Di Segni: stop al dialogo con la Chiesa
Reazioni negative al cambiamento della preghiera - per il vecchio rito - del Venerdì Santo.
La nuova preghiera del venerdì santo (limitata però al rito "vecchio", quello praticato da una limitatissima minoranza di cattolici), e reso possibile in maniera più ampia qualche mese fa da un "motu Proprio" è stata accolta con una reazione estremamente dura da parte delle autorità religiose ebraiche.
"Una marcia indietro di 43 anni che impone una pausa di riflessione nel dialogo ebraico-cristiano", l’ha giudicata il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. "Della preghiera - ha detto - è grave la sostanza e grave anche la formula con cui è stata presentata. Vorrei precisare che non è vero che è stata tolta la frase che urta la sensibilità del popolo ebraico. In questa nuova formulazione è tutto che urta questa sensibilita".
Di Segni rivela che il nuovo testo non "é un fulmine a cielo sereno". "Nei mesi scorsi - dice - avevamo fatto presente le nostre perplessità e ci avevano dato ampie assicurazione. Invece ora ci troviamo davanti al peggio".
Il rabbino spiega poi il modo in cui il nuovo testo secondo lui sia peggiorato: "nella liturgia di un tempo nel recitare la preghiera del venerdì santo si ci si doveva inginocchiare e pregare in silenzio. Questi due atti non valevano giunti al ’pro perfidis judeis’. Pio XII invece ripristinò sia il silenzio sia la necessità di inginocchiarsi. Com’é noto Giovanni XXIII nel 1959 tolse il ’pro perfidis judeis’, ma lasciò intatto tutto il resto. Nel 1970 la preghiera fu completamente cambiata da Paolo VI e si diceva: il popolo ebraico sia fedele alla sua Alleanza".
"Rispetto a questa evoluzione, papa Ratzinger - osserva il rabbino capo di Roma - ha riportato indietro le lancette di 43 anni rispetto al 2008".
Tra le cause di questo "inciampo", Di Segni indica il problema "dell’immagine del popolo ebraico per la Chiesa. La domanda è sempre la stessa: cosa ci stanno a fare gli ebrei su questa terra?". "Se questo è il presupposto del dialogo, è intollerabile. Evidentemente - conclude Di Segni - la chiesa ha problemi di riscoprire i fondamenti della sua ortodossia". Nella liturgia "ordinaria", e cioè quella praticata dalla quasi totalità dei cattolici ovviamente la preghiera non c’è.
* LA STAMPA - SAN PIETRO E DINTORNI di Marco Tosatti, 6/2/2008.
Papa: Di Segni, indietro di 43 anni
Si impone pausa di riflessione nel dialogo ebraico- cristiano
(ANSA) - ROMA, 6 FEB - Si aggrava il giudizio del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni sul nuovo testo della preghiera del Venerdi’ santo annunciata dal Papa. ’Una marcia indietro di 43 anni che impone una pausa di riflessione nel dialogo ebraico-cristiano’, ha detto Di Segni secondo il quale non solo ’non e’ vero che e’ stata tolta la frase che urta la sensibilita’ del popolo ebraico’ ma ’in questa nuova formulazione e’ tutto che urta questa sensibilita’’.
* Ansa» 2008-02-06 19:39
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"DOMINUS IESUS": RATZINGER, LO "STERMINATORE DELL’ECUMENISMO". Un ’vecchio’ commento di Leonard Boff
"Deus caritas est". Sul vaticano, in Piazza San Pietro, il "Logo" del Grande Mercante!!!
"ET NOS CREDIDIMUS CHARITATI..."
Memoria di Francesco d’Assisi: "VA’, RIPARA LA MIA CASA"!!!
Nota della Segreteria di Stato
Con riferimento alle disposizioni contenute nel Motu proprio "Summorum Pontificum", del 7 luglio 2007, circa la possibilità di usare l’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio Vaticano II, pubblicata nel 1962 con l’autorità del beato Giovanni XXIII, il Santo Padre Benedetto XVI ha disposto che l’Oremus et pro Iudaeis della Liturgia del Venerdì Santo contenuto in detto Missale Romanum sia sostituito con il seguente testo:
Ut Deus et Dominus noster illuminet corda eorum, ut agnoscant Iesum Christum salvatorem omnium hominum.
Oremus. Flectamus genua. Levate.
Omnipotens sempiterne Deus, qui vis ut omnes homines salvi fiant et ad agnitionem veritatis veniant, concede propitius, ut plenitudine gentium in Ecclesiam Tuam intrante omnis Israel salvus fiat. Per Christum Dominum nostrum. Amen.
Tale testo dovrà essere utilizzato, a partire dal corrente anno, in tutte le Celebrazioni della Liturgia del Venerdì Santo con il citato Missale Romanum.
Dal Vaticano, 4 febbraio 2008.
(©L’Osservatore Romano - 6 febbraio 2008)
* IL DIALOGO, Giovedì, 07 febbraio 2008
DOCUMENTO 2 **
Discorso pronunciato il 13 aprile 1986 da Giovanni Paolo II nel corso della visita alla Sinagoga di Roma
INCONTRO CON LA COMUNITÀ EBRAICA NELLA SINAGOGA DELLA CITTÀ DI ROMA
Signor Rabbino capo della comunità israelitica di Roma,
signora Presidente dell’Unione delle comunità israelitiche italiane,
signor presidente delle comunità di Roma,
signori rabbini,
cari amici e fratelli ebrei e cristiani, che prendete parte a questa storica celebrazione
1. Vorrei prima di tutto, insieme con voi, ringraziare e lodare il Signore che ha “disteso il cielo e fondato la terra” (cf. Is 51,16) e che ha scelto Abramo per farlo padre di una moltitudine di figli, numerosa “come le stelle in cielo” e “come la sabbia che è sul lido del mare” (Gen 22,17;15,5), perché ha voluto nel mistero della sua provvidenza, che questa sera si incontrassero in questo vostro “Tempio maggiore” la comunità ebraica che vive in questa città, fin dal tempo dei romani antichi, e il Vescovo di Roma e Pastore universale della Chiesa cattolica.
Sento poi il dovere di ringraziare il Rabbino capo, prof. Elio Toaff, che ha accolto con gioia, fin dal primo momento, il progetto di questa visita e che ora mi riceve con grande apertura di cuore e con vivo senso di ospitalità; e con lui ringrazio tutti coloro che, nella comunità ebraica romana, hanno reso possibile questo incontro e si sono in tanti modi impegnati affinché esso fosse nel contempo una realtà e un simbolo.
Grazie quindi a tutti voi. “Todà rabbà” (grazie tante).
2. Alla luce della parola di Dio testé proclamata e che “vive in eterno” (cf. Is 30,8), vorrei che riflettessimo insieme, alla presenza del Santo, benedetto Egli sia! (come si dice nella vostra liturgia), sul fatto e sul significato di questo incontro tra il Vescovo di Roma, il Papa, e la comunità ebraica che abita e opera in questa città, a voi e a me tanto cara.
È da tempo che pensavo a questa visita. In verità, il Rabbino capo ha avuto la gentilezza di venire ad incontrarmi, nel febbraio 1981, quando mi recai in visita pastorale alla vicina parrocchia di San Carlo ai Catinari. Inoltre, alcuni di voi sono venuti più di una volta in Vaticano, sia in occasione delle numerose udienze che ho potuto avere con rappresentanti dell’Ebraismo italiano e mondiale, sia ancor prima, al tempo dei miei predecessori, Paolo VI, Giovanni XXIII e Pio XII. Mi è poi ben noto che il Rabbino capo, nella notte che ha preceduto la morte di Papa Giovanni, non ha esitato ad andare a Piazza san Pietro, accompagnato da un gruppo di fedeli ebrei, per pregare e vegliare, mescolato tra la folla dei cattolici e di altri cristiani, quasi a rendere testimonianza, in modo silenzioso ma così efficace, alla grandezza d’animo di quel Pontefice, aperto a tutti senza distinzione, e in particolare ai fratelli ebrei.
L’eredità che vorrei adesso raccogliere è appunto quella di Papa Giovanni, il quale una volta, passando di qui - come or ora ha ricordato il Rabbino capo - fece fermare la macchina per benedire la folla di ebrei che uscivano da questo stesso Tempio. E vorrei raccoglierne l’eredità in questo momento, trovandomi non più all’esterno bensì, grazie alla vostra generosa ospitalità, all’interno della Sinagoga di Roma.
3. Questo incontro conclude, in certo modo, dopo il pontificato di Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II, un lungo periodo sul quale occorre non stancarsi di riflettere per trarne gli opportuni insegnamenti. Certo non si può, né si deve, dimenticare che le circostanze storiche del passato furono ben diverse da quelle che sono venute faticosamente maturando nei secoli; alla comune accettazione di una legittima pluralità sul piano sociale, civile e religioso si è pervenuti con grandi difficoltà. La considerazione dei secolari condizionamenti culturali non potrebbe tuttavia impedire di riconoscere che gli atti di discriminazione, di ingiustificata limitazione della libertà religiosa, di oppressione anche sul piano della libertà civile, nei confronti degli ebrei, sono stati oggettivamente manifestazioni gravemente deplorevoli. Sì, ancora una volta, per mezzo mio, la Chiesa, con le parole del ben noto decreto Nostra Aetate (n. 4), “deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei ogni tempo da chiunque”; ripeto: “da chiunque”.
Una parola di esecrazione vorrei una volta ancora esprimere per il genocidio decretato durante l’ultima guerra contro il popolo ebreo e che ha portato all’olocausto di milioni di vittime innocenti. Visitando il 7 giugno 1979 il lager di Auschwitz e raccogliendomi in preghiera per le tante vittime di diverse nazioni, mi sono soffermato in particolare davanti alla lapide con l’iscrizione in lingua ebraica, manifestando così i sentimenti del mio animo. “Questa iscrizione suscita il ricordo del popolo, i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale. Questo popolo ha la sua origine da Abramo che è padre della nostra fede come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo popolo che ha ricevuto da Dio il comandamento "non uccidere", ha provato su se stesso in misura particolare che cosa significa l’uccidere. Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza” (Insegnamenti 1979, p. 1484).
Anche la Comunità ebraica di Roma pagò un alto prezzo di sangue. Ed è stato certamente un gesto significativo che, negli anni bui della persecuzione razziale, le porte dei nostri conventi, delle nostre chiese, del Seminario romano, di edifici della Santa Sede e della stessa Città del Vaticano si siano spalancate per offrire rifugio e salvezza a tanti ebrei di Roma, braccati dai persecutori.
4. L’odierna visita vuole recare un deciso contributo al consolidamento dei buoni rapporti tra le nostre due comunità, sulla scia degli esempi offerti da tanti uomini e donne, che si sono impegnati e si impegnano tuttora, dall’una e dall’altra parte, perché siano superati i vecchi pregiudizi e si faccia spazio al riconoscimento sempre più pieno di quel “vincolo” e di quel “comune patrimonio spirituale” che esistono tra ebrei e cristiani. È questo l’auspicio che già esprimeva il paragrafo n. 4, che ho ora ricordato, della dichiarazione conciliare Nostra Aetate sui rapporti tra la Chiesa e le religioni non cristiane. La svolta decisiva nei rapporti della Chiesa cattolica con l’Ebraismo, e con i singoli ebrei, si è avuta con questo breve ma lapidario paragrafo.
Siamo tutti consapevoli che, tra le molte ricchezze di questo numero 4 della Nostra Aetate, tre punti sono specialmente rilevanti. Vorrei sottolinearli qui, davanti a voi, in questa circostanza veramente unica.
Il primo è che la Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l’Ebraismo “scrutando il suo proprio mistero”. La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori.
Il secondo punto rilevato dal Concilio è che agli ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò “che è stato fatto nella passione di Gesù”. Non indistintamente agli ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. È quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno “secondo le proprie opere”, gli ebrei come i cristiani (cf. Rm 2,6).
Il terzo punto che vorrei sottolineare nella dichiarazione conciliare è la conseguenza del secondo; non è lecito dire, nonostante la coscienza che la Chiesa ha della propria identità, che gli ebrei sono “reprobi o maledetti”, come se ciò fosse insegnato, o potesse venire dedotto dalle Sacre Scritture, dell’Antico come del Nuovo Testamento. Anzi, aveva detto prima il Concilio, in questo stesso brano della Nostra Aetate, ma anche nella costituzione dogmatica Lumen gentium (Lumen gentium, 6), citando san Paolo nella lettera ai Romani (Rm 11,28-29), che gli ebrei “rimangono carissimi a Dio”, che li ha chiamati con una “vocazione irrevocabile”.
5. Su queste convinzioni poggiano i nostri rapporti attuali. Nell’occasione di questa visita alla vostra Sinagoga, io desidero riaffermarle e proclamarle nel loro valore perenne. È infatti questo il significato che si deve attribuire alla mia visita in mezzo a voi, ebrei di Roma.
Non è certo perché le differenze tra noi siano ormai superate che sono venuto tra voi. Sappiamo bene che così non è. Anzitutto, ciascuna delle nostre religioni, nella piena consapevolezza dei molti legami che la uniscono all’altra, e in primo luogo di quel “legame” di cui parla il Concilio, vuole essere riconosciuta e rispettata nella propria identità, al di là di ogni sincretismo e di ogni equivoca appropriazione.
Inoltre è doveroso dire che la strada intrapresa è ancora agli inizi, e che quindi ci vorrà ancora parecchio, nonostante i grandi sforzi già fatti da una parte e dall’altra, per sopprimere ogni forma seppur subdola di pregiudizio, per adeguare ogni maniera di esprimersi e quindi per presentare sempre e ovunque, a noi stessi e agli altri, il vero volto degli ebrei e dell’Ebraismo, come anche dei cristiani e del Cristianesimo, e ciò ad ogni livello di mentalità, di insegnamento e di comunicazione.
A questo riguardo, vorrei ricordare ai miei fratelli e sorelle della Chiesa cattolica, anche di Roma, il fatto che gli strumenti di applicazione del Concilio in questo campo preciso sono già a disposizione di tutti, nei due documenti pubblicati rispettivamente nel 1974 e nel 1985 dalla Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo. Si tratta soltanto di studiarli con attenzione, di immedesimarsi nei loro insegnamenti e di metterli in pratica.
Restano forse ancora fra di noi difficoltà di ordine pratico, che attendono di essere superate sul piano delle relazioni fraterne: esse sono frutto sia dei secoli di mutua incomprensione, sia anche di posizioni diverse e di atteggiamenti non facilmente componibili in materie complesse e importanti.
A nessuno sfugge che la divergenza fondamentale fin dalle origini è l’adesione di noi cristiani alla persona e all’insegnamento di Gesù di Nazaret, figlio del vostro popolo, dal quale sono nati anche Maria Vergine, gli apostoli, “fondamento e colonne della Chiesa”, e la maggioranza dei membri della prima comunità cristiana. Ma questa adesione si pone nell’ordine della fede, cioè nell’assenso libero dell’intelligenza e del cuore guidati dallo Spirito, e non può mai essere oggetto di una pressione esteriore, in un senso o nell’altro; è questo il motivo per il quale noi siamo disposti ad approfondire il dialogo in lealtà e amicizia, nel rispetto delle intime convinzioni degli uni e degli altri, prendendo come base fondamentale gli elementi della rivelazione che abbiamo in comune, come “grande patrimonio spirituale” (cf. Nostra Aetate, 4).
6. Occorre dire, poi, che le vie aperte alla nostra collaborazione, alla luce della comune eredità tratta dalla Legge e dai profeti, sono varie e importanti. Vogliamo ricordare anzitutto una collaborazione in favore dell’uomo, della sua vita dal concepimento fino alla morte naturale, della sua dignità, della sua libertà, dei suoi diritti, del suo svilupparsi in una società non ostile, ma amica e favorevole, dove regni la giustizia e dove, in questa nazione, nei continenti e nel mondo, sia la pace a imperare, lo “shalom” auspicato dai legislatori, dai profeti e dai saggi d’Israele.
Vi è, più in generale, il problema morale, il grande campo dell’etica individuale e sociale. Siamo tutti consapevoli quanto sia acuta la crisi su questo punto nel tempo in cui viviamo. In una società spesso smarrita nell’agnosticismo e nell’individualismo e che soffre le amare conseguenze dell’egoismo e della violenza, ebrei e cristiani sono depositari e testimoni di un’etica segnata dai dieci Comandamenti, nella cui osservanza l’uomo trova la sua verità e libertà. Promuovere una comune riflessione e collaborazione su questo punto è uno dei grandi doveri dell’ora.
E finalmente vorrei rivolgere il pensiero a questa Città dove convive la comunità dei cattolici con il suo Vescovo, la comunità degli ebrei con le sue autorità e con il suo Rabbino capo. Non sia la nostra soltanto una “convivenza” di stretta misura, quasi una giustapposizione, intercalata da limitati e occasionali incontri, ma sia essa animata da amore fraterno.
7. I problemi di Roma sono tanti. Voi lo sapete bene. Ciascuno di noi, alla luce di quella benedetta eredità a cui prima accennavo, sa di essere tenuto a collaborare, in qualche misura almeno, alla loro soluzione. Cerchiamo, per quanto possibile, di farlo insieme; che da questa mia visita e da questa nostra raggiunta concordia e serenità sgorghi, come il fiume che Ezechiele vide sgorgare dalla porta orientale del Tempio di Gerusalemme (cf. Ez 47,1ss.), una sorgente fresca e benefica che aiuti a sanare le piaghe di cui Roma soffre.
Nel far ciò, mi permetto di dire, saremo fedeli ai nostri rispettivi impegni più sacri, ma anche a quel che più profondamente ci unisce e ci raduna: la fede in un solo Dio che “ama gli stranieri” e “rende giustizia all’orfano e alla vedova” (cf. Dt 10,18), impegnando anche noi ad amarli e a soccorrerli (cf. Lv 19,18.34). I cristiani hanno imparato questa volontà del Signore dalla Torah, che voi qui venerate, e da Gesù che ha portato fino alle estreme conseguenze l’amore domandato dalla Torah.
8. Non mi rimane adesso che rivolgere, come all’inizio di questa mia allocuzione, gli occhi e la mente al Signore, per ringraziarlo e lodarlo per questo felice incontro e per i beni che da esso già scaturiscono, per la ritrovata fratellanza e per la nuova più profonda intesa tra di noi qui a Roma, e tra la Chiesa e l’Ebraismo dappertutto, in ogni Paese, a beneficio di tutti. Perciò vorrei dire con il salmista, nella sua lingua originale che è anche la vostra ereditaria: “Celebrate il Signore, perché è buono: perché eterna è la sua misericordia. / Dica Israele che egli è buono: / eterna è la sua misericordia. / Lo dica chi teme Dio: / eterna è la sua misericordia (Sal 118,1-2.4). Amen.
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Dal discorso del Santo Padre in occasione della visita in Vaticano
del Rabbino Capo di Roma Elio Toaff a 10 anni dall’incontro
di Giovanni Paolo II con la Comunità ebraica di Roma.
«Il nuovo spirito di amicizia e di sollecitudine reciproca, che caratterizza le relazioni cattoliche-ebraiche, può costituire il simbolo più importante che ebrei e cattolici hanno da offrire ad un mondo inquieto, che non sa risolversi a riconoscere il primato dell’amore sull’odio. Le domande dell’Altissimo nel Libro della Genesi: "Dove sei?", "Dov’è tuo fratello" (Gen 3, 9; 4, 9), continuano a risuonare anche nel nostro mondo sollecitando gli uomini di oggi ad incontrarsi, a conoscersi tra loro, ad imparare gli uni dagli altri. Esse impongono loro di rispondere insieme alle comuni sfide della storia, per elaborare soluzioni soddisfacenti ai problemi incombenti».
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Un precedente da ricordare: Papa Giovanni XXIII e la benedizione sul Lungotevere
Fu Papa Roncalli a dare il primo segnale "rivoluzionario" verso gli Ebrei prima ancora che il Concilio, già in marcia, varasse la Nostra Aetate. Scrive l’ex Rabbino capo di Roma, Elio Toaf, nella sua autobiografia: «Ricordo quando nel 1959 Giovanni XXIII fece fermare sul Lungotevere il corteo pontificio per benedire gli ebrei che, di sabato, uscivano dalla Sinagoga. Fu un gesto che gli valse l’entusiasmo di tutti i presenti che circondarono la sua vettura per applaudirlo e salutarlo. Era la prima volta che un Papa benediceva gli ebrei». Del resto fu proprio questo Papa a sopprimere I’espressione *Perfidi Giudei* nella liturgia del Venerdì Santo e a chiedere al cardinale Bea di preparare un testo sugli Ebrei da sottoporre al concilio.
E Wojtyla cancellò secoli di odio
di Elio Toaff (Il Messaggero, 01 maggio 2011)
Per gli ebrei Giovanni Paolo II non è un santo né può esserlo, perché nell’ebraismo non ci sono santi. Ma giusti sì. E niente si attaglia meglio alla grande figura di Papa Wojtyla della qualifica di giusto.
Nella travagliata storia dei rapporti tra i pontefici di Roma e gli ebrei, all’ombra del ghetto in cui furono reclusi per oltre tre secoli in condizioni umilianti e deprimenti, la sua immagine infatti emerge luminosa in tutta la sua eccezionalità. Sappiamo che fin dal Concilio Vaticano II la chiesa aveva inteso rivedere il proprio atteggiamento nei confronti del popolo ebraico e con la Declaratio Nostra Aetate cancellava definitivamente l’accusa di deicidio dal vocabolario teologico del mondo cristiano, condannando nello stesso tempo ogni forma di antisemitismo basata su presupposti religiosi o razziali. Quello che Jules Isaac definiva come «l’insegnamento al disprezzo» adottato per secoli dalla chiesa nei confronti del popolo ebraico, che tanti lutti e tragedie aveva provocato nel corso della storia, lasciava il posto a un dialogo aperto, franco e sereno, ma soprattutto basato sul rispetto e la reciproca stima e sulla consapevolezza del patrimonio biblico e spirituale comune. Cristiani ed ebrei, definiti fratelli maggiori o minori, ma al di là delle precisazioni semantiche, soprattutto e soltanto fratelli. Ma occorreva un gesto significativo, simbolico e paradigmatico per sottolineare questo rivoluzionario cambiamento di rotta.
Papa Wojtyla ha avuto il coraggio di compierlo, senza esitazioni, con onestà e grandezza d’animo, ben consapevole dei suoi profondi sviluppi e contraccolpi, che inevitabilmente lo avrebbero seguito modificando in maniera radicale la tradizionale politica della chiesa. Il triangolo ai cui vertici si trovavano la tolleranza verso l’antisemitismo nei confronti del cosiddetto popolo deicida, il disprezzo verso il suo patrimonio spirituale e religioso e il rifiuto a riconoscerne la patria legittima nello Stato d’Israele si sarebbe sgretolato progressivamente negli anni successivi con l’aperta e vigoroso approvazione di Papa Giovanni Paolo II.
Le tre visite simboliche alla sinagoga di Roma, al campo di sterminio di Auschwitz e a Gerusalemme, al Muro Occidentale del Tempio, hanno segnato come pietre miliari questo percorso, che il Pontefice con passo fermo ha voluto compiere come atto di autentico amore nei confronti del popolo d’Israele e di riparazione per i torti inflittigli nel corso della storia.
La storica visita di Karol Wojtyla alla Sinagoga, o meglio al Tempio Maggiore degli ebrei di Roma, avvenuta il 13 Aprile 1986, era stata preceduta cinque anni prima da un incontro (il primo dei molti che ebbi con Giovanni Paolo II) avvenuto, e non a caso, nella canonica di San Carlo ai Catinari, alle porte del ghetto.
Un incontro voluto dal Pontefice, durante il quale egli intese esprimermi tutto il suo dolore e il suo rammarico per le sofferenze che avevano segnato indelebilmente le vicende degli ebrei nel recente e lontano passato, assicurando da parte sua che in futuro la Chiesa avrebbe saputo sottolineare «i valori di quell’eredità comune sulla quale dobbiamo continuare».
Ma fu quando il Papa per la prima volta nella storia della Chiesa dai tempi di Pietro fece il suo ingresso solenne nella Sinagoga di Roma e mi abbracciò, nella mia veste di Rabbino e rappresentante del popolo della Bibbia, che compresi appieno la portata di quell’evento, destinato a rimanere indelebile nella memoria collettiva di ebrei e cristiani, come monito e richiamo alla tolleranza, alla fratellanza e alla stima reciproca e come condanna di ogni sorta di violenza, fisica o verbale, e di intolleranza.
Papa Wojtyla aveva compiuto un gesto, nello stesso tempo ardito e simbolico, che intendeva ricomporre una frattura di secoli. Io da parte mia, che in quel momento mi sentivo schiacciare sotto il peso delle sofferenze patite dal mio popolo, partecipavo commosso e turbato a quell’incontro, di cui Dio aveva voluto fossi protagonista.
Certo in quell’occasione avrei voluto che il Pontefice esprimesse esplicitamente il riconoscimentodello Stato d’Israele da parte della Chiesa nella sua doppia valenza di terra di rifugio degli scampati dai campi di sterminio nazisti e di inizio dell’avvento dell’era messianica. Invece dovetti attendere qualche tempo prima di prendere atto che la sua risposta era stata positiva.
Tra le pietre del Muro Occidentale di Gerusalemme, durante la sua storica visita in Israele, Giovanni Paolo II ha posto un quadratino di carta ripiegato con la scritta Perdono, intendendo nello stesso tempo riferirsi alla tragedia della Shoah e alle colpe di omissione della Chiesa in quel frangente e allo Stato d’Israele come erede dei milioni di martiri trucidati nelle camere a gas e rifugio degli scampati. La sua commossa visita ad Auschwitz non poteva essere che il coronamento di questo doloroso tragitto di ripensamento. «Mai più!» avrebbe detto Papa Wojtyla guardando le immagini di quei bambini, innocenti vittime della furia antisemita nutrita di pretesti religiosi e di pregiudizi razzisti. Questo sarebbe il suo messaggio e il suo monito anche oggi, quando folle di fedeli ricordano la sua immagine e il suo insegnamento proclamandolo santo.
Nei giorni di Pesach, della Pasqua ebraica del 1987 Papa Giovanni Paolo II scrivendomi, si rivolgeva alla comunità ebraica con queste parole: «Che la grande solennità pasquale colmi di gioia i vostri cuori e vi sostenga nel cammino della libertà e della speranza della fede e dell’amore al padre che ci ama e all’uomo che è immagine del Creatore». Oggi, nei giorni della Pasqua del 2011, assistendo alle celebrazioni in suo onore, diciamo ai nostri fratelli minori che l’uomo Karol Wojtyla era certamente uno degli uomini che Dio aveva voluto fossero più simili alla sua immagine.
Già Rabbino capo di Roma
Lo scrive il Jerusalem Post, dopo la revoca della scomunica al vescovo lefevbriano
Williamson che nega la Shoah. La Santa Sede auspica che "il dialogo continui"
.-Il rabbinato di Israele rompe col Vaticano
Il Papa: "Solidarietà ai fratelli ebrei"
Il Pontefice oggi ribadisce: "Shoah rimanga un monito contro oblio e negazionismo"
Oggi Williamson è stato bandito da tutte le chiese della città di Ratisbona
GERUSALEMME - Non si placa la polemica dopo la revoca della scomunica del vescovo lefevbriano Richard Williamson, che nega la Shoah e l’esistenza delle camere a gas. Oggi il Jerusalem Post scrive che il rabbinato d’Israele ha rotto indefinitamente i rapporti ufficiali con il Vaticano e ha anche cancellato un incontro fissato a Roma il 2-4 marzo con la Commissione della Santa Sede per i rapporti con gli ebrei. Una posizione a cui la Santa Sede ha immediatamente risposto, auspicando che "il dialogo possa continuare". Oggi papa Benedetto XVI è di nuovo intervenuto sulla questione esprimendo la sua indiscutibile "solidarietà" ai fratelli ebrei e chiedendo che la Shoah rimanga "un monito contro ogni oblìo e negazionismo". Intanto, il vescovo di Ratisbona, monsignor Gerhard Ludwig Mueller, ha comunicato che Williamson è bandito da tutte le chiese della città tedesca.
"Scuse pubbliche". Sul sito del Jerusalem Post si legge quanto scritto in una lettera indirizzata al presidente della Commissione, cardinale Walter Casper: "Senza scuse pubbliche e una ritrattazione, sarà difficile continuare il dialogo", afferma nella missiva il direttore generale del rabbinato, Oded Weiner. Secondo una fonte del rabbinato, la lettera è giunta alla stampa israeliana prima di essere ricevuta in Vaticano e ciò potrebbe ulteriormente complicare i rapporti fra il rabbinato e la chiesa cattolica.
Santa Sede: "Dialogo continui". Il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, ha subito auspicato "un ripensamento" e chiesto al rabbinato di Israele di "riflettere sulla sua decisione di interrompere il dialogo, alla luce della parole pronunciate oggi da Papa Benedetto XVI sulla Shoah e del suo magistero fino ad oggi". "Le parole del Pontefice - aggiunge padre Lombardi - dovrebbero essere più che sufficienti per rispondere alle attese di chi esprime dubbi sulle posizioni del Papa e della Chiesa cattolica sull’argomento".
Il monito del Papa. Al termine dell’udienza generale di oggi nel’Aula Paolo VI, in Vaticano, Ratzinger ha infatti affermato che la violenza non deve "umiliare mai più la dignità dell’uomo". "La Shoah - ha osservato - insegni specialmente sia alle vecchie che alle nuove generazioni che solo il faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono, conduce i popoli, le culture e le religioni del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità".
Di Segni: "Parole necessarie". Il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, commenta le parole del Pontefice, definendole una dichiarazione "necessaria e benvenuta che contribuisce a chiarire molti equivoci sia sul negazionismo sia sul rispetto del Concilio". "La dichiarazione del papa - dice ancora Di Segni - smentisce tutti coloro che hanno giudicato la nostra protesta come un ingerenza irrispettosa ed esagerata".
Il fatto. La polemica è scoppiata la scorsa settimana, quando il Vaticano ha revocato la scomunica di quattro vescovi appartenenti alla corrente tradizionalista lefevbriana, che negli anni Sessanta si oppose ai cambiamenti introdotti dal Consiglio Vaticano II. Tra loro vi è anche Williamson che, come dice il Centro Simon Wiesenthal, è indagato in Germania per aver negato la Shoah.
La richiesta di Benedetto XVI. Oggi il Pontefice ha spiegato le ragioni del perdono ai vescovi lefevbriani: "Ho deciso di rimettere la scomunica come atto di paterna misericordia perché ripetutamente i quattri vescovi mi hanno manifestato viva sofferenza per la situazione in cui erano venuti a trovarsi". Ratzinger ha chiesto ai vescovi l’impegno a "realizzare i passi necessari alla piena comunione, testimoniando vera adesione al magistero del Papa e del Concilio Vaticano II".
Williamson bandito da chiese di Ratisbona. Oggi il vescovo cattolico della città tedesca ha bandito Richard Williamson dalla chiese cittadine."Non gli verrà permesso di mettere piede nella cattedrale o nelle altre proprietà della Chiesa", ha affermato Mueller. La motivazione è che il vescovo lefevbriano si è posto fuori dalla Chiesa e ha pronunciato parole "inumane" e "sacrileghe".
* la Repubblica, 28 gennaio 2009
Ansa» 2009-01-28 18:05
RABBINATO DI ISRAELE, PAROLE DEL PAPA PASSO AVANTI
GERUSALEMME - Il rabbinato di Israele ha accolto le parole odierne di papa Benedetto XVI sulla Shoah come "un grande passo in avanti per la soluzione della questione" sollevata dalla recente revoca della scomunica nei confronti del vescovo lefevbriano negazionista Richard Williamson. Lo ha detto all’ANSA il direttore generale del Rabbinato Oded Wiener secondo il quale si tratta di "una dichiarazione molto importante per noi e per il mondo intero".
Le parole pronunciate da Benedetto XVI durante l’udienza generale sulla Shoah sono state "molto chiare" e "utili per chiarire le incomprensioni sorte nei giorni scorsi". E’ quanto afferma all’ANSA l’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede Mordechay Lewy, che aggiunge di aver molto apprezzato l’intervento del Pontefice. Secondo Lewy le parole del Papa sono molto utili e "chiunque le abbia lette o ascoltate comprende ora perfettamente da che parte la chiesa stia".
Inoltre fanno capire che per il Papa si deve procedere sulla via del dialogo nel futuro. Rispetto al vescovo lefebvriano, Richard Williamson, protagonista di una recente intervista televisiva in cui ha negato l’esistenza delle camere a gas e ha ridotto il numero di morti degli ebrei per opera dei nazisti a 300 mila, Lewy afferma di non voler "personalizzare" la questione. "Sarebbe sbagliato - aggiunge il diplomatico - dare a questa persona una posizione tale da influenzare ogni volta le relazioni tra Israele e la Santa Sede". A proposito della visita di Benedetto XVI in Israele prevista a maggio secondo indiscrezioni di stampa ma ancora mai annunciata ufficialmente dalla Santa Sede, l’ambasciatore israeliano sottolinea: "Ci stiamo lavorando tutto il tempo e quanto accaduto in questi giorni non ha inciso sui preparativi della sua visita. Il Papa è benvenuto in Israele in qualunque momento".
SHOAH: PAPA, SOLIDARIETA’ AD EBREI, NO A NEGAZIONISMO
Il Papa ha espresso oggi la sua indiscutibile "solidarietà" ai fratelli ebrei ed ha detto che la shoah rimane un monito contro ogni oblio e negazionismo. "Mentre rinnovo con affetto l’espressione della mia piena e indiscutibile solidarietà con i nostri fratelli destinatari della prima alleanza, auspico che la memoria della Shoah induca l’umanità a riflettere sulla imprevedibile potenza del male quando conquista il cuore dell’uomo", ha detto Benedetto XVI al termine dell’udienza generale oggi in Vaticano. "La shoah - - ha proseguito - sia monito contro l’oblio, la negazione o il riduzionismo, perché la violenza fatta contro un solo essere umano è violenza contro tutti". "La shoah - ha proseguito il Papa - insegni specialmente sia alle vecchie sia alle nuove generazioni che solo il faticoso cammino dell’ascolto e del dialogo, dell’amore e del perdono conduca i popoli, le culture e le religioni del mondo all’auspicato traguardo della fraternità e della pace nella verità. Mai più la violenza umili la dignità dell’uomo", ha esclamato. Benedetto XVI ha ricordato come, in questi giorni in cui ricordiamo la Shoah, gli tornino alla memoria le immagini raccolte nelle sue ripetute visite as Auschwitz, "uno dei lager - ha detto - nei quali si è consumato l’eccidio efferato di milioni di ebrei, vittime innocenti di un cieco odio razziale e religioso".
VATICANO A RABBINATO, CONTINUI DIALOGO
CITTA’ DEL VATICANO - Il Vaticano ha espresso l’auspicio che, anche alla luce delle parole dette oggi dal Papa in solidarieta’ agli ebrei e contro il negazionismo della Shoah, il dialogo con il Rabbinato di Israele possa continuare. Il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ha voluto dare un’immediata risposta alla minaccia di rottura delle relazioni con il Vaticano trapelata da fonti del Rabbinato di Israele. "Le parole del Papa,nelle diverse occasioni in cui già i passato si è espresso, e che oggi sono state pronunciate ancora una volta sul tema della Shoah, dovrebbero essere più che sufficienti per rispondere alle attese di chi esprime dubbi sulla posizione del Papa e dela Chiesa cattolica sull’argomento", ha detto padre Lombardi ai giornalisti. "Ci auguriamo, quindi, che, anche alla luce di esse, le difficoltà presentate dal Rabbinato d’Israele possano essere oggetto di ulteriore e più approfondita riflessione, il dialogo con la Commissione per i rapporti con l’ebraismo del Consiglio per l’Unità dei cristiani, in modo che il dialogo della Chiesa cattolica con l’ebraismo possa continuare con frutto e serenità".
RABBINI, CON RATZINGER CANCELLATI 50 ANNI DI DIALOGO
ROMA, 13 GEN - Con Benedetto XVI, la Chiesa sta cancellando i suoi ultimi "cinquanta anni di storia" nel dialogo tra ebraismo e cattolicesimo: a lanciare la critica è il rabbino capo di Venezia, Elia Enrico Richetti, che - in un editoriale per il mensile dei gesuiti "Popoli", ha spiegato i motivi che hanno portato il rabbinato italiano a non partecipare alla prossima Giornata sull’ebraismo, indetta per il 17 gennaio dalla Confrenza episcopale italiana.
Il rabbino di Venezia ricorda innanzitutto la decisione di Benedetto XVI di reintrodurre, con il messale pre-conciliare, la preghiera del Venerdì Santo per la conversione degli ebrei. Il rabbinato italiano - riferisce Richetti - ha chiesto spiegazioni ed un ripensamento: con risposte ufficiose, "una risposta della Conferenza episcopale, sia pure sollecitata, è mancata", la Chiesa - afferma l’esponente ebraico - ha fatto presente che "gli ebrei non hanno niente da temere", in quanto "la speranza espressa dalla preghiera ’Pro Judaeis’ è ’puramente escatologica’, è una speranza relativa alla ’fine dei tempi’ e non invita a fare proselitismo attivo". "Queste risposte - osserva tuttavia rav. Richetti - non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano. Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identità. Non si tratta, quindi, di ipersensibilità: si tratta del più banale senso del rispetto dovuto all’altro come creatura di Dio".
"Se a ciò aggiungiamo - aggiunge - le più recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perché in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana, è evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant’anni di storia della Chiesa". "In quest’ottica, l’interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità", ha concluso.
GIOVANNI XIII
PREGO PER GLI EBREI
di Orazio La Rocca *
CITTA DEL VATICANO - «Perdonaci, Signore, per non aver capito la bellezza del Tuo popolo eletto... perdonaci, perché nel corso dei secoli non sapevamo quello che stavamo facendo contro gli ebrei...». è un Papa anziano, molto malato, costretto a letto perché colpito da un male incurabile, che scrive queste parole pochi giorni prima di morire. è Giovanni XXIII, al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, il papa Buono per antonomasia, il padre del Concilio Vaticano II e del successivo rinnovamento ecclesiale, che Giovanni Paolo II beatificherà nel 2000 sotto i riflettori di tutto il mondo, facendone una delle più importanti icone del grande Giubileo del 2000.
Quasi nessuno, però, finora ha mai saputo che il futuro beato Giovanni XXIII nel chiuso della sua stanza nel Palazzo apostolico, in Vaticano, verso la fine del mese di maggio 1963 - morirà dopo una lunga agonia la sera del successivo 3 giugno all’ età di 82 anni - dedica le sue ultime energie al popolo ebraico sotto forma di preghiera composta quasi di getto su un foglio bianco, davanti al Crocifisso al cospetto del quale ogni notte si era sempre raccolto in preghiera prima di dormire. è una chiara e appassionata richiesta di perdono per le "colpe" commesse dai cristiani nel corso dei secoli con i loro atteggiamenti antisemiti, che papa Roncalli intitola, significativamente, "Preghiera per gli ebrei". Un gesto fatto quasi di istinto, sincero, scritto con grande passione e dettato da un forte desiderio di "pulizia interiore" per le colpe antiebraiche dei cristiani, che anticipa di molti anni le due storiche tappe di avvicinamento al popolo ebraico compiute da Giovanni Paolo II, la visita alla Sinagoga di Roma del 1986 e la richiesta di perdono per le colpe e le omissioni dei cristiani verso gli ebrei nell’ ambito dei mea culpa del Giubileo del 2000. E che spiega, in qualche modo, anche la nascita del testo conciliare Nostra Aetate, approvato nel 1965, con cui la Chiesa cattolica si aprì al dialogo interreligioso e cancellò l’ anacronistica accusa di deicidio con cui per circa duemila anni erano stati apostrofati tutti gli ebrei.
La Preghiera agli ebrei è un documento finora sostanzialmente inedito in Italia. Era stato pubblicato solo in parte nel 1965, due anni dopo la scomparsa di Giovanni XXIII, su un giornale olandese e brevemente accennato nello stesso anno su un periodico italiano, sembra per iniziativa di un giovane monsignore statunitense che aveva preso parte al Concilio come esperto ed era molto amico dell’ allora pontefice. Lo stesso prelato che ne aveva parlato successivamente nel corso di un incontro interconfessionale, negli Stati Uniti d’ America. Da allora, però, se ne erano perse le tracce.
Il testo giovanneo - una quindicina di righe appena - dopo circa 45 anni di sostanziale e inspiegabile oblio domani pomeriggio (alle 16,30) sarà letto integralmente in pubblico per la prima volta al monastero di Santa Cecilia, in Trastevere, a Roma, nell’ ambito del recital Roncalli legge Roncalli interpretato da un discendente di Giovanni XXIII, l’ attore Guido Roncalli che - accompagnato dal violoncellista Michele Chiapperino - presenterà una serie di documenti editi e inediti di papa Roncalli, relativi sia al suo pontificato che agli anni passati nelle nunziature apostoliche in Turchia e in Francia. Il recital è stato presentato con successo una decina di giorni fa in Vaticano alla presenza del cardinale-governatore Giovanni Lajolo. Ma senza la lettura della preghiera ebraica che domani costituirà, inevitabilmente, il momento clou dell’ incontro, che - preannuncia Guido Roncalli - «avrà un carattere e una impostazione ancora più ecumenica». Nella lettera la parola "perdono" viene evocata più volte.
Nel dirsi certo che Cristo è morto e risorto non solo per i cristiani, ma per tutti gli uomini, anche per gli ebrei, Giovanni XXIII chiede al Signore «di perdonarci perché per molti e molti secoli i nostri occhi erano così ciechi che non erano più capaci di vedere ancora la bellezza del Tuo popolo eletto, né di riconoscere nel volto (di tutti gli ebrei - ndr) i tratti dei nostri fratelli privilegiati...». Una espressione, quest’ ultima, che rievoca in maniera impressionante un’ altra famosa frase, quella con cui Giovanni Paolo II nel 1986 nella Sinagoga di Roma salutò gli ebrei chiamandoli «nostri fratelli maggiori».
«Perdonaci, Signore», si legge ancora nella preghiera di papa Roncalli: perdonaci per le tante "ingiustizie" subite dagli ebrei nel corso dei secoli passati e per le "colpe" commesse dai cristiani nei loro confronti. Colpe, mancanze e ingiustizie che il papa Buono accomuna, con "rammarico", al primo delitto raccontato nel primo libro della Bibbia, la Genesi, dove si parla dell’ assassinio di Abele per mano di Caino. La chiusura del testo è contrassegnata anche da un forte impatto teologico perché Giovanni XXIII si spinge a prendere quasi "in prestito" le parole con cui Gesù sul Golgota dall’ alto della croce, prima di spirare, invocò il Padre per perdonare quelli che lo stavano uccidendo. Signore, "perdonaci", conclude infatti papa Roncalli, «perché i cristiani non sapevano cosa facevano» contro gli ebrei.
«Se da un lato la recita fatta in Vaticano mi ha dato un onore immenso perché ospite del successore di Giovanni XXIII, il recital di domani - commenta Guido Roncalli - sento che sarà particolarmente calzante per la rievocazione di un pontefice sensibile al dialogo interreligioso e all’ ecumenismo, e che in punto di morte si è sentito in dovere di scrivere parole bellissime e profonde per chiedere perdono agli ebrei, come una sorta di testamento».
ORAZIO LA ROCCA
* la Repubblica - 20 dicembre 2008
Ansa» 2008-04-04 17:08
PREGHIERA EBREI,
VATICANO: NON CAMBIA DOTTRINA CONCILIO
La Santa Sede, di fronte al "dispiacere" espresso "da alcuni settori del mondo ebraico" verso la nuova formulazione in latino della preghiera per gli ebrei del venerdì santo, "assicura che la nuova formulazione.. non ha inteso nel modo più assoluto manifestare un cambio nell’atteggiamento che la Chiesa cattolica ha svilupato verso gli ebrei" soprattutto dal Concilio. Lo afferma un comunicato della sala stampa vaticana.
La nota vaticana muove dalla constatazione del fatto che per "alcuni settori del mondo ebraico" la "Oremus et pro Iudaeis" "non risulterebbe in armonia con le dichiarazioni e i pronunciamenti ufficiali della Santa Sede, riguardanti il popolo ebreo e la sua fede, che hanno segnato il progresso nelle relazioni di amicizia tra gli Ebrei e la Chiesa Cattolica in questi quaranta anni". Invece, "assicura la Santa Sede", la nuova formulazione non é "un cambio nell’atteggiamento che la Chiesa cattolica ha sviluppato verso gli Ebrei" e il comunicato elenca la Nostra Aetate e il fatto che questo testo conciliare sia stato citato anche dall’udienza di Benedetto XVI ai rabbini capo di Israele, del 15 settembre 2005, e definito "pietra miliare sulla via della riconciliazione dei cristiani verso il popolo ebraico". La Santa Sede segnala inoltre che "l’Oremus per gli ebrei contenuto nel messale romano del 1970 resta in pieno vigore, ed é la forma ordinaria della preghiera dei cattolici".
I "principi fondamentali" della Nostra Aetate, spiega il comunicato della sala stampa vaticana, "hanno sostenuto e sostengono anche oggi le relazioni fraterne di stima, di dialogo, di amore, di solidarietà e collaborazione fra cattolici ed ebrei". E la Nostra Aetate "ricorda il vincolo del tutto particolare con cui il Popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato alla stirpe di Abramo e respinge ogni atteggiamento di disprezzo e di discriminazione verso gli ebrei, ripudiando con fermezza qualunque forma di antisemitismo".
La Santa Sede dunque "auspica che le precisazioni" di questo comunicato "contribuiscano a chiarire i malintesi, e ribadisce il fermo desiderio che i progressi verificatisi nella reciproca comprensione e stima tra ebrei e cristiani durante questi anni crescano ulteriormente".
Dichiarazione S.Sede 5. 4.08 su preghiera conversione ebrei
Ora bisogna eliminare quella preghiera
di Mauro Pesce *
E’ stato comunicato che la Santa Sede ha dichiarato di non volere fare passi indietro sulla strada del dialogo con gli Ebrei iniziato con la dichiarazione conciliare Nostra Aetate. E’ fatto molto positivo che va salutato con soddisfazione. (Clicca qui per leggere il testo del comunicato)
La santa Sede riconosce - di fatto - che vi è contraddizione tra la nuova preghiera introdotta nel messale latino e quella post-conciliare e rassicura gli Ebrei che la preghiera letta dalla maggioranza dei fedeli è quella post-conciliare. Anche questo è sintomo di buone intenzioni.
Tuttavia non c’è dubbio che tutto questo dimostri l’imbarazzo in cui la Santa Sede si trova. Un imbarazzo che sembra impedire di fare seguire alle buone intenzioni dei fatti. Ora bisogna eliminare quella preghiera.
Su questo, dopo le leggi razziali del 1938 e dopo la Shoah non si può tacere. Ogni passo indietro di una forza storica così influente come la Chiesa Cattolica va combattuto. La nuova preghiera va eliminata. E probabilmente non è neppure una cosa difficile. Infatti, c’è chi dice che essa è solo frutto di un contrasto interno alla Santa Sede. La Segreteria di Stato avrebbe voluto che nel messale latino fosse introdotta la preghiera post-conciliare (la soluzione più semplice e bella). Ma la congregazione responsabile della redazione dei testi liturgici, non volendosi far scavalcare dalla Segreteria di Stato, avrebbe deciso di provvedere in modo diverso operando una correzione del vecchio testo anti-ebraico preconciliare, con il triste risultato che ci è di fronte.
Mauro Pesce,
5 aprile 2008
Dichiarazione S.Sede 5. 4.08 su preghiera conversione ebrei
Rabbino Laras: Vaticano ha eluso questione conversione
Ma dichiarazione odierna positiva nei suoi intenti distensivi
Roma, 4 apr. (Apcom) - L’odierna dichiarazione del Vaticano sulla cosiddetta preghiera per gli ebrei elude "del tutto" la questione della conversione degli ebrei, secondo il rabbino Giuseppe Laras, presidente collegio rabbinico italiano, che ne sottolinea, al contempo, la "positività" delle intenzioni distensive. "La dichiarazione in data odierna della segreteria di Stato vaticana nei suoi intenti distensivi può essere recepita in termini di positività", afferma Laras. "Desidero sottolineare, tuttavia, che la reazione critica di alcuni settori dell’ebraismo e in particolare dell’assemblea rabbinica italiana al Motu proprio papale del febbraio scorso non sembra francamente e completamente frutto di nostri fraintendimenti o di nostre ipersensibilità. Il tema in particolare della conversione degli ebrei, rievocato dalla formula liturgica in parola e che ha sollevato perplessità e reazioni del mondo ebraico, è rimasto nella sostanza del tutto eluso". "Mi auguro - conclude il rabbino Laras - che il futuro delle relazioni ebraico-cattoliche, nell’espressione del dialogo ma non solo, non abbia più a vedere strappi, incomprensioni e polemiche e che viceversa il cammino del dialogo proceda sempre più marcatamente e utilmente in direzione della lotta all’antisemitismo e di tutto ciò che contraddice il senso della vita e della pace".
Ancora sull’Oremus
Breve risposta a don Gaetano Castello
(Responsabile dell’Ecumenismo e Dialogo della Diocesi di Napoli)
di Marco Morselli *
Tra le molte considerazioni ragionevoli e condivisibili contenute nel Suo articolo, vorrei segnalare alcuni punti meritevoli di ulteriore approfondimento.
Lei scrive: «Il cristianesimo è per sua natura missionario». Bene. Purché ci si ricordi che la missione è partita da Gerusalemme, dagli ebrei della Ecclesia ex circumcisione, e che era rivolta alle genti, non viceversa.
Poi prosegue: «E’ perciò naturale che i cristiani preghino per la conversione del mondo intero, e in particolare per Israele». Lasciando per il momento da parte la questione della conversione del mondo intero, per quanto riguarda Israele non è così. Altro è che i cristiani desiderino che il Messia sia riconosciuto da Israele, altro è che sperino e preghino per la «conversione» d’Israele.
Quando Gesù predica: «Shuvù!» (Mt 4,17) (stessa radice di teshuvah) vuol dire: «Ritornate a Adonai Elokim!» e non : «Cambiate religione!», «Smettete di essere ebrei!» «Ripudiate la perfidia giudaica!» come da secoli e in parte tuttora i cristiani ex gentibus credono.
Altro è che i cristiani siano testimoni della messianicità di Gesù, anche e innanzi tutto nei confronti d’Israele, altro è che facciano coincidere tale testimonianza con la speranza della apostasia d’Israele.
E’ questo il punto che chiede urgentemente di essere chiarito, perché ebrei e cristiani possano unire le loro forze e operare insieme per il tiqqun del mondo.
E’ un vero e proprio capovolgimento di paradigma a costituire la premessa della venuta, o del ritorno, del Messia d’Israele e dell’umanità.
In cordiale dialogo,
Marco Morselli
Roma, 25 adar 1° 5768
1° marzo 2008
A proposito della «preghiera per gli ebrei»
Un documento di : Bartolini Elena Lea - Docente di Giudaismo - Centro Studi del Vicino Oriente di Milano Bartolomei Maria Cristina - Docente di Filosofia Morale e Teologa - Università di Milano De Benedetti Paolo - Docente di Giudaismo - Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale Milani Claudia - Dottoranda di Ricerca - Università di Chieti
Con il motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007, Papa Benedetto XVI reintroduce la possibilità di utilizzare la formula liturgica pre-conciliare, in lingua latina, per la celebrazione eucaristica. A seguito di tale provvedimento, lo scorso 6 febbraio - nella ricorrenza del mercoledì delle ceneri - il Pontefice modifica la preghiera per gli ebrei del Venerdì Santo contenuta nel Missale Romanum anteriore al Concilio Vaticano II, sostituendo il riferimento al «popolo accecato [che deve essere] strappato dalle tenebre» con l’espressione «Preghiamo per gli Ebrei. Il Signore Dio Nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini». La disposizione del Papa è contenuta in una nota della Segreteria di Stato della Santa Sede.
Tale modifica giustifica di fatto una preghiera liturgica alternativa e contrapposta a quella vigente, e che a nostro parere è in contrasto con i testi conciliari Dignitatis humanae, sulla libertà religiosa, e Nostra aetate, sul rapporto fra la Chiesa cattolica e le altre religioni, in cui si afferma che «gli ebrei, in grazia dei padri, rimangono ancora carissimi a Dio, i cui doni e la cui vocazione sono senza pentimento. [...] gli ebrei non devono essere presentati come rigettati da Dio, né come maledetti, quasi che ciò scaturisse dalla sacra Scrittura» (Nostra aetate, 4).
Il provvedimento inoltre sembra contraddire palesemente il magistero precedente, poiché si contrappone a quanto affermato negli Orientamenti e suggerimenti per l’applicazione della dichiarazione conciliare Nostra aetate, 4 (1975), che al punto I afferma: «condizione del dialogo è il rispetto dell’altro, così come esso è, e soprattutto il rispetto della sua fede e delle sue convinzioni religiose. [...] La Chiesa, per la sua stessa natura, deve annunciare Gesù Cristo al mondo. Per evitare che questa testimonianza resa a Gesù Cristo appaia agli ebrei come una violenza, i cattolici dovranno aver cura di vivere e di annunciare la loro fede nel più rigoroso rispetto della libertà religiosa».
La preghiera del Venerdì Santo, nella versione post-conciliare, esprime suppliche indirizzate alla salvezza di tutti gli uomini: nel caso specifico degli ebrei, questo significa pregare perché essi restino fedeli all’Alleanza mai revocata. Per nessun uomo si chiede la «conversione», ma si prega perché tutti seguano lo Spirito nella via che è loro data e che, per Israele, non può che essere la fedeltà all’Alleanza. Poiché, inoltre, il Venerdì Santo è il giorno in relazione al quale è stata rivolta al popolo ebraico l’accusa di deicidio - accusa infondata, ma foriera di abissi di orrore - ritoccare il cambiamento introdotto dal Concilio Vaticano II appare un regresso, pericolosamente prossimo alla teologia della sostituzione di Israele e capace di evocare gli antichi tentativi di conversione. Posizione, questa, che ci pare da respingere in base alla stretta ortodossia cristiana e ad una corretta prospettiva escatologica.
Non possiamo che manifestare il nostro rammarico per una scelta che mette a serio rischio più di quaranta anni di dialogo, in quanto qualunque cosa possa far pensare a un tentativo di conversione è inconciliabile con il riconoscimento ed il rispetto della verità nella fede dell’altro.
Bartolini Elena Lea - Docente di Giudaismo - Centro Studi del Vicino Oriente di Milano Bartolomei Maria Cristina - Docente di Filosofia Morale e Teologa - Università di Milano De Benedetti Paolo - Docente di Giudaismo - Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale Milani Claudia - Dottoranda di Ricerca - Università di Chieti
Hanno sottoscritto il seguente documento:
Airoldi Maria Silvia
Baini Pierpaolo - Membro Commissione Ecumenismo e Dialogo Diocesi di Lodi
Ballabio Fabio - Segretario Commissione Ecumenismo e Dialogo Diocesi di Milano
Barbati Biondo Gianfranca
Bartolini Fabia Veronica
Bartolomei Adelina - Psicologa - A.E.C. Roma
Basso Ricci Luisella
Bellavite Vittorio - Coordinatore di “Noi siamo Chiesa”
Bertani Maurizio - Bancario
Boidi Filippo - Rinnovamento nello Spirito - Torino
Bonaccorsi Aurora
Bonetti Zanda Ornella
Borghi Ernesto - Docente di Esegesi Biblica - Centro per le Scienze Religiose di Trento
Bovi Grazia
Calzetti Sara - Associazione Terra di Danza
Cappellazzi Claudia
Castagnaro Mauro - Redattore - Missione Oggi
Cattaneo Myriam
Cento Francesca
Ceresa Matteo
Chiassi Mariangela
Chiesa Rosangela
Chiocchetti Marisa - Redazione SeFeR - Studi, Fatti, Ricerche
Ciocca Beppe
Ciurcina Nella - Socia di Biblia - Associazione Laica di Cultura Biblica
Coglitore Bongiovanni Rosanna
Colombo Ivan
Conforti Marisa
Conti Irma
Corrao Vincenzo
D’Angelo Teresa
Dal Corso Marco - Redazione CEM Mondialità
Daminelli Luisa
De Martin Roder Giusi
De Mattè Riccarda
Derungs G.G. Ursicin - Teologo e Scrittore
Donarini Adele
Donghi Vilma
Faini Gatteschi Ebe - Presidente Associaz. Amici della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale
Ferrandi Maria Gabriella
Ferrari Licia - Avvocato
Ferri Egle
Fiacchi Doria
Frenkel Viviana - Redazione SeFeR - Studi, Fatti, Ricerche
Forni Alessandra
Galimberti Giulia
Galimberti Vera
Giudici Giovanni
Giuliani Massimo - Docente di Studi Ebraici ed Ermeneutica Filosofica - Università di Trento
Grassi Giulia Francesca - Assegnista di Ricerca - Università di Udine
Gualandi Franca
Guasti Davide - Medico
Gusmini Giuseppina
Hofer Evelyne
Lenghi Marcello
Limonta Elena
Lonati Antonella
Lupi Elisa
Masina Ettore - Scrittore - Roma
Melchiorre Virgilio - Professore emerito di Filosofia Morale - Università Cattolica - Milano
Messina Lucia
Minervini Rosita
Mistura Paolo - Redazione SeFeR - Studi, Fatti, Ricerche
Montiglio Elena
Monzio Compagnoni Belliride
Montresor Marianita - Insegnante e responsabile SAE - Verona
Morelli Paola
Padovani Carla - Associazione Terra di Danza
Pandozi Nazareno - Redazione SeFeR - Studi, Fatti, Ricerche
Pasianotto Daniela
Pedalino Grazia Maria Pia
Perrera Rosa Maria
Pescara Renato - Docente di Diritto Privato - Università di Padova
Pietripaoli Luigi
Pirondi Ennio
Pirovano Carla
Pistone Gioachino - Comitato esecutivo SAE
Princigalli Domenico
Ramon Tragan Pius - Professore e Rettore emerito - Pontificio Ateneo S. Anselmo - Roma
Ranghetti Elisabetta
Recanati Daniela
Recanati Enrica
Recanati Pietro
Recanati Roberto
Riboni Luca - Consigliere Comunale - Melegnano
Rigazzi Luigi - Redazione Qol
Rinaldi Paola
Rivaroli Pasquale
Robiati Bendaud Vittorio
Roncelli Angelita
Rubini Giuseppina
Saibene Elsa - Redazione SeFeR - Studi, Fatti, Ricerche
Sala Danna Adriana
Saldan Marisa
Salvatorelli Germano - Ordinario di Istologia - Università di Ferrara
Sanna Sandro
Scapino Sergio
Storti Mauro
Stradi Geminiano
Superchi Franca - Logoterapista
Tagliabue Lidia
Tamborrino Annamaria - Insegnante
Tassi Sofia
Valensisi Fausto
Vigentini Giuseppina
Vitali Gianbattista
Zadra Felice - Dirigente Medico Ospedaliero
Zanda Federico
Zanoncelli Emma
Zini Raffaello - Redazione Qol
Chi desiderasse aderire, può comunicarlo al seguente indirizzo e-mail:
elenalea@alice.it
* Il dialogo, Giovedì, 06 marzo 2008
Editoriale
Benedetto XVI è antisemita?
di Giovanni Sarubbi *
BENEDETTO XVI è antisemita? La domanda sorge spontanea leggendo la “nuova preghiera” per gli ebrei che Benedetto XVI ha emanato lo scorso 4 febbraio per la preghiera del venerdì santo del Messale Romano anteriore al Concilio Vaticano II, ripristinato da Benedetto XVI per i cattolici cosiddetti "tradizionalisti". (Clicca qui per leggere la notizia)
A giudicare dalla reazione degli ebrei italiani possiamo anche togliere il punto interrogativo e trasformare la domanda in una affermazione: si Benedetto XVI è antisemita!
La “preghiera” (scusate se continuiamo a mettere le virgolette) non lascia adito a dubbi sia nella versione latina (per chi lo capisce) sia nelle due traduzioni italiane che abbiamo avuto modo di leggere. Una quella dell’agenzia SIR dice: “Preghiamo per gli Ebrei. Il Signore Dio Nostro illumini i loro cuori perché riconoscano Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini. Dio Onnipotente ed eterno, Tu che vuoi che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che, entrando la pienezza dei popoli nella tua Chiesa, tutto Israele sia salvo”.
Un’altra che ci è stata inviata da un’amica traduce invece così: “Preghiamo per gli ebrei. Affinché Dio nostro Signore illumini il loro cuore, affinché conoscano Gesù Cristo, il salvatore di tutti gli uomini. Preghiamo. Pieghiamo le ginocchia. Alziamoci. O Dio onnipotente e sempiterno, che vuoi che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che - con l’ingresso di tutte le genti nella Tua Chiesa - tutto Israele sia salvato per Cristo nostro Signore. Amen.”
La sostanza, anche con le diverse traduzioni (non sappiamo ancora se c’è una traduzione ufficiale) non cambia: i giudei per salvarsi devono convertirsi al cristianesimo. Una posizione questa che stravolge completamente la preghiera (questa sì senza virgolette) che aveva voluto Paolo VI. C’è poco da fare, ha ragione il rabbino Di Segni. Quella di Benedetto XVI non è una preghiera, è un atto di guerra, un riportare indietro le lancette della storia di 43 anni. Una cosa è pregare affinché “il popolo primogenito della tua alleanza possa giungere alla pienezza della redenzione”, come dice la preghiera di Paolo VI, altra cosa è dire che gli ebrei debbono “conoscere Gesù Cristo” come condizione affinché “tutto Israele” sia salvato. Nella prima formulazione si sente palpitare il cuore dei cristiani per i fratelli ebrei, nella seconda si sente il pensiero di chi è convinto che gli ebrei siano “deicidi”.
La preghiera è per noi non una sequenza di richieste a Dio onnipotente, ma una serie di impegni che chi la recita assume, come è il Padre Nostro cristiano. Questi impegni li si può fare nel chiuso della propria stanza o durante la preghiera comunitaria con la propria comunità di fede. In entrambi i casi sono espressione di ciò che di più intimo esiste nel cuore dell’uomo. Per questo diamo tanto importanza ad un testo che magari dovrebbe semplicemente essere ignorato.
Per chi come noi ha fatto del dialogo interreligioso la propria missione, affermazioni come quelle di questa “preghiera” sono un vero e proprio pugno nello stomaco e non possiamo tacere. Non possiamo tacere quando viene distrutto, con quattro righe, il lavoro di migliaia e migliaia di cristiani di ogni confessione impegnati nel dialogo ebraico cristiano. Ancora più grave questa “preghiera” se si pensa alle gravissime responsabilità che i cristiani nel loro complesso (cattolici, protestanti, ortodossi) hanno nella persecuzione degli ebrei nel corso dei secoli di cui la shoah è stato solo la logica conseguenza. La shoah non sarebbe stata possibile senza l’antisemitismo cristiano, di tutte le chiese cristiane nessuna esclusa.
Ma probabilmente definire questa preghiera semplicemente antisemita è riduttivo. Questa preghiera non è semplicemente antisemita, essa è contro qualsiasi dialogo con qualsiasi religione perché si basa sull’affermazione dogmatica del “Gesù Cristo Salvatore di tutti gli uomini”. Affermazione che un cristiano può anche fare propria ma che non può imporre a nessuno come dogma di fede anche perché Gesù stesso non lo ha fatto. Questa preghiera è la logica conseguenza del documento “Dominus Jesus” del 2000.
Documento fortemente voluto dall’allora cardinale Ratzinger che era a capo della Congregazione per la dottrina della fede. Documento con il quale l’allora cardinale Ratzinger ha di fatto cominciato il suo pontificato, stante le precarie condizioni di salute di Giovanni Paolo II. E’ da quel documento, che non esitiamo a definire una mostruosità teologica, che la chiesa cattolica ha cominciato a cambiare strada e a demolire apertamente il Concilio Vaticano II.
Siamo oramai ad un punto di non ritorno. Questa preghiera produrrà effetti devastanti sul dialogo interreligioso non solo con gli ebrei ma con tutte le religioni perché non è una preghiera “per gli ebrei”, di cui non richiama alcuna peculiarità, come faceva invece quella di Paolo VI, ma è una preghiera che può applicarsi a qualsiasi religione diversa da quella cattolica essendo figlia del dogmatismo, del desiderio peccaminoso di infallibilità che questo Papa dimostra in ogni sua manifestazione di pensiero. Rimediando fra l’altro solo figuracce (vedi Ratisbona o La Sapienza) e creando tensioni tra le religioni di cui nessuno in questo momento sentiva il bisogno. Più qualcuno si sente infallibile, più errori commette, più si giudica gli altri, più si è giudicati. Lo dice anche Gesù nel Vangelo. E non è la prima volta nella storia che chi si è considerato “infallibile” sia poi finito nella polvere, come il feroce Robespierre che finì anch’esso ghigliottinato.
Per colmo di ironia questa “preghiera” terribile non piace ai “cattolici tradizionalisti” che la giudicano un tradimento: alla stupidità non c’è mai limite.
Che fare?
Occorre sicuramente impegnarsi sempre più nel dialogo interreligioso, andare controcorrente, checché ne dica Papa Ratzinger che, stando anche alle recenti analisi sociologiche, stà provocando una vera e propria emorragia di consensi per la chiesa di Roma. Persino i pellegrini alle sue udienze domenicali e del mercoledì sono diminuiti notevolmente (oltre mezzo milione di presenze in meno in un anno).
Agli ebrei e a tutte le altre religioni diciamo che non bisogna farsi pigliare dalla paura o dallo sconforto. Bisogna dire con chiarezza quello che si pensa e, soprattutto, non interrompere i positivi rapporti costruiti negli ultimi 40 anni fra cristiani ed ebrei. Ogni cristiano, come ogni ebreo o di qualsiasi altra religione, deve alla fine rispondere esclusivamente alla sua coscienza, checché ne dica Papa Ratzinger. Ognuno risponde in proprio di ciò che fa e di ciò che dice. Anche Papa Ratzinger che come tutti gli esseri viventi non ha né il dono della infallibilità né tantomeno quello della immortalità.
«Dialogo con l’ebraismo nel rispetto delle identità»
«Preghiera per gli ebrei»: i cardinali Kasper e Comastri rispondono alle critiche seguite alla modifica del testo (Avvenire, 08.02.2007).
Il dialogo «presuppone sempre che si rispetti la posizione e l’identità dell’altro. Noi rispettiamo l’identità degli ebrei; loro però devono rispettare la nostra, che noi non possiamo nascondere. Il dialogo si basa proprio su questa diversità: si ciò che abbiamo in comune e sulle diversità. E io non vedo questo come un ostacolo, quanto piuttosto come una sfida per un vero dialogo teologico».
Così il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani e della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo, risponde - in un’intervista alla Radio Vaticana - alle reazioni seguite alla modifica della «preghiera per gli ebrei» nella liturgia del Venerdì santo, voluta da Benedetto XVI in sostituzione al testo contenuto nel «Missale romanum» pubblicato nel 1962 da Giovanni XXIII.
Fra le reazioni più dure, quella dell’Assemblea rabbinica italiana, che contesta il passaggio dall’espressione relativa all’«accecamento degli ebrei» all’esortazione «Dio illumini i loro cuori» affinché riconoscano Gesù Cristo «Salvatore di tutti gli uomini»; una preghiera per la conversione degli ebrei - affermano i rabbini - che contraddice «quarant’anni di dialogo».
«La preghiera che esisteva nel rito straordinario era un po’ offensiva, perché parlava della cecità - ammette Kasper -. Il Santo Padre ha voluto togliere questo punto, ma ha voluto anche sottolineare la differenza specifica che esiste tra noi e l’ebraismo». «Abbiamo molto in comune - ha proseguito - tuttavia c’è una differenza specifica: Gesù è il Cristo, vuol dire il Messia, il Figlio di Dio, e questa differenza non si può nascondere». E aggiunge: «Se questa preghiera, ora, parla della conversione degli ebrei, ciò non vuol dire che noi abbiamo l’intenzione di fare “missione”» ma vi si esprime «una speranza escatologica». «Benedetto XVI - ha detto da parte sua il cardinale Angelo Comastri in un’intervista al quotidiano online ’Petrus’ - con estrema saggezza e equilibrio ha voluto tendere una mano e un aiuto ai fratelli ebrei perché ama e stimola il dialogo. Purtroppo non tutti lo hanno capito».
Sulla questione l’agenzia Sir ha diffuso una nota di monsignor Elio Bromuri, esperto di ecumenismo e dialogo interreligioso, nella quale tra l’altro si legge: «Non possiamo permetterci di andare a Dio nella preghiera mentre qualcuno per la stessa preghiera si sente offeso o discriminato. Come non possiamo permetterci di di privarci della libertà dei figli di Dio nella preghiera a lui rivolta con sincerità». Gli ebrei sono «la radice santa» nella quale i cristiani sono «innestati» e il dialogo fra ebraismo e cristianesimo resta indispensabile. «La preghiera per intercedere l’adesione di tutti gli uomini alla fede cristiana - spiega inoltre Bromuri - è costante nella Chiesa e tale resterà come segno di amore a Cristo, e anche come espressione di amore verso persone rispettate nella loro libertà e dignità, cui si pensa di offrire un dono con mano fraterna».
COMUNICATO
Gherush92 Comitato per i Diritti Umani
Diversità e Sicurezza Culturale
Una risorsa contro l’Antisemitismo e il Razzismo
"Oremus et pro Iudaeis": Una preghiera che invoca la scomparsa del popolo ebraico e di Israele ! Una preghiera che non e’ amorevole ed esprime disprezzo verso gli altri.
Perché non vi convertite?
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Nota della Segreteria di Stato della S. Sede.
Con riferimento alle disposizioni contenute nel Motu proprio "Summorum Pontificum", del 7 luglio 2007, circa la possibilità di usare l’ultima stesura del Missale Romanum, anteriore al Concilio Vaticano II, pubblicata nel 1962 con l’autorità del beato Giovanni XXIII, il Santo Padre Benedetto XVI ha disposto che l’Oremus et pro Iudaeis della Liturgia del Venerdì Santo contenuto in detto Missale Romanum sia sostituito con il seguente testo:
"Preghiamo per gli ebrei. Affinché Dio nostro Signore illumini il loro cuore, affinché conoscano Gesù Cristo, il salvatore di tutti gli uomini. Preghiamo. Pieghiamo le ginocchia. Alziamoci. O Dio onnipotente e sempiterno, che vuoi che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità, concedi propizio che - con l’ingresso di tutte le genti nella Tua Chiesa - tutto Israele sia salvato per Cristo nostro Signore. Amen.".
Tale testo dovrà essere utilizzato, a partire dal corrente anno, in tutte le Celebrazioni della Liturgia del Venerdì Santo con il citato Missale Romanum. Dal Vaticano, 4 febbraio 2008.
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Oremus et pro perfidis Judaeis è presente dal VII secolo fino al XX secolo nella liturgia cattolica. Il rito tridentino recitava così:
“Preghiamo anche i perfidi Giudei, affinché il Signore Dio nostro tolga il velo dai loro cuori ed anche essi riconoscano il Signore nostro Gesù Cristo. Dio onnipotente ed eterno, che nella tua misericordia non respingi neppure i perfidi Giudei, esaudisci le nostre preghiere, che ti presentiamo per la cecità di quel popolo, affinché (ri)conosciuto Cristo, luce della tua verità, siano liberati dalle loro tenebre.”
Rispondiamo, con le parole di Moshè ben Nachman:
"Quanto al Messia, egli deve riunire i dispersi di tutte e dodici le tribù di Israele, mentre il vostro Messia, Jeshu, non riunì nessuna di loro (...). Il nostro Messia deve ricostruire il Tempio a Gerusalemme, mentre Jeshu non costruì alcun edificio, ma dopo di lui esso fu demolito. Il Messia governerà su tutte le genti, lui non governò nemmeno su se stesso (.). Dopo di questo sarà chiaro che il vostro Jeshu non è il Messia e non avrete più niente da discutere sul nostro Messia che dovrà venire". (Moshè ben Nachman, Sefer haVikkuach).
La preghiera "Oremus et pro Iudaeis" offende e minaccia gli Ebrei. Li offende perchè li considera inferiori: non riconosce il valore dell’ebraismo, il popolo Ebraico, la sua cultura, la sua spiritualità e la sua diversità così com’è. Li minaccia di dannazione se non si salvano in Jeshu, li minaccia di non giungere alla conoscenza della verità e minaccia la scomparsa di Israele salvato per Jeshu.
E se gli Ebrei non si convertono? Le alternative saranno ancora roghi, campi di sterminio, o boicottaggi, o la dissoluzione di Israele? Questa preghiera è minacciosa anche per i cristiani perchè può indurli, continuando il processo di evangelizzazione, a reiterare l’omologazione e la distruzione della diversità.
Concordiamo con l’intervento del Rabbino Capo di Roma e dell’Assemblea Rabbinica Italiana che si sono pronunciati per una pausa di riflessione nel dialogo ebraico-cristiano.
Il dialogo interreligioso, lungi dall’essere di per sé proficuo, se impostato su cattive fondamenta, può sortire effetti controproducenti o addirittura dannosi. Riteniamo, per questo, che l’interruzione del dialogo per la chiarificazione dei punti fondamentali possa rappresentare un contributo positivo e aiutare entrambe le parti in causa, ebrei e cristiani.
Gli Ebrei sono un popolo con proprie leggi, tradizioni e spiritualità. Oremus et pro Iudaeis è un’invocazione contro la salvaguardia della diversità culturale e spirituale*.
Chi sostiene questa preghiera, come il cristianesimo o i "missionari ebrei", accademici e non, insiste nel non volere accettare la realtà che gli Ebrei sono vivi ed esistono e sono testimoni viventi della propria storia, e insieme ad altri “mondi innumerevoli e diversi” (popoli, culture, spiritualità) testimoniano che non esiste una religione salvifica che riguarda tutti gli uomini. Gli Ebrei ed altri popoli sono anche testimoni e vittime della distruzione attuata da parte di Isabella di Castiglia che oggi viene beatificata, insieme a Pio XII.
Stabilito che non esistono né una cultura né un’identità giudaico-cristiana, per quanto sia costume corrente affermarne l’esistenza e volerne attribuire perfino un valore giuridico, va osservato che il rapporto ebraico cristiano non è un rapporto fra uguali, non è un rapporto simmetrico, non un semplice incontro tra rappresentanti di due mondi in conflitto, ma è l’incontro del perseguitato con l’istituzione ispiratrice dell’ostilità. Alla base della questione ebraico-cristiana non hanno valore, dunque, semplici confronti teologici e accademici, o dissertazioni mediatiche a scopi propagandistici e senza consistenza scientifica, ma una dolorosa successione di eventi che, nei secoli e fino ad oggi, vedono da una parte milioni di vittime innocenti e dall’altra milioni di persecutori. Questa è l’unica realtà documentata, scientifica, inconfutabile, che deve essere sempre considerata se si vuole veramente affrontare questo spinoso problema. Di questo disprezzo verso gli ebrei, espresso anche dai “missionari ebrei”, un lampante esempio moderno è la preghiera “Oremus et pro Iudaeis” di cui chiediamo senz’altro il ritiro.
E’ esaltato il disegno di salvezza universale del cristianesimo, la chiesa è confermata come il (cioè l’unico) popolo di D-o, mentre si afferma che gli Ebrei in quanto tali devono scomparire. Che differenza corre, dunque, fra il desiderio di scomparsa propugnato dal Pontefice e il desiderio di scomparsa propugnato da altre autorevoli e antisemite personalità?
In queste condizioni il dialogo interreligioso non può avere esito proficuo.
Chiediamo perciò che la preghiera Oremus et pro Iudaeis sia ufficialmente e definitivamente ritirata, che sia sospesa la visita del papa in sinagoga e che il dialogo interreligioso sia trasformato in un vero e proprio negoziato culturale.
Gherush92, Comitato per i Diritti Umani
Per aderire o commentare scrivi a:
gherush92@gherush92.com
telefona a: cell. 335483798; cell. 3396938361
(*) "La Diversità Ambientale esiste ed esiste la Diversità Culturale (e Linguistica) costituita da innumerevoli componenti distinte fra cui popoli, nazioni, tribù, comunità,.. Ciascuna componente della Diversità Culturale si definisce con una propria identità costituita da norme, leggi, regolamenti, obblighi, diritti, tradizioni, consuetudini, lingue, comunicazioni, riti, tecniche, comportamenti, ... ha valore legislativo, scientifico, tecnologico, spirituale, etico, cognitivo ... definisce un sistema complesso e completo pienamente capace di prendere decisioni, promulgare leggi e regolamenti, trasmettere sapere e istruzione, prevenire e curare malattie, perseguire e garantire soddisfazione e benessere, ... detiene la proprietà collettiva e individuale della propria produzione intellettuale, tecnica, d’immagine, della propria memoria e dei propri beni su cui deve poter esercitare ogni diritto esclusivo riconosciuto e riconoscibile. Ciascuna componente della Diversità Culturale non desidera essere convertita e non desidera subire nuovi innesti" (Risoluzione di Roma. Linee guida per la protezione della diversità culturale, Gherush92, 1998).
Gherush92
Committee for Human Rights
ECOSOC Organization
GLI AFFAMATI DAL CROCIFISSO
La disutile presenza del pontefice al vertice della FAO, se da una parte evidenzia l’incapacità di questo mastodontico organismo ad affrontare le tematiche della fame, dall’altra ci costringe a delle osservazioni sull’enciclica Caritas in Veritate. Il testo, richiamato più volte nel discorso del papa in plenaria, è l’apogeo di un’ideologia universalista e neo-omologazionista con la quale il cristianesimo vorrebbe costruirsi la patente di risolutore dei problemi della povertà e della fame estrema del mondo, dopo esserne stato uno degli artefici principali in Africa, in America Latina e non solo.
In verità, la Caritas in Veritate non risolve né il problema della povertà, né quello della fame, anzi le aggrava. Il difetto principale sta nel voler gestire il problema con l’assistenzialismo e l’evangelizzazione. Il titolo sintetizza la teoria: la carità nella verità ovvero nell’evangelizzazione; il corollario riepiloga il programma: la croce per un pugno di riso.
Il cristianesimo pratica e prescrive l’evangelizzazione e l’uniformità sotto forma di un unico modello culturale. La diffusione del cristianesimo non è altro che la diffusione di un prototipo universale precostituito, che ostacola la conoscenza e gli scambi fra le specie, fra i popoli e le culture. E’ un processo contro natura perché non accetta la diversità e si adopera per ricondurre le migliaia di opere e culture che incontra all’interno di uno schema precostituito, auto referenziato, ma del tutto inefficace a spiegare e interagire con l’universo, la diversità culturale e i fenomeni naturali. L’evangelizzazione, insieme con altre forme di omologazione, è la causa principale della cancellazione delle diversità, porta alla perdita di conoscenza e ha significato e provocato la scomparsa e l’assimilazione di molti popoli e culture. L’evangelizzazione è una delle principali cause della povertà, della miseria e della fame estrema, perché cancellando la diversità si elimina la conoscenza che è olistica, il bene più prezioso, il motore per la produzione di cibo e di benessere.
L’enciclica Caritas in Veritate, sulla quale si sono espressi in modo servile, ossequioso e incompetente politici e intellettuali e la FAO, è, in realtà, un guazzabuglio tuttologico che affronta i temi della globalizzazione, della cooperazione internazionale, dello sviluppo umano, dell’ambiente, dei cambiamenti climatici, della natalità, della finanza internazionale, del sindacato, usando qua è là parametri di giudizio ereditati, secondo la convenienza, da vulgate terzomondiste e neoglobal da una parte e da analisi economiche di stampo liberale dall’altra.
Tesi e opinioni sostenute con ambiguità, per dare un colpo al cerchio e uno alla botte, fatte per il politicume, per accontentare i benpensanti, i teorici della banalità, i conformisti ad oltranza e, nel caso, qualche cariatide ammuffita degli organismi intergovernativi.
L’enciclica, invece, disboscata e ripulita dalle molte ed inutili incrostazioni, afferma che la salvezza dell’uomo e dei popoli viene solo “dall’unità della carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini”.
A questo punto vogliamo affermare in maniera chiara che il diritto al cibo non può essere mediato né da Gesù Cristo né da speculazioni finanziarie né da altre presunte verità. Il diritto al cibo deve essere garantito e basta, lasciando la possibilità a ciascuno di riappropriarsi della propria conoscenza per la produzione delle proprie risorse alimentari. Sembrerebbe che il papa voglia fare concorrenza alla FAO nell’agguantare risorse finanziarie da utilizzare nell’assistenzialismo o per lo sviluppo della Caritas in Veritate, dopo averle opportunamente decurtate a proprio uso e consumo. E’ così da sempre.
Il documento parla di carità, ma non propone, come sempre, nessuna regola su come, cosa e quanto dare, su come scambiare, su come creare benessere, sulla soluzione del problema della povertà e della fame. La carità cristiana, infatti, “supera la giustizia e la completa nella logica del dono e del perdono. La “città dell’uomo” non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione.” Si tratta, viceversa, proprio di un problema di giustizia per sanare le ingiustizie sociali, economiche, ambientali e spirituali commesse nel corso dei secoli da parte del cristianesimo - con la scusa della misericordia che supera la giustizia - per appropriarsi arbitrariamente e avidamente di risorse, uomini, anime, conoscenze e spiritualità. La concezione della carità cristiana ha bisogno di uniformità umana indistinta, “universalizzata”, ridotta all’incapacità di provvedere a se stessa, quale terreno fertile per un disegno di evangelizzazione-omologazione che si perpetua da secoli.
La carità cristiana, così definita, non ha alcuna parentela con il concetto ebraico e islamico rispettivamente di Tzedaka e Sadaqah che vuol dire giustizia e si rifà ai concetti giustizia e diritto sociale e di distribuzione dei beni e che tende a considerare la povertà non uno status perenne da utilizzare per attingere proseliti, ma un incidente di percorso a cui porre rimedio in modo equo ed efficace. Secondo Maimonide esistono otto livelli di carità ma la forma più alta è quella di aiutare qualcuno ad aiutare se stesso cioè a provvedere ai mezzi per la sua riabilitazione.
D’altronde il documento incalza quando sostiene che “le povertà spesso sono generate dal rifiuto dell’amore di Dio e che l’umanità intera è alienata quando si affida a progetti solo umani, a ideologie e a utopie false........Tra evangelizzazione e promozione umana - sviluppo, liberazione - ci sono infatti dei legami profondi ”
Cosa significa tutto ciò? L’enciclica lo spiega in modo chiaro e inequivocabile in questo passaggio chiave dove affonda la lama della evangelizzazione:
“Per questo motivo, se è vero, da un lato, che lo sviluppo ha bisogno delle religioni e delle culture dei diversi popoli, resta pure vero, dall’altro, che è necessario un adeguato discernimento. La libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte le religioni siano uguali. Il discernimento circa il contributo delle culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità e della verità. Siccome è in gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di emancipazione e di inclusione nell’ottica di una comunità umana veramente universale. «Tutto l’uomo e tutti gli uomini» è criterio per valutare anche le culture e le religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano », porta in se stesso un simile criterio.”
La carità non è, quindi, semplice atto di donazione ma, addirittura, metro di giudizio del cristianesimo, per stabilire quali culture e quali popoli possono essere inclusi nella “comunità universale” e quindi possono mangiare. Una nuova inquisizione, dunque, dal volto inumano, dove la scelta è: fame o conversione. Qual è il metodo migliore per convertire se non mantenere popoli e comunità in uno stato perenne di indigenza?
L’enciclica è, peraltro, in perfetta continuità con la dichiarazione Dominus Jesus dello stesso Ratzinger dove “La missione ad gentes anche nel dialogo interreligioso conserva in pieno, oggi come sempre, la sua validità e necessità ...e che il dialogo interreligioso deve avere essenzialmente lo scopo di convertire”.
L’evangelizzazione ha praticato il razzismo, lo sfruttamento di risorse ed uomini, fino alla schiavitù.
Ecco cosa significava il rifiuto della conversione nel “Requerimemiento”, il documento letto dai cristiani in spagnolo ai popoli dell’America Latina: “...Ma, se voi non vi convertite (al cristianesimo) e con malizia frapponete ritardi, io vi dichiaro che, con l’aiuto di Dio, noi faremo ingresso con la forza nel vostro paese e vi faremo guerra in tutti i modi e maniere che potremo e vi assoggetteremo al giogo e all’obbedienza della Chiesa, e prenderò le vostre persone e figli e i farò schiavi e come tali li venderò....” .
Ed ecco ancora cosa veniva sancito nel breve Dum Diversitas : “Noi concediamo per il presente atto, con la nostra Autorità apostolica, pieno e libero permesso di invadere catturare e sottomettere i saraceni e i pagani e qualunque altro infedele o nemico di Cristo, in qualunque luogo, come anche nei suoi regni ducati, contee e principati e altre proprietà... e di ridurre queste persone a schiavitù perpetua”. Il testo della bolla del papa Nicola V specifica la concessione di ridurre a schiavitù perpetua gli africani e riguarda gli abitanti di tutti i territori a partire da Capo Bojador a Capo Nun e quindi «tutte le coste meridionali fino al limite estremo». Il papa allora poteva condannare interi continenti, come l’Africa, alla cattività perpetua perché esisteva la teologia della schiavitù. Le conseguenze le conosciamo: decine e decine di milioni di morti ammazzati e di schiavi. Ecco da dove viene la povertà e la fame.
La teologia della schiavitù appare come lo sbocco inevitabile dell’evangelizzazione, la quale, definita come il motore di un processo evolutivo dell’umanità verso valori più elevati, per giustificare la propria esistenza, deve necessariamente schematizzare i rapporti fra i popoli (e fra le diverse culture o società), secondo un sistema gerarchico in cui si degradano gli altri per affermare il ruolo guida del cristianesimo. Se l’evangelizzazione è un’operazione di emancipazione, a cui si è sempre associato il significato di civilizzazione, è implicito che deve essere diretta ad emancipare e a civilizzare chi ne ha bisogno, nel caso specifico, gli Ebrei, i Mori, gli Africani e poi gli Indiani, i Roma. Questi non solo erano considerati una merce ma, secondo la teologia della schiavitù, erano destinati ad un’esistenza di subordinazione e assoggettamento ai cristiani, come metodo per evangelizzare il mondo.
Ora c’è da chiedersi che differenza epistemologica c’è tra i documenti di oggi che reiterano il ricatto dell’evangelizzazione come chiave per accedere alla “carità” e le disposizioni di cinque secoli fa che hanno messo interi popoli, allora pienamente in grado di vivere in armonia con l’ambiente, traendone risorse alimentari e il giusto godimento per la vita, sotto il giogo del crocifisso attraverso: separazioni delle famiglie, battesimi forzati, editti da fè, inculturazione, encomiendas, la tratta degli schiavi fino ad oggi con il costoso assistenzialismo perpetuo?
Si resta quindi scioccati nel vedere il massimo esponente della Chiesa Cattolica - campione dell’impoverimento e della distruzione secolare di popoli - dare lezioni alla FAO su come risolvere il problema della povertà che ha contribuito a creare. Si resta anche scioccati nel vedere la FAO senza programmi diventare succube di queste inconsistenti teorie. Nessun “mea culpa”, nessuna volontà di confrontarsi con la propria storia e di riconoscere che il processo di evangelizzazione, del passato e del presente, sia produttore e mantenitore di povertà in quanto distruttore di quella diversità culturale e ambientale data in principio dal Creatore.
Un’operazione di costante revisione e falsificazione storica in contrasto, peraltro, con la Convenzione sulla Diversità Biologica nella quale si prescrive di “rispettare, conservare e mantenere la conoscenza, le innovazioni e le pratiche delle popolazioni indigene e delle comunità locali, comprendendo gli stili di vita tradizionali come rilevanti per la conservazione e l’uso sostenibile della diversità biologica”.
Questo principio è in netto contrasto con la concezione dell’enciclica dove, invece, è continua l’ipotesi di un’omogeneizzazione del mondo verso lo status entropico del pensiero unico, del cibo unico, della cultura e religione unica.
E’ assolutamente necessario fermare l’opera degli oltre 300.000 missionari che assediano popoli e nazioni nel nome dell’uniformità e interrompere la loro attività distruttiva di cristianizzazione. E’ necessario anche contenere l’opera delle NGO che si ispirano ai principi dell’evangelizzazione e dell’assistenzialismo cristiano.
Secondo Gherush92 è necessario che vengano riaffermati i seguenti principi, senza il ricatto della conversione:
Il principio della solidarietà - aiutare gli altri ad aiutare se stessi;
Il principio della riparazione - ogni danno ad un popolo provocato da razzismo e/o schiavitù deve essere compensato;
Il principio del negoziato - ogni decisione deve essere presa in accordo con ciascun popolo;
Il principio dell’extraterritorialità - ogni cultura deve avere il diritto di gestire la sua identità come un popolo e una nazione;
Il principio della salvaguardia della diversità culturale.
Svelato l’arcano ci sembra chiaro che l’annunciata visita del papa in Sinagoga sia più dannosa che utile. Chiediamo pertanto che non venga. Ad ogni buon conto non porti con se né la Dominus Jesus né la Caritas in Veritate come dono e, nella denegata ipotesi, tale regalia non sia accettata.
NO ALLA VISITA DEL PAPA IN SINAGOGA
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