Northern Rock, nazionalizzata 17 febbraio 2008
La prima corsa agli sportelli della storia delle banche britanniche da 150 anni
Solo il 27% dei fondi proviene da depositi dei clienti: ben il 73% proviene da prestiti a breve termine contratti sul mercato finanziario.
Mutui al 120%
Bear Stearns, comprata da J.P.Morgan
16 marzo 2008
Il suo valore è precipitato da 20 miliardi a 236 milioni $
Esposta con i subprime, la Casa Bianca ha dovuto garantire i suoi titoli legati ai mutui per 29 miliardi $.
La Casa Bianca ha garantito il più possibile per evitare lo scatenarsi della reazione a catena, investendo quindi più per evitare il rischio sistemico che quello della singola Bear Stearns.
Fannie Mae e Freddie Mac, commissariate
7 settembre 2008
Titoli legati ai subprime per 5.000 miliardi $, debiti per 1.600 miliardi $
Entrambe agenzie semigovernative, non prestavano direttamente, ma garantivavo i mutui concessi da altri istituti. I loro depositi non sono garantiti dal governo, ma tutti credevano, a ragione, che, essendo due mostri di proporzioni colossali, se avessero mai rischiato il fallimento il governo ci avrebbe messo una pezza. Così è stato.
Merrill Lynch, comprata da Bank of America
14 settembre 2008
Comprata di colpo, dopo un anno di gravi perdite dovute ai subprime
Il fatto passa quasi inosservato a causa delle tragedie finanziarie dei due giorni successive
Lehman Brothers, fallita
15 settembre 2008
Il più grande fallimento della storia: 613 miliardi $ di debiti
Banca d’investimento enorme, ne viene fatta fallire l’holding, ma alcune attività erano ancora sane: Barclays Ban per 250 milioni $ si aggiudica l’attività di investment banking, per 1,5 miliardi $ compra anche alcuni edifici e i centri di elaborazione dati.
Aig, nazionalizzata
16 settembre 2008
La Casa Bianca compra il 79,9% del capitale per 85 miliardi $
Fortemente esposta con i subprime, valutava i suoi titoli da 1,7 a 2 volte il valore di quelli Lehman. All’intervento della Federal reserve aveva già perso il 95% del valore.
Hbos, comprata dai Lloyds di Londra
18 settembre 2008
Più grande fusione bancaria della storia britannica
Hbos era la maggiore banca britannica specializzata in erogazione di mutui ipotecari. Solo il 58% del capitale proveniva dai depositi, il restante 42% dai mercati finanziari.
Bradford & Bingley, nazionalizzata
19 settembre 2008
Banca spezializzata in mutui ipotecari
Costo dell’operazione: 41,3 miliardi £. Tutta la rete di filiali è stata venduta al Banco de Santander
Goldman Sachs e Morgan Stanley, accedono agli aiuti
21 settembre 2008
Cambiano ragione sociale da Investment bank a holding bank per poter accedere agli aiuti della Federal reserve
Hanno dovuto accettare un livello molto più alto di quanto avessero stimato di partecipazione statale. Nella prima fase della crisi, Goldman Sachs era riuscita a contenere le perdite, scommettendo sul ribasso dei titoli nonostante la sua forte esposizione sui derivati legati ai mutui. È stata messa fuori gioco dalla massiccia fuga di investitori dalla borsa.
Washinghton Mutual, amministrazione controllata
25 settembre 2008
Il più grande fallimento bancario della storia americana
Subisce una corsa agli sportelli di 10 giorni nella quale i clienti prelevano 16,7 miliardi $
Fortis, nazionalizzata da Belgio, Olanda e Lussemburgo
28 settembre 2008
Era il principale datore di lavoro privato del Belgio
Costo dell’operazione: 11,2 miliardi €
Giltnir, nazionalizzata il 30 settembre, Landsbanki il 7 ottobre e Kaupthing il 9 ottobre 2008
Terza, seconda e prima banca d’Islanda
Il fatto sancisce la fine dell’economia finanziaria dell’isola, consegnandola nelle mani di un futuro lungamente cupo
Hypo Real Estate, saltato
5 ottobre 2008
Gigante tedesco dei mutui
Costo esorbitante dell’operazione: 50 miliardi €
Lehman poteva essere salvata ma il club Goldman Sachs e la politica l’hanno sacrificata. Regalandoci 10 anni di sofferenze
di Giovanni Pons (Business Insider - Italia, 14/9/2018 - ripresa parziale.)
Che cosa abbia significato il fallimento di Lehman Brothers per l’economia mondiale e quindi per tutti noi, lo spiegano bene alcuni grafici pubblicati in questi giorni da Bloomberg a corredo di un pezzo intitolato “The Global Economy is still feeling the Lehman Fallout 10 years later“. La più profonda recessione dalla Grande Depressione in poi ha costretto le banche centrali a inondare di liquidità i mercati con la conseguenza che i bilanci delle stesse banche centrali sono esplosi. Il livello delle attività e passività ha raggiunto i 500 trilioni di Yen alla Bank of Japan, superato i 4 trilioni di dollari alla Fed e i 4 trilioni di euro alla Bce. Livelli che faranno fatica a essere ridotti nei prossimi anni. Allo stesso tempo i governi hanno dovuto reagire con stimoli fiscali o con misure di austerità con il risultato che i debiti pubblici sono più alti oggi che nel 2007, con il rischio implicito che un rialzo dei tassi di interesse possa innescare nuove frenate per le economie.
Di più. Dopo il picco negativo della recessione 2009-2010 le economie sono rimbalzate ma i tassi di crescita degli anni successivi sono apparsi moderati, soprattutto in rapporto agli stimoli fiscali e monetari profusi da governi e banche centrali. Dal punto di vista dell’occupazione il mondo ha circa 25 milioni di occupati in meno rispetto al 2007. E anche se il tasso di disoccupazione americano è sceso preoccupa l’alto tasso di disoccupazione giovanile, soprattutto in paesi come la Grecia e l’Italia. Mentre i salari sono rimasti contenuti in gran parte dei paesi del G7.
L’ambiente di tassi quasi a zero ha invece beneficiato il settore privato, l’unico che può definirsi vincente negli ultimi dieci anni, con utili societari in forte crescita che si sono riflessi in un costante aumento delle quotazioni borsistiche. E anche i prezzi degli immobili si sono ripresi in quasi tutto il mondo dopo il crollo del 2008-2009.
Che tutto ciò sia dovuto al fallimento di Lehman Brothers del 15 settembre 2008 è forse esagerato sostenerlo ma è chiaro che quell’evento è stato in grado di scatenare una serie di reazioni a catena che fino ad allora era difficile immaginare.
Detto questo a 10 anni di distanza, e viste le conseguenze economiche che abbiamo appena elencato, è opportuno chiedersi se allora fu fatto tutto il possibile per evitare il disastro e se no, di chi sono state le colpe.
I primi imputati sono sicuramente i manager della Lehman Brothers che in epoca di tassi bassi hanno spinto il bilancio della banca a girare oltre 20 volte il suo patrimonio netto acquistando alcuni asset immobiliari che si sono rivelati tossici. E queste responsabilità sono state messe bene in evidenza dalla Commissione d’inchiesta (Financial crisis inquiry commission) riportata dal bell’articolo di Walter Galbiati su Repubblica.it di mercoledì 12. Il fatto è le commissioni d’inchiesta governative si basano in gran parte sulle deposizioni dei protagonisti e nessuno di questi è andato mai a dichiarare che avrebbe potuto fare qualcosa di più o qualcosa di diverso per evitare lo sciagurato fallimento. Salvare Lehman Brothers era diventato impossibile sia per la condotta del suo management sia perché un intervento diretto del governo in quella direzione attraverso l’impiego di soldi pubblici era visto negativamente dal Congresso e al pari di un incentivo per tutte le altre banche a continuare le stesse pratiche rischiose (moral hazard) tanto qualcuno alla fine sarebbe intervenuto a togliere le castagne dal fuoco.
Ecco, forse oggi si può dire che far fallire Lehman si è rivelato demenziale; per dare un segnale contro il moral hazard ed evitare di mettere sul piatto 20 o 30 o anche 40 miliardi di soldi pubblici si è èreferito entrare nel tunnel dei 10 anni successivi fatti di recessione, disoccupazione, bassi stipendi, esplosione delle quotazioni di Borsa ma anche delle diseguaglianze. Ne valeva la pena? Credo di no.
Al tempo stesso la teoria che non si poteva fare altrimenti fa acqua da tutte le parti. Ecco alcuni elementi che mostrano come le autorità avrebbero potuto intervenire per tempo per evitare il collasso.
1) Fin dall’inizio del 2008 Lehman è stata al centro di un fortissimo attacco speculativo, di quelli che piacciono tanto alla cultura liberista dei mercati con la manina invisibile che aggiusta tutto da sola. Tuttavia non erano i famigerati titoli subprime a creare problemi, questi infatti erano assicurati con credit default swap presso Aig (come lo erano quelli delle altre grandi banche d’affari, da Goldman a Merrill Lynch). I problemi arrivavano dai titoli MBS (come spiega bene Ken Fischer in un articolo apparso il 12 settembre su Il Sole 24 Ore), ovvero i titoli garantiti da ipoteca, che Lehman non aveva interesse a vendere poiché continuavano a pagare gli interessi. Purtroppo la regola FAS 157 della contabilità Usa imponeva di fare il ‘mark to market’ di questi titoli, ed essendo gli MBS illiquidi le successive svalutazioni avevano via via eroso il capitale della Lehman. Almeno un paio di hedge fund molto aggressivi giocavano su questa debolezza buttando giù il titolo Lehman e spargendo sul mercato voci catastrofiste sui buchi di bilancio della quarta banca d’affari americana.
Nel libro di Andrew Ross Sorkin “Too big to fail” (De Agostini) si adombra addirittura il fatto che gli hedge fund che shortavano il titolo Lehman erano sollecitati da Goldman Sachs, la principale rivale. Le vendite allo scoperto sono state frenate dalle autorità solo all’inizio di settembre quando il Tesoro nazionalizzò Fannie Mae e Freddy Mac, i due istituti che erogavano crediti ipotecari. Ma prima nè la Sec, mè la Fed nè il Tesoro americano mossero un dito per alleviare quella carneficina.
2) Nel giugno 2008 Lehman chiede alla Federal Bank di New York, allora guidata da Tim Geithner, di concedere loro l’autorizzazione a diventare una Bank holding company, uno status che avrebbe permesso alla Lehman di accedere in caso di bisogno al supporto del fondo per l’assicurazione sui depositi in quanto banca commerciale. Geithner negò questa autorizzazione sostenendo che avrebbe inviato al mercato un “messaggio sbagliato”, cioé favorevole al moral hazard. Non avrebbe, a suo parere, fermato la speculazione, anzi l’avrebbe sollecitata perché gli operatori avrebbero pensato che in ogni caso c’è un compratore di ultima istanza.
Queste circostanze sono confermate sia dal libro di Ross Sorkin, sia dall’articolo che Scott Freidheim, ex Chief administrator officer di Lehman, ha scritto qualche giorno fa per il Financial Times e che Business Insider Italia ha pubblicato l’8 settembre scorso. Le argomentazioni di Geithner appaiono di corto respiro rispetto alla gravità della situazione che si stava creando intorno ai mercati e infatti le stesse sono velocemente passate in secondo piano quando la Fed di New York ha concesso a Goldman Sachs e Morgan Stanley di diventare holding company giusto una settimana dopo la dichiarazione di fallimento della Lehman.
3) In molti, nella concitata estate del 2008, temevano che i numeri scritti nei bilanci di Lehman non fossero veritieri, che le sue attività fossero sopravvalutate. Anche il presidente della Fed Ben Bernanke durante le sue audizioni davanti alla Commissione avanzò questo tipo di dubbi e questo fatto di certo non facilitò le trattative che Lehman stava conducendo con gruppi che avrebbero dovuto entrare nel suo azionariato. Tra la speculazione di mercato che buttava giù il titolo, le voci messe in giro ad arte e i dubbi sulla realtà dei suoi bilanci, Lehman era oggettivamente un facile bersaglio per tutti, il vaso di coccio da sacrificare.
Ancora, le varie autorità e istituzioni non si occuparono mai di alleviare questa tensione: per Hank Paulson, segretario al Tesoro, Geithner, Bernanke, c’era sempre una urgenza superiore a quella di Lehman da risolvere, tranne nel week end finale quando ormai era troppo tardi. La beffa è che tre diverse inchieste sui conti di Lehman svolte nei dieci anni successivi, inclusa una effettuata dalla Sec, hanno concluso che il bilancio della banca era regolare. Se a ciò si aggiunge che il 5 marzo 2014 Tony Lomas, il partner di Price Waterhouse che dal settembre 2008 ha gestito la procedura di fallimento della Lehman Brothers International Europe (cioé la filiale londinese della banca americana), ha dichiarato che le banche, gli hedge fund e i gestori dei fondi avevano recuperato il 100% della liquidità che detenevano presso la filiale europea di Lehman, e che anche dopo aver pagato tutti i creditori non garantiti nel bilancio della LBIE sarebbero rimasti 5 miliardi di avanzo, lo stupore è ancora più alto.
La capogruppo americana, invece, sino a quel momento aveva garantito un rimborso del 27% dei crediti, percentuale che sarebbe salita successivamente fino al 40%. Dunque dei 613 miliardi di passività che aveva la Lehman al momento del collasso, solo meno di 100 non erano coperti da titoli o dal capitale della banca e dunque sarebbe bastato un aumento di capitale da 20-30 miliardi per non mandare tutto a rotoli e senza far perdere un dollaro al contribuente. Con un po’ di calma i titoli illiquidi sarebbero stati portati a scadenza senza registrare perdite a bilancio e gli immobili commerciali avrebbero trovato dei migliori compratori. Con il default, invece, le banche concorrenti di Lehman hanno potuto sfamare la loro avidità lanciandosi in aste al ribasso sugli asset sottostanti ai titoli derivati di Lehman, come prevedono le regole ISDA, amplificando in questo modo le perdite della società in liquidazione.
Ecco cosa dichiarò Lomas al termine della procedura di liquidazione: “LBIE non era insolvente dal punto di vista patrimoniale, ma sotto il profilo del cash flow poiché la sua casa madre negli Stati Uniti collassò. Il braccio Uk della Lehman aveva 3 miliardi di dollari di pagamenti da fare la mattina del crollo ma non aveva cash a disposizione”. Quei 3 miliardi erano infatti stati ‘spazzati’ via il venerdì 12 settembre dalla casa madre newyorkese nel disperato tentativo di evitare la bancarotta. Ma il risultato fu che anche la filiale londinese fu costretta a dichiarare il fallimento.
4) Hank Paulson all’epoca era il potente segretario al Tesoro strappato dal presidente Bush jr. alla Goldman Sachs, la più potente banca d’affari di Wall Street, per servire il paese nella sua amministrazione. Non era certo il primo caso di un prestigioso banchiere che veniva preso in prestito dalla politica per svolgere ruoli difficili e che richiedono alte competenze. E la situazione in cui si è trovato Paulson non è certo delle più augurabili, di qualsiasi uomo o banchiere si tratti. Ma è un fatto che Paulson nello svolgere il suo lavoro si è circondato di altri uomini ex Goldman (ad esempio Ken Wilson e Dan Jesper), che Goldman era senza dubbio la più acerrima rivale di Lehman tra le grandi banche d’affari, che Paulson aveva un rapporto burrascoso con Dick Fuld, l’allora ceo di Lehman, e ottimo con Lloyd Blankfein, ceo di Goldman e che il susseguirsi e l’esito finale degli eventi getta più di un’ombra di sospetto sul fatto che Lehman sia stata lasciata rotolare volutamente verso l’abisso.
A marzo 2008 Bear Stearns fu inglobata da Jp Morgan Chase con il beneplacito della Fed e i soldi del Tesoro americano, il primo week end di settembre Fannie Mae e Freddie Mac furono nazionalizzate dal Tesoro e nelle settimane successive al tracollo di Lehman la Aig (il più grande riassicuratore americano) fu salvata con 80 miliardi di soldi pubblici perché il suo bilancio conteneva credit default swap per centinaia di miliardi che assicuravano tutte le banche del sistema, a cominciare da Goldman e Merrill Lynch. Ma soprattutto ai primi di settembre Paulson e Geithner sollecitarono Kenneth Lewis della Bank of America a stracciare l’accordo che aveva già impostato con Dick Fuld e dirottare i suoi sforzi nel salvataggio di Merrill Lynch guidata da John Thain, banchiere che aveva lavorato per 10 anni a Goldman Sachs (dal 1989 al 1990 come capo della divisione mutui e dal 1999 al 2004 come presidente e co-Chief operating officer). Bofa nell’acquisizione valutò Merrill 29 dollari per azione, con un premio del 70% sul valore di Borsa di quel momento. Secondo i racconti di banchieri vicini alla situazione, nel momento in cui Lewis stava facendo l’accordo con Lehman, Thain, Paulson e Geithner si accorsero che se le valutazioni degli asset si fossero applicate anche agli attivi di Merrill, questa sarebbe fallita. E Merrill era più grande di Lehman e avrebbe provocato un danno ancora più esteso. Così decisero di salvare Merrill sperando che gli inglesi di Barclays si prendessero in carico Lehman, ma il governo britannico si oppose e il 15 settembre la banca precipitò. Fu un enorme errore, si dovevano salvare sia l’una che l’altra.
5) Purtroppo l’aria che tirava a Washington in quei mesi drammatici soffiava per portare un agnello sacrificale al cospetto del mondo e dimostrare al popolo quanto era avida Wall Street. Le elezioni politiche erano previste a novembre e il fallimento dei repubblicani di Bush, ormai sotto gli occhi di tutti, stava spianando la strada al democratico Obama. Lo choc era funzionale a questo schema, ma nessuno aveva considerato cosa c’era sull’altro piatto della bilancia: se il prezzo da pagare è rappresentato da 10 anni di sofferenze per l’economia reale di tutto il mondo, forse si possono trovare altri modi più costruttivi per correggere le storture di Wall Street.
Lasciar andare Lehman al suo destino è stato il più clamoroso errore che la storia economica moderna ricordi. Ross Sorkin, nel suo informatissimo libro, riferisce di una cena riservata dell’agosto 2008 al tradizionale simposio di Jackson Hole offerta da James Wolferson appena diventato presidente della World Bank a cui, oltre a Bernanke, avevano partecipato due ex funzionari del tesoro, Larry Summers e Roger Altman, nonché Austan Goolsbee, advisor econmico di Barack Obama. Wolferson pose ai suoi ospiti due domande: la crisi creditizia di quei giorni sarebbe entrata nella storia come un capitolo o come una nota a piè di pagina? Tutti concordarono che probabilmente sarebbe stata una nota a piè pagina. Poi chiese: “Ci avviciniamo a un’altra Grande Depressione o sarà piuttosto un decennio perduto, come quello del Giappone?”. La risposta unanime degli ospiti fu che l’economia degli Stati Uniti avrebbe probabilmente sofferto una recessione prolungata come quella giapponese. Ma Bernanke, sorprendendo i presenti, sentenziò che nessuno dei due scenari rappresentava una possibilità reale: “Abbiamo imparato talmente tanto dalla Grande Depressione e dal Giappone che non accadrà nessuna delle due cose”, disse, sicuro di sè.
I fatti degli ultimi 10 anni ci dicono che nessuno, a quella cena, aveva le idee chiare su ciò che stava succedendo. E tutti noi ne stiamo pagando ancor oggi le conseguenze.
Dopo i 13 mld a JP Morgan, tocca a BofA.
Possibile una multa ancora più pesante
La sola Autorità americana che sovrintende i mutui ipotecari avrebbe chiesto 6 miliardi a Bank of America, mentre l’accordo sottoscritto da JP Morgan prevedeva a quella voce un conto da 4 miliardi.Tutto lascia pensare che il conto finale per BofA ritoccherà il record appena fissato *
La multa record con la quale JP Morgan ha trovato l’accordo per mettere fine ai guai giudiziari legati alla crisi dei mutui subprime potrebbe non rimanere sola nell’Olimpo dei maxi-patteggiamenti. Dopo mesi di trattative, la banca di Jamie Dimon ha raggiunto col Dipartimento americano alla Giustizia un accordo di massima sulla base di 13 miliardi di dollari di transazione, che quando verrà ufficializzata sarà la più grande mai imposta a una singola banca Usa. Ma Bank of America potrebbe superarla.
Il Financial Times nota infatti che l’Autorità governativa americana che ha chiesto a JP Morgan una fetta cospicua dei soldi di quella transazione, ne sta domandando di più a BofA. Nel dettaglio, gli sceriffi della Federal Housing Finance Agency - Fhfa, il regolatore del comparto immobiliare che ha sotto la sua lente Fannie Mae e Freddie Mac, le compagnie governative di mutui che hanno sfiorato il fallimento nel 2008 - avrebbero chiesto più di 6 miliardi a BofA, contro i 4 miliardi che dovrebbe essere costretta a pagare JP Morgan (che per i restanti 9 miliardi dovrebbe procedere ad altri rimborsi per 5 miliardi e ad annullare debiti dei clienti per 4 miliardi).
Il ragionamento del quotidiano della City è semplice: se tanto mi da tanto, il conto finale per BofA potrebbe essere più salato. La Fhfa, d’altra parte, ha citato in giudizio 17 istituti asserendo che non hanno agito secondo le norme sulla vendita di titoli, quando hanno ceduto i mutui impotecari a Fannie e Freddie. Bank of America, inoltre, ha a il più grande potenziale di esposizione, con un valore nominale dei titoli di più di 57 miliardi rispetto ai 33 miliardi JPMorgan. Sia BofA che la Fhfa non hanno commentato l’indiscrezione del Ft, che senz’altro avrà modo di svilupparsi di fronte ai giudici e alle autorità competenti.
* la Repubblica-Tconomia e Finanzam 21 ottobre 2013
SUBPRIME
La Sec accusa Goldman Sachs
"Con Abacus 2007 frodò i risparmiatori"
Secondo il New York Times, la Consob Usa ha avviato una causa civile contro il colosso bancario, che avrebbe creato e venduto prodotti rilasciando informazioni inesatte e omettendo i fatti chiave. E, mentre i clienti perdevano con il crollo dei titoli, la banca guadagnava scommettendo contro. Crollo dei bancari a Wall Street e in Europa
NEW YORK - E’ una delle banche statunitensi che hanno retto meglio alla crisi, e che in un primo tempo non sembrava coinvolta dal crollo dei mutui subprime, ma adesso la Goldman Sachs è stata accusata di frode dalla S.E.C., la Consob Usa. Secondo la S.E.C., l’istituto finanziario avrebbe creato e venduto prodotti collegati a mutui suprime, rilasciando informazioni inesatte e omettendo fatti chiave. La Securities and Exchange Commission, secondo quanto scrive il New York Times, ha avviato una causa civile contro Goldman Sachs. Sulla scia della notizia, il titolo cede a Wall Street circa il 10 per cento. Crollo dei bancari anche in Europa: gli indici archiviano la giornata di Borsa in forte calo.
Emersa "incolume", come scrive il quotidiano Usa, avrebbe invece speculato in modo illegittimo nei titoli legati al mercato immobiliare attraverso uno strumento denominato Abacus 2007-AC1. Anche il maggior partecipante di Abacus, Paulson&Co è coinvolto e avrebbe pagato a Goldman 15 milioni di dollari per strutturare il Cdo (collateralized debt obligation), chiuso il 26 aprile 2007. Poco meno di nove mesi dopo, il 99% del portafoglio del Cdo era carta straccia. E mentre gli investitori perdevano, Goldman, che aveva scommesso contro i titoli che vendeva ai propri clienti, guadagnava.
L’iniziativa della S.E.C. rappresenta il primo caso in cui le autorità agiscono nei confronti di un prodotto messo a punto da Wall Street e che ha aiutato alcuni investitori a capitalizzare sul collasso del mercato immobiliare. La S.E.C. ha annunciato che potrebbe avviare altre azioni legali di questo tipo nei prossimi giorni, ma ha evitato di dire contro quali banche.
In effetti da diversi mesi Goldman Sachs, ricorda il New York Times, è stata accusata per il comportamento nel mercato dei mutui, in particolare per aver scommesso contro prodotti legati ai subprime (che però allo stesso tempo aveva venduto ai propri clienti). In una lettera pubblicata la scorsa settimana nel proprio report periodico, la banca ha replicato: "Certamente non conoscevano il futuro del mercato residenziale nella prima metà del 2007, così come non siamo in grado di predire in questo momento il futuro dei mercati". Goldman ha anche assicurato di non aver mai "scommesso contro i propri clienti".
* la Repubblica, 16 aprile 2010
Se crolla Goldman Sachs
di Federico Rampini (blog ESTREMO OCCIDENTE , 16.04.2010)
Vuol dire che è cominciata la resa dei conti finale. Le accuse della Securities and Exchange Commission alla banca più potente e politicamente influente di Wall Street sono di una gravità senza precedenti. E’ partito oggi il vero “processo alla crisi”. E proprio mentre Obama si è deciso a rompere gli indugi, andando allo scontro con la destra sulle nuove regole della finanza.
Stiglitz: "Fanno soldi sul disastro che loro hanno creato"
Il Nobel per l’Economia: paradosso assurdo, colpa degli speculatori che prendono di mira i governi più deboli
di Stefano Lepri *
«E’ un paradosso assurdo, da voi in Europa - si infervora Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia 2001 - una ironia della storia. Non lo vede? I governi hanno contratto molti debiti per salvare il sistema finanziario, le banche centrali tengono i tassi bassi per aiutarlo a riprendersi oltre che per favorire la ripresa. E la grande finanza che cosa fa? Usa i bassi tassi di interesse per speculare contro i governi indebitati. Riescono a far denaro sul disastro che loro stessi hanno creato».
Che può succedere ora?
«Aspetti. Non è finita qui. I governi varano misure di austerità per ridurre l’indebitamento. I mercati decidono che non sono sufficienti e speculano al ribasso sui loro titoli. Così i governi sono costretti a misure di austerità aggiuntive. La gente comune perde ancora di più, la grande finanza guadagna ancora di più. La morale della favola è: colpevoli premiati, innocenti puniti».
Come si può rimediare?
«Tre punti. Primo: niente denaro alla speculazione. Negli Stati Uniti come in Europa, bisogna fare nuove regole per le banche. Devono finanziare le imprese produttive, non gli hedge funds. Bisogna impedirgli di speculare».
Una parola. Se è il governo a dirigere il credito, il rischio è di distribuirlo ancora peggio.
«Non credo. Secondo me si può e si deve intervenire. Punto secondo: bisogna imporre tasse molto alte sui guadagni di capitale. Oggi è più vantaggioso speculare che lavorare per vivere. Deve tornare ad essere il contrario».
E poi?
«Punto terzo: in Europa dovete appoggiare i governi in difficoltà».
Si rischia di premiare i politici che governano male.
«No. La prova la dà la Spagna. Oggi è in difficoltà senza aver fatto errori. Il governo aveva un bilancio in attivo fino all’altr’anno; la Banca centrale ha sorvegliato le banche molto bene, tanto che viene citata ad esempio nel mondo. Che colpa hanno? Certo, anche loro hanno visto crescere la bolla, nel mercato immobiliare, e non l’hanno fermata. Ma è l’errore che hanno fatto tutti. Era nello spirito dei tempi. Lo ispirava l’ideologia neo-liberista che ha dominato per molti anni».
In Grecia però hanno sbagliato. Hanno anche truccato i conti.
«Non l’attuale governo, il precedente. Sono stati colpiti dalla crisi della navigazione commerciale, settore importante per loro, e dal calo del turismo. Insomma, perché dobbiamo costringere la gente a fare ancora più sacrifici, se non ha colpa?».
Il debito c’è. Prima o poi gli Stati dovranno ripagarlo.
«Ma perché mai dobbiamo dare retta ai mercati? I mercati non si comportano in maniera razionale, lo abbiamo visto nel modo in cui si è prodotta la crisi. Allora perché mai dovrebbero avere ragione, nel chiedere ancora più sacrifici ai cittadini di quei paesi? In più, anche se la avessero, si comportano in maniera troppo erratica. E per finire, qui è in corso un attacco speculativo: non è che se uno fa bene non lo colpiscono, è che se ti possono far fuori ti fanno fuori».
Come possiamo fare, in Europa?
«Dovete costruire dei meccanismi di solidarietà fra Stati. L’Unione deva avere più risorse a disposizione. Si spendono un sacco di soldi per la politica agricola comune, che è uno spreco, mentre...»
Si potrebbero emettere dei titoli europei, gli Eurobonds.
«Certo. E poi occorre tassare le attività nocive. Soprattutto due: la finanza e le emissioni di anidride carbonica. Anche negli Stati Uniti».
Obama riuscirà a imporsi alle banche?
«Sarà una lunga battaglia. Ma la rabbia della gente è forte, e il presidente lo sa. I banchieri hanno contro tutto il resto della popolazione».
Il Congresso è riluttante.
«Spero che non si debba arrivare ad un’altra crisi, prima di riuscire a mettere la finanza sotto controllo. Sarebbe davvero triste. Pensi a quanto danno hanno causato. Lo sa che secondo le rpevisioni del Cbo, l’Ufficio bilancio del Congresso, la disoccupazione comincerà a diminuire sono a metà del decennio? Queste sono cose che restano a lungo nella memoria della gente»
*
Stefano Lepri
Fonte: www.lastampa.it
Link: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/economia/201002articoli/51924girata.asp
5.02.2010
"WALL STREET HA AIUTATO ATENE A TRUCCARE I CONTI PUBBLICI"
Inchiesta del New York Times sul ruolo giocato da Goldman e JP Morgan.
Ombre anche sull’Italia
di FEDERICO RAMPINI (la Repubblica, 15.02.2010)
La Grecia ha truccato i conti pubblici e ha ingannato per anni l’Europa con l’aiuto dei "soliti noti": Goldman Sachs e altri colossi di Wall Street. Lo rivela il New York Times in un’ampia inchiesta che getta nuove ombre sulla credibilità della Grecia, proprio mentre l’Eurozona è alle prese con i piani per il suo salvataggio. L’inchiesta dimostra che gli stessi metodi usati da Wall Street per creare la bolla speculativa dei mutui subprime sono stati replicati con le finanze pubbliche della Grecia e di altri paesi europei, Italia inclusa.
Grecia e Italia vengono citate fra quei Paesi i cui governi hanno fatto ricorso alla consulenza delle grandi banche americane (Goldman Sachs e JP Morgan Chase) per delle operazioni di "chirurgia estetica" che hanno dissimulato la vera entità dei deficit pubblici. Un ruolo perverso spetta ai titoli derivati: quanto hanno nascosto, e quanto nascondono tuttora, dell’indebitamento di alcuni Stati sovrani? Il caso greco domina le rivelazioni, creando un serio imbarazzo al governo di Georgios Papandreou ma anche ai suoi interlocutori di Bruxelles, Berlino e Parigi alle prese col rischio di crac sovrano di uno Stato membro dell’Eurozona. Decine di interviste documentano un inganno andato avanti a lungo, "dieci anni di menzogne della Grecia" che hanno gettato fumo negli occhi della Commissione europea e hanno consentito ad Atene di aggirare il Patto di stabilità. Uno dei "montaggi finanziari" escogitati da Goldman Sachs "ha nascosto alle autorità di Bruxelles miliardi di debiti". Fino all’ultimo, poco prima che le convulsioni della crisi greca esplodessero alla luce del sole, sull’asse Atene-Wall Street si è tentato di barare.
A novembre una delegazione di altro livello della banca americana è arrivata ad Atene per discutere una nuova possibilità di guadagnare tempo. La missione era guidata da Gary Cohn, presidente di Goldman Sachs. I maghi della finanza avevano in mente un nuovo dispositivo per far scivolare i costi attuali della sanità pubblica greca "sui bilanci di anni molto lontani". Un po’ come, in America, le banche rifilavano dei nuovi mutui ai proprietari di case sommersi dai debiti. Il trucco aveva funzionato in precedenza. Nel 2001, subito dopo l’ammissione della Grecia nell’Unione monetaria, la stessa Goldman Sachs aveva assistito il governo di Atene nel reperire miliardi sui mercati. Quel finanziamento del debito pubblico fu nascosto nei bilanci, grazie a un montaggio che la trasformava in un’operazione sui cambi anziché un prestito. Nel novembre 2009 il tentativo fallì: troppo tardi, forse. L’attenzione dei mercati e della Commissione europea deve aver sconsigliato l’ennesimo trucco. Il New York Times specifica che i derivati hanno svolto un ruolo chiave in questa vicenda. Scrive che "gli strumenti finanziari elaborati da Goldman Sachs, JP Morgan Chase e altre banche, hanno consentito ai leader politici di mascherare l’indebitamento aggiuntivo in Grecia". E con "l’aiuto della JP Morgan l’Italia ha fatto di più. Nonostante persistenti alti deficit, un derivato del 1996 ha aiutato l’Italia a portare il bilancio in linea".
In decine di montaggi finanziari, rivela l’inchiesta, "le banche fornivano liquidità immediata ai governi in cambio di rimborsi futuri, e questi debiti venivano omessi dai bilanci pubblici". Un esempio: la Grecia rinunciò ai proventi della lotteria nazionale e delle tasse aeroportuali per anni a venire, in cambio di una liquidità immediata. Questo genere di operazioni non sono state contabilizzate come dei prestiti. Ingannando così sia le autorità di Bruxelles, sia gli investitori in titoli del debito pubblico greco, che ignoravano la vera dimensione dell’indebitamento e quindi il rischio d’insolvenza. Come un tocco di ironia alcuni dei montaggi finanziari furono battezzati coi nomi di dèi dell’Olimpo, come Eolo. Secondo l’economista Gikas Hardouvelic "i politici vogliono passare la patata bollente a qualcuno, se un banchiere gli dimostra come farlo, lo fanno". Sulla stessa lunghezza d’onda Garry Schinasi, esperto della task force di vigilanza sui mercati all’Fmi: "Se un governo vuole imbrogliare, ci riuscirà". Le banche hanno fornito il know how, e si sono fatte compensare: per il montaggio del 2001 Goldman Sachs ricevette una commissione di 200 milioni di dollari dalla Grecia. Quell’operazione fu un "swap sui tassi d’interesse": uno strumento che può servire a coprirsi da un rischio di variazione dei tassi, ma può anche essere usata a fini speculativi.
Essa consente a un investitore o a uno Stato di convertire un debito a tasso variabile in uno a tasso fisso, o viceversa. Analogo è lo "swap di valute" che serve a proteggersi contro una variazione nei tassi di cambio, oppure a speculare su futuri scossoni tra le monete. Infine la "chirurgia estetica" sui conti greci ha ipotecato aeroporti e autostrade, mettendo i loro proventi nelle mani dei creditori per molti anni futuri. Il problema che emerge dalle rivelazioni del New York Times riguarda i danni alla trasparenza dei bilanci pubblici. "Il peccato originale dell’Unione monetaria - conclude l’inchiesta - è che Italia e Grecia vi entrarono con deficit superiori ai livelli consentiti dal Trattato di Maastricht. Anziché ridurre la spesa, però, i governi tagliarono artificialmente i deficit con l’uso di derivati. E i derivati, in quanto non appaiono ufficialmente nei bilanci, creano un’ulteriore incertezza". I campanelli d’allarme non sono mancati. Già nel 2008 Eurostat, l’istituto statistico di Bruxelles, aveva attirato l’attenzione sulle operazioni di "cartolarizzazione" dei debiti pubblici "montate ad arte per ottenere un certo risultato sui conti pubblici". Ancora prima, nel 2005, l’allora ministro delle Finanze greco Georgios Alogoskoufis, avvertì che l’operazione fatta con l’assistenza di Goldman Sachs avrebbe "appesantito i conti pubblici con pagamenti fino al 2019". In un giro perverso di transazioni, alcuni di quei titoli sono stati perfino usati dalla Grecia come "garanzie" in deposito alla Bce. Per il contribuente tedesco, che adesso dovrebbe finanziare il salvataggio, la diffidenza è più giustificata che mai.
Ricominciano proposte e giochi sui «derivati»
Se già torna malafinanza
di Giancarlo Galli *
«Il temporale è passato, la festa può ricominciare...». È questa l’aria che da qualche mese si respira nei santuari della finanza mondiale, e anche fra le boiseries delle Banche italiane. Traducendo, affinché tutti possano comprendere: allorché esplose la Grande Crisi (inverno 2008) che fece temere un crac dell’intero sistema capitalistico globalizzato, non vi fu bisogno di strologare, andare alla ricerca di «mali oscuri». Le responsabilità furono subito chiare, individuate nei comportamenti di banchieri e speculatori; nella talvolta interessata disattenzione dei controllori (Federal Reserve, Banca centrale europea in primis); nella debole autorevolezza dei politici, di quei ministri del Tesoro che pur riunendosi in continuità, non avevano né visto né previsto. Arrivato il ciclone, l’inconsueto spettacolo di una generale autocritica, seguita dalla solenne promessa, quasi un giuramento. «Abbiamo sbagliato, ci siamo lasciati prendere la mano dalla finanza creativa. Non lo faremo più...». Davvero pentimento da marinai impenitenti.
Infatti, non solo la stragrande maggioranza di coloro che si trovavano ai vertici hanno conservato le poltronissime, ma senza perdere tempo hanno preso a ribattere le vecchie strade. Sui circuiti finanziari sono ricomparsi quegli strani Ufo, che hanno per nome «derivati». In pratica, scommesse da casinò, sulle materie prime, le azioni, i debiti delle aziende e degli Stati; poi trasferite, con astuzie degne di quegli alchimisti che nel Medioevo pretendevano di trasformare il ferro in oro, alla moltitudine dei risparmiatori. Ingenui pesciolini alla mercé degli squali. Tecnicamente (sarebbe complesso entrare nei meccanismi), un bis di quanto è avvenuto coi «mutui facili», all’inizio del crac. Come prima, peggio di prima, allora? Pur evitando moralismi, non si può restare insensibili a un secondo fatto. I bonus milionari che, sotto ogni cielo, banchieri e finanzieri si autoattribuiscono. Precisando: quasi sempre prescindendo dai risultati conseguiti.
Mentre diluviava, si erano impegnati a rivedere i loro compensi; senonché l’appetito e la tentazione sono risultati troppo forti. Tant’è che nel mondo anglosassone è polemica, col premier inglese Gordon Brown e più timidamente col presidente Usa Obama, determinati ad arginare l’andazzo. Anche perché i beneficiari dovrebbero essere quegli stessi personaggi, spesso inamovibili, che sono stati salvati dalla bancarotta da interventi pubblici. Qualche raro economista, non al guinzaglio, sostiene che in questo modo, con imperdonabile dissennatezza, si rischia di andare incontro a occhi chiusi a un ennesimo disastro. L’augurio, ovvio, è che le Cassandre sbaglino. Tuttavia le perplessità vanno aumentando. Mentre troppi politici sembrano occuparsi di tutto, fuorché dell’economia reale, dei problemi delle famiglie, della stagnazione dei consumi che colpisce in particolare i redditi medio-bassi, molti banchieri tornano a comportarsi da entità separata, autonoma, autoreferenziale. La loro stella polare resta il «far profitto» comunque e con ogni mezzo. Quand’erano con l’acqua alla gola, gli Stati hanno loro offerto zattere di salvataggio; adesso si sono rimessi in linea di navigazione.
Come? In Italia lo sappiamo bene: ai depositanti, miseria; alle aziende minori lesinano crediti. In tanti preferiscono macinare utili, appunto, coi «derivati»; inseguendo nuovamente le farfalle della finanza creativa. E ancora una volta, l’etica, lo «spirito di servizio» paiono purtroppo un optional.
Giancarlo Galli
* Avvenire, 22 Gennaio 2010
1909: UN INEDITO DELLO SCRITTORE DI FANTASCIENZA
L’autore de «La guerra dei mondi» e la visione di un crollo economico a livello globale, causato da una speculazione patologica, mercati interdipendenti fra loro e avidità di massa: «Sfido qualunque analista o esperto a dimostrare che non possa accadere»
La finanza ci rovinerà
«È stato costruito un sistema di convenzioni sul denaro e sul credito più azzardato e sperimentale che si possa immaginare Una vasta macchina di prestiti e di debiti, una rete mondiale di società per azioni che comportano rapporti assai bizzarri»
di Herbert George Wells (Avvenire, 1.11.2009) *
Nella vita moderna, ci sono soprattutto due cose che mi sembrano pericolose e imponderabili: da una parte, il nostro sistema monetario e finanziario e, dall’altra, il rischio che corriamo di una guerra devastante. Nel nostro sistema monetario e finanziario non c’è proprio niente di scientifico. È cresciuto, ed è diventato sempre più complesso nell’arco di circa un secolo, a partire da origini molto semplici. Trecento anni fa, l’edificio aveva a mala pena cominciato a levarsi dal suolo, la maggior parte della proprietà era di tipo immobiliare, la maggior parte delle persone viveva direttamente dei prodotti della terra, la maggior parte delle transazioni economiche avveniva in contanti, il commercio con l’estero era ancora relativamente poco sviluppato, la forza lavoro era legata al territorio. Quasi tutto il mondo si trovava al livello a cui la Cina è rimasta in gran parte ancora oggi: andava avanti praticamente senza batter moneta.
Dal punto di vista del finanziere e dell’industriale moderno, era un mondo primitivo. Ebbene, su quella base rozza e sicura è stato costruito il sistema di convenzioni e di supposizioni sul denaro e sul credito più azzardato, sperimentale e incerto che si possa immaginare. Vi è cresciuto un vasto sistema di prestiti e di debiti, una rete mondiale di società per azioni che comportano rapporti in realtà assai bizzarri. Io, per esempio, mi ritrovo a possedere (almeno in parte) una banca in Nuova Zelanda, una ferrovia a Cuba, un’altra in Canada e varie in Brasile, una centrale elettrica nel quartiere londinese di Westminster, e così via, e utilizzo titoli e azioni come se fossero denaro fruttifero. Se ho bisogno di soldi, vendo una quota di ferrovia, proprio come si cambierebbe una banconota da cento sterline; se invece ho più contanti di quanti non me ne servano nell’immediato, compro un po’ di azioni. So che il valore di queste azioni oscilla, a volte in modo considerevole, e che anche il potere d’acquisto dei biglietti di banca che prendo oscilla rispetto alle cose che voglio comprare; so, in effetti, che tutto il sistema (che esiste da appena un paio di secoli e che sta diventando sempre più euforico e vertiginoso) ondeggia, trema, si torce e si flette in continuazione. Tuttavia, è solo quando si verifica una grande crisi, come quella del 1907, che mi rendo conto che forse non c’è limite a queste oscillazioni, che forse tutto quell’edificio ampio e caotico presto crollerà fragorosamente. Perché non dovrebbe? Sfido qualunque economista o esperto di finanza a dimostrare che non possa farlo. Che nel breve arco della sua esistenza ciò non sia ancora accaduto non dimostra nulla. È come affermare che un uomo non può morire perché non lo ha mai fatto prima. Altri uomini sono morti prima di lui, così come altre civiltà sono crollate, se non di disordini finanziari acuti, di disordini finanziari cronici.
L’esperienza del 1907 ha mostrato molto chiaramente come può avvenire un crollo. Un panico finanziario, come una valanga, è una cosa molto più facile da iniziare che da fermare. Crisi precedenti sono state arginate soltanto grazie alla fortuna; quest’ultima crisi negli Stati Uniti, per esempio, ha trovato un’Europa forte, prospera e pronta a prestare soccorso. In ogni periodo di crisi si realizza un’imponente dislocazione di imprese, ampie moltitudini di uomini cadono nella disoccupazione, ci sono gravi disordini sociali e politici; ma alla fine, almeno fino ad ora, sembra che le cose si siano sempre riaggiustate. Ora immaginate però un’ondata di panico un po’ più universale - e le ondate di panico tendono ad essere più ampie di quanto non fossero in passato. Immaginate che quando a New York cadono tutti i titoli, l’oro si rivaluta e la gente spaventata comincia a vendere gli investimenti e a fare incetta d’oro, la stessa cosa accada in altre parti del mondo. Se la scala del problema aumentasse anche solo di due o tre volte, credete che il sistema potrebbe riprendersi? Immaginate grandi masse di uomini senza lavoro, arrabbiati e selvaggi, in tutte le nostre grandi città; immaginate le ferrovie che funzionano con personale ridotto a salari ridimensionati o bloccate dai lavoratori in sciopero; immaginate i fornitori che smettono di consegnare le merci ai commercianti al dettaglio, e i dettaglianti che esitano a fare credito. Si giungerebbe a una fase in cui anche la polizia e l’esercito, che dovrebbero mantenere l’ordine nelle strade, si ritroverebbero a corto di razioni e senza paga settimanale. Ciò che noi moderni, con i nostri miseri 300 anni di sicurezza alle spalle, non comprendiamo è che, data una particolare combinazione di elementi casuali, le cose che di solito attraversano alti e bassi potrebbero cominciare a precipitare velocemente - andando sempre più giù. Che cosa faresti, caro lettore (e che cosa farei io) se la recessione continuasse indefinitamente? E questo mi porta al secondo grande pericolo della civiltà moderna: la guerra. Abbiamo sviluppato eccessivamente la guerra. Mentre abbiamo lasciato l’organizzazione della pace ai metodi inefficaci, lenti ed egoistici dell’iniziativa privata; mentre abbiamo lasciato l’educazione delle nostre popolazioni al caso, le loro menti alla carta stampata più scadente e le loro ricchezze ai fabbricanti di droga, abbiamo portato avanti l’arte della guerra secondo linee rigorosamente scientifiche e socialiste.
Abbiamo destinato senza alcuna esitazione tutte le risorse della comunità, e una parte enorme della sua intelligenza e della creatività, al miglioramento e alla costruzione dell’apparato di distruzione.
Tutte le cose procedono strisciando, tranne l’arte della guerra: quella sfreccia in avanti veloce. Su ciò che accadrebbe se adesso le armi cominciassero a sparare non ho ombra di dubbio. Ogni anno c’è stato un aumento sconcertante. Ogni Stato moderno è più o meno come un battello a vapore malfermo e mal costruito in cui qualche idiota ha messo in posizione e caricato un cannone enorme, senza alcun dispositivo in grado di assorbirne il rinculo. Che quel cannone colpisca o manchi il bersaglio quando sarà esploso, di una cosa possiamo essere assolutamente certi: farà colare a picco il battello. (traduzione di Laura Talarico
* L’Europa futura su « Lettera internazionale »
Il britannico Herbert G. Wells ( 1866- 1946), autore di opere come L’isola del dottor Moreau, L’uomo invisibile , La macchina del tempo o La guerra dei mondi ( da cui fu tratto un dramma radiofonico omonimo interpretato da Orson Welles e talmente realistico da gettare nel panico milioni di ascoltatori americani) è considerato uno dei padri e maestri della fantascienza. Le maledizioni dell’Occidente è il titolo del brano di cui qui pubblichiamo una parte e che uscirà sul nuovo numero della rivista Lettera internazionale ( www.letterainternazional e. it), il trimestrale europeo di cultura diretto da Biancamaria Bruno che va in libreria nei prossimi giorni. Numero dedicato « all’Europa che vorremmo » .
L’evoluzione dei mutui NINJA (non garantiti) nel mercato statunitense
la loro diffusione, le cartolarizzazioni a catena, la bolla immobiliare e il collasso
I subprime, dal sogno americano
al crollo della finanza internazionale
Le considerazioni di un’economista piacentina che insegna negli Stati Uniti
"In un mondo sempre più complesso, è indispensabile l’alfabetizzazione finanziaria"
dal nostro inviato ROSARIA AMATO *
TRENTO - E’ tutta colpa del sogno americano. Che, a sentire Annamaria Lusardi, piacentina, docente di economia negli Stati Uniti, al Dartmuth College, non è così diverso da quello italiano: gli americani vogliono una casa di proprietà. E per averla sono disposti a indebitarsi fino al collo, senza calcolarne le conseguenze perché non hanno le conoscenze finanziarie per farlo e perché, e questo sì, li differenzia invece dagli italiani, non hanno alcuna propensione al risparmio. Ma questo non basta per spiegare la disastrosa crisi dei mutui subprime, che ha innescato una recessione dalla quale il mondo stenta ancora a venir fuori.
Per capire come si è arrivati al disastro occorre anche capire come negli Stati Uniti si sono comportati le banche e gli altri istituti finanziari, e anche i governi. In poco meno di un’ora, al Festival dell’Economia di Trento, Anna Maria Lusardi ha ricostruito una sequenza di fatti che resta ancora un po’ oscura. E’ estremamente difficile, ha detto Lusardi, calcolare il prezzo di un mutuo subprime e valutarne il rischio. Su questi titoli strani, estremamente rischiosi, è stato costruito un gigantesco castello di carta che alla fine ha trascinato con sé i sogni e le speranze degli americani, e non solo le loro.
Ma è da lì che bisogna partire, ha sottolineato l’economista. "Solo nel 2004 Alan Greenspan sottolineava come ’l’innovazione ha portato ad una molteplicità di prodotti nuovi, come i mutui subprime’, lodati come uno strumento che permetteva anche ai "soggetti richiedenti più marginali di ottenere un prestito". Nell’ottobre del 2008 lo stesso Greenspan ammetteva: ’Questa crisi si è rivelata molto più grande di quanto avessi mai potuto immaginare. Si è trasformata da una crisi costretta da vincoli di liquidità in una crisi in cui ormai prevalgono i timori di insolvenza’.".
Cosa aveva permesso ai subprime di stravolgere il mercato? "Negli Stati Uniti un mutuo tipico ha la durata a 30 anni, prevalentemente a tasso fisso e finanzia l’80% dell’immobile, pur potendo arrivare al 95%. Per concederlo si valuta il punteggio di credito del mutuatario, il rapporto tra mutuo e valore dell’immobile e tra rata e reddito disponibile, la documentazione sul patrimonio del richiedente", ha spiegato Lusardi.
Al contrario, i mutui subprime si sono evoluti come prodotti ’Ninja’: No income, no job, no asset (il richiedente non era tenuto a presentare alcuna documentazione sul reddito, sul lavoro e sul patrimonio). Prestiti facili, insomma, per favorire chi non avrebbe avuto i requisiti ad ottenere un mutuo con tutte le garanzie del caso. D’altro canto, il subprime è un contratto capestro: "Quello più comune - spiega Anna Maria Lusardi - è il 2-28. E’ un ibrido perché ha un tasso fisso, inizialmente molto basso, che a partire dal secondo anno si trasforma in tasso variabile, di valore ben superiore rispetto a quello di mercato".
I subprime nel ’94 ammontavano a 35 miliardi di dollari, corrispondenti al 5% dei mutui accesi. Ma dal 2000 le cose cambiano, e nel 2005 si arriva a 600 miliardi di dollari, corrispondenti al 20% del mercato. Con percentuali maggiori di anno in anno, dal momento che, man mano che i prezzi delle case salivano, fino a raddoppiare, anche chi avrebbe avuto tutte le credenziali per avere un mutuo ’normale’ preferiva un subprime, per non sottostare alle forche caudine dei controlli.
I subprime venivano poi acquistati e cartolarizzati dalle due agenzie sponsorizzate dal governo federale, Fannie Mae e Freddie Mac: "Lo scopo era quello di incoraggiare l’estensione del credito alle comunità a reddito basso e modesto e sostenere l’acquisto di case di proprietà". Ma dal 2006 i prezzi delle case invertono il segno, con molta più rapidità rispetto all’aumento. Se in cinque anni i prezzi erano raddoppiati, ha ricordato la professoressa Lusardi, in circa due anni si dimezzano, e così gli americani si ritrovano con un mutuo dal valore più alto di quello della casa. Tanto che, a quel punto, "conviene la bancarotta": non ha senso continuare a pagare una casa che vale molto meno delle somme esorbitanti che si è costretti a pagare. Ed è la rovina.
Il resto è storia nota. Le banche in drammatica crisi di liquidità, i discussi salvataggi del governo americano e gli ancora più discussi salvataggi mancati, come quello di Lehman Brothers. Operazioni che non convincono i cittadini americani: la professoressa Lusardi ha mostrato al pubblico di Trento una vignetta nella quale si vede un bagnino con una canotta con su scritto The Fed (Federal Reserve, la banca centrale Usa) che tutto felice porta via dall’acqua un pescecane, ’lenders’ (prestatori, cioè le banche, gli istituti della galassia finanziaria), mentre i mutuatari insolventi affondano disperati nel mare in tempesta.
Cosa si sarebbe potuto fare per evitare tutto questo? Anna Maria Lusardi ha una sua personale ricetta, condivisa peraltro anche da molti economisti italiani: l’alfabetizzazione finanziaria rende i cittadini consapevoli delle proprie scelte, evita che facciano scelte dannose per se stessi e per il mercato. Ma basta per spiegare la crisi dire, statistiche in mano, che i cittadini americani erano e sono (del resto come quelli italiani, anche la Banca d’Italia e l’Abi possono esibire statistiche altrettanto scoraggianti) più che ignoranti in materia finanziaria? Oppure, come ha obiettato uno studente, "è al medico che tocca dire al paziente che cos’ha e quali medicine deve prendere, e non al malato capire i sintomi e farsi una prescrizione?".
"Bisogna iniziare seriamente a porsi il problema di avviare un programma di educazione finanziaria. - ha ribadito con forza Anna Maria Lusardi - Le banche hanno probabilmente dato il via alla crisi e ne sono state coinvolte, dando capitali a prestito a persone che non offrivano sufficienti garanzie. E i broker si sono sicuramente arricchiti alle spalle dei consumatori. Tuttavia la responsabilità è diffusa. In un mondo in cui i meccanismi sono sempre più complessi e cresce il rischio di speculazioni, la conoscenza finanziaria è indispensabile".
* la Repubblica, 30 maggio 2009)
Al Festival dell’Economia di Trento un "tribunale" giudicherà gli studiosi
accusati di non aver seguito gli sviluppi della finanza. Chiesta la condanna a 7 anni
Gli economisti alla sbarra
"Non hanno compreso la crisi"
Applicavano regole vecchie a un sistema che in pochi anni era stato rivoluzionato?
Oppure sono stati Cassandre inascoltate, e le colpe del collasso sono altrove?
dal nostro inviato ROSARIA AMATO
TRENTO - Gli economisti sono colpevoli di non aver previsto la crisi economica innestata dai mutui subprime? Perché non hanno denunciato le anomalie e le distorsioni del mercato che hanno portato alla recessione l’intero pianeta? Perché non avevano le conoscenze necessarie per rendersene conto, è la tesi dell’economista Roberto Perotti, professore alla Bocconi, ex consulente della Banca Mondiale e della Banca Centrale Europea.
A Perotti è toccato l’ingrato compito di sostenere la pubblica accusa nel processo che stamane a Trento, al Festival dell’Economia, si è tenuto contro gli studiosi. La difesa è stata sostenuta da un altro economista, Luigi Guiso, professore all’European University Institute di Firenze, che ha chiamato a testimoniare due colleghi, Nicola Persico e Nouriel Roubini, celebrato proprio perché invece lui la crisi l’aveva prevista eccome, però lanciare l’allarme per tempo non è servito a nulla.
Questo perché, ha sostenuto Guiso davanti alla giuria, costituita da studenti della Facoltà di Economia di Trento, prevedere le crisi non è come prevedere i terremoti: "I collassi finanziari, a differenza delle città, non sono evacuabili". E quindi, paradossalmente, "Se anche gli economisti avessero potuto prevedere la crisi...forse sarebbe stato meglio non dirlo: l’unico risultato che avrebbero ottenuto sarebbe stato di anticipare il collasso".
Accusa e difesa, nel tribunale allestito nella Sala Depero del Palazzo della Provincia, si sono comunque trovati d’accordo su una tesi: la crisi in senso stretto non era prevedibile, nel senso che conoscere il giorno, o il periodo preciso nel quale l’economia subisce un tracollo, uno shock violento, è impossibile, così come lo è conoscere in anticipo il giorno e l’ora di un terremoto. E quindi in questo senso ha torto chi, come hanno fatto anche diversi esponenti politici, punta il dito contro gli economisti.
Ma qui finiscono le analogie tra accusa e difesa. Secondo Perotti gli economisti sono senz’altro da condannare (anche se la condanna chiesta non è troppo pesante, "sette anni di reclusione, perché con meno di cinque anni in Italia non si va neanche in galera, e almeno un anno al fresco gli economisti se lo meritano"), perché, quando la crisi è esplosa, hanno continuato ad annaspare: non ne hanno compreso appieno le ragioni, non hanno saputo indicare le vie per affrontarla al meglio. E la ragione è semplice: non conoscevano a sufficienza, o forse non conoscevano affatto, il mondo della finanza. I subprime e le loro evoluzioni, i problemi legati alla senior tranche, le mille vie delle cartolarizzazioni per cui i titoli diventavano irriconoscibili persino agli stessi emittenti.
Una finanza di carta, misteriosa persino per chi avrebbe avuto tutta la convenienza oltre che il dovere di conoscerla a fondo, dal momento che su essa poggiavano le proprie personali fortune, oltre che le sorti del sistema finanziario e in definitiva dei paesi: i manager delle banche, delle società finanziarie, i broker. Doppia colpa per gli economisti: non aver capito che il bandolo della matassa era stato perso da quegli stessi che avevano iniziato a dipanarla. "Negli ultimi anni c’era stata un’enorme evoluzione del mercato del credito - ha dichiarato Perotti, in un sofferto e interminabile J’accuse, rivolto anche a se stesso ("neanch’io avevo capito niente") - che aveva dato luogo a un vero e proprio sistema bancario ombra, che si finanziava con strumenti nuovi ad alto rischio, a scadenza giornaliera. Al tempo stesso, le banche erano arrivate a detenere una sempre maggiore quantità di titoli cartolarizzati".
Mentre gli economisti dormivano sonni tranquilli, ha ricostruito Perotti, ritenendo che i manager sapessero quello che stavano facendo, e che le istituzioni finanziarie fossero nelle mani di illustri studiosi, a cominciare da Ben Bernanke, a capo della Federal Reserve Usa, il sistema finanziario accumulava tossine che a un certo punto hanno provocato il collasso, unite alla bolla immobiliare. "Non ci eravamo resi conto che questi titoli erano molto più rischiosi di quello che pensassimo". Peggio, neanche le banche se n’erano rese conto: "Credevamo di essersi assicurate, e lo erano, per il rischio singolo, non certo contro un problema sistemico".
Insomma, il mondo era cambiato in pochissimo tempo, e gli economisti applicavano regole pensate per situazioni ormai morte e sepolte, come la Taylor rule, uno dei principi cardine della politica monetaria. "Oltre a non comprendere cosa stava succedendo nel mercato del credito - ha concluso Perotti - siamo stati incapaci di comprendere le conseguenze del tracollo per il mondo dell’economia". E infine, non hanno neanche fatto autocritica. Condanna, senza appello.
Una tesi condivisa dal giornalista Roberto Petrini, che stamane ha presentato al Festival dell’Economia il suo ultimo libro, che s’intitola proprio "Processo agli economisti": "Ci si ostina a considerare la finanza come un mero insieme di dati, di modelli, di equazioni matematiche. Un atteggiamento miope che impedisce di vedere più lontano". E da Nouriel Roubini, che ha sottolineato come è difficile che un economista abbia una visione così ampia che vada dalla macroeconomia alla finanza, l’unica però che avrebbe potuto permettere di prevedere in qualche modo le conseguenze di un mercato drogato.
Ovviamente opposta la tesi della difesa, secondo la quale molti economisti hanno invece previsto la crisi. Soprattutto, l’hanno prevista gli studiosi ai quali le istituzioni finanziarie internazionali avevano dato il compito di monitorare il mercato, a cominciare da Raghuram Rajan, capoeconomista del Fondo Monetario Internazionale. O la meno famosa Jane Eberly, macroecononista statunitense che diversi anni prima dell’esplosione della crisi aveva pubblicato uno studio dal titolo eloquente: "Il credito al consumo sarà il tallone d’Achille dell’economia americana?". E, tra gli italiani, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Il torto, secondo il testimone Nicola Persico, è di non avere ascoltato queste autorevoli voci, e di essersi affidati invece a soggetti molto meno adatti a dare consigli in materia.
Guiso ha citato economisti che ammonivano i banchieri: "Come si chiede a un padre se sa dove siano i suoi figli, si chiedeva ai senior manager se sapessero chi e dove deteneva i loro rischi". Accusare gli economisti, ha osservato Guiso, fa gioco ai politici: meglio zittire una categoria che non fa altro che pontificare sulla spesa pubblica e sulla politica economica, spesso criticando le scelte di chi governa. Al massimo, ha concluso nella sua arringa, gli economisti si meritano uno scappellotto, non certo una condanna alla detenzione...
La sentenza verrà resa pubblica domani a mezzogiorno. E subito dopo in tribunale la corte giudicherà altre due categorie fortemente sotto accusa per non aver saputo governare la crisi: i controllori e i politici.
* la Repubblica, 30 maggio 2009
Il dirigente della finanziaria americana dei mutui trovato morto nella sua casa
Aveva assunto l’incarico da settembre dopo la "nazionalizzazione"
Usa, si è ucciso David Kellermann
responsabile finanze di Freddie Mac
WASHINGTON - David Kellermann, a capo del Settore Finanze della grande finanziaria immobiliare americana Freddie Mac, è stato trovato morto nella sua abitazione di Fairfax County. L’uomo, 41 anni, alla guida della finanziaria dallo scorso settembre, si sarebbe suicidato. E’ stata la moglie a dare l’allarme.
La Freddie Mac, insieme a Fannie Mae tra le società protagoniste della grande crisi finanziaria, è una società a controllo governativo che elargisce la maggior parte dei mutui per la casa delle famiglie americane. L’amministratore delegato David Moffett si era dimesso il mese scorso.
Kellermann, da 16 anni nel gruppo, era stato nominato responsabile finanziario della società nel settembre scorso, dopo le dimissioni di Anthony "Buddy" Piszel, che aveva lasciato la dopo la decisione del governo di nazionalizzare la società.
* la Repubblica, 22 aprile 2009
Chi sono i colpevoli della crisi globale
di Giorgio Ruffolo (la Repubblica,12.01.2009)
Dice Giovanni Sartori: «Il 2009 sarà il primo anno - temo - di una tempesta economica perfetta. Una tempesta destinata a durare finché non torneremo a capire come nasce il denaro, cosa fa ricchezza». (Corriere della Sera, 31dicembre)... E io temo proprio che abbia ragione.
Poi imputa alla sinistra la responsabilità di avere travisato la questione anteponendo il problema della distribuzione della ricchezza al problema della creazione della ricchezza. Ora, se si tratta di questa crisi, a me sembra che, per una volta, la "sinistra" sia innocente. Dio solo sa se la sinistra ha compiuto errori fatali. Al punto da restare ammaccata e a indurre a invocare i suoi critici di non sparare sull’ambulanza. È vero. In tempi nei quali disponeva di un rapporto di forza politico favorevole, ha forzato talvolta le rivendicazioni salariali (anche se bisogna qualificare: in certi casi, come nel nostro attuale, un aumento di salari si impone proprio per uscire dalla crisi).
Ma poiché si tratta della tempesta nella quale siamo immersi, mi sembra superfluo ricordare che essa è stata confezionata in America da un governo di destra, con l’osservanza di una politica che più disegualitaria non avrebbe potuto essere. La sinistra di tipo europeo, cui Sartori implicitamente si riferisce, in America neppure esiste e dunque deve essere assolta per non aver commesso il fatto.
Ma c’è di più. L’accusa che Sartori muove alla sinistra si adatta perfettamente alla destra "liberista". Qual è, infatti, lo "specifico filmico" della crisi se non proprio quello di avere per anni distribuito ricchezze inesistenti? Su tre piani distinti ma convergenti.
Sul piano mondiale l’America ha vissuto e vive tuttora di risorse ben superiori a quelle che produce, finanziandole con il risparmio della sobrietà asiatica e realizzando così la parabola del ricco debitore. Sul piano dell’economia nazionale l’altissima pressione dei consumi, che ha finora mantenuto la domanda a livelli elevati, si basa su un colossale indebitamento delle famiglie americane che, con buona pace di Max Weber, hanno cessato da tempo di risparmiare. Che cos’è quell’indebitamento da cui è originata la crisi americana se non ricchezza distribuita senza essere prodotta?
Infine, sul piano dell’impresa, della grande impresa, della Corporation, che cosa sono gli sconfinati guadagni dei manager americani, i loro stipendi di favola, le loro opzioni azionarie, le loro liquidazioni faraoniche, se non rendite di posizione: differenze tra valori di mercato che essi stessi sono in grado di influenzare e valori reali? Anche questa è ricchezza distribuita senza essere stata prodotta.
Sartori si batte da tempo valorosamente contro l’irresponsabile e criminosa proliferazione della popolazione che condanna alla fame alla sofferenza alla morte milioni e milioni di bambini innocenti. Non possono sfuggirgli i disastri di una finanza basata sulla proliferazione di un indebitamento irresponsabile.
La finanza ha molti meriti. Fornisce liquidità al risparmio e agli investimenti. Contribuisce, se gestita con prudenza, a coprire i rischi degli investimenti, Di più. Entro certi limiti, anche le sue "scommesse" possono promuovere decisioni di investimento che le realizzano. Entro certi limiti, che sono stati irresponsabilmente travolti generando quest’ultima crisi.
Sono stato talvolta accusato di "finanzobia". Se fosse per me, si è detto, non ci sarebbe neppure l’assegno. No, ho risposto e ripeto. L’assegno ci sarebbe. Non ci sarebbe l’assegno a vuoto.
Resta l’ineccepibile affermazione di Sartori sulla necessità di capire come nasce il denaro, cosa fa ricchezza. Soprattutto, e credo che sarà d’accordo con me, ricchezza reale, non immaginaria. E non a scapito degli incolpevoli. Si è detto che l’indebitamento sregolato va a carico dei nostri posteri. E Woody Allen ha commentato: che c’è di male? Dopo tutto che cosa hanno fatto i posteri per noi? Ma non è vero. Quando le bolle scoppiano, e inevitabilmente scoppiano nel nostro tempo, sono i contemporanei a pagare. Anzitutto, quelli che non si sono arricchiti di ricchezze non prodotte, quindi sottratte ad altri: i lavoratori disoccupati, i risparmiatori frodati, i contribuenti chiamati a risolvere problemi che altri hanno creato.
Il mondo ridisegnato dalla crisi
di GIAN DOMENICO PICCO (La Stampa, 10/1/2009)
La crisi economico finanziaria che ha colpito gli Stati Uniti e buona parte del mondo ha già prodotto un cambiamento concreto nella gestione degli affari internazionali. Nei prossimi due o tre anni alcuni Paesi - che oggi si presumono di prima classe - perderanno buona parte del loro peso specifico, non solo in campo economico, mentre altri saliranno dalla serie B alla serie A. Il ruolo più influente a Washington, dopo quello del Presidente, è da sempre affidato al segretario di Stato. In queste settimane s’è visto che non sarà necessariamente così in futuro. Il segretario al Tesoro è già salito al rango di «ministro dei ministri» nel futuro governo del presidente Obama, prima ancora che il suo nome venisse menzionato. Il premier inglese Gordon Brown, per 10 anni ministro delle Finanze di Tony Blair, si è giovato della esperienza finanziaria per gestire il governo.
La geoeconomia delimiterà come non mai i confini della geopolitica, che dopo l’11 settembre 2001 non aveva rivali. Qualcuno dirà che è sempre stato così. Certo non in queste proporzioni. Il livello d’interdipendenza e interconnessione del mondo è stato dimostrato dalla velocità del contagio che ha toccato Borse, monete, produzione e consumi nei quattro angoli del globo. La Russia e l’Iran del dicembre 2008, ad esempio, sono due realtà molto diverse rispetto a giugno: la loro immagine economica e finanziaria è profondamente cambiata, riflettendosi su quella più strettamente politica. Questo vale anche per altri Paesi.
Mentre gli esperti suggeriscono di ridisegnare l’architettura internazionale del sistema finanziario, la riunione del Gruppo dei 20 a Washington a novembre ha inevitabilmente attirato una particolare attenzione. Alcuni pensano che il G-8, e ancor più il G-7, non riflettono più la realtà dell’economia mondiale. Le critiche al G-7 ricordano quelle fatte da anni alla composizione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. La prova del nove del vero cambiamento verrà nei prossimi due o tre anni - al massimo tra cinque - quando potremo valutare quali paesi emergeranno dalla crisi finanziaria con un peso specifico da serie A, e quali con un peso da serie B. In ogni caso la proposta di allargare il G-7 al G-20, e quella di creare un Consiglio di sicurezza con 25 o 30 membri, invece dei 15 attuali, sono tutti segnali che rivelano l’insufficienza delle strutture che oggi esistono, non, a mio avviso, la soluzione da scegliere.
La crisi metterà allo scoperto non solo le insufficienze strutturali della finanza e dell’economia, ma anche la debolezza di diversi sistemi sociali, la gracilità di gruppi dirigenti, il debole senso dello Stato. Rivelerà in modo impietoso che il progetto nazionale di alcuni Paesi è prossimo al capolinea. Pensare a cambi epocali non è facile. Ma gli stati moderni, che emersero come conseguenza della pace di Wetsfalia dopo la Guerra dei trent’anni nel 1648, e vennero poi consolidati dalle Rivoluzioni americana e francese, hanno cicli vitali di diversa durata. Non escludo che dopo questa crisi economico finanziaria l’Europa in particolare possa veder nascere il primo stato post westfaliano.
La globalizzazione - diceva Dominque Moisi - ha iniziato un processo d’indebolimento delle autorità statali, ha alterato il significato di sovranità e di nazionalità, pur incrementando il bisogno d’identità. La percezione che le strutture abbiano una loro vita, indipendentemente dagli individui che le gestiscono, è forse vero per un certo periodo, ma non per sempre. La responsabilità è oggi pesantissima sulle leadership che dovranno gestire i prossimi due o tre anni.
La formula «business as usual» non funzionerà. Quanti dei G-8 saranno all’altezza di farne parte fra qualche anno? Per quanto ancora il sistema accetterà che l’Europa vi sia rappresentata con 4 seggi anziché con uno solo? Un Consiglio di sicurezza di 25 o 30 membri sarà più efficace o più debole dell’attuale più ristretto? L’interdipendenza di tutti gli attori sulla scena mondiale è destinata ad aumentare. Ciò richiederà una flessibilità (vedi i gruppi informali di 5 o 6 che già esistono su vari argomenti di crisi) che le istituzioni rigide non offrono. La crisi economica e finanziaria mondiale sarà molto severa, se non inesorabile, con i gruppi dirigenti incapaci di vedere oltre l’immediato, ingannati e cullati dall’illusione che il futuro sia solo la ripetizione del passato.
QUARANTA POVERI EURO
di Galapagos (il manifesto, 27.11.2008)
Centinaia di miliardi stanno cadendo a pioggia sul sistema finanziario (a difesa dei risparmiatori, è l’alibi) e per cercare di sostenere i consumi. Il tutto in base a un principio semplice che altre volte ha funzionato: se decine di milioni di cittadini spendono un po’ di più, sicuramente la ripresa poi decollerà. Riproponendo il solito modello di crescita, che non modifica di una virgola i rapporti sociali e la distribuzione del reddito. Si può fare diversamente? Guido Bertolaso alla Camera ha fatto sapere che «per la messa in sicurezza delle scuole servo 13 miliardi». Una cifra enorme. In gioco però non c’è solo la sicurezza dei ragazzi, ma un modello di sviluppo e di intervento nell’economia diverso. Immaginare che impulso anti-recessivo potrebbe arrivare da 13 miliardi impiegati nell’edilizia scolastica. E quanto lavoro si potrebbe creare con questo «investimento in civiltà». Ma la civiltà a questo governo non interessa. Le scuole private invece sì.
In Italia una delle cause primarie che ostacolano la crescita demografica e la partecipazione al lavoro delle donne è l’assenza di servizi e politiche sociali. Mancano migliaia di asili nido. La loro costruzione e la successiva gestione potrebbero creare decine di migliaia di posti di lavoro. Meglio gli asili nido o un bonus-bebé una-tantum e un aumento ridicolo degli assegni familiari? Detta in altra forma: meglio un maggiore welfare o un modello che monetizza (neanche tanto) la schiavitù domestica? A parte pochi euro destinati agli ammortizzatori sociali, il decreto anti-crisi del governo non punta al sostegno dei redditi - in particolare per i precari che perdono il lavoro - e a creare con interventi diretti nell’economia, nuovi posti di lavoro.
Il modello di Tremonti è quello spettacolare a miserabile della social card: 40 euro al mese possono far comodo a chi vive nella miseria, ma non ne cambiano la condizione miserabile di vita. Sono altri i servizi da fornire alle famiglie disagiate e agli anziani. Stesso discorso per la sanità. Si seguitano a tollerare gli abusi delle strutture private in convenzione, ma non si fa nulla per riportare in tempi civili le liste d’attesa per gli esami diagnostici. Per i quali servono mesi nelle strutture pubbliche e poche ore se si opta per l’intra moenia a pagamento che sfrutta la struttura pubblica.
Ogni anno, normalmente in primavera e in autunno, l’Italia frana con danni idrogeologici enormi ai quali ex post si mette qualche toppa. Quanta occupazione si potrebbe creare in questo settore? E quanta occupazione si potrebbe creare con il risanamento della rete idrica che priva di acqua milioni di famiglie e fa guadagnare miliardi alle organizzazioni mafiose? E quanta occupazione si potrebbe creare con lo sviluppo delle energie rinnovabili? Obama punta a milioni di nuovi posti; Berlusconi non punta a niente: solo alle grandi opere. Ma Brunetta fa di peggio: dopo la campagna antifannulloni, fa ricchi 3000 dipendenti politicamente scelti. E la sinistra tace: solo parlare di allargare gli spazi del welfare appare un’eresia. Meglio brindare a Luxuria.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VITA E DENARO. COME RICICLARE LO STERCO DEL DIAVOLO. Intervista di Francesco Anfossi di "Famiglia Cristiana" al "banchiere del Papa", Angelo Caloia, presidente dello IOR - con una nota di Federico La Sala Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER LA CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA (Deus Caritas est)!!!
UNA VERSIONE EU-ANGELICA E GIOACHIMITA DEL "PADRE NOSTRO" AL PROF. ANDREA CROBU.
"CHARISSIMI, NOLITE OMNI SPIRITUI CREDERE... DEUS CHARITAS EST" (1Gv., 4. 1-8). *
O AMORE,
SPIRITO SANTO,
PADRE NOSTRO,
CHE SEI NEI CIELI,
SIA SANTIFICATO IL TUO NOME,
VENGA IL TUO REGNO,
SIA FATTA LA TUA VOLONTA’
COME IN CIELO COSI’ IN TERRA.
TU CI DAI OGGI IL NOSTRO PANE PIU’ SOSTANZIOSO,
E RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI
COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI.
TU NON CI INDUCI IN TENTAZIONE
MA CI LIBERI DAL MALE.
COSI E’: COSI SIA.
AMEN.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
Federico la Sala
Senza etica la finanza fallisce
di Ettore Gotti Tedeschi *
Si dice che non fosse possibile prevedere i rischi della finanza globale e le sue conseguenze. Non è vero. È vero invece che le previsioni di questi rischi hanno spiegazioni di carattere morale. Per questo sono state trascurate e delegittimate. La finanza ha in qualche modo voluto imporre una sua autonomia morale, con risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Già trent’anni fa era stata prevista l’impossibilità di assicurare lo sviluppo economico sostenibile con una crescita demografica pari a zero. Ci si domandava se fosse logico ed etico proporre l’illusione di uno sviluppo fondato solo sulla crescita individuale dei consumi. Se fosse logico ed etico far assorbire dalla crescita dei consumi la crescita dei costi sociali (pensioni e sanità) provocando l’aumento delle tasse. Se fosse logico ed etico trasformare un popolo di risparmiatori in un popolo di consumatori indebitati. Se fosse logico ed etico imporre all’uomo globalizzato di andare a cercare lavoro lontano da casa.
Si accettava poi come molto etico (anche se non molto logico) permettere a tutti di avere una casa, anche a chi non poteva permetterselo. Furono così inventati i mutui subprime, con le conseguenze che conosciamo. Questo modello è un classico esempio di fine buono - la casa per tutti - perseguito con mezzi cattivi, cioè con una struttura finanziaria insostenibile. Ci si domandava quindi se fosse etico finanziare questo modello con i risparmi dei cittadini, investiti spesso in prodotti finanziari incomprensibili. E ci si domandava anche se fosse logico ed etico accettare che le banche adottassero modelli concorrenziali centrati sulla crescita di valore per gli azionisti, costringendole così a produrre rischi eccessivi e poca trasparenza pur di dimostrare la crescita degli utili.
Le domande, dunque, erano moltissime. Ma a esse si è risposto con altre domande: cosa c’entra l’etica? E quale etica, poi? Ora però s’impone un altro quesito: quale sarà il costo di questo deficit etico? Dopo l’illusione di ricchezza di questi anni la prima conseguenza è che per un po’, finché non sarà assorbito il disavanzo prodotto, le banche finanzieranno meno il sistema economico, che, a sua volta, produrrà meno e pagherà meno. Noi consumeremo meno e risparmieremo meno. In pratica vivremo più poveramente. E saremo inoltre costretti ad accettare una qualche forma di statalismo a sorpresa, secondo gli strumenti che verranno adottati: maggiori tasse e inflazione, minori tassi e remunerazione dei risparmi - probabilmente sotto il tasso di inflazione - che rappresenteranno così un’imposta occulta di trasferimento della ricchezza.
L’invito di Benedetto XVI è quindi opportuno. Il Papa ci ricorda innanzitutto che il denaro è solo uno strumento e, in quanto tale, non deve distrarci dai fini. È vero che se non si crea ricchezza non la si può distribuire, ma se si crea male - come è successo in questi anni - si distrugge un doppio valore: quello della ricchezza e quello dell’uomo. Il modello di capitalismo inconsistente degli ultimi anni ha dato vita a un’utopia economica che a sua volta ha causato gravi degenerazioni.
Il valore dell’individuo è stato infatti valutato su quanto egli potesse guadagnare, spendere, consumare. Ma anche a questo, ormai, non crede più nessuno e regna la sfiducia. Nella società la fiducia è un valore economico fondamentale, ma lo si capisce quando viene a mancare. La fiducia si fonda sulla condotta etica degli operatori e produce miglioramento della concorrenza, credibilità, motivazione e cooperazione; consente stabilità, garantendo valore finanziario all’impresa e permette sviluppo, stimolando creatività ed efficienza. Il mercato oggi chiede soprattutto certezze e rispetto delle regole: la scorrettezza nella finanza produce infatti un costo inaccettabile per la collettività. Ma per risanare l’economia e generare nuova fiducia è necessario prima di tutto superare il deficit di logica e di etica che ha segnato questi anni. Altrimenti le soluzioni saranno solo temporanee.
* ©L’Osservatore Romano - 9 novembre 2008.
Alla radice della crisi
Critica delle teorie economiche che hanno generato il grande crack, in una lezione di Marcello De Cecco di Roberta Carlini (il manifesto, 05.12.2008)
1941. Dal saluto di commiato di Donato Menichella ad Alberto Beneduce che si ritira dalla presidenza dell’Iri. «Voi siete colui che più che ogni altro ha convogliato al servizio dello Stato e al servizio dell’economia industriale del paese il risparmio nazionale in cifre che si misurano a decine di miliardi, ma nello stesso tempo siete colui che ha tutelato il risparmio e ha messo ordine in molti organismi che ne fanno raccolta, per cui può finalmente dirsi chiusa l’epoca delle frodi contro gli inermi paria della classe borghese e della classe lavoratrice. Voi avete spezzato le catene che legavano le banche all’industria, connubio innaturale, specialmente in una nazione e in un regime che pongono alla base dell’azione dello stato non le astruserie di teorie individualistiche liberali, bensì la tutela del patrimonio dei cittadini indifesi contro gli assalti agguerriti di privilegiati pronti a sfruttare le raffinatezze della tecnica capitalistica per convogliare a loro profitto il sudore e il risparmio della povera gente».
1936. Al Madison Square Garden Roosevelt diceva della stessa gente: «Avevano cominciato a considerare il governo degli Usa come una mera appendice dei loro affari. Ora sappiamo che il governo esercitato dalla finanza organizzata è altrettanto pericoloso del governo della malavita organizzata».
1971. Federico Caffè scrive sul Giornale degli economisti: «Da tempo sono convinto che la sovrastruttura finanziario-borsistica con le caratteristiche che presenta nei paesi capitalisticamente avanzati favorisca non già il vigore competitivo ma un gioco spregiudicato di tipo predatorio, che opera sistematicamente a danno di categorie innumerevoli e sprovvedute di risparmiatori in un quadro istituzionale che di fatto consente e legittima la ricorrente decurtazione o il pratico spossessamento dei loro peculi. Esiste una evidente incoerenza tra i condizionamenti di ogni genere che vincolano l’attività produttiva reale dei vari settori agricoli industriali, di intermediazione commerciale e la concreta licenza di espropriare l’altrui risparmio che esiste per i mercati finanziari". 1976. Guido Carli scrive su Bancaria: «Mi propongo di esaminare le cause dell’atteggiamento di critica verso i banchieri e le banche in alcuni paesi. In altri tempi gli assetti bancari stimolarono interessi intorno al comportamento delle banche. Una delle cause del sospetto nei confronti dei banchieri credo debba attribuirsi all’estensione assunta dall’intermediazione finanziaria sia nei regolamenti tra paesi sia all’interno di ciascuno di essi. La diffidenza (nei confronti dei banchieri) trae origine dalla convinzione che le banche commerciali si sono appropriate di una porzione troppo ampia della sovranità monetaria».
Con queste quattro citazioni, a mo’ di cappello, Marcello De Cecco ha aperto a Roma un’affollata lezione su «La liberalizzazione finanziaria: teoria e storia». Un discorso in due puntate, a cui è stato chiamato nell’ambito delle Lezioni Caffè, che ogni anno il Dipartimento di Economia Pubblica della Sapienza organizza per ricordare il suo famoso docente scomparso. Lezioni particolarmente vive e attese quest’anno, dato il tema e dato lo stato delle cose. Sul quale le quattro citazioni iniziali a raffica hanno gettato subito una luce impietosa: adattandosi alla perfezione ai guai finanziari e reali dei giorni nostri, ma - come ha detto lo stesso De Cecco - non trovandosi al momento alcuna voce autorevole e potente come quelle appena citate disposta a dire cose dello stesso tenore e con la stessa verve. Mettendo sul banco degli imputati non questo o quel personaggio (e già sarebbe tanto), non questo o quell’eccesso, ma l’intero sistema che da 30-40 anni governa la finanza. Portando a quello che viene mostrato in un grafico impressionante: l’impennata del debito mondiale sul prodotto mondiale, dai ’70 a oggi. E precipitando nell’attuale crisi.
«Come facciamo sempre noi economisti», De Cecco ha presentato prima le teorie, poi i fatti della liberalizzazione finanziaria: raccontando il momento clou, che si colloca tra la svolta degli anni ’70 con l’abbandono della convertibilità del dollaro e le scelte di Reagan dell’80, con l’introduzione della concorrenza tra le banche sui tassi di deposito; e spiegandone gli antefatti, teorici e storici. I primi - l’apparato teorico di sostegno alla liberalizzazione della finanza, che detto in breve si basa sul caposaldo per cui la libertà dei capitali di muoversi alla ricerca del massimo rendimento, dentro e fuori i confini nazionali - vengono spolpati e smontati analiticamente, sulla base di diversi apporti teorici (da Schumpeter a Pasinetti, a Hellman-Murdock-Stiglitz). Più complicato capire come mai, quasi all’improvviso, quei paradigmi abbiamo preso il sopravvento fino a conquistarsi la palma del «pensiero unico»; perché quel «dirigismo finanziario» che aveva accompagnato gli anni d’oro della crescita negli Stati Uniti e in Europa sia stato così rapidamente gettato alle ortiche. Perché si sia scelto un modello che riduce la stabilità del sistema (riducendo quella delle sue banche). E qui soccorre la seconda parte della lezione di De Cecco, dedicata alla storia della liberalizzazione. Alle forze sociali ed economiche, agli intrecci e ai conflitti, e alle conseguenti leggi e istituzioni, che dalla formazione del capitalismo americano hanno modellato il suo sistema bancario e finanziario. E dunque quello del resto del mondo ricco.
Si parla dei pionieri e dei farmers americani dell’800, ma si pensa agli hedge fund e ai supermanager di oggi. E su questi si concentrano domande e sollecitazioni. Quali sono i nessi tra la liberalizzazione finanziaria e quelle «reali»? In che misura le banche hanno finanziato la speculazione su tutti i mercati? E soprattutto, quali sono gli interessi e le coalizioni che si muovono adesso, mentre il «bailout» di Bush ci consegna dagli Usa addirittura il ritorno della banca pubblica? «Attenzione alla coalizione gattopardesca, per far restare tutto come prima», avverte De Cecco. Che appunta il suo pessimismo su un personaggio chiave, quel Larry Summers che nel 2000, da segretario al Tesoro di Clinton, cambiò radicalmente idea rispetto alle sue teorie e sposò la liberalizzazione del conto capitale della bilancia dei pagamenti. E che ora è tornato con Obama, a capo del Consiglio nazionale economico.
Tra gli arrestati i due leader di Bear Stearns, Ralph Cioffi e Matthew Tannin
Sono accusati di frode, complotto e insider trading. A tradirli le email scambiate
Crisi mutui negli Usa, 300 arresti
in manette i manager della frode
Il viceprocuratore generale Filip: "Siamo determinati a punire le frodi
per riportare stabilità e fiducia nel nostro mercato immobiliare e in quello del credito" *
WASHINGTON - La crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti è arrivata nelle aule dei tribunali. Centinaia di persone sono state arrestate da marzo nel corso di un’operazione della polizia federale Usa, chiamata ’malicious mortgage’. Secondo i dati forniti dal dipartimento di Giustizia e dall’Fbi in una conferenza stampa, dall’1 marzo 2008 sono state arrestate 287 persone, delle quali 173 sono già state condannate, su un totale di 406 persone incriminate. I dati sono stati diffusi solo oggi, dopo la retata delle ultime 24 ore che ha portato all’arresto di 60 persone. In manette anche due ex manager di Bear Stearns. Tra gli indagati ci sono operatori del mercato finanziario, agenti immobiliari, avvocati e anche persone che hanno ottenuto prestiti senza averne le credenziali.
"Il dipartimento della Giustizia - ha spiegato il viceprocuratore federale Mark Filip in una conferenza stampa a Washington - è determinato a portare alla luce e punire le frodi sui mutui, per contribuire a riportare la stabilità e la fiducia nel nostro mercato immobiliare e in quello del credito".
Le indagini del Fbi e del dipartimento della Giustizia sui casi di frode che hanno determinato perdite per un miliardo di dollari sono iniziate il primo marzo scorso. La maggior parte degli arresti è stata compiuta ieri. Contemporaneamente, in seguito alle indagini di un altro giudice federale, di Brooklyn, sono stati arrestati due ex manager di Bear Stearns, Ralph Cioffi e Matthew Tannin: sono accusati di frode, complotto e insider trading. Il fallimento dei fondi speculativi sui quali avevano fondato la fortuna della loro società, accese la miccia della crisi subprime.
Su Cioffi e Tannin pesa l’accusa di inganno a scapito degli investitori: dalle indagini sarebbe infatti emerso che i due ex manager erano perfettamente al corrente del cattivo stato di salute dei fondi, anche se pubblicamente affermavano il contrario rassicurando e allo stesso tempo ingannando gli investitori. A inchiodare Cioffi e Tannin sarebbe uno scambio di e-mail, dalle quali emergeva che ambedue erano a conoscenza delle difficoltà dei fondi. Eppure, nonostante questo, nel corso di una conference call tenuta qualche giorno dopo l’invio delle email, Cioffi, pur dichiarando che i risultati dei fondi speculativi erano in calo, constatava apertamente che non c’erano problemi di liquidità e che il portafoglio titoli era solido. Il fallimento dei fondi è costato agli investitori 1,6 miliardi di dollari.
Nell’illustrare i risultati preliminari dell’indagine e spiegare le motivazioni alla base dell’arresto di Cioffi e Tannin, le autorità hanno sottolineato che "gli arresti degli ex manager di Bear Stearns forniscono la magnitudine e la grossolanità della loro cattiva condotta. Hanno gravemente violato la fiducia pubblica", tradendo gli investitori che regolarmente non venivano messi al corrente dell’andamento reale dei propri investimenti. Gli avvocati dei due arrestati sostengono al contrario che i loro clienti sono vittime della crisi finanziaria, e hanno operato correttamente.
Questo della Bear Stearns dovrebbe essere solo il primo di una lunga serie di incriminazioni legate a casi collegati alla crisi dei mutui. Le indagini pendenti sono circa 1400. L’esplosione della crisi ha fatto perdere la casa acquistata con il mutuo a centinaia di migliaia di persone negli Stati Uniti.