Parabole. Le sorprese del linguaggio di Gesù
di Carlo Maria Martini (Avvenire, 27 febbraio 2011)
Gesù parlava in parabole. Basta scorrere le pagine dei Vangeli per averne la prova. E dobbiamo presumere che non lo facesse raramente, a giudicare dal numero di parabole che gli evangelisti ci hanno trasmesso. Alcuni passi inducono addirittura a pensare che Gesù non parlasse alla gente in altro modo che in parabole. Si ha l’impressione che Gesù considerasse questo modo di esprimersi come il più adeguato alla capacità di comprensione degli ascoltatori e quindi il più adatto a trasmettere efficacemente il suo messaggio.
Ma perché privilegiare questo tipo di linguaggio? Per quale ragione preferirlo al linguaggio diretto e esplicito? E quali sono le sue caratteristiche specifiche? Quali gli obiettivi che consente di raggiungere? Chi sono, infine, i destinatari di questo parlare in similitudini? Interrogativi come questi aprono la strada a una riflessione di ampio respiro. Noi ci limiteremo a suggerire qualche considerazione di carattere generale, alla luce dei testi evangelici.
Una cosa, in ogni caso, è opportuno precisare sin d’ora: quella che affrontiamo non è semplicemente una questione esegetica. La posta in gioco è ben più alta.
Dietro la domanda: «Perché Gesù parlava in parabole», sta infatti una questione attualissima e gravissima: quella del «linguaggio religioso», del come parlare adeguatamente di Dio oggi. Il mondo occidentale sente fortemente questa fatica. Spesso il linguaggio usato per parlare di Dio è stentato e fiacco, a volte imbarazzato, a volte generico; ci si divide facilmente in verticalisti e orizzontalisti, tradizionalisti e progressisti, si formulano giudizi che, alla luce del Vangelo, risultano perlomeno inadeguati.
Da qui il bisogno di approfondire, di mettersi alla scuola di Gesù, di lasciarsi guidare da lui alla ricerca di un linguaggio capace di «dire Dio».
Come, dunque, Gesù parlava di Dio? E perché di solito ne parlava in parabole? Il fine ultimo del ministero di Gesù fu l’annuncio dell’evangelo del Regno, la manifestazione efficace della benefica sovranità di Dio, annunciata dalle Scritture, preparata dalla storia di elezione di Israele e destinata a tutte le genti.
«Il tempo è compiuto, il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi e credete all’evangelo» (Mc 1,15): con queste parole il Messia di Dio si presenta pubblicamente a Israele e al mondo.
Ci attenderemmo a questo punto una descrizione chiara, accurata, aperta, luminosa del regno di Dio e di Dio stesso. Come non ipotizzare una predicazione di Gesù esplicita, ordinata, strutturata e proprio per questo convincente?
La lettura dei testi evangelici non smentisce queste attese, ma neppure le soddisfa pienamente. Il modo con cui Gesù proclama l’evangelo agli uomini ci riserva qualche sorpresa. Anzitutto, la figura di Gesù appare caratterizzata principalmente dall’agire.
In primo piano stanno le azioni di Gesù, il suo operare efficace, potente, carismatico: pensiamo soprattutto alle guarigioni, agli esorcismi, agli interventi straordinari in favore di persone in difficoltà.
Il parlare di Gesù accompagna il suo agire e lo interpreta: la signoria di Dio è dimostrata attraverso le opere e illustrata attraverso le parole.
Quanto alla predicazione vera e propria, essa non è sempre diretta e chiara; al contrario, non di rado appare come velata. Il passo più sconcertante al riguardo è certo quello di Mc 4,11-12, in cui Gesù giustifica il suo parlare in parabole proprio con la necessità di nascondere la rivelazione del Regno, di impedire un accostamento immediato e diretto.
Più volte Gesù parlò in modo allusivo ed enigmatico, «non apertamente», attraverso il velo delle similitudini: egli diceva e non diceva, svelava e nascondeva, manifestava e occultava.
Questo è precisamente il punto che ci interessa: perché Gesù usava un simile linguaggio? Perché non era più esplicito, non diceva apertamente e accuratamente tutto quello che sapeva?
Potrà sembrare strano, ma per annunciare autenticamente il Vangelo è necessario in qualche misura velarlo. La constatazione che Gesù non facesse seguire alle parabole la spiegazione (solo i discepoli ne erano in alcuni casi beneficiati, ma sempre in privato) ci impedisce di considerare le parabole strumenti didattici, esempi che conducono l’ascoltatore a un insegnamento espresso poi in termini più concettuali.
La parabola di Gesù non sfocia in una spiegazione piana ed esplicita, magari introdotta dalla formula: «Questo racconto ci insegna che...». La parabola di Gesù mantiene tutta la sua carica di enigmaticità, lascia all’ascoltatore il compito di comprenderla, lo interpella e lo costringe a interrogarsi, lo coinvolge in prima persona e lo impegna alla ricerca del senso.
L’esortazione che spesso risuona infatti è la seguente: «Chi ha orecchie per intendere, intenda», cioè «chi è in grado di capire, cerchi di capire».
Gesù racconta parabole non certo obbedendo a schemi prefissati ma, al contrario, sull’onda della sua emozione interiore, sospinto dal bisogno di comunicare il mistero di Dio a coloro che gli stanno davanti.
Le parabole sorgono dal cuore di Cristo, dalla sua passione per Dio e dal suo amore per l’uomo, dal bisogno impellente di svelare adeguatamente il volto del Padre, il segreto della sua opera di salvezza, la potenza del suo Regno e le conseguenze per la vita degli uomini. Abbiamo così toccato il punto essenziale.
La peculiarità del linguaggio parabolico appare fortemente legata alla persona stessa di Gesù. Precisando meglio, diremo che tale peculiarità deriva dalla conoscenza di Dio che Gesù possiede e dalla sua attenzione per l’uomo. Nessuno più di lui è abilitato a rivelare il volto di Dio, la sua potenza, la sua volontà; ma come non tenere conto delle disposizioni d’animo di chi ascolta, della situazione personale degli uditori, della loro fatica a capire, della loro tendenza a fraintendere?
Quando consideriamo le circostanze in cui Gesù racconta le parabole, ci accorgiamo di quanto egli sia attento ai suoi uditori. Da un lato, dunque, le parabole sono un vero insegnamento; esse parlano di Dio, della sua opera, delle conseguenze per la vita degli uomini, della risposta che Dio si attende; dall’altro, le parabole sono un atto di cortesia, di rispetto della libertà degli uomini, di condiscendenza, quasi di tenerezza.
Gesù è un vero maestro anche per questo. Egli conosce il cuore degli uomini e perciò non ha fretta, sa adeguarsi al passo dell’ascoltatore, accetta anche che questi faccia fatica a capire, attende che si ricreda e che riveda alcune posizioni. Intanto si ingegna di offrire un insegnamento che per lo meno susciti degli interrogativi, che faccia breccia in cuori induriti e che dia un orientamento sicuro ai cuori incerti e smarriti; un insegnamento, insomma, che permetta di compiere un primo passo e disponga a un cammino successivo.
I ritmi della conoscenza che proviene dalla fede sono lenti. Per questo la rivelazione va anche nascosta, velata. La libertà dell’uomo non è in grado di reggere tutto il peso della rivelazione di Dio.
Così le parabole sgorgano dal cuore di Gesù sotto la spinta incalzante dell’urgenza dell’evangelo; esse sono spontanee, non artificiali, nascono dalla vita stessa.
Le parabole sono, in questa prospettiva, uno dei frutti più belli del mistero dell’incarnazione, la frontiera cui il linguaggio viene spinto dal Figlio di Dio, affinché risulti adatto a comunicare il mistero del Regno nel rispetto della concreta situazione dell’uomo.
1. CARLO MARIA MARTINI LETTERA PASTORALE (1990-1991) “EFFATÀ, APRITI”. (in http://www.odg.mi.it/node/236)
2. CARLO MARIA MARTINI LETTERA PASTORALE (1991-1992) “IL LEMBO DEL MANTELLO” -(in http://www.odg.mi.it/node/237)
3. Carlo Maria Martini: “Sull’uso dei cinque talenti, ovvero sul corretto rapporto tra media e società” (1996). (in http://www.odg.mi.it/node/228)
IL "LOGOS" E LA "CHARITAS". Sul Vaticano, e su Roma, il "Logo" del Grande Mercante.Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
Il motto dello stemma episcopale del Vescovo Ausiliare di Roma, S.E.R. Mons. Angelo De Donatis
Le parole scelte da Don Angelo per il proprio motto episcopale sono tratte dal “De officiis ministrorum” di Sant’Ambrogio laddove dice
“Sit inter vos pax, quae superat omnem sensum. Amate vos invicem. Nihil caritate dulcius,nihil pace gratius...”
(“Sia tra di voi la pace che supera ogni sentimento. Amatevi gli uni gli altri. Nulla è più dolce dell’amore, nulla più gradevole della pace”) *
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Fonte: http://www.sanmarcoevangelista.it (ripresa parziale).
Federico La Sala
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN ... *
’My mirror’, nell’era dei selfie specchiarsi nell’altro è rivoluzionario
Esperimento di ’eye contact’, 4 minuti per guardarsi negli occhi altrui
di Redazione ANSA *
MILANO. Una doppia cabina, in cui due sconosciuti si siedono uno di fronte l’altro, per 4 minuti, semplicemente per guardarsi negli occhi. Al termine di questa breve interazione, ognuno dei due, assistito da alcuni facilitatori, racconta all’altro le sensazioni che ha provato.
E’ ’My mirror’, un nuovo esperimento di eye contact, organizzato da Caritas Ambrosiana, che sarà possibile sperimentare a Fa’ la cosa giusta!, la fiera del consumo critico e degli stili di vita sostenibili dal 23 al 25 marzo.
Le tecniche di eye contact - spiegano gli organizzatori - dimostrano che 4 minuti di contatto visivo avvicinano le persone più di tante parole.
Così, con My Mirror si proverà a favorire l’incontro tra tante persone diverse, per genere, età, nazionalità, storie. L’idea di fondo è che nell’epoca dei selfie, dove ci si specchia solo negli schermi dei propri smartphone, specchiarsi negli occhi di un altro può essere un atto rivoluzionario e comunque non lascia nessuno indifferente
Secondo le stime, in media, ognuno di noi passa 5 anni della propria vita collegato a internet, 11 davanti alla tv. Con quante persone potremmo connetterci se ci prendessimo la briga di guardaci negli occhi gli uni con gli altri? E come cambierebbe la percezione che abbiamo del mondo?
Fragilità, povertà, migrazioni, malattia quando si incarnano in un volto smettono di essere un semplice fenomeno sociale, il titolo di un articolo, spesso di cronaca nera, ma diventano la vita del compagno di scuola e della sua famiglia, del vicino di casa, del parente prossimo.
My Mirror fa parte della campagna di Caritas Internationalis “Share the journey” volta a promuovere la “cultura dell’incontro”.
* ANSA, 23 marzo 2018 (ripresa parziale - senza foto).
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Il Vangelo dalla parte della Maddalena
Escono in un libro gli esercizi spirituali che il cardinale Carlo Maria Martini tenne in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007. Sono dedicati alla figura della santa peccatrice
di Vito Mancuso (la Repubblica, 16.03.2018)
La simpatia del cardinal Martini per Maria Maddalena appare evidente dalla prima all’ultima parola degli esercizi spirituali da lui tenuti in Israele tra la fine del 2006 e l’inizio del 2007, come evidente è la sua simpatia per le consacrate dell’Ordo Virginum della diocesi di Milano per le quali aveva preparato gli esercizi e alle quali diceva: «Vi riconosco nella vostra bellezza interiore ed esteriore, perché quando l’anima rimane nella sua costante proposta di servizio a Dio, rimane bella e questa bellezza si diffonde».
Io penso sia proprio così, e penso che Martini sia stato a sua volta un esempio di questa misteriosa connessione tra etica ed estetica avvertita già dagli antichi greci con l’ideale della kalokagathía, perché il morbo di Parkinson contro cui già allora combatteva, e che l’avrebbe portato alla morte il 31 agosto 2012, non giunse mai a privarlo della sua originaria e nobile bellezza.
Cosa siano gli esercizi spirituali lo spiega lo stesso Martini dicendo che non sono un corso di aggiornamento, né una lettura spirituale della Bibbia, né un’occasione di preghiera; sono invece “un ministero dello Spirito Santo”, nel senso che “è lo Spirito Santo che parla al mio cuore per dirmi ciò che vuole da me adesso”.
Gli esercizi spirituali sono quindi un tempo di ascolto e di raccoglimento per capire la propria situazione qui e ora, e come tali prevedono «un silenzio assoluto a tavola e anche negli altri momenti», perché, avverte Martini, «soltanto una parola detta qua e là disturba tutti».
Maria Maddalena è «il segno dell’eccesso cristiano, il segno dell’andare al di là del limite, il segno del superamento»: nell’eccedere della sua vita travagliata ma sempre dominata dall’amore, si dà per Martini la chiave privilegiata per «essere introdotti nel cuore di Dio».
Il cuore di Dio. Mediante la storia della Maddalena, Martini giunge a parlare di Dio, e parlando di Dio giunge a illuminare la logica e il ritmo dell’essere, cogliendo nell’amore il suo segreto più profondo: «Dio è tutto dono, è tutto al di là del dovuto e questo è il segreto della vita».
Individuare “il cuore di Dio” significa quindi per Martini individuare “il segreto della vita”. In questa prospettiva egli illumina magistralmente il paradosso dell’esistenza segnalando la dinamica profonda secondo cui ci si compie superandosi, ci si arricchisce svuotandosi, si raggiunge l’equilibrio perdendolo.
È la pazzia evangelica. La quale però, in quanto verità dell’essere, è universale, e quindi è avvertita anche al di là del cristianesimo, per esempio già da Platone che coglieva la medesima logica di eccedenza scrivendo che «la mania che proviene da un dio è migliore dell’assennatezza che proviene dagli uomini» ( Fedro 244 d). Maniaca in senso platonico, la Maddalena è definita da Martini “amante estatica”, cioè letteralmente “fuori di sé” e in questo modo è indicata quale via privilegiata per accedere al cuore di Dio.
Per lui è infatti evidente che «non può comprendere Dio chi cerca solo ragioni logiche», mentre lo può comprendere «chi vive qualche gesto di uscita da sé, di dedizione al di fuori di sé, al di fuori del dovuto», perché Dio, simbolo concreto del mistero dell’essere, “è uscita da sé”, “dono di sé”.
In questa prospettiva la Maddalena, perfetta esemplificazione della logica evangelica, fa capire che “solo l’eccesso salva”. Per “eccesso” Martini intende “uno squilibrio dell’esistenza”. E proprio questo è il punto: che la vita si alimenta di tale squilibrio. Il nostro universo non viene forse da un eccesso, cioè dalla rottura di simmetria all’origine del Big Bang? E la vita non è a sua volta squilibrio, essendo la morte, come disse Erwin Schrödinger nelle lezioni al Trinity College di Dublino, “equilibrio termico”? E cosa sono l’innamoramento e le passioni di cui si nutre la nostra psiche, se non, a loro volta, squilibrio?
Afferma Martini: «Quando definisco me stesso, mi definisco di fronte al mistero di Dio e mi definisco come qualcuno che è destinato a trovarsi nel dono di sé... e tutto questo si dà perché Dio è dono di sé». Prosegue dicendo che molti non capiscono Dio perché non lo collegano a questa dinamica di uscita da sé, visto che «soltanto quando accettiamo di entrare in questa dinamica della perdita, del dare in perdita, possiamo metterci in sintonia con il mistero di Dio».
In questa prospettiva Martini giunge a parlare di Dio secondo una teologia della natura che avrebbe fatto felice il confratello gesuita Pierre Teilhard de Chardin, riferendosi a «quella forza che potremmo dire trascendente, perché è in tutta la natura fisica, morale, spirituale ed è la forza che tiene insieme il mondo... la forza che si può concepire come una lotta continua contro l’entropia e il raffreddamento».
Anche il voto di verginità delle consacrate alle quali rivolgeva i suoi esercizi appare a Martini un segno di quell’eccesso di amore che fa sì che nel mondo non vi sia solo la forza di gravità che tira verso il basso, ma anche «una forza che tira verso l’alto, verso la trasparenza, la complessità e anche verso una comprensione profonda di sé e degli altri fino ad arrivare a quella trasparenza che è la rivelazione di ciò che saremo». Ovvero, conclude Martini, “la vita eterna”.
La categoria dell’eccesso
Maria Maddalena secondo il cardinale Martini *
L’eccesso è per Martini la “categoria” che ci consente non solo di comprendere il mistero di Dio adombrato nella passione, morte e risurrezione di Gesù, ma ciò che esprime il senso profondo dell’essere cristiano, della maturità cristiana.
Ancora una volta è attraverso i personaggi di Giovanni che Martini costruisce questa sua visione, in particolare è Maria di Magdala a guidarci in questo ultimo tratto di cammino. «Maria di Magdala è una figura particolarmente importante nei Vangeli, è il prototipo della persona che accede alla fede nel Risorto. Se gli altri due episodi narrati da Giovanni rappresentano piuttosto una comunità che accoglie il mistero della Risurrezione, l’episodio che ha per protagonista la Maddalena è piuttosto dedicato al singolo credente o meglio al non credente che diventa credente».
Chi è Maria Maddalena? Tutti i vangeli la annoverano tra le donne che si recano al sepolcro. Forse, dice Martini, tale menzione indica «una qualche funzione di leadership», ma non abbiamo elementi sufficienti. Compare inoltre nei racconti della passione e nella vita pubblica di Gesù, dove è messa «sullo stesso piano dei discepoli». La sua figura però si può comprendere anche grazie al confronto con altre figure femminili presenti nel vangelo. Per esempio la peccatrice in casa di Simone, le «Marie di Betania» e, infine, la sposa del Cantico; come lei, la Maddalena «ha cercato Gesù con una passione inesausta, con una perseveranza invincibile e di conseguenza è una figura della ricerca di Gesù e del Signore risorto». Tutte rimandano in qualche modo a un «eccesso d’amore».
Nel testo si legge che il primo giorno dopo il sabato Maria si reca al sepolcro «di buon mattino», quando era ancora buio. Un atteggiamento inusuale e anche un po’ rischioso, che la dipinge fin da subito come una «donna che supera le convenzioni». Esce di casa perché non si dà pace e non si preoccupa di ciò che può capitarle o di ciò che può pensare la gente. Quando arriva al sepolcro ha una prima intuizione degli eventi, ma ancora parziale, distorta. -Sconvolta, va da Simon Pietro e dagli altri discepoli, ma, fa notare Martini, riferisce una sua versione dei fatti. In fondo cosa ha visto? La pietra ribaltata e il sepolcro vuoto; su questi elementi costruisce una storia; il corpo di Gesù è stato rubato. L’inquietudine di non sapere dove lo hanno portato non le dà pace.
* L’Osservatore Romano, 17 luglio 2017
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MICHELANGELO E LA SISTINA (1512-2012). I PROFETI INSIEME ALLE SIBILLE PER LA CHIESA UN GROSSO PROBLEMA .... DOPO 500 ANNI, PER IL CARDINALE RAVASI LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA E’ ANCORA L’ELEMENTO PIU’ CURIOSO. Materiali sul tema, per approfondimenti
Federico La Sala
EVANGELO E TEOLOGIA POLITICA DEL "MENTITORE". KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI")
Bibbia e «Lectio Divina»
Oggi Papa Francesco è in visita alla Sinagoga di Roma. Le Sacre scritture ebraico-cristiane testimoniano la vivacità del dialogo interreligioso
di Gianfranco Ravasii, cardinale (Il Sole-24 Ore, Domenica, 17.01.2016)
In questa domenica in cui - sulla scia di s. Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI - papa Francesco è accolto nella Sinagoga di Roma dalla comunità ebraica romana, e alle soglie della tradizionale Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, torniamo a parlare di Bibbia. Se dovessi tener conto di tutti i libri di esegesi, di teologia, di commento e di spiritualità biblica pubblicati dagli editori italiani, sarei costretto a proporre continuamente semplici sillogi con qualche nota, tanto è fitto questo genere di produzione bibliografica.
Eppure ci fu un tempo in cui si introduceva in Italia la Bibbia clandestinamente, come accadeva fino a pochi decenni fa col regime sovietico. Certo, si trattava di edizioni protestanti che partivano da Londra o dalle basi inglesi di Malta e Gibilterra. A capo di questa operazione furtiva c’era la londinese British and Foreign Bible Society , fondata nel 1804. Questa operazione aveva allertato soprattutto lo Stato pontificio che aveva fatto piovere su di essa le sue condanne, a partire dal 1824 fino a un intervento solenne attraverso l’enciclica Inter praecipuas machinationes (e il titolo è emblematico) emanata nel 1844 da papa Gregorio XVI Cappellari, a cui si aggiunse nel 1846 anche Pio IX con un suo divieto.
Questa premessa, che potrebbe essere cronologicamente ben più ampia e che però meriterebbe una corretta contestualizzazione storico-ermeneutica, ci fa comprendere quanto sia significativo il fatto che ora vogliamo presentare. Certo, dopo Porta Pia e il 1870, anche la citata Bible Society era entrata in Italia divenendo, prima la Società Biblica Italiana e poi la Società Biblica Britannica e Forestiera, sostenuta dalla chiesa valdese.
Intanto, però, si celebrava il Concilio Vaticano II e un pastore valdese di grande apertura ecumenica e finezza culturale, Renzo Bertalot (1929?2015) gettava un ponte di collaborazione tra la Società Biblica e la Chiesa cattolica. Così, essa - oltre a pubblicare la famosa Bibbia tradotta dal protestante Giovanni Diodati nel Seicento e rivista da Giovanni Luzzi per adattarla al nuovo linguaggio - proponeva di concerto con l’editrice salesiana Elledici una suggestiva Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente dal successo folgorante.
Ma rimaneva sempre una certa distanza tra le due Chiese, la valdese e la cattolica, per quanto riguardava il testo biblico ufficiale: come è noto, infatti, la Conferenza Episcopale Italiana (Cei) aveva pubblicato dal 1974 una sua Sacra Bibbia, rielaborata accuratamente nel 2002 e definitivamente proposta in una nuova edizione nel 2007.
Ebbene, ora la Società Biblica Britannica e Forestiera che ha sede a Roma ha deciso di proporre essa stessa proprio questa versione ufficiale della Cei in un volume raffinato ma anche maneggevole e funzionale, accogliendo perciò anche quei sette libri biblici anticotestamentari detti “deuterocanonici” dai cattolici e considerati “apocrifi” dai protestanti.
Si tratta, quindi, di un atto ecumenico molto incisivo perché ribadisce che il cuore dell’incontro tra le diverse confessioni cristiane deve alimentarsi proprio col sangue vivo della Parola divina. Perciò quei cattolici o protestanti, non ancora in possesso di un’edizione della Bibbia che non sia da scaffale ma da tenere tra le mani per la lettura, hanno ora una nuova possibilità comune.
Ma c’è qualcosa di più. Oltre all’integrale testuale a cui opra accennavamo (cioè con l’aggiunta dei sette libri “deuterocanonici” Tobia, Giuditta 1 e 2 Maccabei, Sapienza, Siracide, Baruc) e all’apparato di introduzioni e note, è stata offerta in finale una componente sorprendente, per di più sostenuta da una citazione di papa Francesco. Si tratta di una guida a un particolare approccio alla S. Scrittura, codificato nel Medioevo monastico e caro al mondo cattolico. È la così detta Lectio divina, in pratica una lettura spirituale ed esistenziale della Bibbia.
A elaborarne il metodo fu un monaco del XII secolo, Guigo il Certosino, che lo articolò in quattro tappe o scansioni. Innanzitutto si ha la Lectio vera e propria, cioè la lettura con l’identificazione corretta del messaggio del testo sacro secondo i canoni dell’esegesi. Segue la meditatio, ossia l’incarnazione dell’oggi della parola divina per la vita del credente. Se la prima tappa risponde alla domanda: «Che cosa dice il testo in sé?», nella seconda ci si interroga: «Che cosa dice il testo a noi?». Subentra, così, l’oratio, a cui corrisponde la domanda: «Che cosa dire a Dio», dopo averlo ascoltato? È il momento della risposta orante, personale e comunitaria. Infine, si entra nella contemplatio che è il vertice dell’intero itinerario, in cui si riassume l’esperienza vissuta, intuendo così un nuovo volto di Dio e un nuovo nostro volto interiore. Questo livello potrebbe essere descritto con un passo degli Atti degli apostoli che introducono l’ultima domanda.
Dopo aver ascoltato il discorso di Pentecoste tenuto da s. Pietro, i presenti «si sentirono trafiggere il cuore e dissero: Che cosa dobbiamo fare?» (2,37). Quattro momenti, dunque, segnati da altrettanti interrogativi che rivelano una particolare ermeneutica della Bibbia di natura performativa, destinata cioè a transitare dalla ragione al cuore, dall’ascolto all’agire, dal testo alla vita, dalle parole umane alla Parola divina.
La vasta appendice offerta da questa edizione della Bibbia applica la tetralogia sopra evocata a tutti i 73 libri che compongono le S. Scritture ebraico-cristiane, con indubbia creatività ed efficacia, permettendo così alle comunità cattoliche, protestanti e ortodosse di ritrovarsi insieme in quel crocevia della loro fede che è la Bibbia. In esergo si è, infatti, posta una frase folgorante del libro di Giosuè, il sesto delle S. Scrittura: «Non si allontani dalla tua bocca il libro di questa legge, ma meditalo giorno e notte, per osservare e mettere in pratica tutto quanto vi è scritto; così porterai a buon fine il tuo cammino e avrai successo» (1,8).
Accanto a questa importante operazione editoriale ed ecumenica, che ben s’adatta a celebrare i 50 anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II e che s’innesta nella fervida atmosfera di dialogo introdotta da papa Francesco, evochiamo un’esperienza analoga anche se differente sempre di taglio biblico.
La Fondazione Ramon Pané, fondata nel 1994 in ricordo del primo catechista dell’America Latina e con sede a Tegucigalpa (Honduras) e Miami (Usa), ha cercato di rispondere a un quesito che affiora frequentemente: se la Bibbia è composta di più opere, pur essendo ormai compattata in un unico libro, la si può affrontare con una lectio continua, come si faceva in passato, seguendone l’attuale successione canonica, oppure è possibile procedere secondo una trama più libera e coerente con la storia e i temi in essa proposti?
Ebbene, questa Fondazione ha suggerito un inedito e curioso piano di lettura del Nuovo Testamento partendo dalla vicenda germinale di Cristo e della Chiesa narrata da Luca nel suo Vangelo e negli Atti degli apostoli, per proseguire con l’apostolo Paolo che entra con le sue Lettere nelle varie città dell’impero romano e nelle relative comunità cristiane di matrice pagana. Si passa poi alla cristianità di origine giudaica col Vangelo di Matteo, la Lettera agli Ebrei e quella di Giacomo, per rivolgersi poi all’orizzonte della predicazione di s. Pietro col Vangelo di Marco e le due Lettere di Pietro e, così, approdare al corpus giovanneo composto dal Vangelo, dalle Lettere e dall’Apocalisse.
Un copione interessante, reso trasparente e agevole nella lettura anche dall’abolizione della numerazione dei capitoli e dei versetti (una scansione per altro tardiva, perché introdotta solo nel 1528 da Sante Pagnini in una Bibbia pubblicata a Lione). Si offre così, un percorso testuale quasi narrativo continuato, affidato al dettato molto limpido e immediato della citata Traduzione Interconfessionale in Lingua Corrente.
di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 16.07.2015)
CITTÀ DEL VATICANO Padre Silvano Fausti raccontava che il momento era stato quando Benedetto XVI e Carlo Maria Martini si videro per l’ultima volta. Milano, incontro mondiale delle Famiglie, 2 giugno 2012, il cardinale malato da tempo era uscito dall’Aloisium di Gallarate per raggiungere il Papa. Fu allora che si guardarono negli occhi e Martini, che sarebbe morto il 31 agosto, disse a Ratzinger: la Curia non si riforma, non ti resta che lasciare.
Benedetto XVI era tornato sfinito dal viaggio a Cuba, a fine marzo. In estate cominciò a parlarne ai collaboratori più stretti che tentavano di dissuaderlo, a dicembre convocò il concistoro dove creò sei cardinali e neanche un europeo per «riequilibrare» il Collegio, l’11 febbraio 2013 dichiarò la sua «rinuncia» al pontificato. Dimissioni «già programmate» dall’inizio del papato - se le cose non fossero andate come dovevano -, fin da quando al Conclave del 2005 Martini spostò i suoi consensi su Ratzinger per evitare i «giochi sporchi» che puntavano a eliminare tutti e due ed eleggere «uno di Curia, molto strisciante, che non ci è riuscito», rivela il padre gesuita.
Silvano Fausti è morto il 24 giugno a 75 anni, dopo una lunga malattia. Biblista e teologo, una delle voci più ascoltate e lette del pensiero cristiano contemporaneo, era la persona più vicina a Carlo Maria Martini, il cardinale lo aveva scelto come guida spirituale e confessore, si confidava con lui. Il retroscena affidato tre mesi prima di morire a glistatigenerali.com - l’intervista video è stata ora diffusa in Rete - corrisponde a ciò che padre Fausti raccontava in privato nella cascina di Villapizzone, alla periferia di Milano, dove viveva da 37 anni con altri gesuiti nella comunità che aveva fondato. Quasi un testamento che, a proposito di Ratzinger e Martini, risale ai giorni del Conclave di dieci anni fa. Erano le due personalità più autorevoli e, racconta Fausti, «i due che avevano più voti, un po’ di più Martini» (già allora malato di Parkinson), uno per i «conservatori» e l’altro per i «progressisti». C’era una manovra per «far cadere ambedue» ed eleggere il cardinale «molto strisciante» di Curia. «Scoperto il trucco, Martini è andato la sera da Ratzinger e gli ha detto: accetta domani di diventare Papa con i miei voti» . Si trattava di fare pulizia. «Gli aveva detto: accetta tu, che sei in Curia da trent’anni e sei intelligente e onesto: se riesci a riformare la Curia bene, se no te ne vai».
Martini, rivela Fausti, disse che il Papa fece poi un discorso «che denunciava queste manovre sporche e ha fatto arrossire molti cardinali». Il 24 aprile 2005, nell’omelia di inizio pontificato, Benedetto XVI disse: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura, davanti ai lupi». Padre Fausti ricorda anche il gesto che avrebbe fatto Ratzinger, il 28 aprile 2009 nell’Aquila devastata dal terremoto. Era previsto solo un omaggio, ma Benedetto XVI seminò il panico varcando la porta santa della basilica pericolante di Collemaggio per deporre il suo pallio sulla teca di Celestino V, il Papa del «gran rifiuto». Ratzinger e Martini, pur diversi, si riconoscevano e si stimavano. «Cercavano sempre di metterli contro per fare notizia. Mentre, con Wojtyla, Martini dava ogni anno le dimissioni...». Le dimissioni di Benedetto XVI erano una possibilità dall’inizio del pontificato, spiega Fausti. Finché a Milano, quel giorno, Martini gli disse «è proprio ora, qui non si riesce a fare nulla». Nell’ultima intervista, Martini parlò di una Chiesa «rimasta indietro di 200 anni: come mai non si scuote?».
Ratzinger non è scappato davanti ai lupi, nonostante attacchi e veleni interni che fino a Vatileaks ne hanno funestato il pontificato. Sa che è urgente agire e fare pulizia, ma sente di non averne più la forza. Ci vuole una scossa. Nella sua rinuncia «in piena libertà» dice che «per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo, è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo» che «negli ultimi mesi» gli è venuto a mancare. Il conclave, di lì a un mese, eleggerà Jorge Mario Bergoglio. Padre Fausti, nel video, sorride: «Quando ho visto Francesco vescovo di Roma ho cantato il nunc dimittis , finalmente!, ho aspettato dai tempi di Gregorio Magno un Papa così...».
Il linguaggio e la verità. Martini il comunicatore
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 23 dicembre 2012)
«In principio era la Parola, la Parola era presso Dio e la Parola era Dio», recita il Vangelo di Giovanni (1,1). E poco dopo: «In lei era la vita e la vita era la luce degli uomini». Se dovessi indicare una laica chiave di lettura di questo celebre incipit evangelico, sceglierei il commento di Carlo Maria Martini dell’anno pastorale 1981-1982, ove non a caso viene meno la maiuscola: «Nella parola il nostro essere profondo si manifesta; la nostra libertà sprigiona le sue capacità operative; la nostra umanità va in cerca dell’umanità degli altri, cerca un contatto con loro, genera consensi, costruisce comunità umane, interviene sulle cose del mondo».
È uno splendido elogio del linguaggio come strumento evolutivo che consente il passaggio dall’individualità dell’io al noi e favorisce l’emergere delle più diverse forme del collettivo umano. Martini ricorre così a una caratterizzazione di Homo sapiens che mostra non poche linee di convergenza con la tradizione del libero pensiero da David Hume a Charles Darwin, da John Stuart Mill a Bertrand Russell: l’umanità è un mosaico di intelligenze, passioni e affetti «eccentrici e insoddisfatti», ed è proprio questa paradossale condizione che rende il linguaggio un elemento ineliminabile di incivilimento.
Certo, Martini ha in mente anzitutto «il primato della parola di Dio», che può sempre trascendere la gabbia dell’espressione puramente umana. Mi pare però significativo che proprio in questo contesto, così impregnato di fede evangelica, Martini non insista tanto su temi escatologici come l’immortalità delle anime o la resurrezione dei corpi, bensì sottolinei che è la parola - e solo essa - che «supera e salva ciò che muore»; anche se l’intero Universo giungesse al punto di «spegnersi». Per questo Dio ha bisogno degli uomini: la sua parola «non cessa di essere una realtà storica» e appunto la sua efficacia si manifesta nell’interpretare e salvare la vicenda della libertà umana, che va valutata «con le sue aspirazioni, i suoi problemi, i suoi peccati, le sue nostalgie di salvezza, le sue realizzazioni nel campo personale e sociale».
Appunto per questa ragione la parola illumina le più diverse situazioni secondo modalità non disgiunte dal contesto culturale, sociale e storico. Scriveva Martini in un biennio difficile come il 1981-1982 che «davanti a urgenti interpellanze provenienti dal mondo del lavoro, dalle nuove circostanze in cui viveva la famiglia, dall’inquieta condizione dei giovani e delle donne», il silenzio impacciato dei timidi e la carenza di linguaggio sono già delle colpe. Il sintomo più grave della malattia provocata dall’incoerenza fra quel che si professa e quel che si è, fra il dover essere e l’esistente di fatto, è la scissione tra «testimonianza e opere». D’altra parte, solo il linguaggio è in grado di colmare lo scarto tra «il mondo misterioso della fede» e «le contraddizioni della civiltà industriale».
La nostra è l’epoca della competenza tecnico-scientifica e Martini si è sempre dimostrato consapevole della forza che si sprigiona dalle idee non meno che dai grandi apparati della ricerca, senza troppe distinzioni tra ricerca pura e applicata, perché la linea di demarcazione tra l’una e l’altra cambia con la costellazione dei successi nella nostra comprensione della realtà.
Nel 1982-1983 Martini osservava «che l’uomo ha compiuto e va compiendo importanti conquiste nel dominio della natura, nella cura della salute, nella promozione della dignità personale, nell’organizzazione della vita sociale». Ma già nell’anno pastorale precedente metteva in guardia che l’incremento delle conoscenze scientifiche e lo sviluppo delle applicazioni tecniche spingono l’umanità a sopravvalutare la sua potenza e a darsi a un’attività produttiva sempre più frenetica.
Il riferimento più ovvio, all’epoca, era ancora alla corsa agli armamenti e all’equilibrio del terrore, garantito - se così si può dire - da Usa e Urss. Ma i giudizi pronunciati in quelle circostanze avevano una portata più ampia di quanto la logica della situazione facesse sospettare. «Di fronte ai tanti casi di corruzione, al generale affievolimento del senso di responsabilità, alla crisi delle istituzioni democratiche, tante voci chiedono un risorgimento della coscienza morale».
La cronaca più recente ci fa sembrare ancor più vive affermazioni di questo genere. Comunque, tale «sfida» per Martini deve venire raccolta, decifrata e fatta evolvere «verso la coscienza del bisogno di un solido fondamento».
A questo punto non posso fare a meno di pensare a un poetico elogio del
fondamento nel divino come questo, formulato nell’età dei Lumi:
«Chi ha dato il moto alla natura?
Dio. Chi fa vegetare tutte le piante? Dio. Chi fa muovere gli animali? Dio. Chi dà la forza di
pensare all’uomo? Dio». Qualche ingenuo cattolico - non certo Martini - potrebbe stupirsi che
queste righe siano state vergate dalla penna di François-Marie Arouet, detto Voltaire, che alla voce
«Catechismo cinese» del suo Dizionario filosofico (1764, prima edizione anonima Ginevra, anche
se l’indicazione formale è Londra) aveva affidato all’esotico principe Ku la descrizione di come quel
fondamento sostenga mondo, vita e intelligenza.
Nonostante la rinascita di forme più o meno virulente di fondamentalismo (cui Martini ha sempre guardato con estrema severità), è difficile sottrarsi all’impressione che il mondo disincantato di oggi si sia ormai affrancato da opzioni deistiche cui dava ancora spazio l’illuminista Voltaire.
L’impresa scientifica non ci pare cattolica o protestante più di quanto non sia induista, buddhista o confuciana. Né abbiamo a che fare nella nostra realtà quotidiana con una morale civile che possa venire dedotta in modo univoco da questa o quella dogmatica religiosa: in tal caso ne soffrirebbe la nostra stessa apertura democratica. In altre parole, siamo lontani da quel pretendersi tutti «cattolici, anzi cattolicissimi» come ancora faceva Galileo Galilei; per non dire dell’omaggio mistico di un Keplero al Dio uno e trino che nelle forme geometriche rispecchia la propria essenza o della sottomissione di un Newton al «Signore del mondo» che colma con la sua insondabile benevolenza le lacune della legalità fisica.
Per Martini la struttura pluralistica di scienza e società non costituiva affatto una sconfitta della proposta cristiana ma un suo punto di forza, nella convinzione che nella rinuncia a qualsiasi imposizione riacquistasse senso persino quel «bisogno indistinto di silenzio, di ascolto, di respiro contemplativo» che intesse l’atto della preghiera.
Né mancava in Martini un franco riconoscimento del valore individuale della scelta: tale «avventura difficile e inebriante» richiede infatti che ci sia sempre un io che corre il rischio della decisione, «anche se vivo, decido, prego in una comunità di fratelli che mi sostiene, mi rianima e spiritualmente mi dilata». Certo, la libertà umana «è sempre tentata d’infedeltà», e cristianamente Martini vedeva qui anche la radice di disordine e prepotenza, che possono inquinare persino l’orazione al punto di farne «il tentativo di piegare la divina volontà alla nostra».
Ma laicamente sapeva pure che quella stessa «infedeltà» può diventare la molla dell’insofferenza al conformismo, che è il frutto della restaurazione di qualsiasi fondamentalismo - persino di un fondamentalismo scientista, che vede nelle conquiste tecnico-scientifiche lo strumento di un dominio assoluto da parte di un’élite di tecnocrati a spese dell’ambiente e dei singoli individui.
Mi sia lecito aggiungere che un siffatto «atteggiamento di orgoglioso e bruciante possesso» a mio parere vanificherebbe la stessa crescita della conoscenza, intesa non solo come ricerca di «verità» continuamente rivedibili e mai definitive, ma anche come condivisione linguistica tra la cerchia degli specialisti e il pubblico più ampio, capace di incrementare la critica e il dissenso, a loro volta intesi come stimoli a nuove e incessanti scoperte. È mia convinzione e speranza che su questo possano davvero convergere le parole degli uomini e quelle di Dio.
«Il modello? Il dialogo misterioso nel sepolcro di Gesù»
di Carlo Maria Martini (Avvenire, 12 settembre 2012)
Solitamente si dà della comunicazione una definizione empirica: comunicare è «dire qualcosa a qualcuno». Dove quel «qualcosa» si può allargare a livello planetario, attraverso il grande mondo della rete che è andato ad aggiungersi ai mezzi di comunicazione classici. Anche quel «qualcuno» ha subìto una crescita sul piano globale, al punto che gli uditori o i fruitori del messaggio in tempo reale non si possono nemmeno più calcolare.
Questa concezione empirica, alla luce dell’odierno allargamento di prospettive, dove sempre più si comunica senza vedere il volto dell’altro, ha fatto emergere con chiarezza il problema maggiore della comunicazione, ossia il suo avvenire spesso solo esteriormente, mantenendosi sul piano delle nude informazioni, senza che colui che comunica e colui che riceve la comunicazione vi siano implicati più di tanto.
Per questo vorrei tentare di dare della comunicazione una descrizione «teologica», che parta cioè dal comunicarsi di Dio agli uomini, e lo vorrei fare enunciando qui alcune riflessioni che potrebbero servire per una nuova descrizione del fenomeno.
Nel sepolcro di Gesù, la notte di Pasqua, si compie il gesto di comunicazione più radicale di tutta la storia dell’umanità. Lo Spirito Santo, vivificando Gesù risorto, comunica al suo corpo la potenza stessa di Dio. Comunicandosi a Gesù, lo Spirito si comunica all’umanità intera e apre la via a ogni comunicazione autentica. Autentica perché comporta il dono di sé, superando così l’ambiguità della comunicazione umana in cui non si sa mai fino a che punto siano implicati soggetto e oggetto.
La comunicazione sarà dunque anzitutto quella che il Padre fa di sé a Gesù, poi quella che Dio fa a ogni uomo e donna, quindi quella che noi ci facciamo reciprocamente sul modello di questa comunicazione divina. Lo Spirito Santo, che riceviamo grazie alla morte e resurrezione di Gesù e che ci fa vivere a imitazione di Gesù stesso, presiede in noi allo spirito di comunicazione. Egli pone in noi caratteristiche, quali la dedizione e l’amore per l’altro, che ci richiamano quelle del Verbo incarnato. Di qui potremmo dedurre alcune conclusioni su ogni nostro rapporto comunicativo.
Primo. Ogni nostra comunicazione ha alla radice la grande comunicazione che Dio ha fatto al mondo del suo Figlio Gesù e dello Spirito Santo, attraverso la vita, morte e resurrezione di Gesù e la vita di Gesù stesso nella Chiesa. Si capisce perciò come i Libri sacri, che in sostanza parlano di questa comunicazione, siano opere di grande valore per la storia del pensiero umano. È vero che anche i libri di altre religioni possono essere ricchi di contenuto, ma questo è dovuto al fatto che sottostà a essi il dato fondamentale di Dio che si dona all’uomo.
Secondo. Ogni comunicazione deve tenere presente come fondante la grande comunicazione di Dio, capace di dare il ritmo e la misura giusti a ogni gesto comunicativo. Ne consegue che un gesto sarà tanto più comunicativo quanto non solo comunicherà informazioni, ma metterà in rapporto le persone. Ecco perché la comunicazione di una verità astratta, anche nella catechesi, appare carente rispetto alla piena comunicazione che si radica nel dono di Dio all’uomo.
Terzo. Ogni menzogna è un rifiuto di questa comunicazione. Quando ci affidiamo con coraggio all’imitazione di Gesù, sappiamo di essere anche veri e autentici. Quando ci distacchiamo da questo spirito, diveniamo opachi e non comunicanti.
Quarto. Anche la comunicazione nelle famiglie e nei gruppi dipende da questo modello. Essa non è soltanto trasmissione di ordini o proposta di regolamenti ma suppone una dedizione, un cuore che si dona e che quindi è capace di muovere il cuore degli altri.
Quinto. Anche la comunicazione nella Chiesa obbedisce a queste leggi. Essa non trasmette solo ordini e precetti, proibizioni o divieti. È scambio dei cuori nella grazia dello Spirito Santo. Perciò le sue caratteristiche sono la mutua fiducia, la parresia, la comprensione dell’altro, la misericordia
L’operazione-anestesia sul cardinal Martini
di Vito Mancuso (la Repubblica, 9 settembre 2012)
Con uno zelo tanto impareggiabile quanto prevedibile è cominciata nella Chiesa l’operazione anestesia verso il cardinal Carlo Maria Martini, lo stesso trattamento ricevuto da credenti scomodi come Mazzolari, Milani, Balducci, Turoldo, depotenziati della loro carica profetica e presentati oggi quasi come innocui chierichetti.
A partire dall’omelia di Scola per il funerale, sulla stampa cattolica ufficiale si sono susseguiti una serie di interventi la cui unica finalità è stata svigorire il contenuto destabilizzante delle analisi martiniane per il sistema di potere della Chiesa attuale. Si badi bene: non per la Chiesa (che anzi nella sua essenza evangelica ne avrebbe solo da guadagnare), ma per il suo sistema di potere e la conseguente mentalità cortigiana.
Mi riferisco alla situazione descritta così dallo stesso Martini durante un corso di esercizi spirituali nella casa dei gesuiti di Galloro nel 2008: “Certe cose non si dicono perché si sa che bloccano la carriera. Questo è un male gravissimo della Chiesa, soprattutto in quella ordinata secondo gerarchie, perché ci impedisce di dire la verità. Si cerca di dire ciò che piace ai superiori, si cerca di agire secondo quello che si immagina sia il loro desiderio, facendo così un grande disservizio al papa stesso”.
E ancora: “Purtroppo ci sono preti che si propongono di diventare vescovi e ci riescono. Ci sono vescovi che non parlano perché sanno che non saranno promossi a sede maggiore. Alcuni che non parlano per non bloccare la propria candidatura al cardinalato. Dobbiamo chiedere a Dio il dono della libertà. Siamo richiamati a essere trasparenti, a dire la verità. Ci vuole grande grazia. Ma chi ne esce è libero”.
Quello che è rilevante in queste parole non è tanto la denuncia del carrierismo, compiuta spesso anche da Ratzinger sia da cardinale che da Papa, quanto piuttosto la terapia proposta, cioè la libertà di parola, l’essere trasparenti, il dire la verità, l’esercizio della coscienza personale, il pensare e l’agire come “cristiani adulti” (per riprendere la nota espressione di Romano Prodi alla vigilia del referendum sui temi bioetici del 2005 costatagli il favore dell’episcopato e pesanti conseguenze per il suo governo). È precisamente questo invito alla libertà della mente ad aver fatto di Martini una voce fuori dal coro nell’ordinato gregge dell’episcopato italiano e a inquietare ancora oggi il potere ecclesiastico.
Diceva nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme: “Mi angustiano le persone che non pensano, che sono in balìa degli eventi. Vorrei individui pensanti. Questo è l’importante. Soltanto allora si porrà la questione se siano credenti o non credenti”. Ecco il metodo-Martini: la libertà di pensiero, ancora prima dell’adesione alla fede.
Certo, si tratta di una libertà mai fine a se stessa e sempre tesa all’onesta ricerca del bene e della giustizia (perché, continuava Martini, “la giustizia è l’attributo fondamentale di Dio”), ma a questa adesione al bene e alla giustizia si giunge solo mediante il faticoso esercizio della libertà personale. È questo il metodo che ha affascinato la coscienza laica di ogni essere pensante (credente o non credente che sia) e che invece ha inquietato e inquieta il potere, in particolare un potere come quello ecclesiastico basato nei secoli sull’obbedienza acritica al principio di autorità. Ed è proprio per questo che gli intellettuali a esso organici stanno tentando di annacquare il metodo-Martini.
Per rendersene conto basta leggere le argomentazioni del direttore di Civiltà Cattolica secondo cui “chiudere Martini nella categoria liberale significa uccidere la portata del suo messaggio”, e ancor più l’articolo su Avvenire di Francesco D’Agostino che presenta una pericolosa distinzione tra la bioetica di Martini definita “pastorale” (in quanto tiene conto delle situazioni concrete delle persone) e la bioetica ufficiale della Chiesa definita teorico-dottrinale e quindi a suo avviso per forza “fredda, dura, severa, tagliente” (volendo addolcire la pillola, l’autore aggiunge in parentesi “fortunatamente non sempre”, ma non si rende conto che peggiora le cose perché l’equivalente di “non sempre” è “il più delle volte”).
Ora se c’è una cosa per la quale Gesù pagò con la vita è proprio l’aver lottato contro una legge “fredda, dura, severa, tagliente” in favore di un orizzonte di incondizionata accoglienza per ogni essere umano nella concreta situazione in cui si trova.
Martini ha praticato e insegnato lo stesso, cercando di essere sempre fedele alla novità evangelica, per esempio quando nel gennaio 2006 a ridosso del caso Welby (al quale un mese prima erano stati negati i funerali religiosi in nome di una legge “fredda, dura, severa, tagliente”) scrisse che “non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete - anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite - di valutare se le cure che gli vengono proposte sono effettivamente proporzionate”. Questa centralità della coscienza personale è il principio cardine dell’unica bioetica coerente con la novità evangelica, mai “fredda, dura, severa, tagliente”, ma sempre scrupolosamente attenta al bene concreto delle persone concrete.
Martini lo ribadisce anche nell’ultima intervista, ovviamente sminuita da Andrea Tornielli sulla Stampa in quanto “concessa da un uomo stanco, affaticato e alla fine dei suoi giorni”, ma in realtà decisiva per l’importanza dell’interlocutore, il gesuita austriaco Georg Sporschill, il coautore di Conversazioni notturne a Gerusalemme.
Ecco le parole di Martini: “Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti”. È questo il metodo-Martini, è questo l’insegnamento del Vaticano II (vedi Gaudium et spes 16-17), è questo il nucleo del Vangelo cristiano, ed è paradossale pensare a quante critiche Martini abbia dovuto sostenere nella Chiesa di oggi per affermarlo e a come in essa si lavori sistematicamente per offuscarlo.
Quel cammino con i non credenti
di Silvia Vegetti Finzi (Corriere della Sera - Milano, 4 settembre 2012)
Che cosa significano la personalità e il magistero dell’arcivescovo Carlo Maria Martini per un «non credente», per giunta donna, e di origine ebraica da parte di padre? Innanzitutto capacità di ascolto e poi riconoscimento di una appartenenza, direi all’umanità, che supera ogni genere di divisioni, sbarramenti, differenze e certificazioni.
All’opposizione «credenti e non credenti» sostituiva, come si sa, quella tra «pensanti e non pensanti» ove, alla seconda, non corrisponde nessuno in quanto alle domande più radicali non ci si può sottrarre. Nella vita procediamo verso un orizzonte a tratti oscuro, a tratti luminoso, mai definito una volta per tutte.
In questo senso siamo tutti in viaggio verso un luogo inesplorato di cui, più che la meta, Martini indicava la mappa: i testi sacri della cristianità, la Bibbia e il Vangelo. E in particolare la zona intermedia tra l’uno e l’altro, lo spazio in cui l’attesa s’illumina di speranza e la Salvezza diviene una possibilità concreta già nella Città terrestre, ancor prima di approdare nella Città celeste.
Quando, nel 1996, fui chiamata a parlare dalla «Cattedra dei non credenti» sul tema «La violenza è dentro di me?», non sapevo perché ero stata prescelta tra tanti possibili candidati. E non lo so tuttora. Forse per una certa incollocabilità: per non essermi mai schierata con un partito o identificata con una istituzione pur restando aperta al sociale, disponibile alle sue richieste.
La sera precedente m’invitò a cena e, intorno a una tavola frugale, cui partecipavano anche altri due o tre prelati, mi chiese che cosa ne pensavo dei bambini che crescono a Milano, in una città così poco favorevole all’infanzia.
Raramente ho trovato un interlocutore più attento e seriamente impegnato a comprendere i problemi e, se possibile, trovare soluzioni praticabili. Quanto alla successiva conferenza, mi chiese di riflettere sulla mia vita, sul fatto di essere nata, con un cognome evidentemente ebreo, nell’anno della emanazione delle «Leggi speciali» che inaugurarono le persecuzioni antisemite in Italia.
La seconda parte del mio discorso avrebbe invece dovuto esporre l’etica femminile. Trattai il tema nel segno della «differenza sessuale» contrapposta all’omologazione e proposi che, in quanto donne, dovremmo cercare di acquisire, non tanto autorità, quanto autorevolezza.
La serata, aperta dal biblista padre Salmann, proseguì con lo straordinario accostamento di Lalla Romano tra violenza e poesia. Ma il contributo più rilevante fu la riflessione sull’intero ciclo di conferenze che il cardinal Martini volle concludere così: «Dipende anche da ciascuno di noi se allo Spirito è dato ancora oggi di operare attraverso la nostra voce e le nostre mani».
Il pubblico era innumerevole e l’attenzione, nonostante l’ora tarda, senza cedimenti. Forse quelle potenzialità non ebbero l’esito sperato ma sono convinta che nulla vada perduto e che la folla, che ha sfilato due giorni per portargli l’ultimo saluto sia l’erede, talvolta inconsapevole, di quella grande stagione. Testimonianza di una Milano custode di un patrimonio di intelligenza e di sensibilità, di cultura e di solidarietà che ci fa sperare, anzi credere, in un domani migliore.
Nel giorno delle esequie del Card. C. M. Martini
di Alberto Simoni op (Koinonia-forum, n. 314 del 3 settembre 2012)
Cari amici,
una chiesa che dice (senza esserlo) e una chiesa che è (senza dirlo): ecco il quadro che abbiamo sotto gli occhi in questi giorni di rivelazione in morte del card. C.M.Martini, che sembra fare da cartina di tornasole di quella che Galli della Loggia - parlando di correnti della chiesa (Corriere della Sera, 2 settembre) - chiama “Una federazione di popoli diversi”.
In questo momento di grazia, non ci sono solo riti e celebrazioni da sbrigare, ma segni dei tempi da cogliere e frammenti da raccogliere, perché niente si perda. È quanto mi permetto di fare ancora una volta con i vari messaggi che in queste ore ci mettono in comunione e ci fanno pensare.
Parlando all’Angelus del 2 settembre della Legge di Dio che “è la sua Parola che guida l’uomo nel cammino della vita”, Benedetto XVI dice tra l’altro: “Ed ecco il problema: quando il popolo si stabilisce nella terra, ed è depositario della Legge, è tentato di riporre la sua sicurezza e la sua gioia in qualcosa che non è più la Parola del Signore: nei beni, nel potere, in altre ‘divinità’ che in realtà sono vane, sono idoli. Certo, la Legge di Dio rimane, ma non è più la cosa più importante, la regola della vita; diventa piuttosto un rivestimento, una copertura, mentre la vita segue altre strade, altre regole, interessi spesso egoistici individuali e di gruppo”. Ma forse questo coraggioso guardarsi allo specchio non basta, se finisce lì.
Sarebbe bastato invece che avesse semplicemente detto che qualcuno nella chiesa ha cercato per tutta la vita di risvegliare la coscienza e la memoria di questo Popolo di Dio e di farlo uscire dalla sua falsa sicurezza. E questo qualcuno è stato il card. C.M.Martini, che però il Papa si è guardato bene dal ricordare e dal proporre come servo della Parola e come guida alla chiesa di Dio, lasciando quella chiesa che lo ascolta nella illusione di essere al sicuro nel proprio ovile e suscitando invece disillusione in quella chiesa della diaspora che, insieme a tutte le donne e gli uomini di questo mondo, è alla ricerca di un pastore e di un ovile dove si possa entrare ed uscire.
Passi che il Papa non vada a Milano per testimoniare che è Pastore di tutta la Chiesa, ma che ignori il Pastore di una chiesa che è nel cuore dei più può far parte di giochi diplomatici ma non è un bell’esempio di collegialità: perché continuare a nascondere sotto il moggio le lampade che lo Spirito accende tra il Popolo di Dio? Ma se anche tutto ciò fa tristezza, non può impedire che gridino le pietre. E forse dal card. Martini c’è da imparare a far convivere, senza confonderle, “ragioni di Stato” con istanze evangeliche...
CEDIMENTO STRUTTURALE DELLA FIDUCIA:
di Roberto Esposito (la Repubblica, 3 settembre 2012)
Chi si aspettasse di trovare nel libro di Michela Marzano Avere fiducia. Perché è necessario credere negli altri, appena tradotto da Mondadori, un esercizio di tradizionale filosofia morale, rimarrebbe positivamente sorpreso. Non solo esso prende una salutare distanza da luoghi comuni sempre più diffusi - come quello della equivalenza tra verità e assoluta trasparenza -, ma annoda con esiti di particolare rilievo il linguaggio filosofico a quelli sociologico, antropologico, economico.
Del resto quale concetto, più di quello di fiducia, si pone nel punto di incrocio e di tensione tra il lessico teologico della fede, quello sociale della credenza e quello economico del credito? Per inquadrarlo in tutta la sua valenza l’autrice attiva uno sguardo genealogico che dall’età classica - ancora basata sull’onore ed il rispetto della promessa - arriva alla modernità, in cui la categoria di fiducia subisce una serie di contraccolpi che finiscono per rovesciare la société de confiance nella société de défiance - come si intitolano rispettivamente i saggi di A. Peyrefitte (Odile Jacob, 2005) e di Y Algan e P. Cahuc (Presse de l’Ecole normale supérieure, 2007).
Il punto di innesco di questo processo di secolarizzazione è costituito dalla critica cui i moralisti francesi, come Pascal, La Rochefoucauld e La Bruyère, sottopongono le antiche virtù eroiche dell’onore e della lealtà. Mandeville e Adam Smith assumono la medesima concezione disincantata, pur capovolgendone le conclusioni: sono proprio i vizi privati, e cioè gli interessi particolari, a costituire, nel loro insieme, la sorgente della ricchezza sociale. Ma questo passaggio dal negativo al positivo, presto traslato nell’immagine liberale della ‘mano invisibile’, si basa sulla sovrapposizione indebita tra la nozione, etica, di fiducia e quella, economica, di interesse: la “società di fiducia” di cui parla Smith poggia in realtà sulla generalizzazione della sfiducia reciproca.
È qui che l’autrice innesta il vettore forse più originale della propria ricerca, profilando con rapidi tratti il transito, genialmente intuito dall’economista scozzese John Law, dal sistema monetario incentrato sull’oro a quello fondato sull’emissione dei biglietti bancari e delle carte di credito. Il quale non può poggiare che sulla fiducia reciproca degli attori economici. Ma proprio qui inizia ad aprirsi quella frattura antropologica che oggi minaccia di diventare una vera e propria voragine: come conservare la fiducia nella solvibilità degli individui, delle banche o degli stessi Stati che le garantiscono, quando gli uomini si comportano in maniera palesemente egoistica? È come se tutto il castello dell’economia moderna poggiasse su un fondamento di carta destinato a strapparsi al primo urto.
La storia delle molteplici crisi finanziarie, dalla bancarotta del 1720 in Francia a quella dei nostri giorni, al di là delle ovvie differenze di tempo e di contesto, rimanda a questo vuoto originario, a partire dal quale la sfiducia tende sempre più rapidamente a sfondare le fragili pareti della fiducia: come scriveva Duclos nelle sue Memorie segrete, “la fiducia si ispira per gradi, ma basta un istante per distruggerla, e, allora è in qualche modo impossibile ristabilirla”. Senza una credibilità diffusa, l’intero sistema economico minaccia di crollare, ma per crearla occorre che da qualche parte si dia prova di meritarla.
È il cortocircuito in cui la speculazione finanziaria ha trascinato prima l’economia americana e poi il resto del mondo: il mancato pagamento dei subprimes ha portato alla caduta del prezzo degli alloggi ipotecati senza copertura. Ciò, a sua volta, ha determinato una generale crisi del credito e una conseguente perdita di fiducia nei confronti dell’intero sistema finanziario.
Tutto ciò è ben noto agli economisti. Che però tendono a restare chiusi all’interno del loro orizzonte, impedendosi così di vedere quella faglia che lo sottende, sulla quale concentra invece l’attenzione la Marzano. Quando il senso comune diventa quello efficacemente stilizzato nel film di Ridley Scott Nessuna verità (2008) “Non fidarti di nessuno. Inganna tutti”, la soglia di guardia è abbondantemente superata.
La fiducia, ridotta a credito economico, o a contratto giuridico, non è che l’ombra deformata della diffidenza. A quel punto, rotti gli argini etici che tengono insieme gli uomini, nulla può più arrestare la valanga. Quando, già nel 1937, Franklin D. Roosevelt affermava che l’egoismo è cattivo non solo moralmente, ma anche economicamente, coglieva l’anello decisivo della catena di crisi economiche che avrebbero squassato il sistema capitalistico.
Ad uscirne non bastano i - pur necessari - provvedimenti economici. E neanche solamente quelli politici. Serve un sommovimento generale delle coscienze che liberi l’idea, e la pratica, della fiducia dalla sua sudditanza all’ideologia dell’interesse. Alla sua base non vi può essere solo la fiducia in se stessi predicata dai nuovi addestratori di manager e trader, quanto il coraggio di fare la prima mossa - credere negli altri prima ancora che questi credano in te.
Con tutto il rischio che tale opzione comporta. Certo, guardarsi dalla sempre possibile cattiva fede altrui è opportuno, ma senza per questo presumere di dovere avere tutto sotto controllo. Un discorso - quello della Marzano - traducibile nelle categorie di comunità e di immunità: l’eccesso di protezione immunitaria contro il possibile pericolo conduce non solo alla rottura del legame sociale, ma anche al rischio mortale di una malattia autoimmune.
Fiume di folla per l’omaggio a Martini
I funerali presieduti da Scola. Maxischermi in piazza Duomo
di Bianca Maria Manfredi e Salvatore Lussu *
Milano, e non solo Milano, ha voluto rendere omaggio a quello che per 22 anni è stato il suo arcivescovo. Oltre 150 mila persone, più dell’intera popolazione di Bergamo, fra ieri e oggi hanno reso omaggio alla camera ardente del cardinale Carlo Maria Martini, che è stata allestita nel Duomo. Considerando che resterà aperta fino alle 23 e poi domani mattina dalle 7 alle 11.30, sarà presto superata quota 200 mila. Tanta gente comune, alla quale vanno aggiunti i tanti personaggi pubblici, tra cui il presidente del Consiglio Mario Monti, che non hanno voluto mancare.
Un fiume di folla di credenti e non credenti, come una serpentina, ha attraversato per tutto il giorno piazza Duomo davanti alla cattedrale. In mezzo, c’era chi ostentava una copia dell’Unità. Qualcun altro, invece, sgranava il rosario. Tutti accomunati dalla stima e dall’affetto per Martini. Fra gli altri, hanno reso omaggio al cardinale il ministro per i rapporti con il parlamento Piero Giarda, la presidente Rai Anna Maria Tarantola e Pippo Baudo.
L’ex arcivescovo Dionigi Tettamanzi ha presieduto i vespri e poi si è fermato a lungo in preghiera a fianco della bara. E in serata lo ha fatto anche l’attuale arcivescovo, Angelo Scola. Monti è arrivato in cattedrale intorno alle 17, accompagnato dall’arciprete del Duomo monsignor Luigi Manganini. Si è fermato a parlare con la sorella di Martini, Maris, e con gli altri parenti. Poi ha detto una preghiera davanti alla bara e si è ancora fermato un attimo a lato prima di andare in arcivescovado per un saluto al cardinale Scola. Un incontro durato circa un quarto d’ora. Monti sarà presente anche, domani, alla celebrazione delle esequie presiedute dall’arcivescovo, che pronuncerà l’omelia. Il cardinale Angelo Comastri, rappresentante del Papa, invece, leggerà un messaggio di Benedetto XVI.
Alle esequie sono attese migliaia di persone (fra gli altri i ministri Lorenzo Ornaghi, Renato Balduzzi e Andrea Riccardi, oltre a decine di parlamentari, inclusa Rosy Bindi) e per questo sono stati allestiti dei maxischermi in piazza Duomo. Ci saranno il presidente della Regione, Roberto Formigoni, e il sindaco Giuliano Pisapia che oggi ha visitato la camera ardente. Di Martini, ha ricordato Pisapia, "rimangono le parole e gli scritti". "Riflettere sempre rileggendoli - ha aggiunto - sarà importante per governare bene questa città, perché Milano torni ad essere accogliente, capace di essere generosa con tutti e di rispettare i diritti e i doveri di tutti".
Nei suoi anni da arcivescovo, Carlo Maria Martini si è trovato spesso a dover celebrare dei funerali ’eccellenti’: quelli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di padre David Maria Turoldo, delle vittime della bomba di via Palestro, dei 118 morti nella tragedia di Linate dell’otto ottobre 2001. Al funerale di Eugenio Montale nel 1981, fece riferimento a un passaggio del Vangelo di Luca sulla morte di Cristo: "Era verso mezzogiorno quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra". "Qualcosa di questo buio doloroso - disse - noi torniamo a sperimentare ogni volta che una voce a noi cara, che ha detto parole che interpretavano i nostri pensieri, si spegne". Parole che esprimono anche il sentire delle migliaia di persone che ieri e oggi hanno voluto rendergli omaggio
CREDENTI E NON IN FILA PER IL CARDINALE di Salvatore Lussu - Credenti e non credenti, tutti in fila. Per lui, per il Cardinale. L’amore che Milano sta tributando a Carlo Maria Martini ha una forma materialmente visibile: è un serpentone calmo e continuo, che sembra non volersi arrestare. Sono decine di migliaia di giovani, vecchi, di laici e di religiosi che da ieri si mettono in coda fuori dal duomo, pazienti, per dare un ultimo saluto al vescovo che per 23 anni ha ricoperto il ruolo di guida spirituale della città. Questa mattina, fanno sapere dalla Curia, sono già arrivati in 30 mila, dopo i circa 60 mila di ieri.
In tanti vogliono anche riportare a casa qualcosa che rappresenti e ricordi il momento, il fugace attimo di vicinanza alla bara che ospita il cardinale: ecco allora l’ immagine scattata con la macchina fotografica o, lo si è visto fare anche a diversi religiosi, tra cui una suora, con il cellulare. Una selva di scatti per quel feretro collocato davanti all’altare centrale. Una scena che si era vista già ieri, quando la salma di Martini è rimasta esposta per tutta la giornata, ma che è proseguita anche oggi, dopo che alle sei del mattino il corpo è stato chiuso nella bara che lo custodirà sotto il crocifisso di S.Carlo, in una delle navate della cattedrale. "Per me lui era una persona santa, come ce ne sono tante nella Chiesa - dice ad esempio Sandro, dopo aver scattato una foto al feretro - e conserverò questa immagine come qualcosa di prezioso". Ma, come detto, non sono solo i credenti a fare la fila.
"Sono venuta perchè Martini è stato il cardinale della mia giovinezza anche se non sono una di chiesa - spiega una signora di mezza età con una gonna beige e una maglietta gialla. Uno che ha contribuito al colloquio tra persone diverse merita rispetto, comunque la si pensi". e c’é chi ricorda episodi non prettamente religiosi "mi ricordo - racconta davanti alle telecamere un signore sui sessanta anni - che era sempre in mezzo alla gente ed è stato tra i primi ad intervenire per vedere cosa era successo e portare conforto dopo un attentato anni fa qui a Milano".
Fuori dal Duomo, intanto, c’é un serpentone di gente che, ordinata, attende il proprio turno per entrare, poi un passaggio veloce, magari inginocchiandosi per qualche istante davanti alla bara. In molti non trattengono la commozione. Ma è una commozione composta, come era nello stile del cardinale. "La compostezza, quasi la ieraticità, era un suo tratto - dice Giovanna mentre aspetta in coda - ma questo non faceva che dare più forza alle sue parole". I fedeli avranno ancora un giorno per salutare Martini: domani il duomo sarà aperto ancora fino alle 11,30, poi nel pomeriggio le esequie e l’estremo saluto della città.
Bettazzi: «Voleva andare avanti. E noi abbiamo avuto paura»
intervista a Luigi Bettazzi
a cura di Roberto Monteforte (l’Unità, 2 settembre 2012)
È stato un riferimento per molti, anche nella Chiesa il cardinale Carlo Maria Martini. Soprattutto per il suo coraggio e per la sua libertà, alimentata dalla forza del Vangelo, di parlare all’uomo contemporaneo.
Da qui anche la sua fedeltà al Concilio Vaticano II e la sua capacità di guardare con fiducia al futuro. È il biblista che si fa pastore e profeta. Così lo ricorda monsignor Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea e uomo del Concilio.
Monsignor Bettazzi, come risponderebbe a una delle ultime domande poste dal cardinale Martini: perché la Chiesa ha paura di avere coraggio?
«Perché cercando di incarnare il Vangelo nelle situazioni storiche - che è un suo dovere - troppo spesso si è rimasti fermi al passato. Quando il Papa era anche re, si dava un’impronta alla Chiesa adatta a quei tempi, ma non certo all’oggi. La Chiesa invecchia quando perde il rapporto con la storia che muta. Per questo Giovanni XXIII ha voluto un Concilio Vaticano II pastorale e non dogmatico. Che aiuti la Chiesa a camminare con la gente.
Forse abbiamo avuto paura che ciò portasse ad eccessivi rinnovamenti e tutti assieme - gerarchia e popolo di Dio - abbiamo avuto paura ad andare avanti. Questo avrebbe richiesto una purificazione dei nostri modi di pensare e di agire che forse richiedevano troppo sacrificio. A questa purificazione e al superamento di certi modi del passato ci ha chiamato il cardinale Martini, lui così radicato nella Parola di Dio, da sentire quanto forte fosse il richiamo a viverla nel nostro tempo».
Cosa è stato per lei?
«Un punto di riferimento. Non ho avuto molte occasioni di contatti personali con lui. Era un uomo di grande levatura, sia per la sua profonda conoscenza delle scritture, che per la sua preparazione. Sapeva illuminare le situazioni. Ho avuto modo di frequentarlo negli ultimi tempi a Gallarate, quando gli abbiamo presentato un progetto di rilancio del Concilio. Abbiamo trovato una certa consonanza, una simpatia. Durante uno di questi incontri mi ha chiesto di presiedere l’eucarestia familiare. Lo ricordo con molta commozione e gratitudine».
Cosa è stato per la Chiesa in Italia?
«Lo ripeto. Un punto di riferimento. L’insieme della Chiesa ufficiale gli riconosceva la sua grande personalità. Ma restava molto legata all’idea della tradizione come continuità da conservare. In latino tradere vuole dire trasmettere, quindi saper rinnovare i principi forti secondo le situazioni di un mondo che si sviluppa. Come dicevano gli antichi: nelle cose necessarie bisogna essere uniti, in quelle opinabili liberi, purché in tutte ci sia la carità. Era questo lo stile di Martini: da una parte l’attenzione alla Bibbia e dall’altra il dialogo con “la cattedra per i non credenti”. Il rinnovamento che cercava di vivere nella sua diocesi a Milano, non poteva non diventare motivo di attenzione per il resto della Chiesa. Il dialogo con i non credenti, ad esempio, che allora creò scalpore, alla fine è stato riproposto da papa Benedetto XVI all’incontro di preghiera per la pace tra le religioni tenutosi ad Assisi lo scorso anno. Ha voluto che ci fosse anche un non credente».
Ma intervenendo nel 2005 alla riunione dei cardinali che precedette l’elezione del successore di Giovanni Paolo II ha posto con chiarezza l’esigenza di un rinnovamento nella Chiesa...
«Non da candidato al pontificato. D’altra parte era già malato. Pare che abbia invitato tutti i porporati a votare per Ratzinger, chiedendo però al futuro Benedetto XVI di impegnarsi per il Concilio, per la collegialità e per l’ecumenismo. Sono i punti che il nuovo Papa affronterà nel suo primo discorso dopo l’elezione al Conclave. Quando due anni fa Martini si è recato in udienza dal Papa, non avrebbe parlato della successione alla diocesi di Milano, ma posto l’esigenza di un rilancio del Concilio a 50 anni dalla sua apertura».
Ha avuto ascolto...
«Non poteva non averlo. Poneva le sue idee con moderazione. Ed anche chi divergeva da lui, non poteva non guardare alle sue idee. Non poteva ignorare che nascevano da un uomo profondamente radicato nella parola di Dio. Una parola che, ci ha aiutato a capire, non è un deposito delle verità di fede, ma l’invenzione di Dio per metterci a tu per tu - il popolo antico e quello nuovo composta da ciascuno di noi -con Lui. E se sei “a tu per tu con Dio” hai la forza anche per sacrificare modi di valutare le cose che in passato potevano essere utili alla Chiesa, ma che oggi non lo sono più. È così che può parlare al cuore del tempo e quindi anche ai giovani, con le loro sensibilità e mentalità diverse dalla nostra. Lo chiede il Concilio che con il documento sulla Chiesa pone con nettezza la centralità del popolo di Dio nella Chiesa. Il laicato, prima di di dover obbedire alla gerarchia, deve vedere questa mettersi al suo servizio».
Sono stati punti fermi per Martini...
«...Che non chiese mai la convocazione di un Concilio Vaticano III. Sapeva bene che vi era il rischio che si mettessero in discussione punti importanti del Vaticano II. Quello che ha chiesto è che su alcuni punti particolari, come la sessualità, la bioetica, la pastorale dei divorziati e sui punti oggi caldi per la Chiesa tutti i vescovi del mondo venissero a Roma per decidere con l’autorevolezza del Concilio e con il Papa. Sarebbe il modo di vivere la collegialità superando i limiti dei Sinodi». Saranno accolte queste richieste poste da un profeta che ha avuto la libertà di guardare oltre? «Me lo auguro. A volte i profeti da morti hanno più influenza che da vivi. Direbbe Martini: è il principio evangelico, quello del frutto di frumento che in terra se vive resta solo, se muore da molto frutto».
Morto cardinal Martini
Nel 2002 si ritirò a Gerusalemme, tornò nel 2008 *
E’ morto il cardinale Carlo Maria Martini. Lo comunica l’arcivescovo di Milano, Angelo Scola. Pochi istanti fa, dal cancello del collegio Aloisianum è uscito un anziano sacerdote, che non ha voluto rendere noto il proprio nome, e che però ha detto ai giornalisti che lo hanno avvicinato per chiedergli se sapesse qualcosa del Cardinale, "Martini è morto". "Era un grande uomo - ha aggiunto l’anziano sacerdote - un grande studioso, ci ha lasciato tanti insegnamenti, era un uomo di Dio". Poi si è allontanato in auto.
La camera ardente per Carlo Maria Martini, l’ex arcivescovo di Milano morto oggi a Gallarate, sarà allestita in Duomo dalle 12 di domani. I funerali saranno celebrati sempre in cattedrale lunedì alle 16. Lunedì a Milano sarà lutto cittadino.
Con il cardinale Carlo Maria Martiniscompare un protagonista degli ultimi decenni nella vita della Chiesa cattolica, che ha interpretato spesso posizioni ’avanzate’, non solo sui temi etici, e non di rado in contrasto con le linee ufficiali della gerarchia vaticana. Di lui si può parlare anche come di un "mancato Papa", essendo arrivato al Conclave del 2005, quello che elesse Benedetto XVI, come uno dei "papabili", sostenuto - si disse allora - dall’ala più progressista del Collegio cardinalizio. Già dal 2002 arcivescovo emerito di Milano, trasferitosi a Gerusalemme per riprendere i suoi prediletti studi biblici, in realtà - secondo le successive ricostruzioni - in quel Conclave Martini ottenne meno consensi del previsto e il duello nelle quattro votazioni si restrinse ai soli Ratzinger e Bergoglio.
Eccelso biblista, grande propulsore dell’ecumenismo tra le varie Chiese e confessioni cristiane, promotore del dialogo tra cristianesimo ed ebraismo, il gesuita Martini ha avuto più volte anche posizioni critiche su decisioni dell’attuale Papa, spesso ’scomode’, o comunque non in linea con l’ufficialità. Ad esempio, nel luglio 2007, con un’intervista al Sole 24 Ore, Martini criticò il ’motu proprio’ "Summorum Pontificum" con cui Benedetto XVI aveva liberalizzato la messa in latino col rito tridentino.
"Amo la messa preconciliare e il latino ma non celebrerò la messa con l’antico rito", disse in sostanza il porporato, apprezzando comunque "la volontà ecumenica a venire incontro a tutti" mostrata dal Pontefice tedesco. Nel marzo 2010, poi, nel pieno dello scandalo pedofilia nella Chiesa cattolica, venne riportato un suo pronunciamento favorevole al ripensamento dell’obbligo di celibato dei preti. In un comunicato diffuso però dall’arcidiocesi di Milano, Martini smentì tali dichiarazioni, sostenendo anzi di ritenere "una forzatura coniugare l’obbligo del celibato per i preti con gli scandali di violenza e abusi a sfondo sessuale".
Ma è in particolare sui temi etici che le sue prese di posizione ha fatto più volte scalpore. Nell’aprile del 2006 avevano fatto molto discutere le aperture di Martini sull’uso del profilattico, indicato come "male minore" nel caso di prevenzione dal contagio Hiv. "Lo sposo affetto dall’Aids - spiegava in un dialogo per L’Espresso con il chirurgo Ignazio Marino, poi diventato parlamentare Pd - è obbligato a proteggere l’altro partner e questi pure deve potersi proteggere". In quel dialogo, Martini manifestava anche prudenza nell’esprimere giudizi sulla fecondazione eterologa ed invitava ad approfondire la strada per l’adozione di embrioni, anche da parte delle donne single, pur di impedirne la distruzione. Disco verde veniva dato anche all’adozione per i single: in mancanza di una famiglia "composta da uomo e donna che abbiano saggezza e maturità", anche "altre persone, al limite anche i single, potrebbero dar di fatto alcune garanzie essenziali. Non mi chiuderei perciò a una sola possibilità".
E sull’eutanasia: "neppure io vorrei condannare le persone che compiono un simile gesto su richiesta di una persona ridotta agli estremi e per puro sentimento di altruismo". Tuttavia "é importante distinguere bene gli atti che arrecano vita da quelli che arrecano morte. E questi ultimi non possono mai essere approvati". Tutti temi finiti anche nel recente libro "Credere e conoscere", di Martini e Marino (Einaudi), in cui non mancano ’aperture’ esplicite su questioni come, oltre che il profilattico, le coppie di fatto, sia etero che omosessuali. A proposito di chi ha partner dello stesso sesso, ad esempio, Martini diceva che "tale comportamento non può venire né demonizzato né ostracizzato".
Mentre, anche se la famiglia va difesa, "non è male, in luogo di rapporti omosessuali occasionali, che due persone abbiano una certa stabilità e quindi in questo senso lo Stato potrebbe anche favorirli. Non condivido - affermava l’arcivescovo emerito - le posizioni di chi, nella Chiesa, se la prende con le unioni civili". Anche se in contrasto con alcune delle posizioni di Benedetto XVI, comunque, Martini non ha mai fatto mancare il rapporto di vicinanza e fedeltà con l’attuale Papa, suo coetaneo, al quale, nell’ultimo incontro avuto a Milano il 3 giugno scorso, in occasione del Meeting mondiale delle Famiglie, ha espresso anche solidarietà per la vicenda dei documenti trafugati. "Ho voluto dire al Papa che accettare queste cose dolorose come dono è purificatorio. Lui soffre e noi soffriamo con lui. Ma la verità si compirà", aveva commentato Martini all’indomani dell’incontro in Curia.
* ANSA, 31 agosto 2012
L’ultima intervista: «Chiesa indietro di 200 anni. Perché non si scuote, perché abbiamo paura?»
intervista a Carlo Maria Martini
a cura di Georg Sporschill e Federica Radice Fossati Confalonieri (Corriere della Sera, 1 settembre 2012)
Come vede lei la situazione della Chiesa?
«La Chiesa è stanca, nell’Europa del benessere e in America. La nostra cultura è invecchiata, le nostre Chiese sono grandi, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita, i nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. Queste cose però esprimono quello che noi siamo oggi? (...) Il benessere pesa. Noi ci troviamo lì come il giovane ricco che triste se ne andò via quando Gesù lo chiamò per farlo diventare suo discepolo. Lo so che non possiamo lasciare tutto con facilità. Quanto meno però potremmo cercare uomini che siano liberi e più vicini al prossimo. Come lo sono stati il vescovo Romero e i martiri gesuiti di El Salvador. Dove sono da noi gli eroi a cui ispirarci? Per nessuna ragione dobbiamo limitarli con i vincoli dell’istituzione».
Chi può aiutare la Chiesa oggi?
«Padre Karl Rahner usava volentieri l’immagine della brace che si nasconde sotto la cenere. Io vedo nella Chiesa di oggi così tanta cenere sopra la brace che spesso mi assale un senso di impotenza. Come si può liberare la brace dalla cenere in modo da far rinvigorire la fiamma dell’amore? Per prima cosa dobbiamo ricercare questa brace. Dove sono le singole persone piene di generosità come il buon samaritano? Che hanno fede come il centurione romano? Che sono entusiaste come Giovanni Battista? Che osano il nuovo come Paolo? Che sono fedeli come Maria di Magdala? Io consiglio al Papa e ai vescovi di cercare dodici persone fuori dalle righe per i posti direzionali. Uomini che siano vicini ai più poveri e che siano circondati da giovani e che sperimentino cose nuove. Abbiamo bisogno del confronto con uomini che ardono in modo che lo spirito possa diffondersi ovunque».
Che strumenti consiglia contro la stanchezza della Chiesa?
«Ne consiglio tre molto forti. Il primo è la conversione: la Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal Papa e dai vescovi. Gli scandali della pedofilia ci spingono a intraprendere un cammino di conversione. Le domande sulla sessualità e su tutti i temi che coinvolgono il corpo ne sono un esempio. Questi sono importanti per ognuno e a volte forse sono anche troppo importanti. Dobbiamo chiederci se la gente ascolta ancora i consigli della Chiesa in materia sessuale. La Chiesa è ancora in questo campo un’autorità di riferimento o solo una caricatura nei media?
Il secondo la Parola di Dio. Il Concilio Vaticano II ha restituito la Bibbia ai cattolici. (...) Solo chi percepisce nel suo cuore questa Parola può far parte di coloro che aiuteranno il rinnovamento della Chiesa e sapranno rispondere alle domande personali con una giusta scelta. La Parola di Dio è semplice e cerca come compagno un cuore che ascolti (...). Né il clero né il Diritto ecclesiale possono sostituirsi all’interiorità dell’uomo. Tutte le regole esterne, le leggi, i dogmi ci sono dati per chiarire la voce interna e per il discernimento degli spiriti.
Per chi sono i sacramenti? Questi sono il terzo strumento di guarigione. I sacramenti non sono uno strumento per la disciplina, ma un aiuto per gli uomini nei momenti del cammino e nelle debolezze della vita. Portiamo i sacramenti agli uomini che necessitano una nuova forza? Io penso a tutti i divorziati e alle coppie risposate, alle famiglie allargate. Questi hanno bisogno di una protezione speciale. La Chiesa sostiene l’indissolubilità del matrimonio. È una grazia quando un matrimonio e una famiglia riescono (...).
L’atteggiamento che teniamo verso le famiglie allargate determinerà l’avvicinamento alla Chiesa della generazione dei figli. Una donna è stata abbandonata dal marito e trova un nuovo compagno che si occupa di lei e dei suoi tre figli. Il secondo amore riesce. Se questa famiglia viene discriminata, viene tagliata fuori non solo la madre ma anche i suoi figli. Se i genitori si sentono esterni alla Chiesa o non ne sentono il sostegno, la Chiesa perderà la generazione futura. Prima della Comunione noi preghiamo: "Signore non sono degno..." Noi sappiamo di non essere degni (...). L’amore è grazia. L’amore è un dono. La domanda se i divorziati possano fare la Comunione dovrebbe essere capovolta. Come può la Chiesa arrivare in aiuto con la forza dei sacramenti a chi ha situazioni familiari complesse?»
Lei cosa fa personalmente?
«La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Come mai non si scuote? Abbiamo paura? Paura invece di coraggio? Comunque la fede è il fondamento della Chiesa. La fede, la fiducia, il coraggio. Io sono vecchio e malato e dipendo dall’aiuto degli altri. Le persone buone intorno a me mi fanno sentire l’amore. Questo amore è più forte del sentimento di sfiducia che ogni tanto percepisco nei confronti della Chiesa in Europa. Solo l’amore vince la stanchezza. Dio è Amore. Io ho ancora una domanda per te: che cosa puoi fare tu per la Chiesa?».
Un uomo di Dio
di Vito Mancuso (la Repubblica, 01.09.2012)
Chi è stato Carlo Maria Martini? Si può rispondere dicendo un cardinale per lungo tempo papabile, l’arcivescovo per oltre vent’anni di una delle più grandi diocesi del mondo, il presidente per un decennio del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee. Un biblista all’origine dell’edizione critica più accreditata a livello internazionale del Nuovo Testamento (The Greek New Testament), il rettore di due tra le più prestigiose istituzioni accademiche del mondo cattolico (Università Gregoriana e Istituto Biblico), un esperto predicatore di esercizi spirituali a ogni categoria di persone, un gesuita di quella gloriosa e discussa Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola, un autore con una bibliografia sterminata in diverse lingue, e altre cose ancora.
Ma la risposta che coglie la peculiarità della sua persona si ottiene dicendo che fu un uomo di Dio. Il tratto essenziale della sua persona e del suo messaggio è tutto contenuto nel titolo del primo documento programmatico che egli indirizzò alla diocesi di Milano all’inizio del suo episcopato nel 1980: La dimensione contemplativa della vita.
A questo obiettivo egli ha educato con i suoi insegnamenti, e ancor più con tutta la sua persona, con la voce, lo sguardo, il portamento. Accostare Martini significava infatti intravedere quanto di più alto può dimorare nel petto di un uomo, ovvero l’intelligenza che serve incondizionatamente il bene e la giustizia e che non cessa mai, neppure di fronte alle assurdità e alle tragedie del vivere, di nutrire una singolare speranza nel senso e nella direzione della vita. Se l’espressione "nobiltà dello spirito", tanto cara a Meister Eckhart e a Thomas Mann, significa qualcosa, questo è il tentativo di descrivere l’esperienza suscitata dall’incontro con persone come Martini, profondamente uomini ma anche così diversi da ciò che è semplicemente umano, del tutto trasparenti ma non privi di silente mistero.
Martini è stato tra gli esponenti più significativi di ciò che viene solitamente definito cattolicesimo progressista, quell’ideale cioè di essere cristiani non contro, ma sempre e solo a favore della vita del mondo. In questo egli ha rappresentato uno dei frutti più belli del Concilio Vaticano II e di quella stagione che credeva nel rinnovamento della Chiesa in autentica fedeltà al Vangelo di Cristo, senza più nessun compromesso con il potere.
Ora che egli è morto, quella stagione si allontana sempre di più e si fanno sempre più rare, nel mondo cattolico italiano, le voci profetiche. Ma proprio a proposito di profezia, è necessario sottolineare la sua libera autodeterminazione di affrontate la morte in modo del tutto naturale, senza sondini nasogastrici o altri apparecchi del genere messi a disposizione dalla tecnica, nella piena fiducia di chi sa che sta per entrare in quella dimensione eterna che la fede chiama "casa del Padre".
Mi sia concesso infine un ricordo personale di colui che è stato il mio padre spirituale. Se io infatti iniziai a vivere seriamente la fede cristiana, fu prevalentemente a causa sua: in quanto vescovo della mia diocesi, egli faceva risplendere nella mia giovane mente di liceale l’ideale cristiano. Ciò che mi conquistò, fin dai suoi primi discorsi che leggevo o ascoltavo, fu il linguaggio. Prima ancora delle cose che diceva, ciò che catturava la mia giovane attenzione era il modo con cui le diceva, del tutto privo di retorica ecclesiastica ma al contempo così diverso rispetto al linguaggio quotidiano, un modo di parlare che sapeva far percepire un altro mondo senza essere "dell’altro mondo".
Le sue parole erano semplici ma severe, comprensibili ma profonde, elementari ma arcane, e soprattutto riferite sempre alle cose e alle situazioni, mai dette per se stesse, per far colpo sull’uditorio. Io ero poco più di un ragazzo e certamente allora non avrei saputo dire nulla delle caratteristiche del suo linguaggio, ma ne percepivo dentro di me l’autenticità esistenziale, avvertivo uno stile diverso, per nulla ecclesiastico ma non per questo privo di sacralità, anzi tale da farmi sentire che c’era veramente qualcosa di sacro nell’esistenza concreta degli uomini che andava servita con rettitudine, intelligenza e amore. E questo Carlo Maria Martini ha fatto, in fedeltà a Dio e agli uomini, per tutta la sua lunga vita.
L’attenzione ai non credenti
di Carlo Sini (l’Unità, 1 settembre 2012)
Ho incontrato per la prima volta il cardinale Martini in occasione della preparazione dei programmi per la Cattedra dei non credenti. Mi accolse nel suo studio in Arcivescovado, in ora serale. Nella penombra mi venne incontro con quel fare semplice e cordiale, mai affettato e mai impostato, che tutti coloro che lo conoscevano ricordavano e ammiravano in lui. Il tratto accogliente contrastava, senza che lui certo se ne avvedesse, con quella sua figura singolarmente alta e ieratica che non poteva non colpire chi per la prima volta lo incontrava e che comunque restava impressa poi nella memoria.
Parlammo del dialogo che, qualche giorno dopo, ci avrebbe visti insieme nell’aula magna della Università degli studi di Milano. L’argomento di quell’anno, per la Cattedra, era il tempo e io avevo proposto di concentrare il mio intervento su Agostino. Mi aspettavo qualche discreta domanda relativa alla impostazione che intendevo dare al discorso, ma con signorile distacco e discrezione Martini non vi fece il minimo cenno.
Si trattava semplicemente di un contatto preliminare per conoscerci un po’ e fu soprattutto lui a parlare di sé, del suo amore per gli studi teologici, purtroppo da tempo limitati dai suoi incarichi pastorali, della sua convinzione che la ricerca vive di libertà: l’iniziativa della Cattedra dei non credenti era pensata appunto in questo spirito di carità e di apertura.
Parlava con una modestia non affettata e con una serenità di tono che da un lato attraevano alla confidenza, dall’altro e nel contempo imponevano un istintivo riserbo. Da tempo avevo maturato una meditata stima per questo arcivescovo di Milano che coraggiosamente si adoperava e si esponeva in favore dei diritti del lavoro e della giustizia sociale e si batteva per l’accoglienza dei fratelli che venivano da lontano.
Per la mia relazione all’università mi preparai con molto impegno, naturalmente: anche i non credenti hanno, a loro modo, un’anima; ma Martini, prendendo dopo di me la parola, disse letteralmente: «Il professor Sini ci ha messo in parete!» Alludeva scherzosamente, con questa metafora da scalatori, ai passaggi forse troppo ardui della mia relazione. Per parte sua, abbassò considerevolmente il livello e il tono: parlava per i suoi credenti e per il buon popolo di Dio, senza nessuna pretesa di ben figurare. Anche in questo lo ammirai: a ognuno la sua parete e la sua parte, con reciproco rispetto e trasparente onestà.
Un seconda volta incontrai Martini in occasione della enciclica «filosofica» di papa Woityla: si trattava di un convegno organizzato dalla diocesi milanese per il quale ero invitato a portare una interpretazione «laica» del testo. Non feci mistero della mia posizione critica su certe tesi, ma Martini non mi ascoltò: dopo aver aperto i lavori e ringraziato i presenti, se ne andò, adducendo impegni improrogabili.
Aveva fatto il suo dovere, organizzando al meglio la manifestazione; ebbi però l’impressione che dell’enciclica non fosse entusiasta. Se ripenso alla conversazione privata all’Arcivescovado e ai suoi riferimenti al modo di intendere gli studi religiosi, l’insistenza dell’enciclica in favore di una filosofia universale che caratterizzerebbe l’intera umanità, consapevole o inconsapevole, non poteva trovarlo consenziente, o così mi parve e mi pare.
La grande e nobile figura di Martini mi ricorda ciò che disse Enzo Paci in occasione del discorso di Paolo V all’ONU: se un papa parla così, noi non possiamo che rallegrarcene. Lo spirito soffia dove vuole e non chiede a noi di decidere dove, come e per chi. La Cattedra per i non credenti ne è stato un segno indelebile.
Quel no alle cure l’ultima lezione
di Franco Garelli (Il Messaggero, 01.09.2012)
Se n’è andato in punta di piedi, piegato dalla lunga malattia, ma anche nel commiato non ha mancato di inviarci un messaggio, nel suo stile fermo ma discreto: sì alle cure essenziali, ma no ad altri aiuti impropri, che possono rientrare nell’ambito dell’accanimento terapeutico. Così, con un ulteriore atto di consapevole coraggio, si è spento ieri il cardinale Carlo Maria Martini, una delle più grandi figure della chiesa contemporanea, che a lungo è stato un punto di riferimento etico e spirituale non solo nella società italiana ma in tutta la cattolicità. Insigne studioso dei testi sacri, già rettore (a Roma) prima dell’università Gregoriana e poi dell’Istituto biblico, venne fatto vescovo in modo inatteso da Giovanni Paolo II con destinazione Milano, la diocesi cattolica più popolata del mondo, sovente trampolino di lancio per il pontificato.
Così non è stato per il cardinal Martini, fors’anche per i molti anni vissuti da Papa Wojtyla sul soglio di Pietro; o per lo stato di salute ormai precario con cui si è presentato all’ultimo Conclave, in cui è stato eletto Benedetto XVI. Ma al di là di ciò che molti prefiguravano, resta il singolare modo in cui Martini ha saputo interpretare il suo ruolo di vescovo nella sua città, nella chiesa e nel mondo, coniugando insieme cultura biblica e presenza pastorale, attenzione ai vicini e interesse per i «lontani», fedeltà alla Chiesa e aperture ecumeniche.
Il suo stile di pastore è ben simboleggiato dai tre cuori incisi nel suo stemma episcopale, che richiamano l’universalità, la tensione escatologica, la concretezza. Si tratta di tre icone che curiosamente corrispondono anche ai luoghi in cui il cardinal Martini ha maggiormente vissuto o in cui più si è identificato.
In primis Gerusalemme, la città che per un biblista richiama le cose ultime, è il crocevia del mondo, il luogo di elezione dei propri studi; ma che per Martini è stata anche la terra scelta per «quel che resta del giorno», ove si è rifugiato dopo le dimissioni da vescovo di Milano, dopo l’impegno intenso nella città terrena. A chi gli chiedeva «perché a Gerusalemme?», Martini rispondeva di esservi spinto dallo Spirito Santo. «Sono ispirazioni che non hanno una ragione logica»; se non quelle della preghiera, del ritorno agli studi intensi, del bisogno di «intercedere per una pace difficile», dello stare in «una terra di frontiera (quella di Gesù), piena di tensioni sociali e religiose, ma anche di dialogo e di riconciliazione».
Roma, invece, è stata per Martini non soltanto il luogo della formazione religiosa e sacerdotale (nella Compagnia di Gesù), della sua alta specializzazione scientifica, del forte impulso dato al rinnovamento degli studi biblici; ma anche la città dell’appartenenza universale, che si alimentava dei colloqui col Papa, della partecipazione ai Sinodi dei vescovi, del confronto con esponenti di altre confessioni religiose, dell’incrocio con culture diverse.
Infine, Milano è stata il luogo della «concretezza», la città che ha misurato il suo impegno di pastore. Un confronto non facile ma assai stimolante, per un uomo di studio e attento ai valori dello spirito come Martini, chiamato a calarsi nella capitale della finanza, della produzione e della moda, dove anche il mondo cattolico riflette la ricchezza e l’efficienza dell’operosità meneghina. Sovente lo Spirito si serve degli opposti per far crescere le coscienze e armonizzare l’ambiente.
Quando si parla delle aperture del cardinal Martini a Milano, i più ricordano l’iniziativa della «cattedra dei non credenti», tesa a riconoscere che la tensione spirituale non ha patrie e confini e può abitare ogni matrice culturale. L’obiettivo era di abbattere gli steccati, aprire un nuovo dialogo nelle città, da parte di un episcopato che sente prossimi non soltanto i «vicini» (il piccolo o grande gregge dei credenti) ma anche chi la pensa diversamente, quel mondo laico o non credente spesso in conflitto con la Chiesa.
Ma i tratti innovativi dell’episcopato Martini vanno ben oltre i momenti di dialogo con i «lontani». Basta ricordare le omelie che ogni anno il cardinale pronunciava a Sant’Ambrogio, veri e propri esercizi di discernimento, per la loro capacità di leggere i segni dei tempi, di penetrare in profondità gli eventi, di cogliere gli ammonimenti di Dio nella storia. Ciò che molti uomini di chiesa auspicano, ma non sono in grado (o non hanno il coraggio) di fare, era ricorrente in un pastore che aveva il gusto della parresia proprio nelle situazioni scomode.
Come quando ha affrontato il tema «terrorismo, guerra e pace», riflettendo sull’attentato dell’11 settembre 2001; o quando - con riferimento alla stagione di tangentopoli e dintorni - ha ricordato alla chiesa che «c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare»; o ancora, quando di fronte ad una chiesa che parla sovente di relativismo etico ha ricordato che c’è anche un «relativismo cristiano», che è «il leggere tutte le cose in relazione al momento nel quale la storia sarà palesemente giudicata». Per accennare soltanto agli inviti che rivolgeva ai milanesi a impegnarsi in campo civico e politico, per superare le crisi del malgoverno, pur ammonendo che occorre «andar oltre», perché anche la politica deve misurarsi con le categorie del «servizio», della giustizia, della conversione.
Tra i molti ricordi, non possiamo dimenticare la capacità del card. Martini di rapportarsi ai giovani, anzitutto con l’ascolto e poi con la Parola, come avveniva nella lectio divina che si celebrava regolarmente nel duomo di Milano; o i moltissimi libri di spiritualità che egli ha scritto e commentato, anche utilizzando un linguaggio semplice e immediato, con l’intento di rispondere alle esigenze di molti: perché, come diceva il cardinale, «oltre ai cristiani della linfa, vi sono quelli del tronco, della corteccia e infine quelli che come muschio stanno attaccati solo esteriormente all’albero».
Infine, non poteva mancare l’accenno al grande sogno coltivato dal cardinal Martini circa dieci anni or sono, quando dopo il Giubileo del 2000 ha gettato un ampio sguardo sulla sua lunga esperienza nella chiesa universale: l’esigenza di un nuovo Concilio ecumenico, che spinga tutti i vescovi a sentirsi più responsabili nel governo della Chiesa, e capaci di affrontare le molte sfide etiche e religiose che la modernità porta con sé. L’invito dunque ad osare di più, per essere anche oggi fedeli alla «Parola».
Nel 2005 poteva diventare pontefice
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 1 settembre 2012)
L’uomo, che poteva diventare Papa, non divideva il mondo in credenti e non-credenti ma in pensanti e non-pensanti. Aveva il dono dell’intelligenza, della fede, dell’umiltà e il coraggio della ricerca. Radicato nella Bibbia e al tempo stesso sensibile ai valori della modernità, esortava i credenti a misurarsi con la “libertà individuale e sociale, la democrazia, l’autonomia della ricerca come libertà dell’intelligenza individuale”. C’è stato un tempo, raccontava, in cui aveva sognato una “Chiesa nella povertà e nell’umiltà, che non dipende dalle potenze di questo mondo. Una Chiesa che concede spazio alla gente che pensa più in là. Una Chiesa che da coraggio, specialmente a chi si sente piccolo o peccatore. Una Chiesa giovane”.
Oggi, confessava dopo avere varcato l’ottantina, “non ho più di questi sogni... ho deciso di pregare per la Chiesa”. A Dio domandava di non essere lasciato solo, a Gesù avrebbe voluto chiedere nel momento del trapasso “se mi ama nonostante le mie debolezze e i miei errori e se mi viene a prendere nella morte, se mi accoglierà”.
È MORTO, rifiutando l’accanimento terapeutico, respingendo l’idea di un corpo mantenuto artificialmente in esistenza dalla tecnologia. D’altronde, con il chirurgo cattolico e parlamentare Pd Ignazio Marino, il cardinale aveva affrontato il tema delicato della morte non procurata, ma accettata naturalmente come rifiuto del dominio della macchina sul corpo. Casi come quello di Welby, ammonì, saranno sempre più frequenti e bisognerà riflettere come trattarli. Si trattasse del testamento biologico o della comprensione per i rapporti omosessuali - lui ammetteva il “valore di un’amicizia duratura e fedele tra due persone dello stesso sesso” - si trattasse di un nuovo approccio alla fecondazione artificiale o del ruolo della donna nella Chiesa o delle coppie di fatto o della collegialità come espressione della partecipazione dei vescovi del mondo al governo della Chiesa universale, Martini irritava spesso le gerarchie ufficiali con i suoi interventi pensosi e quindi scomodi.
Poteva diventare pontefice per le sue qualità e il vasto credito di cui godeva nel mondo cattolico e tra le Chiese cristiane. Un credito, che andava ben al di là dei confini confessionali, favorito dalla grande stima che gli portavano anche ebrei e musulmani e non credenti.
Ma al conclave del 2005 Martini arrivò già piegato dal Parkinson e la Chiesa cattolica non poteva permettersi due pontefici malati di seguito. In ogni caso Mar-tini appariva troppo riformista per un conclave, che si stava orientando su una linea di difesa identitaria del cattolicesimo. Non avrebbe avuto i voti necessari. Sicché alla fine invitò i suoi seguaci a votare per Josef Ratzinger.
Uomo di Chiesa, il porporato è stato in maniera “laica” estremamente partecipe alle convulsioni italiane. Politicamente, negli anni del berlusconismo trionfante, non si potrà scordare il suo tacito, ma chiaro contrapporsi alla linea di attivismo politico del cardinale Camillo Ruini, allora presidente della Cei. Non amava il clericalismo a copertura di fazioni politiche.
L’ARCIVESCOVO di Milano aveva il costume di intervenire periodicamente e con grande insistenza sui temi della legalità, della giustizia e della democrazia minacciata dagli interessi privati, perorando la causa di una politica per il bene comune. Contro il leghismo becero parlava di rispetto e accoglienza degli immigrati.
Contro la tendenza a frantumare il Paese parlava di solidarietà. I suoi discorsi per la festa di Sant’Ambrogio era campanelli d’allarme contro il degrado del Paese. Di “Mani pulite”, evento esploso nella sua diocesi, diceva che aveva insegnato che la “disonestà non paga mai. Prima o poi si arriva a un’esplosione. Tutte le forme di appropriazione del bene pubblico, coperte o subdole, non possono durare a lungo”.
Giovanni Paolo II lo aveva lanciato, spingendo lo studioso biblista ad assumere nel 1979 la carica impegnativa di arcivescovo di Milano e facendolo cardinale nel 1983. Giovanni Paolo II lo ridimensionò. Non piaceva a Wojtyla la tranquilla carica riformista di Martini, che pure stimava.
Wojtyla non accettava che la visione di Chiesa, di cui Martini era tenace portatore, potesse diventare un modello alternativo alla sua linea. Perciò, quando l’arcivescovo di Milano diventò troppo influente come presidente del Consiglio delle conferenze episcopali (cattoliche) europee, Giovanni Paolo II fece cambiare lo statuto dell’organizzazione, imponendo che potesse guidarla solo il presidente di un episcopato nazionale. Così Martini dovette lasciare il posto nel 1993.
Ma il cardinale non era personalità da scoraggiarsi. Nel 1999 - durante il Sinodo internazionale dei vescovi convocato da Wojtyla per analizzare l’Europa dopo la caduta del Muro di Berlino - l’arcivescovo di Milano sorprese i suoi confratelli evocando un “sogno”. Il sogno di un nuovo Concilio, che avesse il coraggio di discutere dei problemi più spinosi: l’“ecclesiologia di comunione del Vaticano II”, la carenza già drammatica di sacerdoti, la posizione della donna nella società e nella Chiesa, la partecipazione dei laici ad alcune responsabilità ministeriali, il tema della sessualità, la disciplina cattolica del matrimonio, l’ecumenismo e i rapporti con le “Chiese sorelle dell’Ortodossia”.
Un agenda cruciale, che papa Wojtyla ieri e papa Ratzinger oggi non hanno mai voluto affrontare.
QUALCHE ANNO prima, rifacendosi espressamente all’enciclica di Giovanni Paolo II Ut unum sint sul ripensamento della funzione dei pontefici, il cardinale aveva proposto di “rimodellare” in senso ecumenico il primato papale alla luce dell’autonomie delle diverse Chiese cristiane. “Si potrebbe - mi disse in un colloquio - iniziare in modo semplice. Con una consultazione di tutte le comunità cristiane convocate dal Papa... un tavolo in cui si affrontino i grandi problemi dell’ umanità per trovare una linea di azione al servizio dell’ uomo”. Martini era una miniera di idee riformatrici. O meglio aveva il coraggio di esprimere ciò che tanti nel mondo cattolico pensano di nascosto o avvolgono in scritti specialistici. Ma non era un esibizionista del riformismo. Era profondamente convinto del valore essenziale della preghiera, dello studio, della meditazione.
A Milano creò la “cattedra dei non credenti” per dialogare con la cultura contemporanea, ma istituì anche un giorno della settimana in cattedrale dedicato al “silenzio”, affinché i giovani dell’era del chiacchiericcio imparassero a calarsi nel proprio intimo. Via maestra per incontrare Dio.
Dei suoi tanti scritti e interventi rimane viva l’idea di un Concilio fecondo di nuove riforme . E che il fatto cristiano non si misura sul suo successo di massa, ma sulla capacità di testimonianza. “La domanda è: viviamo autenticamente il Vangelo?”. Pensosamente amava sottolineare: “Non puoi rendere cattolico Dio... certamente gli uomini hanno bisogno di regole e confini... ma Dio ha il cuore sempre più largo”.
«Voleva che l’ultima intervista fosse inserita nel testamento»
intervista a Federica Radice
a cura di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 4 settembre 2012)
«Quando ho incontrato per l’ultima volta il cardinale era il 23 agosto. Avevamo fatto avere a don Damiano Modena il testo della conversazione che il cardinale Martini aveva avuto con padre Georg Sporschill e me due settimane prima, l’8. Padre Sporschill aveva limato il testo in tedesco, io l’avevo ritradotto in italiano per poi mandare a Gallarate le due versioni, il cardinale aveva letto e approvato.
Quel giorno don Damiano mi disse: il testo è stupendo ma è molto forte, aspettiamo a renderlo pubblico dopo la morte. Tutti avevamo la consapevolezza che fosse una sorta di testamento. E ormai sapevamo che era una questione di giorni. L’idea era che quel testo facesse parte anche del suo lascito testamentario, don Damiano lo aveva già consegnato all’esecutore». Federica Radice Fossati Confalonieri non fa la giornalista, vive a Vienna e ha impegni più urgenti, «mi occupo dei miei tre bambini», è una delle persone che in questi anni è stata più vicina al cardinale, «un amico, un padre spirituale, un confessore: fu padre Georg a presentarmelo, nella Pasqua del 2008 a Gerusalemme».
La eco mondiale della «conversazione» con Martini pubblicata dal Corriere l’ha colta di sorpresa, ma fino a un certo punto. Il lamento per una Chiesa «stanca» e «rimasta indietro di 200 anni», l’invito a «liberare la brace dalla cenere», il bisogno di «uomini che ardono in modo che lo Spirito possa diffondersi ovunque», le domande: «Come mai non si scuote? Abbiamo paura?», l’esortazione: «Fede, fiducia, coraggio».
E gli occhi di Martini che sembravano ardere a loro volta, racconta Federica Radice Fossati Confalonieri, quando chiese secco a padre Georg: «E tu, che cosa puoi fare tu per la Chiesa?». La signora sorride: «L’ho visto vacillare, e far vacillare un uomo come Sporschill non è facile: uno che cercava i bambini nelle fogne in Romania, che ne ha salvati più di mille, un santo vivente. Lo dico per spiegare a chi il cardinale ha aperto l’ultima volta il suo cuore».
Non «un’intervista» dice, «piuttosto l’ultima conversazione, l’epilogo delle Conversazioni notturne a Gerusalemme che è diventato il libro più letto di Martini». Una conversazione che ha stupito loro per primi: «Pensavamo di parlare dieci minuti e siamo andati avanti due ore, padre Sporschill in tedesco, il cardinale in italiano e io, una donna laica, che traducevo e mi trovavo ad essere testimone di quel dialogo tra due grandi gesuiti».
Avevano deciso di andare a trovarlo quando don Damiano Modena era andato a Vienna in giugno. «Per Martini era un figlio spirituale, gli aveva detto: dopo la mia morte andrai da padre Georg». Decisero di rivedersi all’Aloisianum di Gallarate, la casa dei gesuiti dove Martini ha passato gli ultimi anni. Rimasero tutto il giorno, quell’otto agosto: la messa al mattino, dopo il pranzo e il riposo quella conversazione serrata di due ore nel pomeriggio. E Martini che, nonostante la fatica, sembrava sentisse l’urgenza di proseguire: «Continuava a parlare, andava avanti, io ero sbigottita. Poi, quando abbiamo finito, ha detto sollevato: adesso prendiamo il tè».
Non un attacco alla Chiesa, piuttosto un atto d’amore: «Non ha parlato di persone. L’attacco, semmai, è alla struttura rigida che vincola la Chiesa, i "vincoli dell’istituzione". La necessità di fare breccia, di aprirsi. Quando parlava dell’apparato burocratico ci ha detto: "Il nostro patrimonio culturale che dobbiamo conservare è ancora in grado di servire l’evangelizzazione e gli uomini? Oppure intrappolano le nostre forze in modo da paralizzarci quando un bisogno ci schiaccia?"».
Federica Radice Fossati Confalonieri si concede una breve risata: «Diceva che c’era bisogno di cardinali un po’ matti, di gente fuori dalle righe, persone che rompessero le barriere e sapessero portare novità. Come Madre Teresa». Poi ricorda quel 23 agosto: «Mi ha chiesto della mia famiglia, dei figli. Io gli ho domandato la sua benedizione. Sono uscita in lacrime. È difficile salutarsi quando sai che, su questa terra, non ti rivedrai più».