Albert Einstein diceva di essere andato a Princeton per passeggiare con Gödel. Gli omaggi di Albert Einstein e il paragone con la musica di Bach e la grafica di Escher
Lo studioso Francesco Berto racconta il teorema che ha cambiato la scienza moderna
Non solo matematica sugli impervi sentieri del genio
di Giuseppe Galasso (Corriere della Sera, 20.06.2008)
L’aneddoto più bello su Kurt Gödel è di Albert Einstein che diceva di essere andato a Princeton «solo per avere il privilegio di camminare insieme a Gödel sulla via di casa». Era un’ammirazione meritata. Il teorema per cui Gödel entrò nella storia della scienza è stato definito da Rebecca Goldstein (studiosa di filosofia, e anche narratrice) insieme al principio di indeterminazione di Heisenberg e alla relatività di Einstein la terza gamba di quel tripode di cataclismi teorici che sono stati percepiti come un terremoto nella profondità dei fondamenti delle «scienze esatte» e ci hanno condotti «in un mondo sconosciuto che quasi un secolo dopo stiamo ancora lottando per renderci conto di dove, esattamente, siamo arrivati».
Detto in parole poverissime, il teorema di Gödel dimostrava, nel 1931, che qualsiasi teoria matematica in guisa di sistema formale e coerente contenente l’aritmetica elementare (ossia la teoria dei numeri interi naturali) è «sintatticamente incompleta ». Per la logica matematica un sistema è sintatticamente incompleto se nel suo linguaggio si incontrano formule di cui non si può dimostrare né la verità, né la falsità. In altri termini (mi si passi l’esempio) è come se nella grammatica di una lingua si formulassero regole di cui non si possa dire se siano corrette o scorrette. Gödel smentisce così in modo radicale che, data l’inevitabilità di proposizioni indecidibili, si possano costruire nell’universo dei numeri sistemi formali in cui tutto sia conosciuto o conoscibile, e lascia, quindi, aperti e indecisi gli esiti di qualsiasi sistema.
La logica matematica prevede, però, anche un’altra incompletezza, quella semantica, se gli sviluppi di un sistema portano a formulare proposizioni non appartenenti al sistema stesso (in questo caso, per stare all’esempio di prima, è come se la grammatica italiana a un certo punto formulasse regole fuori della sua logica e del suo sistema, e secondo la logica e il sistema di un’altra ed estranea grammatica).
E quest’altra incompletezza era per Gödel causata dal fatto che in tutti i sistemi la coerenza interna, ossia la loro non-contraddittorietà, è una proposizione non decidibile al loro interno. In altri termini, incompleto nel primo senso, un sistema lo è anche nel secondo senso, essendo incapace di coerenza interna, e quindi di auto-sufficienza.
Si dirà: ma questo non è molto astratto, puramente teorico? Lo è, infatti, ma, come accade nella più alta scienza, dall’astrazione nascono conseguenze e applicazioni pratiche di sconcertante concretezza. Lo stesso Gödel assimilava le classi e i concetti logici, di cui si occupava, ai corpi fisici che sono a base delle percezioni dei nostri sensi.
In pratica, procedeva traducendo gli enunciati dell’aritmetica relativi alle proprietà formali o strutturali delle sue espressioni in enunciazioni semplicemente aritmetiche, per cui a ognuna di tali espressioni (formula, funzione, dimostrazione etc.) era associato un numero. Così, le relazioni logiche diventavano rapporti numerici. Poiché un sistema chiuso di tali rapporti era sintatticamente e semanticamente incompleto, occorreva, per procedere, uscire fuori dai sistemi chiusi e finiti e ammettere qualche ipotesi non formalizzabile in aritmetica.
Ora, pensate che nei computer qualsiasi oggetto o dato o immagine o testo etc. è traducibile in numeri ed è memorizzabile, e avrete un’idea di quel che è stata la correlazione stabilita tra dati numerici e dati logici, di cui Gödel è stato un protagonista, così come lo è stato della negazione che l’aritmetica costituisca un sistema finito e chiuso.
A far capire tutto ciò ha mirato Francesco Berto, docente di Ontologia a Parigi e di Logica a Venezia, col suo Tutti pazzi per Gödel! (Laterza). Quel tutti è, in realtà, un auspicio di Berto stesso, che di Gödel (perché, dice, seguirne il percorso logico è stato per lui «una delle esperienze più emozionanti») si dichiara, appunto pazzo e tali vuol fare diventare gli altri.
Speriamo che sia così. Non è tanto semplice. Berto stesso dice di avere spesso, da filosofo, sbattuto la testa in un muro di difficoltà. Dice pure che per il suo libro si deve sapere un po’ di logica elementare e che ha dovuto iniziare con un po’ di teoria degli insiemi. Ma chi supera gli ostacoli trova in lui una guida abile e suasiva. E la fatica sarà premiata.
Gödel è stato discusso, e dopo di lui matematica e logica hanno preso anche altri sentieri. Ma il nucleo duro del suo pensiero si è dimostrato, oltre che durevole, anche davvero affascinante (Berto ha ragione), quale lo ritrasse, fra gli altri, Douglas R. Hofstadter nel suo Gödel, Escher, Bach: un’eterna ghirlanda (Adelphi), associando, non a caso, il grande logico-matematico a un grande artista della grafica e a un sommo musicista.
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
25 aprile 2008. ITALIA: LA PAROLA RUBATA. Una sollecitazione (del 2004 e del 2003) ad uscire dal sonnambulismo, oggi e finalmente
FLS
Ricordando Smullyan
Il logico matematico più divertente del mondo
di Piergiorgio Odifreddi *
Un giorno Raymond Smullyan andò alla lavagna per una conferenza e disse: «O io ho una moneta tra le dita, o 2 più 2 fa 5». Poiché stava tenendo la moneta in mano, aveva detto il vero. Ma di colpo la moneta scomparve misteriosamente e Smullyan se ne tornò sornione al proprio posto.
L’uditorio di logici capì immediatamente lo scherzo di cui era stato vittima. Mostrando la moneta, Smullyan aveva dimostrato la verità della propria affermazione basandosi sulla prima alternativa. Ma facendola sparire, diventava vera la seconda alternativa: dunque Smullyan aveva dimostrato che 2 più 2 fa 5.
Strana e paradossale dimostrazione di un’assurdità, che solo un mago poteva permettersi di fare. E Smullyan era effettivamente un mago, che divertiva amici e studenti con una serie di trucchi da prestigiatore, anche se la sua reale professione era la matematica. Più precisamente, la logica matematica, nella quale aveva lasciato il segno nel 1961, mostrando in un famoso libro sulla teoria dei sistemi formali che i teoremi di limitatezza dimostrati da Kurt Gödel e altri negli anni Trenta erano molto più generali di quanto si fosse inizialmente sospettato.
Ma la sua notorietà si estese al grande pubblico con Qual è il titolo di questo libro? (Zanichelli, 1981). Come suggeriva fin dal titolo, il libro conteneva una serie di paradossi e indovinelli che mettevano alla prova l’abilità logica e la pazienza psicologica del lettore. Una serie di questi giochi coinvolgeva l’Isola dei Cavalieri e dei Furfanti (dall’inglese knight, "cavaliere", e knave, che significa sia "fante" che "furfante"), nella quale ciascun abitante o è un cavaliere, e dice sempre la verità, o è un fante, e dice sempre il falso. Se uno incontra un abitante, che domanda deve fargli per sapere se sia un cavaliere o un fante? Naturalmente non basta domandargli se è un cavaliere, perché la risposta sarebbe affermativa in ogni caso: cioè, una verità per un cavaliere e una falsità per un fante. Analogamente, non basta domandargli se è un fante, perché la risposta sarebbe negativa in ogni caso.
In realtà bisogna ricorrere al pensiero laterale: basta fargli una domanda della quale si conosce già la risposta. Per esempio, basta domandargli se è una mucca: il cavaliere dirà di no, ma il fante dirà invece di sì.
Smullyan spinse al limite questo genere di rompicapi in due libri memorabili: Fare il verso al pappagallo del 1985 (Bompiani, 1990) e Perenne indecisione del 1987. Il primo fornisce un’introduzione alla logica combinatoria. Il secondo è invece un trattamento completo dei teoremi di incompletezza e indecidibilità.
Prima ancora di pubblicare il suo primo libro di paradossi, Smullyan aveva percorso una strada diversa per la divulgazione della logica: quella della cosiddetta "analisi retrograda" degli scacchi, in cui si presenta una scacchiera con alcuni pezzi disposti in un certo modo, e si chiede al lettore di individuare l’unica serie di mosse che ha potuto portare a quella disposizione.
Ma Smullyan si interessava anche di religione e filosofia: nel 1977 uscì Il Tao è silente, professione di fede nel taoismo. Ritornò sul tema nel 2003 con Chi lo sa?, presentato nel sottotitolo come "uno studio della coscienza religiosa".
D’altronde, già dal suo aspetto fisico si sarebbe detto che Smullyan era un immortale taoista o un vecchio saggio: la lunga chioma e la folta barba bianche, oltre allo sguardo penetrante, lo facevano infatti assomigliare a Tagore o al mago Gandalf del Signore degli anelli.
Anche nel campo etico Smullyan ha lasciato un segno, inventando un paradosso che porta il suo nome: "In un’oasi A e B decidono indipendentemente di assassinare C. A mette del veleno nella sua borraccia, B la buca e C muore di sete. Chi è colpevole della sua morte, visto che A ha messo del veleno che lui non ha bevuto, e B ha bucato una borraccia che conteneva acqua avvelenata?".
Come se non bastasse Smullyan era anche un ottimo pianista, e in rete si trovano molti video in cui suona.
Per questo il suo allievo Jason Rosenhouse ha intitolato Quattro vite il libro che gli ha dedicato nel 2014. E per questo sono morti quattro Raymond Smullyan il 6 febbraio di quest’anno, tutti di novantott’anni. Ed è doveroso ricordare "il più divertente logico mai esistito". Così Martin Gardner ha definito Smullyan. E dichiarato dal curatore di Alice nel paese delle meraviglie oltre che dal più celebre divulgatore di matematica del Novecento, è tutto dire.
I miei viaggi nel tempo tra i paradossi della Relatività di Einstein
di Seth Lloyd (La Stampa - TuttoScienze, 11.11.2015)
Il logico Kurt Gödel era noto per le ricerche su paradossi e problemi astrusi. Nel 1930 dimostrò che una qualunque teoria matematica che includesse l’aritmetica sarebbe stata incompleta, nel senso che sarebbe stato possibile formulare proposizioni corrette all’interno della teoria stessa, ma impossibili da dimostrare con la sola teoria in questione.
È questo il teorema di incompletezza, che mandò a gambe all’aria 2 mila anni di matematica e fornì le basi per i lavori di Alan Turing che hanno fondato l’era digitale. Negli Anni 40 Gödel lavorava all’«Institut of Advanced Studies» a Princeton. Il suò svago principale era fare lunghe passeggiate con il suo amico e collega Albert Einstein. Su consiglio del suo psichiatra Gödel aveva sospeso le ricerche sulle contraddizioni della matematica e aveva deciso di studiare la Relatività generale di Einstein, la teoria che descrive la gravitazione e il comportamento dell’Universo in termini di curvatura dello spazio e del tempo. Incapace di resistere alla sua attrazione per i paradossi, Gödel si concentrò sulla questione del viaggio nel tempo e dimostrò che la teoria di Einstein ammetteva soluzioni in cui una «nuvola di polvere cosmica» in rapida rotazione avrebbe curvato lo spazio e il tempo indietro su se stessi.
La curvatura dell’Universo di Gödel risulta talmente estrema che il tempo sarebbe trascorso su una curva chiusa, permettendo al viaggiatore del tempo di reincotrarsi. Gödel considerava la sua teoria come un omaggio all’amico Einstein, ma, quando quest’ultimo venne a sapere che la sua meravigliosa teoria avrebbe consentito i viaggi nel tempo, ne rimase orripilato.
Come suggeriscono la letteratura e il cinema, infatti, questi viaggi generano ogni tipo di paradossi. Per esempio un viaggiatore potrebbe tornare nel passato, incontrare per caso suo nonno ancora giovane, uccidendolo accidentalmente. Di conseguenza, il nonno non avrebbe potuto avere figli, il viaggiatore non sarebbe mai nato e non avrebbe potuto andare indietro nel tempo a uccidere il nonno.
Come si viene a capo di un tale paradosso? Un secondo esempio: una viaggiatrice del tempo legge la dimostrazione di un teorema in un libro, torna indietro, mostra la dimostrazione a un matematico che la include in un libro che sta scrivendo, lo stesso che lei leggerà nel futuro. Chi ha dimostrato il teorema? Nessuno, in apparenza.
C’è una massima in fisica, secondo cui, «se qualcosa è consentito da una legge fisica, allora esiste da qualche parte nell’Universo». Dato che la teoria di Einstein consente i viaggi nel tempo, allora, ha senso indagare che cosa possa accadere a un viaggiatore quando entra in una curva temporale chiusa e potenzialmente generatrice di paradossi. Il comportamento della materia - viaggiatori inclusi - è governato dalla meccanica quantistica, che è essa stessa fonte di ulteriori paradossi. Di conseguenza per tentare di dare un senso ai paradossi indotti dalle curve temporali chiuse di Gödel, è necessario costruire una teoria quantistica dei viaggi nel tempo. Molti fisici celebri, tra cui Kip Thorne e David Politzer, hanno investigato proprio la meccanica quantistica delle curve temporali chiuse. Le teorie sono essenzialmente di due tipi.
Nel primo tipo il viaggiatore del tempo può cambiare il passato, per esempio uccidendo il nonno. Quando cambia il passato, entra in un nuovo Universo con un futuro diverso da quello che si ricordava. Esempi di film basati sulle teorie di questo tipo sono «Ritorno al futuro» e «Un tuffo nel passato». Nelle teorie del secondo tipo il viaggiatore può tentare di cambiare il passato, ma, indipendentemente da quanto si sforzi, non ci riuscirà. Anzi. Produrrà inavvertitamente le condizioni che porteranno agli eventi futuri che cevuole impedire. Esempi di «tipo II» sono «Harry Potter: prigioniero di Azkaban», «L’esercito delle 12 scimmie» e la serie dei «Terminator».
I miei colleghi hanno studiato e ristudiato il problema del viaggio nel tempo nel contesto del teletrasporto quantistico: quest’ultimo utilizza il bizzarro e contro-intuitivo effetto chiamato «entanglement» (letteralmente «aggrovigliamento») con cui consentire a un sistema quantistico di essere distrutto in un punto per poi essere ricostruito a distanza in un altro. Nel teletrasporto quantistico ordinario la ricostruzione avviene successivamente alla distruzione. Però, io e i miei colleghi, siamo stati in grado di mostrare che, in presenza di una curva temporale chiusa, il teletrasporto quantistico può essere utilizzato per distruggere un sistema nel futuro per poi ricostruirlo nel passato, consentendo così al sistema di viaggiare nel tempo.
La nostra teoria consente quindi un’esplorazione dei paradossi dei viaggi nel tempo. Siamo anche stati in grado di effettuare un esperimento in cui abbiamo inviato un fotone - la particella scoperta da Einstein - diversi milionesimi di secondo indietro nel tempo, facendolo interagire con se stesso. Non esistendo una «Società per la prevenzione della crudeltà sui fotoni», abbiamo provato a far «uccidere» al fotone il se stesso del passato, impedendogli così di ritornare. In pratica abbiamo creato l’analogo fotonico del paradosso del nonno. Cosa è successo?
Non è andata come nei film che finiscono con la scritta «Nessun animale è stato maltrattato»: migliaia di miliardi di fotoni sono andati distrutti. Ma quel fotone che cercava di uccidere se stesso ha sempre fallito, consentendo a se stesso di tornare dalla sua futile missione. Gödel ne sarebbe stato orgoglioso.
Kurt GÖdel (1906-1978)
Una feconda incompletezza
Il suo teorema più famoso è uno dei più fraintesi e strumentalizzati della storia del pensiero
di Umberto Bottazzini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 26.04.2015)
Un risultato «unico e monumentale - in realtà più che un monumento, una pietra miliare che resterà visibile da lontano nello spazio e nel tempo». Le parole del grande matematico John von Neumann, collega di Gödel all’Institute of Advanced Study di Princeton, rivelano la sua sconfinata ammirazione per quello che, nel corso del tempo, è diventato il «teorema di Gödel» per antonomasia.
Vent’anni prima, nel 1930, von Neumann aveva partecipato al congresso di Königsberg su «epistemologia e scienze esatte» dove Gödel - a corollario della propria tesi di dottorato - aveva presentato per la prima volta il suo teorema, e ne aveva immediatamente colto la profondità e la portata. Quel «teorema di incompletezza», che ha consegnato il nome di Gödel alla storia, afferma che «tutti i sistemi formali della matematica finora conosciuti» come per esempio i sistemi assiomatici della teoria degli insiemi, supposto che siano coerenti, «contengono proposizioni aritmetiche indecidibili». In altre parole, per qualunque sistema formale coerente, abbastanza potente da esprimere le asserzioni dell’aritmetica ordinaria, esistono enunciati indecidibili, che non possono cioè essere dimostrati usando le regole deduttive del sistema.
Un profondo teorema di logica, dunque, che nel corso del tempo è stato citato sempre più spesso a sproposito nei contesti più diversi. In questo modo, osserva a ragione Riccardo Bruni, «si è finito per far dire a Gödel cose che i suoi lavori non dicono affatto». Non solo. L’enfasi posta su quel solo risultato «ha condotto a relegare sullo sfondo gli altri risultati da lui ottenuti, alimentando un’idea riduttiva della portata della sua opera».
Nel suo agile e denso Profilo, Bruni non solo restituisce quel celebre teorema al contesto delle ricerche logiche del tempo, ma ci offre un’immagine di Gödel «più completa e fedele all’originale» privilegiando i contributi che costituiscono «la spina dorsale» dell’opera del grande logico, riuscendo tuttavia a mantenere l’esposizione ad un livello accessibile anche a chi non è specialista. Bruni prende le mosse dalla tesi di dottorato di Gödel dedicata al problema della completezza semantica, ossia alla questione se le formule universalmente vere di un linguaggio formale siano anche dimostrabili a partire dagli assiomi logici.
La dimostrazione del teorema di completezza semantica della logica dei predicati del prim’ordine contenuta in quella tesi è il primo risultato importante di Gödel, cui fanno immediatamente seguito il teorema di incompletezza e il suo «corollario» che segna la fine del programma formalista perseguito da Hilbert e dalla sua “scuola”, cui aderiva anche von Neumann.
Tra le interpretazioni di quei risultati «più longeve e di maggior successo» Bruni ricorda quella che fa del teorema di Gödel «un argomento a sostegno dell’idea che le capacità matematiche della mente umana siano superiori a quelle di ogni dispositivo artificiale di calcolo», che in anni recenti è stata riproposta anche da Roger Penrose. Rispetto ai fraintendimenti più grossolani, questa interpretazione - afferma Bruni - si pone ad «un livello superiore di accuratezza» e tuttavia, anziché «svelare un “senso nascosto” della prova di Gödel» consente al più di «isolare il punto oltre il quale è necessario procedere» in maniera indipendente da quel teorema nell’analisi del rapporto mente-macchina.
Negli anni Trenta, dopo la pubblicazione dei suoi risultati di incompletezza, Gödel affrontò il problema del continuo di Cantor. Quel problema, egli scriverà nel 1947, «è semplicemente la questione: quanti sono i punti di una retta nello spazio euclideo?». In altri termini, «quanti insiemi diversi di interi esistono?». L’ipotesi formulata da Cantor nel 1878 era che ogni insieme più che numerabile di numeri reali può essere posto in corrispondenza biunivoca con tutti i numeri reali, cioè che non esiste alcun insieme con cardinalità compresa tra quella del numerabile e quella del continuo.
Quell’articolo del 1947 ha natura espositiva e non contiene risultati tecnici nuovi - Gödel stesso aveva dimostrato prima della guerra la consistenza dell’ipotesi di Cantor con la teoria assiomatica degli insiemi e la soluzione definitiva del problema sarà ottenuta da Paul Cohen nel 1964 - ma consente di approfondire le concezioni filosofiche che egli da anni aveva maturato, non solo in relazione alle proprie ricerche logiche. «Uno degli aspetti più interessanti della teoria della relatività per chi abbia una mentalità filosofica - scriveva ad esempio Gödel nel 1949 - consiste nel fatto che essa ha fornito nuove e sorprendenti intuizioni sulla natura del tempo».
Le «sorprendenti intuizioni» di Gödel a sostegno delle tesi di Kant «e gli idealisti moderni che negano l’oggettività del cambiamento», si basavano su un nuovo tipo di soluzioni cosmologiche da lui stesso trovate per le equazioni della teoria di Einstein, un nuovo modello di universo in cui le linee del tempo sono chiuse ed «è possibile viaggiare in qualsiasi regione del passato, del presente e del futuro».
Tuttavia, come osserva Bruni, l’analisi delle fonti lascia emergere le difficoltà di Gödel ad «esprimere il proprio pensiero sugli aspetti concettuali legati alla propria attività di ricerca». In una parola, a vestire i panni del filosofo, anche se le tracce delle sue riflessioni di carattere filosofico, sparse nei suoi ultimi lavori, rivelano la sua adesione ad una forma di realismo platonico, secondo cui «la matematica descrive una realtà non sensoriale, che esiste indipendentemente sia dalle azioni sia dalle disposizioni della mente umana e che viene solo percepita, e probabilmente percepita in modo molto incompleto, dalla mente stessa».
Gödel, lampi di genio grazie alla ballerina
L’avventura d’amore dalla Vienna Anni 20 agli Usa tra il grande logico e una ragazza del cabaret
di Mirella Serri (La Stampa TuttoLibri, 20.09.2014)
Il genio e la ballerina. Lei lo incontrava alle prime luci dell’alba rientrando dal Nachtfalter, il cabaret dove si esibiva in costume da marinaretta. Lui passeggiava alle cinque di mattina con le braccia incrociate dietro il pesante cappottone in cui era infagottato nonostante l’aria tiepida della primavera. Per una bionda come Adele Porkert, platinata alla maniera di Jean Harlow, le strade deserte di Vienna potevano riservare brutte sorprese e lei brandiva come arma contundente un sacchetto di pepe da gettare negli occhi dell’eventuale aggressore. Adele si era accorta, però, che quel ventiduenne allampanato di nome Kurt, dietro gli occhialetti cerchiati di nero, aveva lo sguardo perso e sognante. Che fosse un tipo speciale lo capì quando la invitò al caffè e, mentre lei divorava una gigantesca fetta di sacher-torte, Kurt misurava attento mezzo cucchiaino di zucchero da mettere nel suo scipito tè.
Si annidava in lui quella bestia nera che lo avrebbe divorato lentamente negli anni, portandolo a morire di fame in America, a Princeton, vittima delle sue paranoie e della sua anoressia. Adesso, a raccontarci la bellissima storia de La dea delle piccole vittorie, ovvero la vicenda di Adele, ragazza del café-chantant trasformatasi in angelo della Provvidenza per Kurt Gödel, uno dei maggiori logici di tutti i tempi, è l’esordiente francese Yannick Grannec. Di professione designer con il pallino della matematica, la Grannec ha venduto in breve tempo circa 100 mila copie del romanzo (fondato su documenti veri) dell’ex danzatrice di varietà che, con la sua eccezionale energia, tenne ancorato alla realtà lo studioso psicotico che ha gettato le basi del pensiero informatico moderno e ha influenzato la filosofia contemporanea.
Adele aveva una personalità agli antipodi di quella del «suo» scienziato: non aveva studiato, non aveva mai letto un libro, suo padre aveva un negozietto da fotografo, si abbigliava con gonne e corsetti di gusto improbabile, cambiava continuamente colore dei capelli. Gödel, invece, proveniva da una famiglia di ricchi industriali, vestiva con camicie di lino e completi che gli cadevano a pennello. Quando Kurt conobbe la giovane donna cattolica e divorziata che aveva sette anni più di lui, già frequentava il Circolo di Vienna ed era intimo del filosofo della scienza Rudolf Carnap. Lavorava al dottorato che conseguì con una splendida dissertazione, a seguito della quale verrà invitato a insegnare negli Stati Uniti, presso l’Institute for Advanced Study (Ias) di Princeton, da due cervelloni della teoria degli insiemi e della fisica atomica, John von Neumann e Oswald Veblen. Ma già era perseguitato dai suoi fantasmi: tagliava il cibo in pezzi piccolissimi e lo faceva assaggiare alla futura moglie per timore di essere avvelenato.
A seguito dell’assassinio, nel 1936, di Moritz Schlick, uno dei suoi amati insegnanti e fondatore del circolo positivista, ucciso da uno studente di matematica nazista, le paure di Gödel si moltiplicarono. La minaccia hitleriana contro i pensatori non allineati non era il parto di una fantasia malata e spinse i neosposi, convolati a nozze nonostante le resistenze della famiglia di lui, a una fuga avventurosa attraverso l’Urss e il Giappone verso gli Stati Uniti. Nel lungo percorso in Transiberiana, Gödel custodiva un segreto che gli aveva confidato Hans Thirring a Berlino e che, appena approdato a New York, avrebbe dovuto riferire ad Albert Einstein: la Germania di lì a poco sarebbe stata in grado di controllare la fissione nucleare.
A Princeton, Adele, che non parlava bene inglese e veniva guardata con sospetto, troverà uno straordinario alleato nel tenere in vita il fragile scienziato sempre più dominato dalle sue ossessioni: Einstein divenne per Kurt un’importante figura di riferimento. Il premio Nobel per la fisica lo aiuterà a riconquistare fiducia nella vita. La strana coppia formata dal taciturno ed elegante matematico e dall’originale scopritore della teoria della relatività, con indosso un vecchio maglione militare, un paio di pantaloni sdruciti, senza calze o con i calzini spaiati, e con la nota coiffure tutta scompigliata mescolata a fili di tabacco e di chissà cos’altro, si aggirava discutendo per le strade di Princeton. Sarà proprio la scomparsa di Einstein, il 18 aprile del 1955, e poi la perdita della salute da parte di Adele, colpita da un ictus, che avvieranno Gödel su una lenta strada del tramonto: quando si spegnerà, nel 1978, sarà un mucchietto di pelle e ossa che non raggiungeva i 40 chili.
Dopo la sua morte, Adele ritroverà non solo migliaia di quaderni in cui lui registrava tutti i giorni la temperatura corporea e il volubile andamento del suo intestino, ma anche la corrispondenza con la madre in cui le esponeva le sue elaborazioni filosofiche-matematiche. Non faceva mai nessun riferimento alla sua donna, a colei che gli permetteva di sopravvivere. Adele gli fu essenziale: ballerina senza arte né parte fu paradossalmente la sua musa. Senza di lei le scoperte di un fuoriclasse della matematica e del pensiero filosofico non sarebbero maturate né venute alla luce.
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
Il grande matematico austriaco riscrisse, con le armi della logica, la prova ontologica dell’esistenza di Dio. Una sfida per la teologia
E Gödel fa i conti con Anselmo
Il teorema si chiude con un perentorio: «Dio esiste necessariamente, come volevasi dimostrare». Però fu pubblicato postumo, perché il genio di Brno temeva i pregiudizi degli altri scienziati
DI ROBERTO TIMOSSI (Avvenire, 07.10.2010)
Una delle più grandi menti del XX secolo è sicuramente quella del moravo Kurt Gödel (1906-1978). Nato nell’odierna Brno, la vita di Gödel, come per altro quella di molti geni, fu piuttosto tormentata e dominata da quello che è stato chiamato ’il male di vivere’. Fin da giovane si dimostrò brillante negli studi, ma lungo il corso della sua esistenza dovette spesso combattere contro la depressione.
Nel 1926 fu tra i frequentatori del Circolo di Vienna e in questo vivace ambiente culturale neopositivista maturò definitivamente la sua vocazione nei confronti della ricerca logico-matematica. Mai scelta risultò più azzeccata visto che già nel 1931, a soli venticinque anni, esponeva in un celebre articolo i presupposti dei suoi teoremi di incompletezza destinati a sconvolgere tutte le teorie logico-matematiche elaborate fino a quel momento.
Se di Gödel sono molto noti i rivoluzionari contributi alla teoria logico-matematica, meno noto è il fatto che formulò una sua rielaborazione della prova ontologica di sant’Anselmo di Aosta, ossia di quella dimostrazione logica che ritiene di poter inferire l’esistenza di Dio a priori, partendo dal concetto che abbiamo di lui.
Del resto, fino al 1987 la prova ontologica gödeliana era nota esclusivamente a pochi amici dell’autore ed è inoltre rimasta a lungo tra le sue carte inedite. Su questo tema è ritornato di recente David P. Goldman (un redattore capo che dichiara di collocarsi in una prospettiva giudaico-cristiana) sulla prestigiosa rivista First Things, facendo un rapido riassunto del dibattito apertosi in filosofia sulla cosiddetta ’prova a priori’ e avanzando alcune osservazioni critiche.
Goldman rileva innanzitutto come la scoperta dell’impossibilità di fare della matematica un sistema formale in sé compiuto quale conseguenza dei teoremi di incompletezza conduca lo stesso Gödel a concludere che noi non possiamo conseguire un credibile approccio con la realtà senza la presenza di Dio.
Dopo aver infatti tentato nel 1949 di prospettare una soluzione originale delle equazioni della teoria generale della relatività del suo amico Albert Einstein sulla base dell’ipotesi di un universo in rotazione su se stesso, dopo aver cioè proposto una descrizione logica del cosmo, Gödel sancì che pure così al ’sistema’ continuava a mancare qualcosa di essenziale: la ragione dell’esistenza del mondo secondo un ordine logico-matematico. E la soluzione di questo problema poteva venire soltanto da una dimostrazione razionale dell’esistenza di Dio, ossia dalla necessità logica della presenza di un ente che assommi in sé tutte le qualità positive.
È dunque da presupposti sia logici sia esistenziali che è scaturita nella mente di Gödel l’esigenza di concepire una nuova prova ontologica modale. Ma, come nota correttamente Goldman, il Dio di Gödel non è né la divinità benevola della vecchia teologia naturale né il perfetto armonizzatore dei seguaci del disegno intelligente, dal momento che egli cela totalmente il proprio volto nel mondo e può essere colto soltanto nel paradosso e nell’intuizione razionale.
Nonostante ciò, Dio non è un’astrazione perché «può agire come una persona» ed è quanto constata facilmente chi come Gödel lo cerca nel paradosso.
Chi si imbatte nella prova ontologica di Gödel difficilmente riesce a non provare nello stesso istante ammirazione e sconcerto: ammirazione per il rigore logico della dimostrazione; sconcerto per l’arditezza della prova. Si tratta, infatti, di un teorema logico costituito da ventotto passaggi e strutturato con formule ben formate di logica simbolica (accompagnate da alcune annotazioni piuttosto scarne dell’autore), la cui conclusione equivale alla seguente perentoria affermazione: «Dio esiste necessariamente, come volevasi dimostrare».
La ritrosia dell’autore a renderla nota la dice lunga sui pregiudizi del suo ambiente universitario contro fede religiosa. Come ricorda sempre Goldman riportando le parole di Adele, la moglie di Gödel, «sebbene non andasse in chiesa era religioso e leggeva la Bibbia a letto ogni domenica mattina». Non manifestava pubblicamente le sue convinzioni religiose perché temeva di risultare ridicolo, visto che - come scriveva alla madre nel 1961 - «il novanta percento dei filosofi contemporanei considerava loro principale dovere espellere dalla testa degli uomini la beatitudine religiosa». Trattando della prova a priori dell’esistenza di Dio nel mio libro intitolato Prove logiche dell’esistenza di Dio da Anselmo d’Aosta a Kurt Gödel (Marietti), ho osservato che una dimostrazione di questo tipo può essere accolta se si accetta una qualche forma di platonismo delle idee o delle essenze per cui i concetti sono dotati di una realtà oggettiva.
Con questa tesi pare concordare anche David P. Goldman, il quale lascia intendere che Gödel in matematica era un ’platonista’, ovvero aderiva alla posizione di chi ritiene che i numeri e le funzioni matematiche non sono una mera ’costruzione’ del nostro intelletto, ma possiedono una realtà propria. A detta di Goldman, tuttavia, la sfida maggiore lanciata dal pensiero religioso di Gödel è rivolta non ai matematici, bensì ai teologi, che lo hanno fino ad ora volutamente evitato forse perché si tratta di una sfida troppo impegnativa.
Kurt Gödel il matematico che scriveva di Dio
Immaginando un paradiso di risposte
Escono due volumi di lettere del grande logico. Che mostrava antipatia per personaggi come
Russell, Wittgenstein e Popper E alla madre scriveva di Dio
Diceva che solo Kant aveva avuto un’influenza sul suo pensiero in generale
Conservò abitudini snervanti. Non rispondeva alle lettere. Prometteva saggi senza inviarli
Tentò di descrivere a un pubblico non specialista alcuni risultati del suo geniale lavoro
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 01.12.2009)
Per poter godere della musica, basta saper udire. Del cinema, saper vedere. Della letteratura, saper leggere. Della filosofia, saper pensare. Ma per la scienza e la matematica, i sensi e il cervello soggettivi non bastano: ci vuole anche molta conoscenza oggettiva, empirica e teorica. Dunque, nel mercato culturale i divi della musica riempiono i palasport, quelli del cinema le sale cinematografiche, quelli della letteratura le classifiche dei libri, quelli della filosofia le pagine culturali dei giornali, ma quelli della scienza e della matematica non li conosce e non se li fila praticamente nessuno: anzi, in quei campi non ci sono proprio per nulla i divi, se non in casi eccezionali e per i motivi sbagliati.
Per arginare almeno parzialmente questa singolare inversione qualitativa, anche i più grandi scienziati sono scesi talvolta a compromessi, scrivendo opere divulgative: dal Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo a Il sistema del mondo di Newton, da L’origine delle specie di Darwin a Il significato della relatività di Einstein. Ma non l’ha fatto Kurt Gödel, il più grande logico del Novecento e, insieme ad Aristotele, della storia: le sue Opere, pubblicate in Italia da Bollati Boringhieri in tre volumi nel 1999, 2002 e 2006, non contengono compromessi divulgativi di nessun genere.
Nella sua corrispondenza, però, pubblicata ora in due volumi (Corrispondenza A-G e Corrispondenza H-Z, Bollati Boringhieri, pagg. 419 e 532, euro 200) che completano la decennale impresa editoriale delle Opere, si possono finalmente trovare, oltre ai raffinati e istruttivi scambi con i grandi logici a lui contemporanei (da Jacques Herbrand e Alfred Tarski a Paul Cohen e Abraham Robinson), anche i tentativi che Gödel fece per descrivere a un uditorio meno specialistico i risultati che l’hanno reso famoso tra gli addetti ai lavori.
Ad esempio, quando riassunse nel 1957 a Yossef Balas l’idea della dimostrazione del suo più famoso teorema dicendo che «la dimostrabilità si può definire facilmente, ma la verità non può essere espressa nel linguaggio: quindi, vero è diverso da dimostrabile». O quando spiegò nel 1967 a David Plummer che quel teorema dimostra che «il genere di ragionamento necessario in matematica non può essere reso del tutto meccanico». O quando precisò nel 1962 a Leon Rappaport di «non aver dimostrato che vi sono problemi matematici indecidibili per la mente umana, ma solo che non vi è nessuna macchina (o formalismo cieco) che può decidere tutti i problemi», così come «non segue che non vi sono dimostrazioni di coerenza convincenti per gli usuali formalismi matematici, ma solo che queste dimostrazioni devono utilizzare modi di ragionamento non contenuti in tali formalismi».
Naturalmente, tra la poesia di queste frasi e la prosa di un’esposizione divulgativa ci corre parecchio. Il primo tentativo di spiegare i risultati di incompletezza a un pubblico colto fu La prova di Gödel di Ernest Nagel e James Newman (Bollati Boringhieri, 1974 e 1992), e la corrispondenza del grande logico col primo autore, che pure era uno dei più importanti filosofi della scienza della sua epoca, è paradigmatica della tensione esistente fra gli scienziati professionisti e i divulgatori dilettanti. Da un lato, infatti, Gödel pretende giustamente la correzione dei «molto spiacevoli errori» dell’esposizione e invoca un diritto di veto sulla versione finale, scontrandosi contro la prosopopea di Nagel che «riconosce la sua grandezza ma rifiuta di essere il suo schiavo». Dall’altro lato, e altrettanto giustamente, Gödel rivendica la proprietà intellettuale delle proprie idee, e dunque metà dei diritti.
Come risultato, gli autori rinunciarono alla sua collaborazione e il libro uscì senza i suoi articoli originali e i suoi proposti aggiornamenti, ma con gli errori altrui che egli aveva inutilmente segnalato: un esempio da manuale di come l’analisi marxista dello sfruttamento di chi lavora da parte di chi guadagna si applichi anche al mercato culturale, oltre che a quello industriale. E, a proposito di industria, La prova di Gödel divenne il prototipo di una serie di libri dedicati ai suoi risultati, il cui prodotto più riuscito e fortunato fu Gödel, Escher, Bach di Douglas Hofstadter (Adelphi, 1984).
Fortunatamente per lui, egli morì prima che il suo nome incominciasse a venir regolarmente nominato invano, ma quand’era ancor vivo si premurò di fare il possibile per arginare l’alluvione che stava montando. Lo testimoniano due corpose parti della corrispondenza, a Jean van Heijenoort e Hao Wang: il primo, ex segretario personale di Trockij negli anni ’30, curò nel 1967 la classica antologia Da Frege a Gödel, e il secondo, filosofo e logico di origine cinese, pubblicò nel 1974 Dalla matematica alla filosofia (Bollati Boringhieri, 1984). In entrambi i casi Gödel fornì precisazioni storiche, filosofiche e tecniche che aiutano a comprendere meglio il suo lavoro e a inquadrarlo nella logica del Novecento.
In particolare, negli ultimi anni della sua vita Wang divenne il suo confidente principale, e dopo la sua morte gli rese un doppio omaggio pubblicando nel 1987 le Riflessioni su Gödel e nel 1996 Un percorso logico: da Gödel alla filosofia, che riportano i resoconti delle loro conversazioni sulla logica e la filosofia della matematica. Purtroppo non sono state registrate, e si sono dunque perse nel vento, le conversazioni che Gödel ebbe invece per molti anni con Einstein a Princeton, ma in una lettera del 1955 a Carl Seelig egli ci fa sapere che esse «riguardavano soprattutto la filosofia, la fisica e la politica», e aggiunge modestamente: «Ho riflettuto spesso sui motivi per i quali Einstein provava piacere a parlare con me, e credo che una delle ragioni si debba ritrovare nel fatto che sovente ero di parere contrario, e non ne facevo mistero».
Nonostante eccezioni come quelle di Einstein e Wang, la corrispondenza di Gödel testimonia che era comunque nel suo carattere tirare la corda dei rapporti personali con abitudini snervanti quali aspettare mesi per rispondere alle lettere, dilazionare la consegna dei manoscritti, assillare gli editori con puntigliose questioni di dettaglio, promettere contributi e non consegnarli... I due casi più eclatanti sono forse le sue mancate partecipazioni all’Intuizionismo di Arend Heyting, di cui doveva essere coautore e che uscì nel 1934 senza nemmeno una sua riga, e a La filosofia di Rudolf Carnap curata da Paul Schilpp (Il Saggiatore, 1974), a cui doveva contribuire un saggio: ne scrisse sei versioni in sei anni, due delle quali pubblicate nel terzo volume delle Opere, ma poiché nessuna lo soddisfece, alla fine non ne mandò nessuna.
In parte quest’ultima vicenda riflette la sua presa di distanza dal famoso Circolo di Vienna, a proposito del quale scrisse nel 1975 a Burke Grandjean: «È vero che il mio interesse per i fondamenti della matematica fu stimolato da esso, ma non c’è niente di positivistico o di empiristico né nelle conseguenze filosofiche dei miei risultati, né nei princìpi euristici che mi ci hanno condotto». E poiché aggiunse che «solo Kant ha avuto qualche influenza sul mio pensiero filosofico in generale», non stupisce che la sua corrispondenza dimostri una certa freddezza, quando non un certo disdegno, per nomi oggi altisonanti quali Russell, Wittgenstein, Carnap e Popper, e contenga invece un lungo scambio con Gotthard Gunther sulla formalizzazione logica della filosofia di Hegel.
Fra tutte le lettere, però, le più singolari sono quelle scritte alla madre sulla religione, a proposito della quale egli dichiarò a Grandjean di «non appartenere ad alcuna congregazione» e di essere «teista ma non panteista, nel solco di Leibniz piuttosto che di Spinoza». Alla madre non offre ovviamente niente di formale e profondo, nello stile del suo libretto La prova matematica dell’esistenza di Dio (Bollati Boringhieri, 2006), ma solo osservazioni generiche sull’ordine razionale del mondo e sulla vita dopo la morte, con la certezza che «l’apprendimento avverrà in larga misura solo nel prossimo mondo, quando ricorderemo le nostre esperienze di questo e solo allora veramente le capiremo». Detto altrimenti, Gödel sperava che il Paradiso potesse rimediare all’incompletezza da lui scoperta e rivelargli finalmente i valori di verità delle proposizioni indecidibili.
Il parricidio di Euclide
Così nell’Ottocento i matematici costruirono un altro spazio
di Piergiorgio Odifreddi (Repubblica, 24.02.2012)
Nel gennaio del 1962 Michael Atiyah, all’epoca un giovane ricercatore, domandò a un ancor più giovane ricercatore, Isadore Singer, perché una certa quantità geometrica fosse un numero intero. La sorpresa risposta fu: "Perché me lo domandi? Lo sai meglio di me!". Ma ancor più sorprendente fu la controrisposta: "C’è una ragione più profonda!". Il cammino comune iniziato da quello scambio sfociò qualche mese dopo nel famoso "teorema di Atiyah e Singer", che valse al primo la medaglia Fields nel 1966, e a entrambi il premio Abel nel 2004.
La storia è uno degli aneddoti preferiti di Claudio Bartocci, che ne ha raccontato i dettagli nel capitolo "Le ragioni profonde della matematica" del collettaneo Vite matematiche (Springer-Verlag Italia, 2007). E la ricerca delle "ragioni profonde", questa volta della costellazione di idee e risultati che hanno portato nell’Ottocento al parricidio di Euclide e alla creazione della geometria non euclidea, costituisce ora il filo conduttore del suo primo, sapiente e profondo libro da autore: Una piramide di problemi. Storie di geometria da Gauss a Hilbert (Cortina).
Bartocci, come si sarà capito, è un matematico: un geometra algebrico, per la precisione. Ma mai precisione è stata tanto imprecisa, quanto quest’angusta definizione di un intellettuale che realizza concretamente l’ideale astratto descritto dalle espressioni "uomo di multiforme ingegno", "umanista rinascimentale" e polymath. Bartocci sembra conoscere tutto e lo dimostrano due sue opere di curatela. Da un lato, l’originale raccolta di Racconti matematici (Einaudi, 2006), che spazia da Borges e Cortázar a Pynchon e Saramago. E, dall’altro lato, l’enciclopedica Grande Opera in quattro volumi La matematica (Einaudi, 2007, 2008, 2010 e 2011), di cui ha pazientemente commissionato e personalmente editato il centinaio di contributi, assommanti a 3.467 pagine di testo!
Non stupisce che, con la sua voracità di lettore, un sesto del suo nuovo libro consista di una bibliografia di 60 pagine, modestamente descritta come "senza alcuna pretesa di completezza", e "limitata ai testi consultati". Un apparato così sterminato è giustificato dalla convinzione programmatica di Bartocci, che "l’evoluzione delle idee matematiche non segua né un cammino lineare e progressivo, né un percorso accidentato attraverso un paesaggio di concezioni universalmente condivise, ma sia al contrario un pulviscolo costituito da una miriade di traiettorie più o meno autonome, vicoli ciechi e piste sotterranee, che si intrecciano in un labirinto pluridimensionale, dalla topologia incerta e mutevole".
All’interno di questo labirinto, Bartocci traccia un percorso diacronico e uno sincronico, rispettivamente di lunga e di breve durata. Il primo, che gli serve a stabilire le colonne d’Ercole temporali della sua Odissea nello spazio geometrico, parte da un risultato di Euclide che tutti abbiamo imparato a scuola, anche se molti se lo saranno dimenticato: il fatto che due triangoli con la stessa base e la stessa altezza, hanno la stessa area.
Con quest’ultima espressione, "avere la stessa area", noi intendiamo di solito che, per i due triangoli in questione, il prodotto della base per l’altezza (diviso per due) è lo stesso. I Greci, invece, intendevano anche che si possono scomporre i due triangoli in uno stesso numero di pezzi uguali. Più precisamente, che si può scomporre uno dei due triangoli in un numero finito di triangolini, che si possono poi ricomporre nell’altro triangolo.
L’analogo tridimensionale dei triangoli, sono i tetraedri: cioè, le piramidi a quattro facce triangolari, che Dante chiamava "tetragoni" e usava in senso figurato, come nel verso "tetragono ai colpi di ventura". I Greci sapevano che due tetraedri con la stessa base e la stessa altezza hanno lo stesso volume, ma la dimostrazione di Euclide non è per niente immediata, com’era invece nel caso dei triangoli. Nel 1899 David Hilbert chiese se si può sempre scomporre uno dei due tetraedri in un numero finito di tetraedrini, che si possono poi ricomporre nell’altro tetraedro. La risposta è no, e la diede quello stesso anno Max Dehn.
Il libro di Bartocci si apre con il problema dei triangoli, e si chiude con quello dei tetraedri, a indicare che alcuni fili del tessuto della matematica percorrono tutto il suo ordito, dall’antichità alla contemporaneità. Il corpo del suo discorso è però dedicato, nel secondo percorso, a dipanare l’aggrovigliata matassa della geometria dell’Ottocento, da lui stesso definito «il secolo "lungo" nel quale affondano le radici della nostra modernità».
L’aggrovigliamento è duplice. Da un lato, infatti, i fili dei contributi individuali si intrecciano fra loro, completandosi a vicenda come tessere parzialmente sovrapponibili di un grande puzzle. Dall’altro lato, vari fili escono da quel particolare groviglio per penetrare in altri, contribuendo a dare un’impressione non ingenuamente romantica, ma maturamente realistica, della matematica come un "groviglio di grovigli". E Bartocci si dedica, con perizia e acume, a mostrare "gli avventurosi percorsi di ricerca che conducono ai teoremi, le questioni che in tutto o in parte li motivano, le idee che li innervano, il nugolo di interrogativi che ne scaturiscono".
Scorrono così, nei nove capitoli e nelle 85 pagine di note, le quasi millenarie intuizioni del matematico poeta Omar Khayyam, più noto al mondo per le sue Rubaiyat. Le anticipazioni ignare di padre Girolamo Saccheri, che credeva di rifondare Euclide mentre lo stava minando. Quelle semiconsce di Johann Lambert, che come Mosè intravide la Terra Promessa senza riuscire a entrarci. I risultati maturi di Gauss, tenuti segreti per "non sollevare le strida dei Beoti". Le uscite allo scopertodi Jànos Bolyai e Nikolaj Lobacevskij, oggi considerati gli scopritori ufficiali della geometria non euclidea. E i modelli di Eugenio Beltrami, alcuni ritrovati per vie traverse da Felix Klein e Henri Poincaré, che permisero di visualizzarla.
Ma le analisi più raffinate Bartocci le dedica ai due veri protagonisti del suo libro: Berhard Riemann e David Hilbert. Al primo, per le connessioni tra il suo pensiero matematico e quello filosofico di Johann Herbart: un singolare esempio di un possibile fecondo interscambio tra le due discipline. E al secondo, per i suoi ormai classici Fondamenti di geometria del 1899, che aprirono in sequenza la strada alla metamatematica, ai teoremi di Gödel e Turing, e dunque in ultima analisi all’informatica! A dimostrazione dell’assunto fondamentale di Bartocci, che la matematica del passato "non è morta e imbalsamata, copia derisoria di se stessa come la triste tigre impagliata di un museo zoologico d’antan, ma è al contrario ancora palpitante di vita".