I quarant’anni della Federazione biblica cattolica che ha contribuito al rinnovamento spirituale della Chiesa dopo il concilio
Lo sguardo verso l’alto e l’orecchio teso
di Vincenzo Paglia
Vescovo, presidente
della Federazione biblica cattolica
A poco più di quaranta anni dal Vaticano II si può affermare che l’auspicio a fare delle sante Scritture l’anima della vita spirituale e pastorale delle comunità ecclesiali non è stato disatteso. Da allora infatti si è avviato uno straordinario processo di riacquisizione delle Scritture da parte dell’intera comunità ecclesiale e se ne vedono gli effetti profondi nella vita del popolo cristiano. Lo stesso movimento ecumenico trova nella rinnovata attenzione alla Bibbia un terreno propizio di dialogo - vedi riquadro, Parola di Dio ed ecumenismo. Nella Chiesa cattolica possiamo dire che si è sviluppato un vero e proprio "movimento biblico" che, rispetto a quello che ha preceduto il concilio Vaticano II, ha interessato la vita della Chiesa in tutti i suoi ambiti. Anche solo un veloce sguardo ai testi del magistero sulla sacra Scrittura fa vedere lo straordinario cammino compiuto rispetto ai secoli precedenti. Giovanni Paolo II, a venti anni dalla Dei Verbum, presentando il documento della Pontificia Commissione Biblica sulla interpretazione della Bibbia, affermava: "È motivo di gioia vedere la Bibbia presa in mano da gente umile e povera, che può fornire alla sua interpretazione e attualizzazione una luce più penetrante, dal punto di vista spirituale ed esistenziale, di quella che viene da una scienza sicura di se stessa".
Il Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio si è rivelato un chairòs in tale contesto, un vero e proprio momento di grazia. Le 54 proposizioni votate dai padri sinodali, e che il Papa ha voluto che fossero pubblicate immediatamente, mentre registrano la ricchezza del cammino compiuto in questi decenni del dopo-concilio, testimoniano altresì il vivace dibattito sinodale che ha aperto notevoli prospettive teologiche e pastorali. Ovviamente, siamo tutti in attesa dell’esortazione apostolica post-sinodale per poter accogliere con slancio quanto il Santo Padre vorrà dire alla Chiesa. Si deve comunque constatare che già in questi mesi passati sono state molte le iniziative in varie parti del mondo rivolte a presentare i lavori del sinodo in particolare attraverso il bel messaggio finale. C’è un’attesa diffusa di quanto il Santo Padre ci dirà perché la Parola di Dio possa ancor più ispirare la vita e la missione della Chiesa nei diversi continenti.
Una osservazione mi pare importante sottolineare a tale proposito e che potrebbe segnare qualitativamente una nuova tappa nel riappropriarsi delle sante Scritture da parte del popolo di Dio. A dire il vero, la indica già da tempo lo stesso Benedetto XVI: la Parola di Dio accolta come "fonte" della vita spirituale e pastorale. Il Papa, particolarmente nelle sue omelie, fa della Parola di Dio la fonte e il cuore del messaggio che vuole trasmettere. È una prospettiva che dovrebbe far arretrare quell’atteggiamento, spesso diffuso, che pone al centro non la Parola e quel che essa suggerisce, ma il proprio pensiero, le proprie prospettive che semmai cercano nella Bibbia qualche "appoggio". Le Scritture non sono un "bastone" per le nostre idee, sono la fonte ispiratrice della nostra vita, dei nostri pensieri, della pastorale.
Ricordo un piccolo episodio significativo di questa tendenza che ci fa pensare. Un vescovo, terminata la stesura di una sua lettera pastorale, inviò il dattiloscritto a un esegeta dicendogli: "Vi aggiunga qualche bella frase biblica". Le sante Scritture non sono un supporto alla nostra vita spirituale e pastorale, debbono esserne le ispiratrici. Lo hanno rilevato molto bene i vescovi nel corso dei lavori sinodali. Ed è anche l’esperienza che sgorga dalla Federazione Biblica Cattolica - che in questo anno ricorda il suo quarantesimo di fondazione - che ha promosso con generosità ed efficacia la "pastorale biblica" nei diversi paesi del mondo. I frutti sono stati davvero straordinari. Ma proprio tale fruttuoso impegno spinge ad avviarsi con decisione verso un nuovo traguardo, ossia passare da quella che chiamiamo la "pastorale biblica" alla "ispirazione biblica dell’intera pastorale". Era quel che lo stesso Vaticano II in verità auspicava: le sante Scritture siano "l’anima" della vita e della missione della Chiesa, la sua fonte, la sua origine, la sua ispirazione. Lo si deduce, tra l’altro, dall’incipit della stessa Dei Verbum: "In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia". L’allora giovane teologo, Joseph Ratzinger, commentando queste poche parole, affermava che non si sarebbe potuta esprimere meglio l’essenza della Chiesa: una comunità interamente schiusa "verso l’alto...", la cui "piena essenza è riassunta nel gesto dell’ascolto, unico gesto da cui può derivare il suo annuncio".
All’inizio di questo millennio il Sinodo dei vescovi è tornato a richiamare questa antica e sempre nuova verità dell’ascolto della Scrittura come fonte della sapienza e della forza della Chiesa. Nel primo millennio della storia cristiana questa centralità è apparsa in maniera esemplare: vescovi e monaci, pastori e semplici fedeli, hanno sentito la Scrittura come il cuore pulsante dell’intera loro vita, spirituale, teologica, pastorale, familiare, ecclesiale. Ebbene, quel che il Sinodo dei vescovi si propone è di spingere tutti a ritenere le sante Scritture la fonte che alimenta la vita. I Padri della Chiesa spesso hanno presentato la Parola di Dio come una fontana a cui tutti possono attingere acqua. Sant’Efrem il Siro, per fare un solo esempio, paragona la Bibbia a una fontana a cui ognuno può recarsi per attingere acqua senza che essa si esaurisca mai. E quel che resta nella fonte è sempre molto di più di quel che ciascuno riesce a portare via. In effetti, la Bibbia resta una fontana di sapienza per chi non crede, ma resta acqua sufficiente anche per la vita di tutti i popoli.
L’inscindibile legame circolarità tra Parola di Dio, Chiesa e Liturgia resta la condizione per avvicinarsi a questa fonte. È una responsabilità grande per la Chiesa all’inizio di questo millennio. Benedetto XVI nell’omelia di chiusura del sinodo affermava: "Il luogo privilegiato in cui risuona la Parola di Dio, che edifica la Chiesa(...) è senza dubbio la liturgia. In essa appare che la Bibbia è il libro di un popolo e per un popolo; un’eredità, un testamento consegnato a lettori, perché attualizzino nella loro vita la storia di salvezza testimoniata nello scritto(...) la Bibbia rimane un Libro vivo con il popolo, suo soggetto, che lo legge; il popolo non sussiste senza il Libro, perché in esso trova la sua ragion d’essere, la sua vocazione, la sua identità". Il rinnovato incontro con la Parola di Dio renderà le nostre comunità efficaci per comunicare la via della salvezza agli uomini e alle donne di questo inizio di millennio.
(©L’Osservatore Romano - 23 agosto 2009)
Parola che si fa storia
di Francesco M. Valiante
Due tedeschi su cinque pensano che la Bibbia sia solo "un antico libro di leggende", ma uno su due vorrebbe addirittura che si studiasse nelle scuole. Nove americani su dieci la giudicano "interessante", eppure più della metà la trova "difficile". Oltre il cinquanta per cento degli olandesi la ritiene "astratta" e il trenta per cento "falsa": tuttavia i praticanti dei Paesi Bassi hanno un indice di conoscenza biblica superiore a quello di spagnoli, italiani e polacchi. A quattro francesi su cinque non è mai capitato di leggere nell’ultimo anno un brano della sacra Scrittura, anche se uno su due dichiara di avere in casa una Bibbia. Un russo su quattro invece preferisce la sua lettura all’ascolto di un’omelia, ma il novanta per cento non ne ha mai acquistata una per regalarla.
È un’istantanea sullo stato di salute biblico di dodici Paesi del mondo quella che emerge da un’inchiesta promossa dalla Federazione biblica cattolica come contributo al Sinodo dei vescovi sulla Parola di Dio celebrato nell’ottobre dello scorso anno. La ricerca è stata condotta tra il 2007 e il 2008 su un campione rappresentativo della popolazione adulta e un sub-campione di cristiani "praticanti" - tredicimila persone in tutto - interpellati in Stati Uniti, Regno Unito, Olanda, Germania, Francia, Spagna, Italia, Polonia, Russia, Argentina, Hong Kong, Filippine. I risultati dell’indagine, anticipati dal vescovo Vincenzo Paglia proprio durante i lavori dell’assemblea sinodale, sono ora pubblicati nel volume Fenomeno Bibbia (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2009, pagine 168, euro 16) curato dallo stesso presule.
Solo in apparenza sorprendenti o contraddittori, i dati dell’inchiesta rivelano in realtà che la Bibbia continua ad avere credito e a suscitare interesse tra le persone, al di là delle singole credenze o appartenenze religiose. Tanto da far ritenere insuperata la nota espressione di Paul Claudel, che la definiva il "lessico della nostra cultura occidentale", senza il quale - lo rileva l’arcivescovo Gianfranco Ravasi nella premessa al volume - "è impossibile comprendere la nostra stessa identità di uomini e donne dell’Occidente, il nostro volto, la nostra arte, la nostra storia".
Dietro il quadro statistico delle cifre, con le sue interpretazioni anche opinabili, la ricerca rivela così quel "movimento interiore della Parola" che Benedetto XVI ha evidenziato nella meditazione proposta ai vescovi il 6 ottobre 2008 all’inizio dei lavori sinodali. Un "movimento" attraverso cui - osservò il Papa - la Parola di Dio si fa "parola umana" e "diventa storia d’amore".
È per questo che alla lettura di taglio sociologico suggerita da Luca Diotallevi - guida e coordinatore, insieme ad Arianna Trettel, dell’attività del gruppo di lavoro a cui è stata affidata l’indagine - si affianca nel volume una riflessione teologico-pastorale proposta dallo stesso monsignor Paglia. Il quale non a caso ricorda che con il concilio Vaticano II si è avviato un vero e proprio "movimento biblico" dal quale è scaturito "uno straordinario processo di riacquisizione delle Scritture da parte dell’intera comunità ecclesiale".
Di questa opera di familiarizzazione tra testo sacro e vissuto quotidiano dei credenti danno testimonianza proprio i risultati dell’inchiesta. Che Paglia interpreta come segnali di una "sete della Parola" diffusa più di quanto si creda nella società contemporanea. Anche se persistono spie di ostacoli e incertezze, soprattutto riguardo al rapporto "spirituale" e "personale" con la Bibbia. Colpa anche - rileva il presule - di una pastorale liturgica non sempre all’altezza, di omelie spesso inefficaci e poco comprensibili, di un’ignoranza di fondo delle Scritture diffusa anche tra i praticanti. Ma soprattutto va messa in conto la difficoltà di interiorizzare "il fascino che le Scritture continuano a suscitare, anche in una società secolarizzata, per renderle una parola che cambia il cuore e la vita". La predicazione e lo stile della testimonianza cristiana giocano qui un ruolo fondamentale: "Da questo si deduce - avverte Paglia - che le pagine bibliche non sono solo belle, ma anche vivibili".
Lo conferma con riflessioni stimolanti la voce di un biblista del calibro del cardinale Carlo Maria Martini, che in un’intervista di Luca Bressan pubblicata in chiusura del volume aiuta a leggere i risultati della ricerca alla luce della lunga esperienza pastorale e ministeriale svolta al servizio della Parola. La Bibbia - riconosce - va considerata "il grande libro educativo dell’umanità". E come tale "va consegnata a ogni cristiano, aiutandolo in modo attento perché impari a trasformarla nel libro della sua preghiera, della sua vita". Da qui la necessità che la Parola sia ricollocata sempre di nuovo al centro della vita della Chiesa. Anche perché nella capacità di superare le distanze e toccare il cuore di ogni religione, credenza o non credenza, sta la vera forza della scrittura biblica: "Libro dello Spirito Santo - dice Martini - che muove il cuore al vero e al bene e smaschera le trappole e gli infrangimenti che ostacolano il cammino della santità cristiana".
(©L’Osservatore Romano - 23 agosto 2009)
Un libro per vivere
Questa pagina del nostro giornale vuole essere un sostegno a quel cambiamento di sensibilità che, nella Chiesa cattolica, accanto all’Eucaristia pone l’ascolto della Parola di Dio, considerandoli i due pilastri basilari per alimentare la fede cristiana nel nostro tempo. Lo spunto ci viene dalla pubblicazione della prima ricerca sociologica internazionale sulla diffusione della Bibbia nel mondo presentata nelle linee essenziali all’ultimo Sinodo dei vescovi dedicato, appunto, alla Parola di Dio. L’inchiesta è stata promossa dalla Federazione biblica cattolica nel quarantesimo anno della sua fondazione e documenta il buon lavoro compiuto sinora per la conoscenza e la diffusione della Bibbia.
Voluta da Paolo VI, la Federazione esprime la volontà determinata dei Pontefici a mettere in pratica la costituzione Dei verbum. Questo testo del concilio Vaticano II ha rianimato e motivato la vita cristiana di milioni di fedeli, laici ed ecclesiastici, perché rende familiare Dio nella vita quotidiana e insegna a vedere e giudicare gli eventi piccoli e grandi con i suoi occhi e ad agire secondo il suo Spirito. Ed è attuale un’azione pastorale che vuole rendere la Bibbia, specialmente letta, ascoltata e pregata nella liturgia, fonte dell’azione cristiana. Benedetto XVI lo richiama puntualmente nel suo magistero solenne e ordinario con il quale intende formare cristiani capaci di rendere ragione della propria speranza nel mondo moderno e alla Sacra Scrittura egli attinge ordinariamente per le sue catechesi e omelie.
La riforma della Chiesa che il Papa va proponendo e spiegando è radicata nella Parola di Dio. Come lo è la sua capacità di leggere i segni dei tempi e di porsi in dialogo con le culture moderne, comprese quelle attraversate dalla rivoluzione informatica. Lo stile di vita cristiana proposto da Benedetto XVI discende dall’ascolto della Parola di Dio. Egli non offre una propria riflessione sulla quale apporre una episodica conferma della Sacra Scrittura, ma giustifica la sua attenzione ai diversi aspetti dell’esistenza umana a partire dalle sollecitazioni della Bibbia stessa. Il Papa è convinto che la nuova evangelizzazione, strategia unificante di tutta la pastorale di oggi, debba partire da un ritorno alla Parola di Dio. Come del resto lo fu agli inizi della Chiesa. "È urgente - scriveva nel 2006 nel suo primo messaggio per la Giornata mondiale della gioventù - che sorga una nuova generazione di apostoli radicati nella parola di Cristo, capaci di rispondere alle sfide del nostro tempo e pronti a diffondere dappertutto il Vangelo". E aggiungeva: "Cari giovani, vi esorto ad acquistare dimestichezza con la Bibbia, a tenerla a portata di mano, perché sia per voi come una bussola che indica la strada da seguire. Leggendola, imparerete a conoscere Cristo".
La scelta di Joseph Ratzinger di scrivere un libro su Gesù di Nazaret, dove al Vangelo viene riconosciuta un’attualità storica e normativa pure nella nostra età dominata dalla scienza, non è il lusso di un teologo, ma un segnale chiaro in un tempo in cui Gesù Cristo viene proposto come uno dei tanti miti umanitari e la Chiesa avverte il bisogno di fondare solidamente le verità da credere, ripartendo da quel Gesù senza il quale non ha senso la fede cristiana.
Se c’è un libro che oggi richiede una scoperta personale, questo è senza dubbio la Bibbia. Masticarlo non è facile, ma non impossibile, specialmente per i tanti che, credenti e non, cercano un senso alla vita e alle piccole e grandi cose che la vita ci presenta ogni giorno in faccia, non di rado dolorosamente. La Bibbia, quando la si avvicina, non si rivela soltanto un libro, per quanto avvincente o suscitatore di travolgenti passioni. È infatti l’unico testo che, dietro la cortina di una conoscenza in chiaroscuro del mistero del bene e del male che ci inquieta sempre, lascia intravedere la presenza di qualcuno che forse cerchiamo senza sapere e che è lì, per camminare con noi, per liberarci dai pesi, quando ci pare che nulla, neppure l’amore, abbia più senso e nessuno riesce a raddrizzare le nostre spalle incurvate dalla fatica di vivere.
c. d. c.
(©L’Osservatore Romano - 23 agosto 2009)
Oggi tutti possono spezzare e mangiare questo pane
di Cesare Bissoli
Salesiano, membro della Fbc
coordinatore dell’Apostolato biblico in Italia
Nel recente sinodo sulla "Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa", a proposito di "Bibbia e diffusione", nella proposizione 43, dopo aver affermato "quanto sia necessario che tutti i fedeli possano accedere con facilità alla lettura dei sacri testi" i padri sinodali raccomandano "di sostenere l’impegno della Federazione Biblica Cattolica per un accesso largo alla sacra Scrittura (Dei Verbum, 22) e perché sia ulteriormente incrementato il numero delle traduzioni della sacra Scrittura e la loro capillare diffusione. Ciò sia fatto anche in collaborazione con le diverse Società Bibliche".
Alla luce di quanto è stato detto in assemblea sinodale, tre elementi, fra gli altri, si possono rilevare: il riconoscimento di un servizio ormai collaudato alla Parola di Dio nella fedeltà al concilio Vaticano II, l’attenzione ai bisogni di fede del popolo di Dio e che suonano come sfide, il rinnovato impegno da prendere perché secondo le parole del grande testimone Paolo, "la parola del Signore corra e sia glorificata "(2 Tessalonicesi, 1, 3).
La Federazione Biblica Cattolica (Fbc) festeggia i suoi 40 anni. Non si tratta qui di rivisitare la storia - per questo si veda il ricco sito in quattro lingue in www.c-b-f.org - ma di richiamare alcuni fattori sostanziali che hanno retto fin qui il lavoro della Fbc.
Anzitutto l’eccellenza delle origini. La Fbc è stata voluta direttamente da Paolo VI all’indomani del concilio(16 aprile 1969) in attuazione della costituzione sulla Divina Rivelazione Dei Verbum. Questa connessione con la Parola di Dio secondo la lettera e lo spirito del concilio rappresenta la sorgente permanente dell’impegno della Federazione perché la Parola arrivi a tutto il popolo di Dio iniziando alla Bibbia secondo la fides ecclesiae Affermando negli statuti che le conferenze episcopali del mondo sono membri ordinari della Fbc - e oggi ciò vale per quasi tutte - e inserendo questa nel Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani Paolo VI ha inteso dichiarare ancora più esplicitamente che l’incontro con la Scrittura non è comparabile con una devozione popolare fra le tante, poiché si tratta di una componente intrinseca alla vita della Chiesa, è un’esperienza squisitamente teologico-ecclesiale
Prova ne sia la fioritura veramente cattolica della Fbc, presente in 134 paesi, con una straordinaria testimonianza di pluralismo nella unità della fede grazie a un uso vivace e vitale con la Scrittura nella fede della Chiesa. Segni indicatori sono le sette assemblee plenarie nei diversi continenti, l’ultima in Tanzania, l’organizzazione bene articolata e armonica, la rivista trimestrale Dei Verbum in edizione francese, inglese, spagnola, tedesca, sempre ricca di dati altrimenti non raggiungibili. Una parola a sé merita il convegno mondiale per i 40 anni di Dei Verbum, tenuto a Roma nel settembre del 2005, con una speciale udienza del Papa.
È stato un quarantennio di lavoro intenso nella triplice direzione della traduzione, diffusione e iniziazione alla Bibbia, con la varietà di pratiche di preghiera, di studio, di carità e la pubblicazione di tanti sussidi. Nell’inchiesta internazionale - unica nel suo genere - organizzata dalla Fbc sulla conoscenza della Bibbia da parte dei cristiani in occasione del sinodo - è apparso tra gli altri un duplice tratto: l’ignoranza quanto mai estesa sulla vera identità della Scrittura, la forte influenza di un contesto pluriculturale e in tante parti sempre più secolarizzato. Il Sinodo ne ha fatto oggetto di riflessione specifica, segnalando le sfide nuove che interpellano e servono la Parola di Dio per i fratelli. Se ne possono indicare alcune.
È auspicabile che tutti i membri della Chiesa possano avere la Bibbia in mano come fonte di fede e di spiritualità. Lo chiede la proposizione 9 del sinodo a seguito di Dei Verbum, 22. Non si pensa a una impossibile realizzazione materiale, quanto piuttosto a un contatto quanto più diffuso con la Bibbia per un cambio di mentalità: è dalla Parola di Dio incontrata nelle tante forme offerte dalla Chiesa, l’Eucaristia anzitutto, che ogni fedele ha assoluto bisogno, tanto più in questo multiculturalismo frammentato e lacerante e in una impostazione globalizzante di pensiero e stile di vita.
Si delinea l’esigenza di inculturazione sempre più compiuta, il che significa una maggior attenzione sul versante teologico al mistero dell’incarnazione che ogni comunicazione della Parola realizza e per questo una rinnovata competenza di dialogo con le diverse culture e religioni. Non basterebbe tradurre e vendere Bibbie se non si rafforzasse l’atteggiamento della fede, sempre più intenso, nell’accogliere la Bibbia. Tutto ciò comporta da parte degli animatori un atteggiamento di amore certamente al Libro, ma anche alle persone che lo ricevono.
È urgente perciò anche un ripensamento del servizio della Fbc nella sua globalità, precisando meglio la propria identità riguardo agli obiettivi, ai servizi, alla stessa organizzazione interna. In tempi di così grande accelerazione, per cui Paolo invita a pregare perché "la Parola di Dio corra" (2 Tessalonicesi, 3, 1), non può essere che i servitori stiano seduti. Del resto è la validità del lavoro fin qui compiuto che vuole e garantisce la bontà del cambio.
In questa dinamica di rinnovamento si inserisce la richiesta sinodale di una più efficiente "collaborazione con le diverse Società Bibliche". Nel citato grande incontro internazionale del 2005, Benedetto XVI affermava: "Un ringraziamento speciale va alla Federazione Biblica Cattolica per la sua attività, per la pastorale biblica che promuove, per l’adesione fedele alle indicazioni del magistero e per lo spirito aperto alla collaborazione ecumenica in campo biblico". È utile a questo punto ricordare alcune tra le maggiori sfide che attendono la federazione.
Dato l’esiguo numero di traduzioni bibliche specialmente in Africa, si fa prioritario l’impegno a investire ancora di più in tale settore, collaborando più intensamente con le Società bibliche con le quali al tempo del Sinodo si è concluso un preciso accordo in tale senso, potenziando con la traduzione e la diffusione, l’educazione alla Scrittura come libro della fede.
In questa direzione la Fbc accoglie l’invito esplicito di Benedetto XVI nella citata udienza in cui raccomanda "quale punto fermo della pastorale biblica, la Lectio divina, (che) va perciò ulteriormente incoraggiata, mediante l’utilizzo anche di metodi nuovi, attentamente ponderati, al passo con i tempi". Proprio in questo ambito la Fbc ha in sé esperienze notevoli che sarà bene mettere a conoscenza di tutta la Chiesa. In terzo luogo, la recente enciclica di Benedetto XVI Caritas in veritate, continuando le due precedenti sottolinea fortemente il rapporto tra ascolto della Parola e attuazione di essa in una prassi di speranza e di carità , secondo la tradizione evangelica. È una ulteriore spinta perché la Fbc continui ancora di più nella strada di promuovere "riconciliazione, giustizia e pace", sollecitata in ciò dalle giovani chiese, verificando così l’autenticità del suo servizio della Parola che vuol essere pane totale per i poveri.
Di fronte a tali obiettivi, è urgente avviare una revisione approfondita della struttura della Federazione, dove l’autonomia delle singole regioni si salda con una visione ecclesiale comune di problemi e soluzioni. Ciò richiede una profonda riflessione dei diversi ambiti della Federazione. Nell’incontro da preparare sarà importante fare della nostra migliore memoria, come è proprio della visione biblica, la nostra migliore profezia. Penso sia il modo più adeguato di onorare i quarant’anni di questa Federazione Biblica Cattolica mondiale che non pochi frutti ha portato nella Chiesa.
(©L’Osservatore Romano - 23 agosto 2009)
La notizia che taglia ma non divide
I dati dell’inchiesta della Federazione biblica cattolica confermano che la Bibbia, nonostante i problemi che ancora permangono, è il luogo che permette un più robusto incontro tra i cristiani. La Pontifica Commissione Biblica, già in passato, parlava di un "imperativo ecumenico(...) per tutti i cristiani (...) a rileggere i testi ispirati, nella docilità allo Spirito Santo, nella carità, nella sincerità e nell’umiltà". Il dialogo ecumenico sarà più fruttuoso se, concentrandosi spiritualmente sulla Parola di Dio, cederà il posto al dialogo di Dio con tutti i cristiani, e solo successivamente al dialogo dei cristiani tra loro. La via dell’ascolto, del primato dell’ascolto di Dio, è quella che permette di superare più facilmente anche quel malessere che oggi appare qua e là nel dialogo tra i cristiani. Benedetto XVI sottolinea con particolare forza l’indispensabile atteggiamento di ascolto anche per il movimento ecumenico: "Non siamo infatti noi a fare o a organizzare l’unità della Chiesa. La Chiesa non "fa" se stessa e non vive di se stessa, ma dalla Parola creatrice che viene dalla bocca di Dio. Ascoltare insieme la Parola di Dio, praticare la Lectio divina della Bibbia, cioè la lettura legata alla preghiera, lasciarsi sorprendere dalla novità, che mai invecchia e mai si esaurisce, della Parola di Dio, superare la nostra sordità per quelle parole che non si accordano con i nostri pregiudizi e le nostre opinioni, ascoltare e studiare nella comunione dei credenti di tutti i tempi: tutto ciò costituisce un cammino da percorrere per raggiungere l’unità della fede, come risposta all’ascolto della Parola".
Molteplici sono le iniziative, in tutte le parti del mondo, che vedono cristiani delle diverse tradizioni riunirsi attorno alle sante Scritture. Una sottolineatura va fatta rispetto alla collaborazione tra le diverse chiese e comunità ecclesiali promossa sia delle Società bibliche che dalla Federazione biblica cattolica in rapporto alla traduzione e alla diffusione delle sacre Scritture. Oltre le numerose realizzazioni già compiute, sono in atto più di 800 progetti comuni di traduzione o revisione della Bibbia nelle lingue di tutto il mondo. A tutt’oggi sono stati distribuiti circa 500 milioni di testi biblici ogni anno (Bibbie, Nuovi Testamenti, singoli libri biblici o loro selezioni).
Molto resta da fare se si pensa che la Bibbia è stata già tradotta in 2454 lingue diverse (interamente in 438, il solo Nuovo Testamento in 1168, e solo alcuni libri, ad esempio i Vangeli o i Salmi, in altre 848), ma restano ancora altre 4500 lingue in attesa di essere confrontate con le sante Scritture. Se poi si calcola che le Società Bibliche hanno distribuito nel 2006 circa 26 milioni di Bibbie, vuol dire che si è raggiunto solo l’1 per cento o il 2 per cento dei 2 miliardi di cristiani. È significativo che l’apostolato biblico, ancora oggi, ha i suoi "testimoni", i suoi "martiri", anche solo per la distribuzione delle Bibbie. Basti ricordare l’ultima testimone: il 16 giugno scorso è stata giustiziata dal regime della Corea del Nord la signora Ri Hyon-ok, di 33 anni, sposata e madre di tre figli, con l’accusa di aver "distribuito Bibbie". È un esempio e un seme fecondo per l’unità dei cristiani.
(©L’Osservatore Romano - 23 agosto 2009)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Per leggere i testi, cliccare sul titolo:
"DEUS CARITAS EST": LA VERITA’ RECINTATA!!!
"Dopo la "Deus caritas est", la seconda enciclica: "Spe salvi".
"CARITAS IN VERITATE": FINE DEL CRISTIANESIMO.
AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
PREMESSA
LA PREGHIERA AL "PADRE NOSTRO" E IL "NON CI INDURRE IN TENTAZIONE". MA CHI E’ IL "PADRE NOSTRO": DIO ("CHARITAS") O MAMMONA ("CARITAS")?!
“Padre Nostro”: ci sono voluti 50 anni perché il Vaticano non bestemmiasse più Dio
di Henri Tincq
in “www.slate.fr” del 30 ottobre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Rivoluzione nelle fila cattoliche. Ad una scadenza ancora incerta - 2014? 2015? - i fedeli francofoni non reciteranno più la loro preghiera quotidiana favorita, il Padre Nostro, secondo la formulazione in uso da subito dopo il Concilio Vaticano II, quasi cinquanta anni fa (1966). La sesta “domanda” di questa celebre preghiera in forma di suppliche successive fatte a Dio - “Et ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione) - sarà soppressa e sostituita da “Et ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione). Non si tratta di un dettaglio o di una disputa bizantina. È l’epilogo di una battaglia di esperti che dura da mezzo secolo.
La Chiesa pensa di avere l’eternità davanti a sé. Le sono stati necessari 17 anni di lavoro e la collaborazione di 70 traduttori - esegeti, biblisti, innografi - per giungere a questo risultato. 17 anni, è il tempo che è stato necessario per la nuova traduzione integrale della Bibbia liturgica, che, per la Francia, sarà adottata l’8 novembre dai vescovi e che sarà in vendita nelle librerie a partire dal 22 novembre.
Quegli eminenti traduttori sono partiti dai testi originali in aramaico, in greco, in ebraico, e non più dalle traduzioni già esistenti. Ed è questo aggiornamento radicale che ha permesso a questi studiosi, con l’accordo del Vaticano, di giungere alla redazione di un nuovo Padre Nostro, più soddisfacente e più corretto teologicamente.
Il Padre Nostro è la preghiera di base di tutti i cristiani, indipendentemente dalla loro confessione, cattolica, protestante, ortodossa o anglicana. Essa è tanto più sacra in quanto, secondo i vangeli di Luca e di Matteo, è stata insegnata direttamente da Cristo stesso. “Signore, insegnaci a pregare”, gli chiedevano gli apostoli. La risposta di Gesù si trova nelle parole del Padre Nostro, preziosamente riprodotte - “Padre Nostro che sei nei cieli...” - che risalgono così a due millenni fa. Ritrascritta dal greco al latino, è stata poi tradotta nelle lingue parlate del mondo intero.
Questa preghiera, la più comune dei cristiani, può essere recitata o cantata in qualsiasi momento della giornata. Non è codificata come la preghiera dell’islam (cinque volte al giorno e ad ore fisse). Compare in ogni celebrazione della messa dopo la preghiera eucaristica. È anche recitata in tutte le assemblee ecumeniche. È il segno di una volontà di riconciliazione e di unità di tutte le confessioni cristiane, nate dallo stesso vangelo, ma separate dalle loro istituzioni.
Ma perché cambiare oggi un simile monumento della spiritualità cristiana, sul punto preciso della tentazione? Un punto centrale nell’antropologia cristiana. Secondo i vangeli, Cristo ha trascorso quaranta giorni nel deserto ed è stato tentato da Satana: tentazione dell’orgoglio, del potere, del possesso (Matteo 4,11). Gesù stesso ha detto ai suoi apostoli nel giardino del Getzemani, la sera della sua passione, proprio prima del suo processo e della sua morte in croce: “Pregate per non entrare in tentazione”.
Precisamente, cinquant’anni fa, un errore di traduzione è stato commesso a partire dal verbo greco eisphérô che significa letteralmente “portar dentro”, “far entrare”.Questo verbo avrebbe dovuto essere tradotto con: “Ne nous induis pas en tentation” (non indurci in tentazione) o con “Ne nous fais pas entrer en tentation” (non farci entrare in tentazione). I traduttori del 1966 hanno preferito la formula “Ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione).
Formula contestata. Controsenso, se non addirittura bestemmia, si protesta in seguito. Come è possibile che Dio, che nell’immaginario cristiano è “infinitamente buono”, possa “sottoporre” l’uomo alla tentazione del peccato e del male? È insostenibile.
Tale forma equivoca è stata tuttavia letta dal pulpito in tutte le chiese del mondo francofono, pregata pubblicamente o intimamente da milioni e milioni di cristiani, inducendo, in menti non competenti, l’idea di una sorta di perversità di Dio, che chiede ai suoi sudditi di supplicarlo per sfuggire al male che lui stesso susciterebbe!
Oggi si torna quindi ad una formulazione più corretta: “Et ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione). Così il ruolo di Dio è compreso meglio, riabilitato. Dio non può tentare l’uomo. La tentazione è opera del diavolo. È Dio, invece, che può impedire all’uomo di soccombere alla tentazione.
Ora occorre che i protestanti, gli ortodossi, gli anglicani si allineino su questa nuova formulazione cattolica. Nel 1966, i teologi cattolici, protestanti, ortodossi si erano alleati per riflettere su una traduzione veramente ecumenica (con gli stessi termini) del Padre Nostro, che non esisteva prima della rivoluzione del Concilio Vaticano II. Avevano proposto un testo comune alle loro Chiese, che lo avevano adottato. Senza dubbio oggi si metteranno nuovamente d’accordo per ratificare la nuova preghiera nei termini già definiti dai cattolici. Anche solo per smentire coloro che si lamentano dello stato di avvicinamento ecumenico che avrebbe perso vigore e si preoccupano del risveglio di riflessi comunitari.
ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA LETTERA DI GIACOMO, DA *
[...] Agapan è il verso dell’amore gratuito, oblativo e fedele capace di porre l’amato al di sopra di tutto, anche di se stessi e di ogni proprio interesse. È la prima indicazione dello shema’ Israel: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze» (Dt 6,4-5; Mt 22,34-40).
1,13-15: Riprendendo una riflessione del Siracide (Sir 15,11-17: «Non dire: Mi sono sviato per colpa del Signore, perché Egli non fa ciò che detesta»), Giacomo ribadisce che la tentazione non viene da Dio, che detesta il male e non spinge nessuno al male. Essa viene piuttosto dal cuore dell’uomo, da cui si producono pensieri desideri e azioni cattive, che contaminano l’uomo (Mt 15,15-20).
Si descrive poi la genesi del peccato a partire dal cuore: la concupiscenza (epithymia), desiderio smodato e possessivo, che pretende l’afferrare immediato dell’oggetto del proprio godimento, trascina (exelkomenos) e seduce (deleazomenos), portando a concepire (syllabousa) il peccato già nell’intimo del cuore, sino a partorirlo (tiktei amartian). Una volta portato a compimento (apotelestheisa), il peccato procura la morte (apokyei thanaton). La seduzione da parte della concupiscenza è descritta al pari del fascino perverso della donna sfacciata, della maritata in veste di prostituta che compare nei Proverbi (Pr 7,6-27): essa si fa strada con dolce lusinga, sino a far cadere in trappola. Analoga descrizione quasi psicologica del generarsi del peccato dal desiderio la si trova nei Salmi: «Ecco, l’empio produce ingiustizia, concepisce malizia, partorisce menzogna» (Sal 7,15).
Il processo verso il peccato, sotto il pungolo lusinghiero della tentazione è descritto in Gen 3: la donna fa spazio nel suo cuore alla parola del tentatore che fa concepire al suo cuore il desiderio, sino alla consumazione dell’atto trasgressivo, che tende a propagarsi, procurando divisione e morte. Giacomo descrive in modo paradossale un processo generativo interno al cuore, pari a quello che accade nel grembo di una donna, il quale, tuttavia, anziché produrre vita genera morte.
Non si tratta qui con buona probabilità della morte in senso escatologico, quale pena eterna dei dannati; si tratta piuttosto di una situazione esistenziale e spirituale ormai incapace di produrre frutti di opere buone. Più avanti, nella terza parte, l’apostolo riprende la riflessione sui desideri smodati del soggetto che procurano guerre e divisioni, diventando peccati sociali, generatori di una cultura di morte (4,1-2).
b) 1,16-17: Il secondo passo, descrive un movimento contrapposto al primo: l’uomo, cogliendo la sua fragilità apre il suo cuore verso l’alto, implorando il dono buono e perfetto (pasa dosis agathe kai pan dorema teleion) della Sapienza, che proviene dal Padre della luce. Questi è descritto ancora nei suoi tratti essenziali di chi non ha alterazione (parallaghe), né ombra di mutazione (tropes aposkiasma), tratti che rafforzano l’idea già sopra espressa di una generosità tutta luminosa, senza ombre né pentimento [...]
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http://www.diocesilucca.it/documenti/sussidio_lettera_giacomo.pdf
Il nuovo Messale in inglese e l’eredità del Concilio
di Massimo Faggioli
in “popoli” dell’ottobre 2011
Nella prima domenica di Avvento (27 novembre) la Chiesa cattolica degli Stati uniti - al pari di quelle di Gran Bretagna, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda - inizierà a usare la nuova traduzione inglese del Messale romano.
Il cambiamento avviene dopo un lungo iter in cui non sono mancate tensioni tra Roma e la Chiesa statunitense, né divisioni all’interno di quest’ultima. È utile dunque ricostruire brevemente le tappe di una vicenda che, seppure estremamente importante per il mondo cattolico, ha avuto scarsa eco in Italia. Dopo l’approvazione, durante il Concilio Vaticano II, della Costituzione sulla Sacra liturgia Sacrosanctum Concilium (1963), avvenuta anche grazie all’appoggio decisivo dei vescovi americani, nel 1973 fu approvata da Roma e iniziò a essere usata nelle chiese statunitensi la prima traduzione del Messale dal latino all’inglese realizzata da Icel (International Commission on English in the Liturgy), commissione fondata proprio durante il Concilio dalle Conferenze episcopali anglofone.
Tra 1994 e 1998 la Congregazione per il culto divino iniziò a manifestare obiezioni nei confronti delle nuove traduzioni in lingua inglese dei testi liturgici fatte secondo il principio della «equivalenza dinamica».
Nel 1999 il cardinale Medina escluse l’«equivalenza dinamica» come metodo accettabile. Il passo successivo fu l’istruzione vaticana Liturgiam authenticam del 2001, tuttora in vigore e valida per tutte le Chiese, secondo la quale le nuove traduzioni devono seguire il principio di «equivalenza formale»: ogni parola latina deve avere un corrispondente nella traduzione, e sintassi, punteggiatura e vocabolario della lingua latina devono essere riprodotti fedelmente.
Nel 2002 iniziò l’emarginazione di Icel come luogo di elaborazione dei testi liturgici in lingua inglese, a favore di un nuovo organismo di creazione vaticana, Vox Clara, che dipende dalla Congregazione per il culto divino; Icel fu riorganizzata in modo da non rispondere più ai vescovi ma al Vaticano. Iniziò in quel periodo il lavoro per una nuova traduzione inglese del Messale.
Nel 2008 la nuova traduzione preparata da Icel fu presentata e subito subissata di critiche da parte di molti teologi e liturgisti anglofoni quanto alla qualità della traduzione; il testo fu comunque inviato a Roma per l’approvazione. Vox Clara introdusse a questo testo circa 10mila modifiche, il Vaticano approvò e inviò il nuovo Messale ai vescovi perché venisse introdotto all’inizio dell’anno liturgico 2011-2012.
Nel corso degli ultimi due anni il dibattito si è acceso in ogni Paese anglofono toccato dalla nuova traduzione del Messale. Negli Stati Uniti esso è stato particolarmente intenso non solo per la consistenza numerica della Chiesa cattolica (67 milioni di fedeli, circa il 23% dei cittadini adulti), ma anche per il ruolo decisivo giocato, tra Icel e Vox Clara, dal cardinale Francis George, arcivescovo di Chicago e fino alla fine del 2010 presidente della Conferenza episcopale Usa (Usccb), la quale è stata teatro di numerose e palesi irregolarità procedurali finalizzate a far passare il testo «romano» senza possibilità di intervento da parte dei vescovi.
Dall’assemblea della Usccb del novembre 2009 buona parte dei liturgisti americani ha cercato di rimettere in discussione il nuovo Messale. Fino all’inizio del 2011 i vescovi e teologi americani erano ancora divisi sulla sua accettabilità; negli ultimi mesi, però, i critici hanno pubblicamente rinunciato a portare avanti la loro «resistenza» in nome dell’unità della Chiesa americana. Noti liturgisti che avevano contestato la qualità linguistica e teologica del nuovo Messale si sono messi a disposizione dei vescovi, al fine di limitare i danni nel corso del delicato processo di recezione.
Anche tra il laicato statunitense le critiche sono proseguite (si veda, per esempio, il sito www.whatifwejustsaidwait.org) fino all’inizio del 2011, quando anche i più convinti oppositorihanno dichiarato la loro disponibilità a lavorare per una migliore recezione del nuovo Messale, al fine di non lacerare la comunione ecclesiale.
Ma quali sono le principali critiche rivolte al nuovo Messale? C’è anzitutto un problema di chiarezza del testo: la nuova traduzione, che ha dovuto mantenere la struttura della frase latina, è ricca di espressioni complesse non facilmente comprensibili da un anglofono medio.
C’è poi un problema di lunghezza delle frasi: per esempio, la lunghezza delle frasi delle preghiere eucaristiche del nuovo Messale (aumentate mediamente del 78% rispetto al precedente) fa diventare quei testi totalmente estranei al ritmo della lingua inglese.
Infine, ci sono rilevanti cambiamenti di formule ormai entrate a far parte della lingua liturgica dopo il Concilio. Un esempio: quando il sacerdote dice «Il Signore sia con voi», ora anche gli anglofoni, come facciamo noi italiani, risponderanno «And with your spirit» («E con il tuo spirito»), formula certo più aderente al latino, ma ben diversa dall’espressione colloquiale, «And also with you» («E anche con te»), a cui erano abituati. Ancora: durante la consacrazione del vino, al posto di «cup» ci sarà l’arcaico «chalice».
E l’espressione «For you and for all» («Per voi e per tutti») sarà sostituita da «For you and for many» («Per voi e per molti»): in quest’ultimo caso, tra l’altro, è evidente che con la nuova traduzione si è voluto trasmettere un contenuto teologico particolare, una questione che va al di là della maggiore o minore vicinanza ai testi latini.
Del resto tutta la vicenda dell’elaborazione del nuovo Messale ha significati più profondi di una semplice controversia linguistica. Colpiscono due aspetti, collegati tra loro. In primo luogo, chi vive in America sa che la qualità liturgica nelle chiese cattoliche è notoriamente molto alta: dal punto di vista della solennità, della musica, della cura delle letture e degli arredi sacri, ecc.
I motivi sono molti, specialmente per quanto riguarda la musica (tra cui un interessante fenomeno di migrazione verso la cultura cattolica di una tradizione liturgica congregazionale-protestante), ma in particolare vi è il successo del processo di recezione della riforma liturgica del Concilio negli Usa, come ha evidenziato il recente studio di Mark Massa, The American Catholic Revolution: How the ’60s Changed the Church Forever (New York, Oxford University Press, 2010).
Al contrario di altri casi additati dai nostalgici, la riforma liturgica conciliare in America non ha dato luogo ad «abusi» né alla distruzione di un patrimonio rituale - molto cattolico e molto americano - che è ancora forte e sentito. Dunque, delle tante riforme di cui gli anti-conciliari o i cattolici conservatori americani potrebbero sentire il bisogno, quella della liturgia è percepita come la meno urgente.
In secondo luogo, è evidente che al cuore delle tensioni tra Roma e le Chiese anglofone, e all’interno di queste, vi è la consapevolezza che la riforma liturgica del Concilio è «il» simbolo del Vaticano II e in qualche modo il custode della sua ecclesiologia. Quanti attaccano la riforma liturgica sanno bene che il Vaticano II è ancora sulla strada di una sua «canonizzazione», ovvero di una sua stabilizzazione culturale come nuova forma espressiva della fede cattolica.
Modificare la liturgia del Concilio (e in questo caso, latinizzarne la lingua) può essere letto come un sottinteso appello a rimettere in discussione tutto il resto del Vaticano II.
La nuova traduzione in inglese del Messale appare dunque un terreno di confronto circa l’interpretazione del Concilio: un confronto particolarmente delicato e dall’esito incerto per un cattolicesimo, come quello anglofono, culturalmente poco attaccato alle nostalgie dell’età tridentina.
Perché non dire: “Aspettate”?
Per una revisione dalla base del nuovo Messale Romano
di Michael G. Ryan ("America” del 14 dicembre 2009 - traduzione: www.finesettimana.org)
Sono ora 45 anni da quando il Concilio Vaticano Secondo promulgò l’innovativo e liberante documento sulla sacra liturgia, Sacrosantum Concilium. A quel tempo, da zelante ed entusiasta seminarista del Pontificio Collegio Americano del Nord, ero in Piazza S. Pietro nel giorno di dicembre del 1963 in cui Papa Paolo VI, con i vescovi del mondo, presentò quella grande Magna Carta alla chiesa. Il documento conciliare trascendeva le politiche ecclesiali. Non era solo il progetto favorito di una parte, ma lo schiacciante consenso dei vescovi del mondo. La sua adozione passò con una maggioranza schiacciante: 2147 a 4.
Mai avrei pensato, nemmeno nei miei sogni più folli, di arrivare nella mia vita ad assistere a ciò che appare sempre di più come il sistematico smantellamento della grande visione del decreto conciliare. Ma ci sono arrivato. Noi cattolici ci siamo arrivati.
A dimostrazione di ciò, è sufficiente guardare alle recenti istruzioni della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che hanno elevato il rubricismo a una forma d’arte, oppure il sostegno, persino l’incoraggiamento, alla cosiddetta Messa Tridentina. È divenuto dolorosamente chiaro che la liturgia, la preghiera del popolo, viene usata come uno strumento - qualcuno direbbe persino come un’arma - per portare avanti determinate agende. Ed ora all’orizzonte sono le nuove traduzioni del Messale Romano che presto raggiungeranno gli stadi finali di approvazione da parte della Santa Sede. Fra non molto ai preti di questa nazione sarà detto di portare le nuove traduzioni alla loro gente per mezzo di un programma di formazione attentamente orchestrato che tenterà di dare un’apparenza positiva a qualcosa che chiaramente non la merita.
Ai veterani, che da giovani preti nei passati anni Sessanta hanno entusiasticamente dedicato le proprie migliori energie creative per far accettare le riforme del concilio ai parrocchiani, sarà chiesto di fare lo stesso riguardo alle nuove traduzioni. Tuttavia saremo in difficoltà nel fare questo. Alcuni colleghi nel ministero potranno forse apprezzare l’opportunità, ma non quelli di noi che furono catturati dalla grande visione del Vaticano II, che conoscevano di prima mano la Messa Tridentina ed la amavano per quello che era, ma che accolsero positivamente il suo tramontare per ciò che una piena, consapevole e attiva partecipazione avrebbe significato per il nostro popolo. Possiamo vedere il momento presente solo come un ulteriore assalto al concilio e, tristemente, un ulteriore colpo alla collegialità episcopale. È stato infatti il concilio a dare alle conferenze episcopali l’autorità di di produrre le proprie traduzioni (S.C., n° 36, 40), che devono essere approvate, certamente, dalla Santa Sede, ma su cui essa, presumibilmente, non dovrebbe avere l’iniziativa né il controllo fin nei minimi dettagli. Inoltre, il concilio ha saggiamente previsto tempi di sperimentazione e valutazione (S.C., n° 40) - qualcosa che è evidentemente mancato nel presente caso.
Questo mi porta a porre una domanda ai miei fratelli preti: perché non aprire gli occhi sul fatto che questi testi non sono né pastorali né pronti per le nostre parrocchie? Perché non dire semplicemente: “Aspettate”?
Preghiera e buon senso
So che parlare in questo modo potrebbe apparire come insubordinazione, ma potrebbe essere anche una manifestazione di lealtà e semplice buon senso - lealtà non ad un’agenda ideologica, ma al nostro popolo, la cui preghiera le nuove traduzioni si proporrebbero di migliorare, e buon senso per chiunque si fermi a riflettere su qual è la posta in gioco qui.
Quello che è in gioco, mi sembra, è nientemeno che la credibilità della chiesa. È vero che la chiesa potrebbe guadagnare in credibilità fornendoci traduzioni più belle, ma goffo non equivale a bello, e ricercato non significa adatto alla preghiera. Durante una recente conversazione a cena con amici, la questione delle nuove traduzioni è venuta fuori. Due dei commensali erano ben consapevoli - e piuttosto indignati - delle imminenti modifiche; due non lo erano. Quando i non informati hanno sentito qualche esempio1, la loro reazione è stata fra l’incredulità e l’indignazione.
Uno dei convitati ha azzardato l’opinione che con tutto quello che la chiesa ha sul suo piatto oggi - sfide globali rispetto alla giustizia, la pace, l’ambiente; continui scandali; una grave mancanza di preti; la crescente disillusione di molte donne; una seria diminuzione della frequenza ai riti - sembra quasi assurdo continuare a portare avanti un’agenda che sembra nel migliore dei casi insignificante e nel peggiore completamente scollegata dalla realtà.
La reazione dei miei amici non dovrebbe sorprendere chiunque abbia avuto l’opportunità di esaminare le nuove traduzioni. Alcune di esse hanno dei pregi, ma molte, troppe, non ne hanno. Recentemente l’Arcidiocesi di Seattle ha promosso un seminario sulle nuove traduzioni rivolto agli incaricati laici e al clero. Sia il prete che conduceva il seminario (un valido teologo liturgista) sia i partecipanti si erano ivi riuniti in buona fede. Quando alcuni passaggi dalle nuove proposte traduzioni sono stati letti ad alta voce, con tono serio, dall’oratore (ricordo in particolare la frase dalla prima preghiera eucaristica che attualmente dice “Giuseppe, suo marito”, ma che nella nuova traduzione diventa “Giuseppe, coniuge della stessa vergine”2), si è sentito chiaramente ridere nella stanza. Mi sono trovato a pensare che l’idea che questo avvenga durante la sacra liturgia non è un problema di riso, ma qualcosa che dovrebbe farci tutti tremare.
C’è di più: l’agghiacciante accoglienza che il popolo delle diocesi del Sud Africa ha dato alle nuove traduzioni. Con una straordinaria svista, i vescovi di quella nazione hanno mal interpretato le istruzioni da Roma e, dopo un attento programma di catechesi nelle parrocchie, hanno presentato le nuove traduzioni alla loro gente alcuni mesi fa. Le traduzioni hanno incontrato quasi ovunque un’opposizione al limite dell’oltraggio.
Non è mia intenzione qui discutere in dettaglio gli scorretti principi di traduzione che stanno dietro a questa operazione o le traduzioni deboli e inconsistenti che ne sono risultate. Altri lo hanno già fatto abilmente. Né voglio insistere sul fatto che coloro che hanno predisposto le traduzioni sembrano essere più versati in latino che in inglese. No, la mia preoccupazione è per il passo che sta davanti a noi: la prospettiva di rendere effettive le nuove traduzioni. Questo mi riporta alla mia domanda: perché non dire semplicemente: “Aspettate”?
Perché noi, i parroci di questa nazione che avranno l’onere della messa in pratica, non ritroviamo la nostra voce e diciamo ai nostri vescovi che vogliamo aiutarli ad evitare un fallimento quasi certo? Perché non diciamo loro che pensiamo che non sia saggio rendere effettive queste modifiche fino a quando i membri del nostro popolo non siano stati consultati in una maniera adulta che veramente onori la loro intelligenza e il loro essere battezzati? Perché non dire semplicemente: “Aspettate, non fino a quando il nostro popolo sia pronto per le nuove traduzioni, ma fino a quando le traduzioni non siano pronte per il nostro popolo”?
Ascoltare i nostri istinti pastorali
I vescovi hanno fatto del loro meglio, ma fino ad ora non hanno avuto successo. Alcuni di essi, guidati dal coraggioso e franco ex-presidente della Commissione Episcopale sulla Liturgia, il vescovo Donald Trautman di Erie, Pennsylvania, hanno provato a fermare il treno delle nuove traduzioni, ma inutilmente. La conferenza episcopale, messa ai margini e sfiancata dalle battaglie, ha permesso a se stessa lentamente ma stabilmente di essere logorata. Dopo un po’ la voglia di
combattere semplicemente non c’era più. L’acquiescenza ha preso piede fino al punto che minuscoli miglioramenti (una parola qui, una virgola là) fossero visti come importanti vittorie. Senza nemmeno volerlo, i vescovi hanno abbandonato i loro migliori istinti pastorali e così facendo hanno rinunciato ai migliori interessi del loro popolo. Così sorge la domanda: anche noi preti abbiamo intenzione di rinunciare? Anche noi abbiamo intenzione di adeguarci? Certamente noi dobbiamo ai nostri vescovi l’obbedienza e il rispetto a cui ci siamo impegnati il giorno della nostra ordinazione, ma obbedienza significa complicità con qualcosa che percepiamo come sbagliato - o, nel migliore dei casi, irrazionale? Obbedienza significa andare contro i nostri migliori istinti pastorali al fine di promuovere qualcosa che crediamo, alla fine, porterà discredito alla chiesa e ulteriore disillusione al popolo? Penso di no. E il rispetto implica un’adesione solo formale a qualcosa verso cui la nostra reazione più istintiva è di definirla temeraria? Di nuovo, penso di no.
Ecco le mie modeste proposte.
Perché i pastori, i consigli pastorali, le commissioni liturgiche e i consigli presbiterali non si appellano ai loro vescovi chiedendo un tempo di riflessione e consultazione sulle traduzioni e sul processo attraverso il quale saranno date al popolo? È ironico, a dire il meno, che impieghiamo ore per la consultazione quando si progetta di ristrutturare una chiesa o una sala parrocchiale, ma poco o nessun tempo quando si vuole “ristrutturare” la stessa lingua della liturgia.
Perché, prima di rendere effettive le nuove traduzioni, non facciamo alcuni “esperimenti di mercato”? Perché in ciascuna regione ecclesiastica non si scelgono alcuni posti per sperimentare le nuove traduzioni: parrocchie urbane e parrocchie rurali, parrocchie ricche e parrocchie povere, parrocchie grandi e multiculturali e parrocchie piccole, comunità religiose e campus universitari? Perché non utilizzare in queste prescelte comunità, per il tempo di un intero anno liturgico, le nuove traduzioni, con una catechesi attentamente progettata e una valutazione approfondita e onesta? Un tale esperimento non fornirebbe preziose informazioni sia per i traduttori che per i vescovi? E un tale esperimento non renderebbe molto più facile la messa in opera delle nuove traduzioni una volta pronte?
In breve, perché non dovremmo fidarci dei nostri migliori istinti e difendere il nostro popolo da questo mal concepito sconvolgimento della sua vita di preghiera? Perché la collegialità, il dialogo e una realistica consapevolezza dei bisogni pastorali del nostro popolo non dovrebbero essere introdotti in questa fase finale della partita? È impossibile pensare che potremmo aiutare la chiesa che amiamo a evitare un fallimento o persino un disastro? Ed è impossibile pensare che le voci nella chiesa che hanno deciso che la latinità è più importante della lucidità potrebbero finire per ascoltare il popolo e rivedere la loro posizione, e che le frasi prolisse, sgraziate e goffe potrebbero essere ridotte, lasciando posto a traduzioni nobili, persino poetiche di testi bellissimi e antichi che sarebbero veramente degni della nostra più grande preghiera, degni della nostra lingua e degni del santo popolo di Dio di cui questa preghiera è? (Se pensate che la precedente frase sia sgraziata, aspettate di vedere alcune delle nuove traduzioni del Messale. Potrebbero essere leggibili, ma al limite dell’impronunciabile!)
“Perché non dire semplicemente di no?” era il mio titolo di lavoro per questo articolo. “Perché non
dire semplicemente: “Aspettate”?” sembra preferibile. Il dialogo è meglio della diatriba, come il
Concilio Vaticano Secondo ha ampiamente dimostrato. Che dunque il dialogo cominci. Perché non
permettere ai preti che sono in prima linea e ai laici che pagano i conti (compresi i salari di preti e
vescovi) di esprimersi su come dovrebbero pregare? Se pensate che questa idea abbia valore, vi
invito a visitare il sito www.whatifwejustsaidwait.org e a far sentire la vostra voce. Se i nostri vescovi
conosceranno la profondità della nostra preoccupazione, forse non si sentiranno così soli.
—
Il rev. Michael G. Ryan è pastore della Cattedrale di S. Giacomo a Seattle dal 1988 e membro del comitato direttivo della Conferenza nazionale dei Ministri di Cattedrali
1 N.d.t.: qui il testo originale inserisce fra parentesi alcuni esempi (“and with your spirit”; “consubstantial with the
Father”; “incarnate of the Virgin Mary”; “oblation of our service”; “send down your Spirit like the dewfall”; “He took
the precious chalice”; “serene and kindly countenance”) che non traduciamo.
2 N.d.t.: letteralmente, “Joseph, her husband” e “Joseph, spouse of the same virgin”.
La Bibbia in classe. Corso alle superiori nelle ore di italiano
di Marco Garzonio (Corriere della Sera, 18 maggio 2010)
Come l’Eneide, l’Iliade, L’Odissea anche la Bibbia entra nelle scuole. È stato firmato il protocollo d’intesa tra Ministero dell’Istruzione e Biblia (associazione laica e aconfessionale che da anni lavora al progetto) e una commissione mista è all’opera per predisporre proposte e materiali da inviare a tutti gli istituti dopo l’estate. L’innovazione è di portata storica. Si promuoverà infatti la conoscenza della Bibbia all’interno delle diverse materie e in percorsi interdisciplinari. Verranno offerti strumenti didattici e persone competenti per mostrare ai ragazzi come il testo sacro ha permeato opere letterarie, filosofia, arte, storia ed è vivo in esse. Da un punto di vista tecnico non verrà introdotta una nuova materia, né sarà toccata l’ora di religione; di fatto si creeranno le condizioni per aggiornare contenuti e svolgimento dei programmi. Secondo una prima ipotesi ministeriale l’esperienza pilota dovrebbe essere riservata al biennio delle superiori all’interno delle ore di italiano.
Il proposito, insomma, è far ritrovare le radici spirituali del pensiero e delle espressioni poetiche, risalire alla fonte originale là dove i geni dell’umanità hanno tratto materia e ispirazione, creare nessi e scoprire risonanze. Dar spazio alla Bibbia è un modo per destare curiosità negli studenti, dare spessore a insegnamenti che spesso sembrano lontani dalle domande di senso dei giovani. E son tante: anche se loro possono essere goffi o smodati nell’esprimerle, così da creare negli adulti alibi all’incapacità di stare ad ascoltarle e, soprattutto, a comprenderle. Gli effetti di questa moderna rivoluzione pedagogica sono destinati a coinvolgere i nostri figli, certo; ma possono investire imodi della convivenza oggi. In un’epoca in cui pare prevalente la logica del conflitto, proporre la Bibbia nella scuola è porre le premesse per ristabilire una verità spesso in ombra: Ebrei, Cristiani, Musulmani vengono da lì; dal Libro per antonomasia tutti traggono valori religiosi e umani insieme.
Attraverso i riferimenti al testo sacro si possono certo ricostruire diversità, vicende di tensioni e di scontri, ma la frequentazione della pagina ispirata da Dio, il misurarsi con l’attualità del suo messaggio, è anche l’occasione per stare assieme, ritrovarsi, dialogare, individuare riferimenti e progetti comuni. L’esperienza insegna come l’approccio diretto alla Parola divina, il silenzio e il clima di preghiera da essa suscitati avvicinano nel profondo. Sono le teologie, invece, ad indossare spesso l’elmetto, a creare le condizioni per cercar di tirare Dio dalla propria parte, appropriarsene e mettergli una casacca, autocandidarsi ad essere unici interpreti autentici.
Portare la Bibbia nella scuola, senza creare una nuova ora, né pensare a concorrenze con l’insegnamento confessionale della religione cattolica può costituire un’opportunità preziosa per diffondere un messaggio di cittadinanza condivisa, di ricerca pacifica in un destino comune, se l’approccio sarà quello giusto, fatto di grande competenza e di libertà. Sul primo termine del binomio sembra non vi siano dubbi. Alle spalle del movimento promosso da Biblia stanno personalità quali mons. Gianfranco Ravasi, Giuseppe De Rita, Claudio Magris, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Amos Luzzatto, Margherita Hack, Tullia Zevi, per citare solo alcune delle oltre diecimila firme apposte al primo appello a sostegno dell’iniziativa. Ma anche il riferimento alla libertà sembra garantito.
I due protagonisti, il Ministero e gli esperti di Biblia, metteranno a disposizione materiali e anche una qualche risorsa, ma saranno poi i singoli istituti, in omaggio all’autonomia didattica, a decidere di recepire l’invito e di fare proprio il nuovo corso. Presidi e insegnanti, certo, ma anche genitori, famiglie, associazioni che in qualche modo si muovono intorno al mondo della scuola dovranno dimostrare di crederci. E chissà mai che non siano forse gli studenti stessi per primi a chiedere che l’occasione sia colta al volo. Ricambiando la fiducia che viene riposta in loro.
DIO ("CHARITAS") E I DUE ’LIBRI’: IL LIBRO DELLA NATURA E LA BIBBIA.
LA SCIENZA HA CAPITO E CERCA DI CAPIRE "COME VA IL CIELO", LA CHIESA CATTOLICA NON HA CAPITO "COME SI VA IN CIELO" - SI ATTACCA ANCORA ALLA IDEOLOGIA DELLA TERRA E DEL SANGUE (il "geocentrismo") E SOLO OGGI (2010) SI E’ DECISA A SMETTERLA DI MALEDIRE COPERNICO (l’"eliocentrismo")!!!
DEL MESSAGGIO EVANGELICO HA FATTO UN ABILE "PUZZLE" - UN Organismo Gerarchicamente Modificato - E LO CHIAMATO "VANGELO": Il "messaggio" del "Deus caritas"!!!. NON E’ L’ORA DI APRIRE LE PORTE E LE FINESTRE DEL VATICANO ALLA LUCE DEL SOLE?! (Federico La Sala)
Hanno fatto un abile «puzzle» e lo chiamano nuova vita
di Assuntina Morresi (Avvenire, 22 Maggio 2010)
Non è una sfida a Dio l’ultimo risultato ottenuto da Craig Venter e dalla sua équipe, ma una sofisticata operazione tecnologica, un "copia, incolla e metti la firma": non è una creazione dal nulla, piuttosto sono state sapientemente assemblate sequenze di Dna già esistenti in natura, e riprodotte in laboratorio, insieme a qualche sequenza disegnata per "marcare" il genoma ottenuto e distinguerlo dall’originale naturale, una specie di "firma" degli scienziati inserita nel Dna stesso. Il Dna così prodotto in laboratorio è stato poi sostituito a quello di una cellula naturale, che è stata in grado di replicarsi grazie al nuovo patrimonio genetico, cioè seguendo gli "ordini" del Dna sintetico.
Per produrre il genoma in laboratorio non sono stati utilizzati nuovi aminoacidi. I "mattoni" con cui è stato costruito questo Dna sono quelli di sempre, e quindi parlare di «creazione di una nuova vita artificiale» è quanto meno ambiguo, visto che il cromosoma è copiato da quello naturale, e che anche la cellula che ha ospitato il Dna è naturale. D’altra parte ogni organismo geneticamente modificato può essere considerato una «nuova vita artificiale» che si affaccia sul pianeta, con un patrimonio genetico diverso da quelli già esistenti.
In altre parole, i ricercatori del gruppo di Venter hanno composto con grande abilità un enorme puzzle, utilizzando i pezzi già messi a disposizione dalla natura, per realizzare un disegno pressoché identico a quello già tracciato naturalmente. Non sappiamo ancora a quali risultati porterà la nuova procedura tecnica messa a punto: la produzione di biocarburanti piuttosto che importanti applicazioni biomediche. Lo vedremo nel tempo. Per ora, i problemi che pone sono analoghi a quelli di ogni ogm: la valutazione dell’eventuale impatto con l’ambiente naturale, le possibili ripercussioni sulla regolamentazione dei brevetti e sul mercato biotecnologico.
Nell’articolo scientifico pubblicato è evidente la profonda capacità manipolatoria raggiunta dagli scienziati, che li fa parlare addirittura di "design" di cromosomi sintetici, e che indica la necessità di una vigilanza molto attenta per il futuro. La stessa richiesta del capo della Casa Bianca Barack Obama alla Commissione bioetica presidenziale di approfondire le questioni sollevate dall’esperimento è un segnale in tal senso. Ma ad inquietare per ora non è tanto l’esperimento in sé, quanto i toni con cui se ne parla.
È ben noto che Craig Venter è innanzitutto un bravissimo imprenditore di se stesso: sono già stati annunciati per i prossimi giorni documentari in anteprima mondiale su questo studio, a dimostrazione dell’accuratissima preparazione mediatica del lancio della notizia, organizzata su scala planetaria. Una sapiente e spregiudicata strategia di marketing industriale per un mercato enorme come quello che gira intorno alle biotecnologie, nel quale troppo spesso ad annunci trionfali non seguono i risultati promessi.
Fa riflettere, poi, l’enfasi con cui la notizia è rimbalzata sulle prime pagine di tutti i giornali, con evocazioni di immagini bibliche, tipo «assaggiare il frutto dell’albero della vita», o «l’uomo ha creato la vita», o con affermazioni come «progettare una biologia che faccia quel che vogliamo noi», e potremmo continuare con le citazioni.
Che la sfida della conoscenza debba sempre essere presentata come mettersi in arrogante gara con Dio, non rende ragione alla scienza stessa. Il mestiere dello scienziato è quello di cercare di comprendere sempre più a fondo la struttura intima della materia e della vita, ed è frutto di intelligenza - quella stessa che ieri il cardinal Bagnasco ci ha ricordato essere «dono di Dio» - , curiosità e, soprattutto, di umiltà. Significa essere consapevoli di stare di fronte ad un mistero che mentre si fa esplorare ci suggerisce nuove domande, altre questioni da affrontare e conoscenze da mettere a fuoco. Un mistero che svelandosi si mostra infinito.
Assuntina Morresi
IL BIOLOGO
Colombo: «È un cambio di paradigma inquietante»
di Enrico Negrotti (Avvenire, 22 maggio 2010)
«Siamo di fronte a un nuovo paradigma della biologia, che non si limita a conoscere o a sfruttare la natura, ma che passa alla logica della manipolazione totale per essere padrona di una vita costruita dall’uomo in modo artificiale». Don Roberto Colombo, docente di neurobiologie e genetica all’Università Cattolica e membro del Comitato nazionale per la bioetica, non fatica a riconoscere la singolarità dell’esperimento realizzato dall’équipe di Craig Venter, ma pone alcuni interrogativi sui possibili sviluppi di questa tecnologia: «Da un lato va ricordato che è ancora lunga la strada per produrre cellule più complesse di quella del batterio, dall’altro che i possibili utilizzi di questi nuovi organismi pongono nuovi problemi di biosicurezza».
In che misura la scoperta di Venter è «vita artificiale»?
I batteri sono organismi unicellulari che si formano per divisione di una cellula preesistente: si generano come cloni, non attraverso la riproduzione sessuata propria degli organismi più complessi, che possiedono una maggiore varietà per le combinazioni dei geni dei genitori. Il gruppo di Venter ha sostituito il genoma originale di una cellula batterica con uno sintetico, costruito assemblando sequenze di cromosomi diversi. E la nuova «macchina» sembra funzionare, nel senso che si è mostrata in grado di dividersi e quindi di riprodursi. La «scatola» è la membrana del Mycoplasma (batterio parassita di minime dimensioni), in cui è stato sostituito completamente il «motore» molecolare.
Gli obiettivi di questa attività riguardano la ricerca di base o le applicazioni pratiche? E quali?
Da un punto di vista teorico può essere interessante creare modelli cellulari semplici per individuare le condizioni minime, indispensabili per la sussistenza della vita. Dal punto di vista applicativo, si parla di creare «macchine biologiche» che possono avere compiti particolari: per esempio, «cellule spazzine» in grado di trasformare agenti inquinanti in materiali biodegradabili. Oppure produrre materiali biologici con caratteristiche diverse da quelle naturali. Mentre l’ingegneria genetica fa produrre proteine composte solo dai venti amminoacidi noti, ora si può immaginare di dare forma a proteine con proprietà diverse e preordinate a funzioni particolari.
Con le cellule spazzine, per esempio, potrebbero sorgere problemi di biosicurezza analoghi a quelli che qualcuno paventa per gli Ogm?
Questo resta un interrogativo aperto. Non si tratta infatti di organismi modificati solo in una loro proprietà, come gli Ogm, ma del tutto nuovi. Non si può prevedere come si comporterebbero nell’ambiente, né se, fondendosi con batteri naturali, potrebbero causare danni ecologici e pericoli per la salute dell’uomo.
Sono stati già ipotizzati sviluppi più ambiziosi, su cellule di organismi superiori. È vicino questo traguardo?
Direi di no. Con la biologia sintetica si punta alla progettazione di «processi biosintetici» nuovi per una cellula per farle produrre quello che si vuole. Ma la strada è ancora lunga. E a maggior ragione è lontano il pensare di agire su una cellula eucariote (come quella dell’uomo, degli animali o dei vegetali), ben più complessa di quella di un batterio (cellula procariote).
Si è parlato spesso in questi anni del «giocare a fare Dio». Questa scoperta è un passo in questa direzione?
Sicuramente assistiamo a una sorta di scivolamento nella concezione della biologia. Il paradigma culturale che è già passato da quello della conoscenza dei fenomeni della natura a quello dello sfruttamento della natura attraverso le biotecnologie che lavorano sulle proprietà degli organismi esistenti, si orienta ora verso una manipolazione totale, obiettivo della biologia sintetica. Si producono organismi viventi inediti, utilizzando patrimoni informazionali costruiti al computer, dando il via a forme di vita prima non esistenti. È un paradigma nuovo, un po’ inquietante. Quanto al significato che tutto questo ha per la comprensione del «fenomeno vita», è già noto da tempo che i processi biologici sono regolati dal Dna. Affermare invece che non esiste nulla oltre la chimica e la biologia, mi pare una affermazione presuntuosa e non scientifica.
Enrico Negrotti
Settanta radici ebraiche del cristianesimo
Gli interrogativi aperti sulla composizione e la trasmissione della versione greca del testo biblico, che divenne l’Antico Testamento
di MASSIMO GIULIANI (Avvenire, 09.10.2010)
S i pensa e si dice spesso che ebrei e cristiani hanno in comune il testo biblico (inteso come Antico Testamento), e che a dividerli sia l’interpretazione della figura di Gesù. Queste affermazioni sono solo parzialmente vere. All’inizio della loro storia i cristiani adottarono sì la Bibbia degli ebrei, ma già in una versione tradotta in greco. Adottarono quella che si suol chiamare la Settanta, in latino Septuaginta (LXX), una traduzione in greco della Torà, dei libri profetici e di altri testi sapienziali, ma aumentata di altri ’libri’ che non facevano parte del Tanakh o Bibbia ebraica e che non entrarono mai a far parte del canone rabbinico, il quale si chiuse, per così dire, solo alla fine del I secolo d.C.
In sintesi, le due religioni, l’ebraica e la cristiana, fin dall’inizio si riferirono a due corpi scritturali non identici, diversi nella lingua e parzialmente nella composizione dei testi. La Septuaginta era certamente una Bibbia tradotta da ebrei per gli ebrei di Alessandria che non parlavano più ebraico bensì greco (tradotta precisamente da chi, è ancora tema di discussione tra gli studiosi), ma con il declinare di quella comunità venne abbandonata proprio mentre, a poco a poco, diventava la Bibbia adottata dalla nuova religione, quella cristiana, e mentre il giudaismo rabbinico fissava il suo canone e la sua versione in ebraico tradizionale, ossia masoretico.
La storia di questo testo greco, di fatto la Bibbia più antica che si ’conosca’, e gli infiniti problemi della sua composizione, ricezione, trasmissione, nonché delle molteplici correzioni che subì nei primi secoli dell’era cristiana, sono presentati ora in un volume di alta divulgazione scientifica, Septuaginta. La Bibbia di ebrei e cristiani, scritto da Natalio Fernàndez Marcos, uno dei massimi esperti della Settanta e delle origini ebraiche del cristianesimo.
La pubblicazione riflette il crescente interesse che da una ventina d’anni si registra verso questa fonte autorevolissima della cultura occidentale, senza la quale risultano incomprensibili sia il Nuovo Testamento sia i Padri della Chiesa. Due esempi: dal 1995 il Dipartimento di Scienze Religiose dell’Università Cattolica promuove a scadenza biennale una giornata di studi dedicata alla Settanta (e ne pubblica gli atti nei suoi Annali, ora editi da Brepols), mentre la prossima assemblea dell’Aisg (Associazione italiana per lo studio del giudaismo) ospiterà una sessione di lavoro su tale testo e sull’impatto che la scoperta dei rotoli del Mar Morto ha avuto sugli studi della Settanta.
L’introduzione di Fernàndez Marcos è sintetica ma rigorosa, e offre molti punti fermi in un ambito in cui a prevalere sono, tra mitologia e apologetica, i punti interrogativi. All’epoca di Gesù e di Paolo, ad essere plurale non era solo il cosiddetto ’medio giudaismo’ ma plurali erano anzitutto le sue Scritture, non ancora ben codificate né canonizzate, almeno fuori dalla terra di Israele. E il cristianesimo nascente, in tale pluralismo di giudaismi e di testi sacri ebraici, seguì la strada tracciata dal giudaismo ellenistico.
La conclusione dello studioso spagnolo è condivisibile: nell’impossibilità di risalire al testo ebraico originario, che sta cioè alla base della traduzione detta dei Settanta, «si devono rispettare ambedue le tradizioni, quella ebraica e quella greca, senza tentare di ridurre o di adattare l’una all’altra».
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Natalio Fernàndez Marcos
SEPTUAGINTA. LA BIBBIA DI EBREI E CRISTIANI
Morcelliana. Pagine 108. Euro 12 ,00
BIBBIA E ATTUALITA’
VERIDICITA’
di Giuseppe Platone ("Riforma", n. 32 del 28 agosto 2009)
«Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della libertà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio» (I Pietro 2, 15-16)
UN’ANTICA narrazione ebraica rivela come dalla seconda sera di Pasqua ogni ebreo conti i giorni che lo separano dalla celebrazione dell’evento del Sinai: sette settimane. Ci vogliono, insomma, 49 giorni per metabolizzare le conseguenze provocate dalla liberazione. Prima viene la liberazione dalla schiavitù. Dopo viene la legge. Quest’ultima serve per conservare, valorizzare la libertà ricevuta e non ricadere nella schiavitù.
Possiamo distinguere tra libertà individuale e collettiva ma, per chi si disseta alla fonte biblica, non ci sono dei subumani, delle razze inferiori. Ci si differenzia per motivi economici, culturali o per capacità personali, ma teologicamente, di fronte al Dio che prima libera e poi dà la legge, non ci sono differenze: di fronte a Lui abbiamo tutti uguale dignità. Nella sapienza biblica l’uso della libertà è sempre a favore della persona. Insomma: dimmi che uso fai della tua libertà e ti dirò in chi credi.
IN questa lettera, che ci consegna il cristianesimo primitivo, si ricorda che una delle esperienze più intense e autentiche che possiamo provare, in quanto persone liberate che rendono conto direttamente a Dio di quello che fanno, è quella di dire la verità. Se da un lato rivivere la liberazione ricevuta significa dire la verità, dall’altro si tratta di non usare la libertà come un «velo per coprire la malizia». È un avvertimento che ci raggiunge da lontano ma è attuale. Viviamo infatti nella società della malizia, del disinganno, della manipolazione della verità. Siamo dentro un impasto di illusioni e miti difficili da smontare, quotidianamente alimentato e rilanciato da molti media. Ciò che appare non è ciò che realmente è.
LA cultura dell’illusione è il brodo in cui nuotiamo: illusi, ingannati e sfruttati nella nostra ingenuità. Ma anche se vittime del disinganno collettivo, cova sempre, sotto la cenere, un incandescente desiderio di autenticità.
Io ho sempre concepito il protestantesimo come una forza spirituale tesa alla verità. Protestanti che vogliono e dicono la verità. Chiese non come luoghi di inganni, mistificazioni, coperture e silenzi su giochi di potere e nefandezze, ma luoghi in cui coltivare la franchezza nella fraternità. In un mondo che utilizza la menzogna come olio lubrificante per far girare al meglio i propri affari noi ci collochiamo, in tutta coscienza, in controtendenza.
È vero che a volte non si riesce a dire compiutamente la verità, (anche in chiesa) perché essa può ferire, distruggere psicologicamente le persone. Ma la libertà nel dire la verità con fraternità vera, con amore e non con il gusto di distruggere l’altro è doverosa per chi percorre la strada di Colui che ha detto di sé: «Io sono la via, la verità, la vita». Certo le nostre sono verità parziali, umane, relative, discutibili ma si collocano davanti (non al posto) alla verità di Dio: una chiara tensione verso la verità è oggi urgente proprio per smontare quell’ingannevole impasto di regime che avvelena e divide il paese.
Giuseppe Platone
"In religioso ascolto della Parola di Dio e proclamandola con ferma fiducia".
“Perché, Signore, hai taciuto?” QUESTE parole sono state pronunciate da papa Benedetto XVI il 28 maggio 2006, in occasione della sua visita all’ex campo di concentramento di Auschwitz,
rendono conto direttamente a Dio di quello che fanno, è quella di dire la verità. Se da un lato rivivere la liberazione ricevuta significa dire la verità, dall’altro si tratta di non usare la libertà come un «velo per coprire la malizia».
Ciò che appare non è ciò che realmente è.
Si’, Dio e’ AMORE. Ma; non ha’ niente a che fare con (Mammona o la madonna.....L’adorazione del materialismo deve essere evitato e i soldini se...sono stati raccolti a sua volta al piu’ presto possibile......essere spesi per promuovere gli (interessi del Regno) Il (Regno) NON SANNO NEANCHE DOVE STA" DI CASA!!! La casa e’ la Sacra Scrittura ma...ahime’ e’ stata abbandonata trascurata e ritenuta antiquata.
Mammona e madonna...questa madonna Non dovrebbe essere adorata al posto di Dio stesso. In migliaia di chiese del sud america e nel mondo...nelle loro nicchie...sull’altare hanno conservato in un astuccio, un po’ di latte...latte che dicono che provenga dal petto di maria la madonna...ora se, tutto questo latte messo insieme e’ stato misurato e si sa’ ora il volume che ammonta se fosse messo in una cisterna....l’ammontare deduce quindi che la madonna era una mucca e non una donna....Perche?
Io sono il Signore: questo è il mio nome; non cederò la mia gloria ad altri, né il mio onore agli idoli.
Nella traduzione della Cei o qualsiasi altra traduzione perche’ non viene dovutamente detto di chi stiamo parlando; di quale signore? Il Signore Cristo Gesu’ ...o il Signone- Sovrano YHWH =GEOVA?
un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
“Poiché io sono YHWH; non sono cambiato...Mentre la maggioranza di voi...negli ultimi giorni di questo sistema......cambieranno, come il loro AMORE si raffreddera’, fino al punto di divenire (INATIVI)
«Infinita è la turba degli sciocchi, cioè di quelli che non sanno nulla; assai sono quelli che sanno pochissimo di filosofia; pochi son quelli che ne sanno qualche piccola cosetta; pochissimi quelli che ne sanno qualche particella; uno solo, Dio, è quello che sa tutto»
È chiaro, dunque, che i cristiani possono emanare seri giudizi o fare valutazioni nei confronti di altri solo quando si basano sulla Bibbia. Se si affidano all’opinione o alla preferenza personale possono essere sfavorevolmente giudicati dal Supremo Giudice, Dio.
(Cordiali saluti , con tutto il bene del mondo)
La Bibbia alfabeto della civiltà
di Enzo Bianchi (La Stampa, 17 gennaio 2010)
E’ innegabile che nell’ultimo secolo si sia verificato un mutamento radicale riguardo al posto delle Sante Scritture nella vita della Chiesa cattolica, una rinnovata sensibilità che ha lasciato la sua testimonianza più forte e autorevole nella Dei Verbum, la costituzione conciliare sulla Parola di Dio. Così la Bibbia, da testo tenuto ai margini dell’insegnamento e della catechesi cattolica, ignoto alla maggior parte dei battezzati, è divenuto sempre più familiare, raggiungendo anche in Italia dati di diffusione un tempo impensabili.
Eppure, nonostante questa feconda riscoperta, quanti credenti leggono regolarmente la Bibbia, quanti cristiani considerano il Vangelo come testo normativo della loro esistenza e delle scelte quotidiane? Secondo le indagini demoscopiche, solo un numero ridotto, anche rispetto ai soli cattolici «praticanti». Né sono mancati in questi ultimi anni gli appelli ad affrontare il problema dell’assenza della Bibbia nella scuola italiana e più in generale nel tessuto culturale del paese: un’assenza che indebolisce la memoria storica del «grande codice» della cultura occidentale e la possibilità di incontro con un testo ancora oggi tra i più ricchi e stimolanti, non solo sul piano religioso ma su quello storico, letterario, artistico e filosofico.
Il nuovo spazio radiofonico che la trasmissione Uomini e profeti inaugura oggi (alle 10) sulla terza rete della radio pubblica si inserisce in questa duplice consapevolezza: l’importanza della conoscenza della Scrittura e la scarsa dimestichezza con essa che permane in larghi strati della popolazione. «Leggere la Bibbia» in modo corale, con un approccio attento alle voci diversificate in ambito ebraico, cristiano, musulmano, storico, filosofico può costituire un prezioso servizio non solo all’approfondimento del fenomeno religioso, ma anche alla qualità della convivenza civile.
Scavare nella storia del testo biblico, indagare sulla sua formazione e le infinite interpretazioni cui ha dato luogo, rileggerlo alla luce degli eventi che segnano le vicende quotidiane e le grandi svolte epocali fornisce elementi di migliore conoscenza di se stessi e degli altri, di più attenta comprensione del senso delle nostre esistenze e di risposta alle domande fondamentali che ci accomunano come esseri umani: da dove veniamo, dove stiamo andando, che senso ha la nostra vita e l’evolversi del creato e della storia, cosa ci attende dopo la morte? È questa un’esigenza che emerge sempre più forte nella nostra società, abitata da uomini e donne di diversa matrice religiosa o che si considerano estranei a qualunque appartenenza confessionale.
Leggere la Bibbia «insieme», cioè tenendo conto della presenza dell’altro, è allora una sfida e nel contempo un’enorme potenzialità: avvia infatti un percorso orientato al senso dell’esistenza, uno sforzo per ritrovare una grammatica comune, un tentativo di riscoprire le autentiche radici di tanti nostri comportamenti e di ridare vivacità di voci e tonalità a quell’affascinante raccolta di testi redatti nell’arco di quasi un millennio che Chagall amava definire il grande «alfabeto colorato» della civiltà occidentale.