade per combattere la miseria disperata delle zone rurali del suo paese. Fin dalle prime incursioni sul campo, durante la terribile carestia del 1974, Yunus si rende conto che c’è una grande quantità di uomini e donne a cui non mancano né buona volontà né una forte capacità lavorativa, il cui destino è tuttavia senza speranza perché privi di uno strumento essenziale: un capitale, anche piccolissimo, con cui iniziare qualunque attività. Così, in spregio a tutte le regole del mondo bancario di ogni tempo e latitudine, Yunus riesce a convincere una banca della sua regione ad aprire una linea di crediti minuscoli (i più alti superavano a malapena i venti dollari), riservati quasi esclusivamente alle donne, senza alcuna richiesta di garanzia e senza neppure la necessità di riempire un modulo (del resto, a che sarebbe servito? La maggior parte dei clienti era analfabeta). Il risultato è stato entusiasmante. Gli ultimi della terra a cui Grameen (che significa "rurale") concedeva un’opportunità, non solo mettevano in piedi attività redditizie della più diversa natura (dalla vendita di focacce alla fabbricazione di sgabelli in bambù, alla coltivazione di riso) che consentivano loro di sfuggire alla miseria e agli usurai, ma rimborsavano puntualmente i prestiti. Molto più di quanto facessero i clienti "normali" delle banche tradizionali.
Il motivo di questo comportamento è estremamente semplice secondo Yunus, che provò a spiegarlo così ad uno sbalordito direttore di banca, quando espose per la prima volta il suo progetto: "I più poveri dei poveri lavorano dodici ore al giorno; per guadagnarsi da mangiare devono vendere i loro prodotti. Non c’è ragione perché non vi rimborsino, soprattutto se vogliono avere un altro prestito che consenta loro di resistere un giorno di più. E’ la miglior garanzia che possiate mai avere: la loro vita!".
Insomma proprio la disperazione e la mancanza di alternative farebbero di un povero un creditore affidabile, assai più di un creditore comune. "Chi sta bene - argomenta il professore - non teme la legge e sa come manipolarla a proprio vantaggio". Il ragionamento è meno paradossale di quello che sembra se è vero, come spiega lo stesso Yunus, che nel suo paese ci sono banche la cui percentuale di recupero dei crediti non supera il 10 per cento e che la moratoria dei prestiti non rimborsati diventa regolarmente il più sicuro dei cavalli di battaglia in ogni campagna elettorale.
E’ facile immaginare quante resistenza abbia incontrato in una società tradizionalista come quella del Bangladesh questa iniziativa, che presupponeva, tra l’altro, l’emancipazione delle donne. Anzi, questo forse è l’aspetto più incredibile di tutta la storia. La filosofia del microcredito, infatti, imponeva di andare a cercare proprio gli ultimi, quelli che non avevano più speranza. E nella società del Bangladesh, così come in molti altri paesi asiatici o africani, non c’è nessuno che stia peggio di una vedova o di una donna abbandonata o semplicemente maltrattata dal marito. Ragion per cui, Yunus e i suoi sono andati in lungo e in largo per il Bangladesh, un paese musulmano molto tradizionalista in cui la separazione fra i sessi nella vita sociale è rigidamente osservata, cercando di convincere giovani donne terrorizzate ad accettare un prestito che avrebbero dovuto rimborsare a piccole rate ogni settimana. Inutile dire che le autorità religiose di ogni villaggio hanno cercato in tutti i modi di scoraggiare sia la banca che le sue possibili clienti. Eppure alla fine sono riusciti a spuntarla.
Oggi Grameen non solo è una banca indipendente importantissima nel Bangladesh, ma ha messo filiali in giro per il mondo, perfino nei paesi più ricchi. Il microcredito è praticato in cinquantasette nazioni, fra cui anche gli Stati Uniti, dove ne usufruiscono i poveri dei ghetti di Chicago. Come è stata possibile una crescita tanto spettacolare? Con una serie di regole ferree che hanno consentito ai suoi fautori di superare ogni volta difficoltà apparentemente insormontabili. Anzitutto la richiesta ai poveri di radunarsi in gruppetti di cinque persone al momento di ottenere un prestito, assumendo ciascuno la responsabilità anche per gli altri, per rafforzare l’impegno a rimborsare la sua somma. In secondo luogo, il meccanismo di rimborso. Anziché attendere tutto il rimborso dopo una lunga scadenza, Grameen chiede ai suoi clienti di restituire il denaro in piccolissime rate ogni settimana. "Il denaro - spiega ancora Yunus - è una sostanza adesiva, si attacca al suo possessore. Se il rimborso deve avvenire dopo sei mesi o un ano dalla concessione del prestito, anche se il debitore avrà in tasca il denaro proverà inevitabilmente un certo dispiacere a staccarsene. Il segreto consiste nelle brevi scadenze".
A queste regole nel rapporto con la banca se ne aggiungono altre che riguardano l’esistenza personale dei clienti (dall’istruzione dei figli alla pulizia delle case, fino agli esercizi ginnici negli incontri) e che fanno somigliare Grameen a un programma di vita più che a un’istituzione di credito. E questo è certamente l’aspetto meno attraente di tutta la sua vicenda. Yunus e i suoi si comportano, da questo punto di vista, come se la povertà richiedesse una riorganizzazione ex novo dell’esistenza delle persone, quasi che i poveri fossero bambini da prendere per mano. Tuttavia, di fronte alla tenacia e al coraggio del progetto del microcredito e soprattutto ai suoi risultati nella lotta alla povertà, una diffidenza del genere sarebbe forse un lusso che nessuno, fra i poveri della terra, capirebbe.
Stefano Caviglia
Il sito della Banca Grameen: http://www.grameen-info.org/index.html
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http://www.zhora.it/Yunus.htm
Il Nobel al banchiere dei poveri schiaffo in faccia al liberismo *
Pare che l’annuncio abbia preso tutti di sorpresa. Normalmente i Nobel per la pace vengono assegnati a personalità di rilievo del mondo politico e diplomatico, con una spiccata tendenza a preferire i peggiori - ricordate Kissinger? - mentre questa volta il Comitato ha voluto assegnare il sostanzioso premio da un milione di dollari a uno che, per mestiere, presta i soldi ai poveri più poveri del mondo. Da sottolineare l’importante novità introdotta nella liturgia dei Nobel da questa decisione: il riconoscimento che pace e giustizia economica vanno insieme, e chi lavora per sradicare la povertà a volte può essere più importante di un ambasciatore.
Non esiste dunque Nobel più meritato di quello assegnato a Muhammad Yunus, fondatore nel 1976 della Grameen Bank (la banca dei contadini, in bengalese) e sostanzialmente l’inventore del microcredito cioè della prassi di concedere prestiti e supporto organizzativo ai più poveri, altrimenti esclusi dal sistema di credito tradizionale. La piccola grande idea di questo bengalese di buona famiglia che, invece di mettere a frutto i suoi studi nelle migliori università statunitensi andando a dirigere qualche ricca banca occidentale è tornato nel suo poverissimo paese, ha dato risultati incredibili. La Grameen, che opera accordando minuscoli prestiti ai diseredati, negli ultimi venti anni ha consentito a dodici milioni di persone - il 10 per cento della popolazione del Bangladesh - di acquisire gli strumenti per uscire dalla miseria più nera. Inoltre, una volta che il modello ha cominciato a venire replicato altrove, si è scoperto che poteva funzionare anche per i poveri di altri paesi, e non solo in quelli in via di sviluppo. Oggi ci sono “banche dei poveri” anche in Canada, Finlandia, Francia, Norvegia, Olanda e Stati Uniti, dove danno una mano ai diseredati dei ghetti neri, e si vanno diffondendo anche in Sudafrica, in Cina e in Russia. Tutto ebbe inizio quando Muhammad Yunus, allora docente universitario di economia, visitò le zone rurali del suo poverissimo paese durante la terribile carestia del 1974.
Il professore di buona famiglia rimase sconvolto e si mise in testa di fare qualcosa di concreto per restituire un po’ di speranza ai contadini messi in ginocchio dalla fame. Così, in spregio a tutte le regole della finanza, Yunus riuscì a convincere una banca della sua regione ad aprire una linea di crediti molto esigui (massimo venti dollari) senza alcuna richiesta di garanzia e senza neppure la necessità di riempire un modulo (visto che tanto maggior parte dei clienti erano analfabeti). Il risultato è stato incredibile: non solo i poveri riuscivano a mettere a frutto quei pochi soldi per lanciare attività redditizie della più diversa natura - dalla vendita di focacce alla coltivazione del riso passando per il piccolo artigianato - per sfuggire alla miseria e al ricatto degli usurai, ma rimborsavano puntualmente i prestiti cosa che raramente avviene con i “normali” clienti delle banche tradizionali. La spiegazione di Yunus è semplicissima: «Chi sta bene non teme la legge e sa come manipolarla a proprio vantaggio» aveva dichiarato in una delle numerose interviste, mentre «i più poveri fra i poveri sanno invece che non avranno altra occasione». Il ragionamento è meno paradossale di quello che sembra se è vero che in Bangladesh ci sono banche la cui percentuale di recupero dei crediti non supera il 10 per cento (alla Grameen siamo sul 98) e che la moratoria sui prestiti non rimborsati diventa regolarmente un cavallo di battaglia in ogni campagna elettorale del paese.
Ma il banchiere filantropo non doveva superare soltanto le resistenze dei suoi colleghi. La filosofia del microcredito imponeva di andare a cercare proprio gli ultimi, quelli che non avevano più speranza. E nella società del Bangladesh, così come in molti altri paesi asiatici o africani, non c’è nessuno che stia peggio di una vedova o di una donna abbandonata o semplicemente maltrattata dal marito. Ma come raggiungerle in un paese musulmano tradizionalista dove vige la rigida separazione fra i sessi? Semplicemente andandole a cercare. Ecco perché per anni Yunus e i suoi hanno percorso in lungo e in largo le zone più depresse del Bangladesh cercando di convincere le donne ad accettare prestiti da rimborsare a piccole rate. Inutile dire che le autorità religiose di ogni villaggio hanno cercato in tutti i modi di scoraggiare sia la banca che le sue possibili clienti. Alla fine, però, la Grameen è riuscita a spuntarla: non solo ha cominciato a funzionare a pieno ritmo - pare che le donne siano infatti le più affidabili in materia di debiti a ogni latitudine - ma ha anche messo in moto un processo di emancipazione femminile che ha fatto impallidire i costosissimi progetti foraggiati dalle organizzazioni internazionali.
Non dovete comunque pensare che Muhammad Yunus sia un rivoluzionario. Al contrario ha tratto dalla teoria economica classica - che individua nella mancanza di capitale il principale ostacolo al decollo dello sviluppo economico - l’ispirazione a intervenire per rompere il circolo vizioso di chi, disponendo soltanto della propria forza lavoro, è sottoposto allo sfruttamento del committente che fornisce le materie prime e si prende il prodotto lasciando al lavoratore una remunerazione così bassa da non permettergli mai di accantonare qualcosa per ampliare la sua base economica. Inoltre, una parte importante dei prestiti viene destinata dalla Grameen Bank a finanziare l’acquisto o la costruzione delle abitazioni, dando la possibilità a migliaia di persone di vivere e lavorare in condizioni salubri. Come si evince dai dati forniti dalla banca stessa, l’impatto del microcredito sulle condizioni di vita è stato evidente: una crescita del 9 per cento del livello nutrizionale pro-capite, il 18 per cento in più di soldi destinati a vestiti, educazione e medicinali, cosa che ha abbassato di molto la mortalità per malattia fra la popolazione rurale. La sintesi di questi progressi è espressa da un dato: il 54 per cento dei clienti Grameen supera la soglia della povertà in cinque anni, gli altri nell’arco di dieci.
Abbiamo già detto dello stratosferico tasso di solvibilità che sta attirando l’attenzione di tutte le banche del mondo. Alla base, oltre alla disperazione dei poveri, c’è in realtà anche un’altra geniale idea dell’economista bengalese: l’introduzione dei contratti di prestito collettivo che mettono al centro del meccanismo di erogazione e di recupero dei prestiti non gli individui ma i gruppi. La loro caratteristica basilare è l’utilizzo della cosiddetta joint-liability, ovvero il meccanismo che tramite la responsabilità di gruppi ristretti di debitori (massimo 5 persone) consente di ridurre i rischi in circostanze in cui i beneficiari dei prestiti sono troppo poveri per poter offrire garanzie. Il dibattito in merito all’esperienza della Grameen ha univocamente riconosciuto che proprio la joint-liability costituisce la chiave del suo successo insieme ad altri meccanismi innovativi come il sistema di rimborso a cadenza settimanale, la crescita progressiva nell’importo dei prestiti concessi e la prevalenza delle donne che sono ormai il 94 per cento della clientela della banca. Inoltre il programma di microcredito della Grameen si articola utilizzando una serie di diversi strumenti finanziari - dai fondi di risparmio mutualistici ai fondi assicurativi passando per i contratti di leasing destinati all’acquisto di attrezzature e veicoli - che consentono alla banca di fornire un servizio finanziario integrale. Perché sia chiaro, la Grameen Bank non è affatto un’associazione di beneficenza ma è una vera e propria attività bancaria alquanto redditizia che, da quando è stata fondata, non ha fatto che espandersi e aprire nuove succursali in tutto il pianeta.
Con l’interessamento delle grandi banche e gli studi delle organizzazioni internazionali come la Banca mondiale, che ha verificato il successo del microcredito nell’abbattere la povertà e migliorare le condizioni di vita, il modello Grameen ha cominciato a venire imitato un po’ ovunque. Nel 1980 in Olanda è nata la Triodos Bank, diretta emanazione di una cooperativa di credito che nel 1995 aveva già un volume di attività di 165 miliardi di lire. Nel 1988, sulla spinta del movimento ambientalista, in Germania è nata la Oekobank mentre in Svizzera, nel 1990, ha visto la luce la Banque alternative BAS che promuove progetti nel campo dell’economia non profit. Poi, a ruota, sono arrivate la Citizen Bank in Giappone, Merkur in Danimarca, Eko Osuuspankii in Finlandia, South Shore Bank negli Stati Uniti e la Banque Populaire du Haut Rhin in Francia, solo per citarne alcune. Oggi il contributo del microcredito alla lotta alla povertà è universalmente riconosciuto dalle istituzioni mondiali deputate a sostenere lo sviluppo. Nel giugno 1995 la Banca Mondiale ha avviato un suo proprio programma mentre le Nazioni Unite hanno approvato nel 1997 una risoluzione che riconosceva ufficialmente l’importanza del microcredito come strumento per sradicare la povertà.
Sabina Morandi (sabato 14 ottobre)
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www.liberazione.it, 14.10.2006
Il Nobel per la pace a Yunus il «banchiere dei poveri» *
Lo chiamano non a caso il «banchiere dei poveri». Infatti, quando nacque, nel 1976 Mohammed Yunus creò in Bangladeh la Grameen Bank (ossia «banca rurale») nessuno ancora aveva mai sentito parlare di banche etiche é di microcredito. Da allora invece la Grameen Bank è stata imitata in tutti i continenti. La tesi sembrava contraddire ogni principio bancario: prestare soldi, anche pochi soldi, a chi non ha nulla, ai poveri. Eppure il "microcredito" funziona così: bastano pochi dollari per cambiare una vita.
Con questa intuizione e tanta voglia di innovare, Mohammed Yunus ha creato una struttura che ha consentito ai poverissimi di comprare le piccole cose della sussistenza, gli oggetti del lavoro quotidiano. E fra questi poverissimi, in prima linea ci sono le donne. Oggi la Grameen Bank è il quarto istituto finanziario del Bangladesh con oltre diecimila dipendenti, più di cinque milioni di clienti in tutto il paese: oltre il 90% sono donne. Da sottolineare che Bangladesh, indipendente dal 1971, è classificato tra i paesi del Quarto mondo. Ha 120 milioni di abitanti su una superficie che è la metà di quella italiana. Il 90% della popolazione è analfabeta e circa il 40% vive in condizioni di estrema povertà.
Anche per questo alla notizia che lui e la sua Grameen Bank hanno vinto il premio Nobel Per la Pace per il loro impegno a favore dello sviluppo economico e sociale. Lui, il banchiere di poveri, ha esultato: «Sono felicissimo, davvero felicissimo. Voi sostenete il sogno di un mondo libero dalla povertà».
Yunus è un economista, musulmano, di famiglia benestante, laureato negli Stati Uniti. Tornò in patria nel 1972 per assumere l’incarico di direttore del Dipartimento di Economia dell’Università di Chittagong. L’esperienza decisiva della sua vita, a quanto lui stesso racconta, fu la tremenda carestia del 1974. «Mentre la gente moriva di fame per strada, io insegnavo eleganti teorie economiche. Cominciai ad odiarmi per la mia arrogante pretesa di avere una risposta. Noi professori universitari eravamo tutti molto intelligenti ma non sapevamo assolutamente nulla della povertà che ci circondava. Decisi che proprio i poveri sarebbero stati i miei insegnanti. Cominciai a studiarli e a domandargli delle loro vite».
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www.unita.it, Pubblicato il: 13.10.06 Modificato il: 13.10.06 alle ore 12.59
Banca Etica: dieci anni di sogni in attivo
di Giovanna Nigi *
Le banche sono in genere luoghi dove il denaro, depositato dai risparmiatori, transita velocemente, senza fermarsi. E chi lo deposita non ne segue il corso. Magari finisce a finanziare le mafie, o è investito in armi, o in progetti di sfruttamento umano e ambientale che i risparmiatori non condividono. Le cosidette "banche armate", per esempio, sono istituti che forniscono servizi d’appoggio per il commercio di armi italiane all’estero. Le banche etiche non intendono essere soltanto i luoghi di passaggio del denaro, ma prima di tutto luoghi di relazioni: il percorso del denaro, la sua provenienza e il suo utilizzo, l’identità dei risparmiatori e dei beneficiari sono un aspetto fondamentale, e in questo consiste gran parte della diversità di questi istituti. La banca è il punto d’incontro tra cittadini che condividono l’esigenza di una gestione del denaro responsabile e le iniziative socio-economiche che si ispirano ai princìpi di un modello di sviluppo sostenibile. Ai risparmiatori viene spiegato come un uso consapevole delle proprie risorse finanziarie possa diventare uno strumento per cambiare in meglio il mondo. Si legge nel manifesto della finanza etica: "La finanza eticamente orientata ritiene che il credito, in tutte le sue forme, sia un diritto umano. Non discrimina tra i destinatari degli impieghi sulla base del sesso, dell’etnia o della religione, e neanche sulla base del patrimonio, curando perciò i diritti dei poveri e degli emarginati. Finanzia quindi attività di promozione umana, sociale e ambientale, valutando i progetti col duplice criterio della vitalità economica e dell’utilità sociale".
In un mercato finanziario globalizzato come quello in cui viviamo le scelte dei consumatori assumono valore politico. Come dice Alex Zanotelli" si vota ogni volta che si acquista qualcosa.." e questo vale, forse anche di più, quando si sceglie dove destinare e a chi far gestire il proprio risparmio.
L’operatività Banca Etica è una "banca dalle pareti di vetro": sia per quanto riguarda i finanziamenti (tutti pubblicati nel sito www.bancaetica.it), la partecipazione, le modalità di utilizzo del denaro. Delle banche tradizionali Banca Etica propone i principali servizi e prodotti destinati al singolo, alle famiglie e alle organizzazioni. Sul fronte dei finanziamenti, concede prevalentemente credito alle realtà che operano all’interno del Terzo settore e dell’economia solidale, in particolare nell’ambito dei servizi socio-sanitari ed educativi, dell’inserimento lavorativo dei soggetti deboli, della cooperazione allo sviluppo, del volontariato internazionale, della tutela ambientale e della salvaguardia dei beni culturali. A partire dal 2003 vengono finanziate anche società attive nell’ambito dell’agricoltura biologica e della produzione di energia da fonti rinnovabili (purché orientate da precisi criteri etici), e persone fisiche (purché socie della banca) alle quali è stata destinata una serie di prodotti che vanno dal mutuo per l’acquisto della prima casa a prestiti personali mirati soprattutto a particolari esigenze: dalla copertura di spese sanitarie alle adozioni, dalla ristrutturazione di edifici per l’abbattimento delle barriere architettoniche all’installazione di impianti per l’utilizzo di energie rinnovabili.
Quando, l’8 marzo 1999, si è aperto a Padova il primo sportello di banca Etica, sono volate le scommesse. Nessuno sembrava dare credito a una banca che già dal nome si presentava come un ossimoro:una banca che si pretendeva etica, in un mondo, come quello della finanza, che certamente etico non è... un’impresa destinata a fallire, una favola, agli occhi spenti del nostro disincanto quotidiano. O un imbroglio. Che altro poteva essere? A distanza di quasi dieci anni,invece, la Banca popolare Etica appare solida e in buona salute, e i risultati che vanta sono sorprendenti, considerando che è l’unico istituto italiano che ispira tutta la sua attività secondo i principi della finanza etica.
L’onda è lunga, e bisogna tornare un po’ indietro, alla fine degli anni Sessanta. E’ tra quella data e gli anni ’90 che si sviluppano in Europa e nel mondo una serie di esperienze di finanza alternativa. Le più importanti banche etiche in Europa sono la Oekobank in Germania, che si sviluppa sulla scia di movimenti pacifisti ed ecologisti, la Triodosbank in Olanda, che ha filiali in Belgio ed Inghilterra, e l’Abs (Alternative Bank Swisse) fondata su due principi: partecipazione e trasparenza. Fuori dal vecchio mondo, l’esperienza più importante è quella della Grameem Bank in Bangladesh, considerata la madre di tutte le banche etiche, che si occupa di microcredito, concessione di piccole somme di denaro a gruppi di persone la cui unica garanzia è la coesione sociale.
Il movimento degli Ofe (organizzazioni di finanza etica) ha preso avvio a partire dagli anni 1990, per lo più in forma spontanea, in diversi paesi, sia in quelli sviluppati che nel Terzo Mondo. Uno degli ispiratori Muhammad Yanus, fondatore della Grameen Bank, premio Nobvel per la Pace del 2006 con la sua banca etica più grande del mondo. In Italia l’idea nasce dall’esperienza maturata negli anni Ottanta dalle Mag (Mutua auto gestione), piccolissime cooperative finanziarie che avevano scelto di sostenere soggetti diversi rispetto a quelli ritenuti bancabili dal sistema finanziario tradizionale. Per volontà di una ventina di organizzazioni del Terzo Settore e con il sostegno di finalmente nel ’99 Banca Etica vede la luce.
La struttura è leggera, con meno di duecento dipendenti che servono l’intero territorio nazionale - undici le filiali (Padova, Milano, Torino, Brescia, Vicenza, Treviso, Bologna, Firenze, Roma, Napoli e Palermo - Bari aprirà nei prossimi mesi) e una rete capillare di promotori finanziari chiamati "banchieri ambulanti" , migliaia di persone e organizzazioni che sostengono e praticano la finanza etica in tutta Italia.
Ha un capitale sociale che sfiora i 20 milioni di euro, conferito da quasi 30mila soci, una raccolta di oltre 500 milioni di euro e finanziamenti accordati per 370 milioni di euro a sostegno di oltre 2500 progetti nei quattro principali ambiti di intervento: cooperazione sociale, cooperazione internazionale, ambiente, cultura e società civile.
* l’Unità, Pubblicato il: 05.04.08. Modificato il: 06.04.08 alle ore 15.42