Paradiso. La biblioteca di Dante
Una lettura del canto X della terza Cantica della «Divina Commedia», rappresentata qui come un trittico dal biblista e teologo Gianfranco Ravasi.
Il Sommo Poeta ci parla dei grandi teologi e filosofi cui si è ispirato: Boezio e Sigieri di Brabante in primo luogo, ma anche Alberto Magno e Dionigi Areopagita, Isidoro di Siviglia e Beda il Venerabile *
di Gianfranco Ravasi (Avvenire, 14.09.2008)
« T ra le scienze la teologia è la più bella, la sola che tocchi la mente e il cuore arricchendoli, che tanto si avvicini alla realtà umana e getti uno sguardo luminoso sulla verità divina». Questa confessione di un grande teologo come Karl Barth nella sua Introduzione alla teologia evangelica (1962) propone la stessa emozione che secoli prima Dante aveva sperimentato e suggerito, rivelando il suo volto di teologo, soprattutto nel Paradiso. Ed è appunto, entrando nel quarto cielo, dominato dal sole, «lo ministro maggior de la natura» (v. 28), tappa decisiva dell’ascesa verso lo zenit supremo divino, che il poeta intesse una riflessione teologica che ora vorremmo simbolicamente raccogliere in un trittico.
IL CANTO DELLA LUCE
A dare sostanza a questo abbozzo sono i 148 versi del canto X del Paradiso, che segna il transito verso i cieli superiori ove ormai del tutto remota è l’ombra della terra e glorioso si dispiega il moto de «l’alte rote» (v. 7), quelle sfere celesti che tanto appassionavano anche il Dante astronomo. Una prima scena della nostra ideale trilogia potrebbe intitolarsi il canto della luce. È facile, infatti, subito riconoscere che quasi ogni verso della pagina poetica è irradiato dallo sfolgorare della luce che, come insegna tutta la tradizione biblica, è immagine del divino, al punto tale che san Giovanni non esiterà nella sua Prima Lettera (1,5) a coniare la celebre definizione ho Theòs phôs estin, «Dio è luce». La luce può mirabilmente rappresentare sia la trascendenza divina (è esterna a noi e inafferrabile) sia la sua immanenza (ci individua, ci avvolge, ci attraversa, ci riscalda e fa vivere). Anche per Dante Dio è «il Sol de li angeli» (v. 53).
A irrompere innanzitutto è, però, il sole fisico che «col suo lume il tempo ne misura» (v. 30), l’astro che - come si è detto - impera nel quarto cielo e che non può essere travalicato («sopra ’l sol non fu occhio ch’andasse», v. 48). Occhieggia per un istante anche la luna, «la figlia di Latona» (v. 67), ma per il poeta la luce solare, che pure è studiata nelle sue meccaniche celesti, è soprattutto una metafora di una luminosità interiore sulla scia delle parole di Cristo: «La lucerna del corpo è l’occhio» ( Matteo 6, 22).
È per questo che Beatrice svela «lo splendor de li occhi suoi ridenti» (v. 62). Ma sono soprattutto gli spiriti beati che poi incontreremo ad essere la vera luce spirituale: essi, infatti, brillano più della stessa luminosità solare (vv. 40-42) e l’aggettivo che Dante adotta per definirli è appunto «lucenti» (vv. 40; 66). Essi sono «vivi e vincenti» la stessa luce solare e, quindi, destinati a superare anche l’umana capacità visiva. Simili alla folgore (v. 64), sono «ardenti soli» (v. 76) o «come stelle» sfavillanti (v. 78). Anzi, per definirli il poeta ricorre costantemente alla parola «luce» (vv. 109; 118; 136), ora «bella», ora «piccoletta», ora «etterna», ora «lume» (vv. 73; 115; 134). Il loro è un «fiammeggiare» (vv. 103; 130).
E la sorgente di questa luminosità è trascendente: è, infatti, «lo raggio de la grazia» divina col quale «s’accende verace amore» (vv. 83-84), facendo sì che l’anima risplenda «di luce in luce» (v. 122). Siamo, allora, nel cuore della teologia che ha nella cháris, la «grazia» di Dio, la sua sorgente, come insegnava san Paolo, tenendo conto che questa categoria teologica implica la radicale trasformazione della persona da schiavo a figlio adottivo, la sua rigenerazione in «nuova creatura», attraverso la vicenda battesimale che non per nulla era denominata photismós, «illuminazione» (cf. Efesini 5,13-14), mentre il Cristo giovanneo entrava in scena proclamando: «Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (8,12).
IL CANTO DELLA CONTEMPLAZIONE
In stretta connessione con la luce è naturalmente la visione. È per questo che la seconda parte del nostro ideale trittico potrebbe essere definita il canto della contemplazione. È suggestivo che l’incipit del canto X sia affidato a un «guardare» divino (v. 1), a cui si associa il «rimirare» umano (v. 6).
L’appello dantesco rivolto al «lettore» è, perciò, quello di «levare» in alto lo sguardo dell’anima, a «vagheggiar», cioè a contemplare con amore sia l’opera cosmica di Dio sia il suo mistero trascendente.
Sulla creazione, infatti, il Creatore «mai da lei l’occhio non parte» (v. 12): è la provvidenza divina che incessantemente si appunta sulla creatura per sostenerla nell’essere. Similmente l’uomo deve «credere» ora con gli occhi della fede, nell’attesa e nella «brama di vedere» attraverso la piena visione beatifica (v. 45).
Il percorso di questa contemplazione è arduo perché la nostra stessa fantasia è insufficiente a immaginare abissi di luce così profondi, anche perché l’esperienza del nostro occhio non ha mai intuito una realtà più luminosa del sole (vv. 46-48). Il nostro è, quindi, solo un «prelibare» (v. 23) parziale e imperfetto rispetto a un orizzonte infinito. Ecco, allora, la necessità per l’uomo di essere «levato per grazia» divina (v. 54). Solo così, condotto per la «scala» celeste (v. 86), riesce a «vedere»; e questo verbo è spesso reiterato dal poeta per designare la sua stessa esperienza nell’itinerario celeste (vv. 64; 145), È un «vedere» che dà gioia e godimento (v. 124), e che è attuato attraverso «l’occhio de la mente» (v. 121).
Ma ora, dopo aver sottolineato come la contemplazione sia la via privilegiata della conoscenza paradisiaca, Dante delinea ed esalta anche l’oggetto di quella visione. E lo fa soprattutto in apertura e in finale al canto, anticipando quanto affermava Barth sulla felicità che prova il teologo quando fissa lo sguardo nel mistero dell’essere divino e umano. L’attacco del canto è solenne e punta direttamente a quel gorgo di luce che è il mistero trinitario.
È sempre sorprendente vedere come nell’arco di una sola terzina e con una decina di parole Dante riesca a formulare la dottrina cattolica della Trinità, affrontando persino la famosa questione del Filioque, ossia della processione dello Spirito Santo, cioè l’«amore», sia dall’«uno», che è il Padre, «lo primo e ineffabile Valore» (potenza), sia dall’«altro», il Figlio: «Guardando nel suo Figlio con l’Amore/ che l’uno e l’altro etternalmente spira, /lo primo e ineffabile Valore...» (vv. 1-3).
Ma la contemplazione trinitaria svela anche l’agire divino; ossia la creazione che Dio opera, e qui Dante propone la tradizionale via «analogica» già presente nel libro biblico della Sapienza: «Dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l’Autore» (13, 5), tema liberamente ripreso da Paolo in Romani 1, 20.
Infatti, afferma il poeta, Dio creò i cieli e il cosmo con un ordine così perfetto che chi lo contempla non può non intuire e gustare la perfezione divina che in essi si dispiega: «con tant’ordine fé, ch’esser non puote / sanza gustar di lui chi ciò rimira» (vv. 5-6).
Per questo Dante poi si abbandona alla contemplazione astrale, coinvolgendo anche il suo interlocutore: «Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista...» (vv. 7-8). E ciò che si scopre non è una mera opera di architettura cosmica bensì un vero e proprio atto d’amore.
Il Creatore rivela un’«arte» da «maestro», vale a dire da signore e artefice che la sua opera «dentro a sé l’ama, / tanto che mai da lei l’occhio non parte» (vv. 10-12). L’amore di Dio che presiede alla creazione continua ininterrottamente così da assicurare vita ed esistenza alla sua opera; è un amore che fiorisce all’interno di Dio stesso, per cui il creato è in qualche modo nel cuore di Dio.
La dottrina trinitaria si riaffaccerà a metà del canto quando si ricorderà che i beati del quarto cielo, «la quarta famiglia» di Dio, sono «saziati» nella visione dell’intimo processo trinitario che si compie nell’essenza divina: quella «famiglia» di santi, infatti, «l’alto Padre sempre la sazia / mostrando come spira e come figlia», rivelandole cioè la generazione del Figlio e la «processione» dello Spirito Santo (vv. 50-51).
Ma, come si diceva, anche la finale del canto X ritorna alla contemplazione del mistero divino, una contemplazione di purissimo e gioioso abbandono d’amore, come già si suggeriva nel v. 59 ove Dante dichiarava che «tutto ’l mio amore» era trasfuso in Dio.
L’immagine ora evocata è di taglio musicale, a due livelli di armonia. C’è prima il tintinnare dell’orologio che scandisce nell’alba ancor incerta il sorgere della Chiesa, la «sposa di Dio», che si leva a «mattinar lo sposo» divino perché la ami. La scena, dipinta nelle due terzine dei vv. 139-144, è di straordinaria fragranza, tutta percorsa da ammiccamenti all’uso degli innamorati di elevare il loro canto sotto le finestre dell’amata.
Quel «tin tin», che risuona «con sì dolce nota» e che fa fremere l’anima fedele che si «turge» d’amore appassionato, richiama l’altra immagine musicale esplicita, quella del coro dei beati che canta «in tempra», cioè in piena armonia - quasi fosse uno strumento «ben temperato» - la sua lode a Dio, creando nel poeta una sensazione talmente alta di bellezza da fargli pregustare l’eterna felicità paradisiaca, «colà dove gioir s’insempra» (vv. 146-148).
IL CANTO DELLA SAPIENZA
A popolare il cielo del sole sono gli spiriti dei sapienti, di coloro che consacrarono la loro esistenza terrena alla ricerca della verità sia nella teologia sia nelle scienze umane, cioè il Sdiritto, la filosofia, la grammatica, e nell’attività concreta di governo e di opere, come fu per Salomone, emblema della sapienza biblica, che qui è pure convocato.
Chiameremo, perciò, questa terza tavola del nostro trittico ideale, il canto della sapienza. Dante ordina questi sapienti in due cori di dodici spiriti ciascuno e il canto X fa sfilare la prima sequenza di personaggi che hanno per corifeo il grande Tommaso d’Aquino (la seconda entrerà in scena nel canto XII). È stato detto suggestivamente che si riesce a intravedere in questi due elenchi quasi la biblioteca di Dante e anche le sue predilezioni, come accade nel nostro canto per Boezio e per Sigieri di Brabante.
Le immagini che rappresentano questo ideale congresso di sapienti sono affascinanti: è una «corona» luminosa (v. 65), fatta di «ardenti soli» (v. 76), è una «ghirlanda» di fiori (v. 92), è «lo beato serto» (v. 102), è la «gloriosa rota» (v. 145), è il «coro» (v. 106). E a descrivere la perfetta armonia, pur nella diversità delle voci (anzi, proprio per questa ideale policromia), è appunto la citata raffigurazione corale finale (vv. 146-148), ritmata sul tintinnare d’un orologio, a cui possiamo associare la precedente rievocazione del loro canto che si sviluppa in una danza, capace di richiamare l’armonia dei moti siderali (vv. 78-81). È qui che Dante riesce plasticamente a cogliere quell’emozionante momento di sospensione - quasi un «fermoimmagine » - in cui le danzatrici sostano per un istante tra l’una e l’altra figura del loro movimento, quando si ha la pausa musicale tra la strofe e l’antistrofe della loro danza.
Bellezza e armonia si sposano, però, con la profondità del pensiero di questi dodici sapienti, vere e proprie «luci» nel cammino della ricerca teologica e filosofica. Sì, Dante, fedele alla sua Weltanschauung che distingueva senza separare o opporre religione e politica, fede e ragione, vuole qui ribadire in modo simbolico la sua concezione.
E lo fa ponendo in rilievo - accanto alla serie dei pur ammirati e celebrati Alberto Magno, Graziano, Pietro Lombardo, Salomone, Dionigi Areopagita, Orosio, Isidoro di Siviglia, Beda Venerabile e Riccardo di San Vittore - due figure emblematiche. Da un lato, Severino Boezio, l’originale mediatore tra la cultura classica e la cristiana, al quale vengono riservate due commosse e intense terzine (vv. 124-129), espressione anche di una sintonia nel comune travaglio vissuto dal filosofo e dal poeta a livello culturale, personale e politico. D’altro lato, ecco emergere un po’ provocatoriamente alla fine Sigieri di Brabante, il maestro parigino dalla «luce etterna» (v. 136), paradossalmente celebrato dal suo avversario teorico, Tommaso d’Aquino. Egli che fu contestato per la sua affermazione radicale dell’autonomia della filosofia e della razionalità rispetto alla fede, viene appunto posto su un piedestallo proprio per la sintonia che Dante sente vibrare col suo pensiero.
Si ha, così, la libertà e la sincerità appassionata del poeta, ma si ha anche la testimonianza della profonda sofferenza che può generare la sapienza cosciente e coerente, nella linea di quanto confessava un sapiente biblico, il Qohelet/Ecclesiaste, che nel dir questo s’era tra l’altro rivestito del manto di Salomone: «Grande sapienza è grande tormento; chi più sa più soffre» (1,18). Sigieri, l’araldo di «invidïosi veri», cioè di verità invise e scomode (v. 138), fu così torturato nei suoi pensieri acuti e liberi da dover quasi desiderare la morte («’n pensieri gravi a morir li parve venir tardo», vv. 134-135).
Ma è significativo che in cielo a celebrare così altamente Sigieri sia proprio - come si diceva - colui che lo contestò aspramente in terra, ed è altrettanto significativo che a cantare le glorie di san Francesco sarà il domenicano Tommaso d’Aquino (canto XI), così come a esaltare san Domenico sarà incaricato il francescano san Bonaventura (canto XII).
Le due scuole, la domenicana e la francescana, che si confrontavano vigorosamente e fin duramente nell’accademia terrena, ora nella sapienza celeste s’incontrano e s’incrociano non più per un duello, ma per un abbraccio, nella bellezza dell’armonia molteplice e nell’umiltà della contemplazione della luce divina, che ora si compie non «in uno specchio, in maniera confusa, ma vedendo a faccia a faccia» ( 1 Corinzi 13,12). Si ferma qui il nostro sguardo dall’alto su questo canto dantesco.
Ora è il momento, conclusa la fase delle presentazioni introduttorie, di proseguire, nell’ascolto pieno e approfondito, lungo lo svolgersi dei versi: «Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba» (v. 25).
RAVENNA
Due appuntamenti per il Settembre dantesco
Tra il 13 e il 14 settembre 1321 (come concorda la maggior parte degli studiosi), «nel dì - scrive il Boccaccio - che la esaltazione della santa Croce si celebra dalla Chiesa», moriva a Ravenna Dante Alighieri. Questo ’evento’, attorno a cui ruotano le tradizionali manifestazioni del ’Settembre dantesco’, viene commemorato con due iniziative promosse del Centro Dantesco dei Frati Minori Conventuali in collaborazione con l’Archidiocesi di Ravenna-Cervia e il Comune di Ravenna. Il primo appuntamento si è svolto ieri sera alla Basilica di San Francesco con il «Dantis Poetae Transitus»: il noto biblista Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, ha commentato il canto X del «Paradiso» in cui Dante, lasciata la zona del terzo regno dove ancora si allunga l’ombra della terra, entra in quella dove abitano gli spiriti «sapienti», la cui vita fu tutta rivolta al fine proprio dell’uomo, cioè a Dio. Oggi poi, domenica 14 settembre, lo stesso monsignor Ravasi presiederà la «Messa di Dante» (Basilica di San Francesco, ore 11.30), la solenne celebrazione eucaristica al termine della quale la delegazione del Comune di Firenze rinnoverà l’offerta dell’olio e riaccenderà la lampada votiva che dal 1908 - giusto cent’anni fa - arde nella tomba del Sommo Poeta.
I PERSONAGGI
Severino Boezio ( Roma, 476 - Pavia 525) è uno dei maggiori filosofi latini: le sue opere influenzarono notevolmente la filosofia cristiana del Medioevo.
Figlio del console romano Flavio Boezio, alla morte del padre fu affidato a Simmaco, nobile e letterato romano, del quale sposerà la figlia Rusticiana avendone due figli. Formatosi alla scuola di Atene, Boezio scrive i trattati del quadrivio che gli rendono grande fama. Verso il 520 compone il De Trinitate e l’ Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur.
Boezio capro espiatorio di Teodorico. L’interesse di Boezio e del patriziato romano per i problemi teologici mettono in allarme Teodorico, che nel 493 aveva sconfitto Odoacre, re degli Eruli, stabilendo in Italia il proprio regno. In seguito al sequestro da parte di un magistrato di lettere dirette alla corte di Bisanzio, Boezio difende Albino dall’accusa di complotto ai danni di Teodorico, e a sua volta viene sospettato. Incarcerato nel 524 a Pavia con l’accusa di praticare arti magiche scrive la De consolatione philosophiae. Giudicato colpevole nel 525 la sua condanna a morte viene eseguita presso Pavia.
Sigieri di Brabante, l’anti- Scolastica
Sigieri di Brabante ( Brabante 1235 c. - Orvieto 1282) compì gli studi all’università di Parigi nella facoltà delle arti tra l’anno 1255 e il 1257. In seguito fu professore presso la stessa università. Di spirito sovversivo e grande conoscitore di Aristotele, attraverso gli studi compiuti sui testi di Averroè che in quegli anni, anche grazie alle crociate, cominciano a circolare nelle università europee, si pone in contrasto con la corrente filosofica della Scolastica, collocandosi nella corrente filosofica degli Averroisti latini che contestano il rettore dell’Università, Alberico di Reims. Venne condannato per 13 proposte eretiche, contenute nei suoi scritti, dal vescovo di Parigi Etienne Tempier nel 1270. Nel 1277 gli venne proibito l’insegnamento all’università e venne convocato dall’inquisitore di Francia Simon du Val. Per sfuggire all’inquisizione parte per Orvieto, in quel tempo residenza del Papa, dove si appellò al pontefice Martino IV. Rimasto a Orvieto, in attesa della sentenza papale, venne pugnalato a morte dal suo segretario impazzito.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PARADISO,
CANTO X
Guardando nel suo Figlio con l’Amore
che l’uno e l’altro etternalmente spira,
3 lo primo e ineffabile Valore
quanto per mente e per loco si gira
con tant’ordine fé, ch’esser non puote
6 sanza gustar di lui chi ciò rimira.
Leva dunque, lettore, a l’alte rote
meco la vista, dritto a quella parte
9 dove l’un moto e l’altro si percuote;
e lì comincia a vagheggiar ne l’arte
di quel maestro che dentro a sé l’ama,
12 tanto che mai da lei l’occhio non parte.
Vedi come da indi si dirama
l’oblico cerchio che i pianeti porta,
15 per sodisfare al mondo che li chiama.
Che se la strada lor non fosse torta,
molta virtù nel ciel sarebbe in vano,
18 e quasi ogne potenza qua giù morta;
e se dal dritto più o men lontano
fosse ’l partire, assai sarebbe manco
21 e giù e sù de l’ordine mondano.
Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco,
dietro pensando a ciò che si preliba,
24 s’esser vuoi lieto assai prima che stanco.
Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba;
ché a sé torce tutta la mia cura
27 quella materia ond’io son fatto scriba.
Lo ministro maggior de la natura,
che del valor del ciel lo mondo imprenta
30 e col suo lume il tempo ne misura,
con quella parte che sù si rammenta
congiunto, si girava per le spire
33 in che più tosto ognora s’appresenta;
e io era con lui; ma del salire
non m’accors’io, se non com’uom s’accorge,
36 anzi ’l primo pensier, del suo venire.
È Bëatrice quella che sì scorge
di bene in meglio, sì subitamente
39 che l’atto suo per tempo non si sporge.
Quant’esser convenia da sé lucente
quel ch’era dentro al sol dov’io entra’mi,
42 non per color, ma per lume parvente!
Perch’io lo ’ngegno e l’arte e l’uso chiami,
sì nol direi che mai s’imaginasse;
45 ma creder puossi e di veder si brami.
E se le fantasie nostre son basse
a tanta altezza, non è maraviglia;
48 ché sopra ’l sol non fu occhio ch’andasse.
Tal era quivi la quarta famiglia
de l’alto Padre, che sempre la sazia,
51 mostrando come spira e come figlia.
E Bëatrice cominciò: «Ringrazia,
ringrazia il Sol de li angeli, ch’a questo
54 sensibil t’ha levato per sua grazia».
Cor di mortal non fu mai sì digesto
a divozione e a rendersi a Dio
57 con tutto ’l suo gradir cotanto presto,
come a quelle parole mi fec’io;
e sì tutto ’l mio amore in lui si mise,
60 che Bëatrice eclissò ne l’oblio.
Non le dispiacque; ma sì se ne rise,
che lo splendor de li occhi suoi ridenti
63 mia mente unita in più cose divise.
Io vidi più folgór vivi e vincenti
far di noi centro e di sé far corona,
66 più dolci in voce che in vista lucenti:
così cinger la figlia di Latona
vedem talvolta, quando l’aere è pregno,
69 sì che ritenga il fil che fa la zona.
Ne la corte del cielo, ond’io rivegno,
si trovan molte gioie care e belle
72 tanto che non si posson trar del regno;
e ’l canto di quei lumi era di quelle;
chi non s’impenna sì che là sù voli,
75 dal muto aspetti quindi le novelle.
Poi, sì cantando, quelli ardenti soli
si fuor girati intorno a noi tre volte,
78 come stelle vicine a’ fermi poli,
donne mi parver, non da ballo sciolte,
ma che s’arrestin tacite, ascoltando
81 fin che le nove note hanno ricolte.
E dentro a l’un senti’ cominciar: «Quando
lo raggio de la grazia, onde s’accende
84 verace amore e che poi cresce amando,
multiplicato in te tanto resplende,
che ti conduce su per quella scala
87 u’ sanza risalir nessun discende;
qual ti negasse il vin de la sua fiala
per la tua sete, in libertà non fora
90 se non com’acqua ch’al mar non si cala.
Tu vuo’ saper di quai piante s’infiora
questa ghirlanda che ’ntorno vagheggia
93 la bella donna ch’al ciel t’avvalora.
Io fui de li agni de la santa greggia
che Domenico mena per cammino
96 u’ ben s’impingua se non si vaneggia.
Questi che m’è a destra più vicino,
frate e maestro fummi, ed esso Alberto
99 è di Cologna, e io Thomas d’Aquino.
Se sì di tutti li altri esser vuo’ certo,
di retro al mio parlar ten vien col viso
102 girando su per lo beato serto.
Quell’altro fiammeggiare esce del riso
di Grazïan, che l’uno e l’altro foro
105 aiutò sì che piace in paradiso.
L’altro ch’appresso addorna il nostro coro,
quel Pietro fu che con la poverella
108 offerse a Santa Chiesa suo tesoro.
La quinta luce, ch’è tra noi più bella,
spira di tal amor, che tutto ’l mondo
111 là giù ne gola di saper novella:
entro v’è l’alta mente u’ sì profondo
saver fu messo, che, se ’l vero è vero,
114 a veder tanto non surse il secondo.
Appresso vedi il lume di quel cero
che giù in carne più a dentro vide
117 l’angelica natura e ’l ministero.
Ne l’altra piccioletta luce ride
quello avvocato de’ tempi cristiani
120 del cui latino Augustin si provide.
Or se tu l’occhio de la mente trani
di luce in luce dietro a le mie lode,
123 già de l’ottava con sete rimani.
Per vedere ogni ben dentro vi gode
l’anima santa che ’l mondo fallace
126 fa manifesto a chi di lei ben ode.
Lo corpo ond’ella fu cacciata giace
giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
129 e da essilio venne a questa pace.
Vedi oltre fiammeggiar l’ardente spiro
d’Isidoro, di Beda e di Riccardo,
132 che a considerar fu più che viro.
Questi onde a me ritorna il tuo riguardo,
è ’l lume d’uno spirto che ’n pensieri
135 gravi a morir li parve venir tardo:
essa è la luce etterna di Sigieri,
che, leggendo nel Vico de li Strami,
138 silogizzò invidïosi veri».
Indi, come orologio che ne chiami
ne l’ora che la sposa di Dio surge
141 a mattinar lo sposo perché l’ami,
che l’una parte e l’altra tira e urge,
tin tin sonando con sì dolce nota,
144 che ’l ben disposto spirto d’amor turge,
così vid’io la glorïosa rota
muoversi e render voce a voce in tempra
e in dolcezza ch’esser non pò nota
148 se non colà dove gioir s’insempra.
Lector in fabula: in cammino con Dante... *
In cammino con Dante/2.
Quell’ansia del Poeta per noi lettori
Fin dal primo verso del grande poema ci considera coinvolti in un pellegrinaggio verso la felicità e la grazia. Così di volta in volta diventiamo suoi discepoli, accompagnatori e testimoni
di Carlo Ossola (Avvenire, domenica 28 marzo 2021)
Può mai essere un lettore, uno di noi, personaggio della Divina Commedia? Possiamo mai trovarci nel poema a dialogare con Dante? È ben vero che Ezra Pound ha osservato che: «In un senso ulteriore [la Commedia] è il viaggio dell’intelletto di Dante attraverso quegli stati d’animo in cui gli uomini, di ogni sorta e condizione, permangono prima della loro morte; inoltre Dante, o intelletto di Dante, può significare ’Ognuno’ [Everyman], cioè ’Umanità’, per cui il suo viaggio diviene il simbolo della lotta dell’umanità nell’ascesa fuor dall’ignoranza verso la chiara luce della filosofia» (Dante, in Lo spirito romanzo, 1910); ma è altrettanto vero che Dante ha scelto gelosamente le sue guide, tutte di alta responsabilità (il poeta Virgilio, l’amata Beatrice, il campione della Vergine, san Bernardo).
Ove mai potrà esserci posto per noi nel poema? Eppure c’è, e sin dal primo verso: «Nel mezzo del cammin di nostra vita »: quel ’nostra’ è la vita di Dante e di ognuno di noi, pellegrini con lui nella selva della tentazione, nel cammino di redenzione.
Da quel primo verso del poema il lettore non è più spettatore ma parte del dramma che viene messo in scena. Gli indirizzi, le apostrofi, i richiami al lettore sono molteplici (sedici in tutta la Commedia: 5 nell’Inferno, 7 nel Purgatorio, 4 nel Paradiso), e toccano tutti e quattro i gradi della ’lettura’, così com’era concepita dalla tradizione medievale: lectio, meditatio, oratio, contemplatio. Il patto di lettura, prima di tutto, e i limiti che l’autore detta: «Nol dimandar, lettor, ch’i’ non lo scrivo» (Inf., XXXIV, 23); la medita- zione, poi, continua, che la lettera del testo richiede: «Pensa, lettor, se io mi sconfortai» (Inf., VIII, 94), «Pensa, lettor, s’io mi maravigliava» (Purg., XXXI, 124), «Pensa, lettor, se quel che qui s’inizia / non procedesse...» (Par., V, 109-110); l’orazione attenta che è richiesta - e l’intercessione necessaria - per accedere alla conoscenza del vero: «Leva dunque, lettore, a l’alte rote / meco la vista...» (Par., X, 7-8), «Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto / di tua lezione...» (Inf., XX, 19-20); la contemplazione infine, che è frutto e dono di quel lungo esercizio: «Aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero» (Purg., VIII, 19).
Come Dante è discipulus che ha costante bisogno di guide: prima Virgilio (sino al Paradiso terrestre), poi Beatrice (sino al XXXI del Paradiso), poi san Bernardo, per gli ultimi tre canti del poema; così il lettore deve apprendere come scolaro: «Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco, / dietro pensando a ciò che si preliba, / s’esser vuoi lieto assai prima che stanco» (Par., X, 22-24), nella stessa attitudine che Dante per sé adotta: «come discente ch’a dottor seconda » (Par., XXV, 64).
Nello stesso tempo, divenire lettore della Divina Commedia è esercizio che richiede pazienza e almeno quattro letture che permettano di cogliere i quattro sensi del poema, che Dante trae dalla tradizione esegetica biblica e che spiega nella Epistola a Cangrande della Scala, suo protettore, spiegandogli i sensi crescenti del versetto: «In exitu Israel de Aegypto».
Il senso letterale è vero nella sua storicità (noi sappiamo che il popolo eletto uscì dall’Egitto sotto la guida di Mosè); così va inteso, egualmente, quello allegorico: la nostra emancipazione dal peccato per la Redenzione elargita dal sacrificio di Cristo; e non meno quello tropologico (la conversione di ogni anima credente dal lutto e miseria del peccato allo stato di grazia); e infine quello anagogico: l’uscita finale di ogni credente e di tutta la Chiesa dalla «servitù di questa terrena corruzione alla libertà dell’eterna grazia » (Ep. XIII, 21).
Dante segue qui la celebre Scala Paradisi: «Cercate leggendo e troverete meditando. Bussate pregando e vi sarà aperto contemplando. La lettura porge come un cibo sostanzioso alla bocca; la meditazione lo sminuzza e lo mastica; l’orazione gli dà sapore; la contemplazione è quella dolcezza che allieta e sazia». Ma Dante è personaggio complice con il suo lettore; lo chiama spesso a testimone di esperienze che considera comuni: «Ricorditi, lettor, se mai ne l’alpe / ti colse nebbia per la qual vedessi / non altrimenti che per pelle talpe».
È l’imperioso incipit del canto XVII del Purgatorio, e Dante vuole il lettore vicino quasi per fargli constatare qualcosa che questi può aver vissuto: la nebbia che avvolge d’improvviso chi salga verso una cima. Francesco Torraca osserva, a proposito di questo celebre paragone: «Ricorditi, lettor: entra speditamente in materia il poeta, supponendo che il lettore possa aver, qualche volta, osservato un fatto capitato a lui, forse più d’una volta, nell’alpe, ne’ monti, che separano la Toscana dalla Romagna (Inf., XIV, 30 n.) o in quelli della Lunigiana (Inf., XXXII, 29 n.)».
Ecco, il lettore non può stare indietro: l’apostrofe di Dante è quasi intimata proprio per accertarsi che il lettore lo segua, che stia al passo della propria ansia di salire e di raggiungere la vetta: Osip Mandel’štam nel suo saggio Conversazione su Dante, 1933, ha osservato che Dante è sempre in marcia, sempre in ascesa, e che anche la sosta è appena un movimento sospeso. Il lettore ugualmente non può concedersi tregua: è ’in cordata’ con Dante e non può cedere.
Più ancora, il poeta prende talvolta il lettore a testimone, arriva a sfogarsi e a giurare davanti a lui: «ma qui tacer nol posso; e per le note / di questa comedìa, lettor, ti giuro, /...» (Inf., XVI, 127-128). Dante giura sul proprio poema per avvalorare ciò che vide («venir notando una figura in suso »).
Su questo verso l’Ottimo Commento, XIV secolo, ci propone una chiosa acuta: è davanti al proprio lettore che Dante, per la prima volta, pronuncia il nome del proprio poema, Comedia: «Considera qui, lettore, che l’Autore fa suo giuro per li versi di questa Commedia, ove sono da notare due cose: l’una, il nome di questo libro, lo quale qui l’Autore medesimo impone; l’altra, che l’Autore desidera, che questa sua opera sia gradita infra le genti per lungo tempo». La teoria moderna del Lettore come teste e garanzia del libro trova in Dante il suo primo e saldo fondamento: davvero Lector in fabula.
Terzine eponime
Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo.
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
L’EUROPA IN CAMMINO - SULLA STRADA DI GOETHE O DI ENZO PACI (“NICODEMO O DELLA NASCITA”, 1944)?!
FLS
Il libro di Bonatti.
La Commedia, scrigno di mistica e di emozioni
Quello del Poeta è un viaggio sempre nuovo del corpo e dell’anima, a piedi e in volo, capace di aprire a ogni lettura inattesi orizzonti fino a giungere al personale faccia a faccia con Dio
di Andrea Riccardi (Avvenire, sabato 7 novembre 2020)
Quando un libro si legge con piacere e con facilità, è allora che bisogna alzare la guardia. Mi riferisco al testo di Marco Bonatti Dante a piedi e volando, su cui l’Autore, nell’introduzione, manda una sorta di avvertimento larvato ai lettori, paragonando la Commedia al baule trovato da Edmond Dantès nella grotta dell’isola di Montecristo: «Si alzò e prese una corsa attraverso la caverna con la fremente esaltazione di un uomo che sta per diventare pazzo ». Infatti, il Poema non solo è inesauribile, ma apre sempre, a ogni nuova lettura, qualche scrigno ancora chiuso, tanta è la molteplicità dei temi e dei pensieri contenuti.
Ora, Bonatti, con uno studio appassionato e una capacità di resa che lo rende fruibile e accessibile a tutti, conduce una sua esplorazione (che chiama “viaggio”) all’interno della complessa costruzione dantesca, dividendola in due momenti: a piedi e volando. Il riferimento alla cosmologia della Commedia è chiaro: Inferno e Purgatorio, Dante li percorre camminando (nel primo regno, scendendo all’interno dell’imbuto delle sofferenze e nel secondo salendo il monte della purgazione e della speranza). Il Paradiso è un volo fra luci sempre più forti e canti sempre più belli.
Ma chi è Dante, il pellegrino? Bonatti ci dà subito una risposta identificandolo con la malinconica figura di Romeo da Villanova, nel VI canto del Paradiso: egli aveva servito con devozione Raimondo Berengario e ne era stato ricambiato conl disprezzo, tanto che il povero vecchio fu costretto a passare il resto dei suoi giorni mendicando («indi partissi, povero e vetusto; / e se ‘l mondo sapesse ‘l cor ch’elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e piu? lo loderebbe »: l’assimilazione dell’Alighieri col ministro di
Berengario - o Boringhieri - è chiara).
Scrive l’autore: «La Commedia è un campo minato di emozioni, immagini, trucchi: a ogni passo si rischia di saltare in aria». Bonatti, che conosce in profondo l’opera - e passa velocemente, ma seguendo coordinate infallibili, da un argomento a un altro che gli si annoda per allusione o specularmente - ci conduce in un viaggio che esamina luoghi, dai riferimenti lirici e spirituali, e personaggi («c’è in Dante la grande energia per costruire e offrire l’immagine “definitiva” di una persona o di una situazione con una sola parola, un verso»). Sono occasioni di satira politica e di invettive, specie contro i fiorentini e Firenze - sebbene la trattazione più completa e argomentata della condanna alla sua città non si trovi in Inferno, ma in Paradiso: per bocca del suo trisavolo Cacciaguida - di ricostruzioni storiche puntuali, ritratti quotidiani per noi preziosissimi in quanto descritti da pochi contemporanei dell’Alighieri, di incitamenti a guardare in alto in questo itinerarium mentis in Deum, di teorizzazione sui «Due Soli» (la Chiesa e l’Impero) voluti da Dio per un identico bene dell’umanità, ma in modi diversi e separati; e poi le donne, le simbologie, le furbizie...
Tanto che Bonatti, riferendosi alla descrizione che Cacciaguida fa della «Fiorenza antica» e dei suoi abitanti e delle famiglie, afferma: «Il mondo del Decamerone - con i tradimenti e i soldi, le astuzie, il sesso, le burle, l’amore per il denaro - sembra davvero lo specchio dei danni che Dante, tramite il suo antenato, lamenta». [...] Forse il centro focale e speculare di tutto il libro è il ragionamento sul rapporto del corpo con l’anima, che per molti di noi, oggi, è solo un modo di dire. Per Dante, invece, il rapporto fra corpo e anima è qualcosa di molto reale e concreto, che incide sul senso della vita e anche sulla condizione in cui ci si trova dopo la morte. -Bisogna notare che ogni considerazione espressa nel presente lavoro, viene corredata dalla citazione dei versi relativi alla questione. Ora, siccome una prefazione non deve esorbitare nella lunghezza e neppure nel commento di tante pagine (al lettore non va tolta la spinta alla scoperta), dobbiamo solo accennare al passo in cui Bonatti parla di Salomone, personaggio a cui viene dedicata un’attenzione diversa e superiore all’evocazione.
Ci preme giungere alla seconda parte, quella intitolata “Volando”. Il termine “volo” è polisemico in tale contesto. Esso inizia da Gerione, sulla cui groppa salgono Dante e Virgilio per essere “traghettati” in basso: e il Poeta descrive quella discesa nell’aria come uno che avesse sperimentato la discesa a spirale (è un’evocazione di un’immagine che Dante non poteva conoscere). Poi, c’è il salto verso l’alto: prima con le proprie gambe, chino di fronte ai guardiani dei vari gradi del Purgatorio: essi rappresentano la divinità e la potestà di Dio sui luoghi del peccato e della pena.
Ma in Paradiso il Poeta non cammina più. E’ portato da una forza misteriosa insieme alla sua guida Beatrice. E’ “rapito” come san Paolo, ma la sfida di Dante è quella di andare a scoprire la Trinità, il mistero totale e finale del mondo, la relazione d’amore in cui il Padre e il Figlio vivono: «E tale relazione è talmente perfetta da essere lo stesso Spirito Santo».
Non staremo qui a descrivere quanto l’autore illustri le recenti scoperte della fisica infinitesimale. Dopo aver affrontato le incertezze inerenti le date del viaggio profetico, Bonatti parla del “volo” e di alcuni passaggi relativi a esso (ci vengono in mente, prima di concludere: il volo applicato al folgorante cammino di Cesare, quello di Paolo e Francesca, stretti mentre il vento infernale li sbatte in ogni dove, ma soprattutto quello di Ulisse che Dante definisce «folle volo» e principalmente «l’alto volo» del Pellegrino di cui parla Cacciaguida). -L’Alighieri non è mai solo nel suo viaggio. Da Virgilio a san Bernardo di Chiaravalle è sempre in compagnia. Unicamente all’inizio dell’Inferno, per poco più di 60 versi, è solo con se stesso e la sua paura. Ma - e qui bisogna sottolineare una cosa, per concludere questo itinerarium mentis in Deum - quando anche il Mistico mariano ha terminato la sua orazione diretta alla Madonna, Dante torna a essere solo quando affronta Dio faccia a faccia.
Lettera all’Europa.
Il Papa: ruolo dell’Europa ancor più rilevante al tempo del Covid
Nella lettera al cardinale Parolin sulla Unione Europea: “Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti”
di Redazione Internet (Avvenire, martedì 27 ottobre 2020)
L’Europa ha avuto e deve ancora avere "un ruolo centrale": lo sottolinea papa Francesco in una lettera al cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, in occasione di alcuni anniversari: il 40° anniversario della Commissione degli Episcopati dell’Unione Europea, il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche tra la Santa Sede e l’Unione Europea e il 50° anniversario della presenza della Santa Sede come Osservatore Permanente al Consiglio d’Europa.
"Tale ruolo - sottolinea il Pontefice parlando dell’Europa - diventa ancor più rilevante nel contesto di pandemia che stiamo attraversando. Il progetto europeo sorge, infatti, come volontà di porre fine alle divisioni del passato. Nasce dalla consapevolezza che insieme ed uniti si è più forti, che l’unità è superiore al conflitto e che la solidarietà può essere uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera nuova vita".
"Nel nostro tempo che sta dando segno di ritorno indietro, in cui sempre più prevale l’idea di fare da sé, la pandemia - dice il Papa - costituisce come uno spartiacque che costringe a operare una scelta: o si procede sulla via intrapresa nell’ultimo decennio, animata dalla tentazione all’autonomia, andando incontro a crescenti incomprensioni, contrapposizioni e conflitti; oppure si riscopre quella strada della fraternità, che ha indubbiamente ispirato e animato i Padri fondatori dell’Europa moderna, a partire proprio da Robert Schuman".
Il Papa lancia, quindi, un appello all’Europa affinché ritrovi sé stessa. "All’Europa allora vorrei dire: tu, che sei stata nei secoli fucina di ideali e ora sembri perdere il tuo slancio, non fermarti - scrive il Papa nel messaggio al Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, per condividere con lui delle riflessioni in occasione delle celebrazioni di alcuni anniversari - a guardare al tuo passato come ad un album dei ricordi. Nel tempo, anche le memorie più belle si sbiadiscono e si finisce per non ricordare più. Presto o tardi ci si accorge che i contorni del proprio volto sfumano, ci si ritrova stanchi e affaticati nel vivere il tempo presente e con poca speranza nel guardare al futuro. Senza slancio ideale ci si riscopre poi fragili e divisi e più inclini a dare sfogo al lamento e lasciarsi attrarre da chi fa del lamento e della divisione uno stile di vita personale, sociale e politico".
"Europa, ritrova te stessa! Ritrova dunque i tuoi ideali - prosegue il Papa - che hanno radici profonde. Sii te stessa!"
"Non avere paura della tua storia millenaria che è una finestra sul futuro più che sul passato. Non avere paura del tuo bisogno di verità che dall’antica Grecia ha abbracciato la terra, mettendo in luce gli interrogativi più profondi di ogni essere umano; del tuo bisogno di giustizia che si è sviluppato dal diritto romano ed è divenuto nel tempo rispetto per ogni essere umano e per i suoi diritti; del tuo bisogno di eternità, arricchito dall’incontro con la tradizione giudeo-cristiana, che si rispecchia nel tuo patrimonio di fede, di arte e di cultura".
"Sogno un’Europa sanamente laica, in cui Dio e Cesare siano distinti ma non contrapposti. Una terra aperta alla trascendenza, in cui chi è credente sia libero di professare pubblicamente la fede e di proporre il proprio punto di vista nella società" scrive ancora papa Francesco nella Lettera al cardinale Parolin.
"Sono finiti i tempi dei confessionalismi, ma - si spera - anche quello di un certo laicismo che chiude le porte verso gli altri e soprattutto verso Dio, poiché è evidente che una cultura o un sistema politico che non rispetti l’apertura alla trascendenza, non rispetta adeguatamente la persona umana. I cristiani hanno oggi una grande responsabilità: come il lievito nella pasta, sono chiamati a ridestare la coscienza dell’Europa, per animare processi che generino nuovi dinamismi nella società. Li esorto dunque ad impegnarsi con coraggio e determinazione a offrire il loro contributo in ogni ambito in cui vivono e operano".
Il “sacro dovere” e l’erosione della costituzione
di Francesco Palermo *
La costituzione è il perimetro entro il quale si può muovere la politica con le sue scelte discrezionali. È il ring nel quale il legittimo conflitto di idee deve svolgersi secondo regole prestabilite, la cui interpretazione è affidata a degli arbitri, i più importanti dei quali sono la Corte costituzionale e il Presidente della Repubblica. È pertanto non solo legittimo ma anzi doveroso che la politica ricorra ad argomentazioni costituzionali per giustificare le proprie azioni e le proprie tesi, perché solo dentro la costituzione può svolgersi la politica. La costituzione è, per certi aspetti, la versione laica del principio di esclusività tipico della religione: non avrai altro Dio all’infuori di me. E non può esserci politica al di fuori della costituzione.
Come troppo spesso accade anche con la religione, però, non è raro che i precetti vengano piegati ad interpretazioni funzionali alla preferenza politica del momento. E che tale torsione venga compiuta non già dagli arbitri, bensì dai giocatori.
Un esempio di particolare interesse si è registrato in questi giorni, quando il ministro dell’interno ha invocato l’articolo 52 della costituzione per giustificare la propria politica in materia di sbarchi. Nelle due pur diverse vicende della nave Diciotti da un lato e della nave Sea Watch dall’altro, il ministro Salvini ha rivendicato la scelta di negare l’accesso ai porti italiani come un obbligo costituzionale, fondato sul “sacro dovere” di ciascun cittadino alla “difesa della patria”, previsto appunto dall’articolo 52 della costituzione.
La disposizione non ha naturalmente nulla a che vedere con le questioni di cui si tratta. Il suo ambito di riferimento è esclusivamente la difesa militare, come si evince dai lavori preparatori e dagli altri commi dell’articolo, che prevedono rispettivamente l’obbligatorietà del servizio militare, nei limiti e nei modi stabiliti dalla legge, e la natura democratica dell’ordinamento delle forze armate. È per questo che l’articolo 52 non fu oggetto di particolare dibattito in assemblea costituente, impegnata a sottolineare il carattere pacifista della costituzione. Non a caso il testo definitivo è praticamente identico a quello della prima bozza, caso rarissimo nei lavori della costituente. Erano tutti d’accordo su una previsione che doveva dare copertura costituzionale al servizio militare e alle forze armate.
Il ministro dell’interno trasforma invece quella previsione - estrapolandola dal contesto - in una sorta di diritto di resistenza. Peraltro ponendolo in capo al governo, ossia all’organo contro il quale il diritto di resistenza si esercita, nei pochi ordinamenti in cui è previsto. Non solo. Il richiamo al “sacro dovere” della “difesa della Patria” ha una forte portata simbolica. In primo luogo, la formulazione è nota anche ai cittadini meno familiari con la costituzione, quindi suona plausibile. In secondo luogo, richiama il gergo militare, anche grazie all’espressione ottocentesca della disposizione (“sacro dovere”), figlia di un’epoca in cui la guerra era ancora drammaticamente presente negli occhi e nelle menti dei costituenti. Soprattutto, l’invocazione di quel segmento dell’art. 52 è un abile gioco retorico: prima lo stacca dal contesto militare in cui è collocato, poi lo ricollega a tale contesto, facendo intuire che “l’invasione” dei profughi sia un atto di guerra nei confronti del Paese, contro cui occorre difendersi. Anche militarmente. Dunque senza essere soggetti alla costituzione, ma al diritto eccezionale del tempo di guerra, in cui vale quasi tutto.
Il rischio di una simile operazione, per quanto scaltra sotto il profilo politico e mediatico, è quello di depotenziare il carattere normativo della costituzione, di eroderne il ruolo di limite e di parametro dell’attività politica. Un’erosione che continua da tempo, trasversalmente alle forze politiche, e di cui questo caso è solo l’esempio più recente. Così facendo si arriva però a cancellare la funzione di garanzia della politica che è il compito principale della costituzione. Non può sfuggire la pericolosità di questo crinale. O forse sì. E infatti l’operazione funziona proprio in quanto alla gran parte degli elettori questo ruolo della costituzione - il più importante - sfugga. Si continua così a ballare sulla nave che affonda. Dimenticando che non è “solo” quella dei migranti, ma quella della costituzione. Su cui siamo imbarcati tutti...
* 31.01.2019 - "Il sacro dovere e la sua torsione populista" (Il Mulino)
Federico La Sala
NOVE PAROLE DI UmaNA ONTOLOGIA.
Le nostre radici culturali e linguistiche radici *
DIO
CIELO
AMORE
MARE
TERRA
E’
VIVE
MUORE
AMA
* Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, I, viii
* Cfr. Federico La Sala, L’enigma della Sfinge e il segreto della Piramide. Considerazioni attuali sulla fine della preistoria, Edizioni Ripostes, Roma-Salerno 1991, p. 62.
La verità circa il Padre, il Figlio e lo spirito santo
PER coloro che credono nella dottrina della Trinità,
Molti di coloro che credono in questa dottrina ammettono di non saperla spiegare. Tuttavia pensano che sia insegnata nella Bibbia. È degno di nota che la parola “Trinità” non compare mai nella Bibbia. Ma almeno il concetto di Trinità vi compare? Per rispondere a questa domanda, esaminiamo un versetto biblico citato spesso a sostegno della Trinità.
“LA PAROLA ERA DIO”
In Giovanni 1:1 si legge: “Nel principio era la Parola, la Parola era con Dio, e la Parola era Dio”. (Nuova Riveduta) Più avanti nello stesso capitolo l’apostolo Giovanni spiega chiaramente che “la Parola” è Gesù. (14) Tuttavia, dal momento che la Parola è definita Dio, alcuni concludono che il Figlio e il Padre debbano essere parte dello stesso Dio.
Tenete presente che questa parte della Bibbia in origine fu scritta in greco. In seguito il testo greco venne tradotto in altre lingue. Alcuni traduttori, però, non resero quella frase “la Parola era Dio”. Perché no? In base alla loro conoscenza del greco biblico conclusero che la frase “la Parola era Dio” andasse tradotta in modo diverso. Come? Ecco alcuni esempi: “Il Logos [la Parola] era divino”. (A New Translation of the Bible) “La Parola era un dio”. (The New Testament in an Improved Version) “La Parola era con Dio e aveva la stessa natura”. (The Translator’s New Testament) Secondo queste traduzioni la Parola non è Dio stesso. Piuttosto, a motivo della sua elevata posizione fra le creature di (YHWH)=Geova, la Parola viene definita “un dio”. Qui il termine “dio” significa “potente”. Si; in questi casi e’ giusto scrivere la (d) minuscola...poiche’ si riferisce ad un titolo di potere...esempio come i Giapposesi, consideravano il loro Leader; Hiroito, o il Faraone d’Eggitto....un (dio)!!!
CERCATE ALTRE INFORMAZIONI
Pochi conoscono il greco biblico, per cui come si fa a sapere cosa intendeva realmente l’apostolo Giovanni? Facciamo un esempio. Un insegnante spiega un argomento, ma gli studenti hanno opinioni diverse sulla spiegazione. Come possono venirne a capo? Potrebbero chiedere altre spiegazioni all’insegnante. Indubbiamente avere ulteriori informazioni sull’argomento li aiuterebbe a capirlo. Similmente per afferrare il senso di Giovanni 1:1 potreste cercare nel Vangelo di Giovanni altre informazioni sulla posizione di Gesù. Conoscere meglio l’argomento vi aiuterà a trarre la giusta conclusione.
Per esempio, guardate cosa scrive più avanti Giovanni nel capitolo 1, versetto 18: “Nessun uomo ha mai visto Dio”, E’ vero che Gesu’ stesso disse: chi ha’ visto me e come se avesse visto anche il Padre mio...notate, (come se!!!) (l’Onnipotente.) Degli esseri umani, però, hanno visto Gesù, il Figlio, poiché Giovanni dice: “La Parola [Gesù] è diventata carne e ha abitato per un tempo fra di noi . . . e noi abbiamo contemplato la sua gloria”. Quindi, come poteva il Figlio essere parte dell’Onnipotente Dio? Giovanni afferma inoltre che la Parola era “con Dio”. Ma come si può essere con qualcuno e al tempo stesso essere quel qualcuno? Inoltre, secondo ( 17 ) Gesù fa una chiara distinzione fra se stesso e il suo Padre celeste, definendo il Padre “il solo vero Dio”. E, verso la fine del suo Vangelo, Giovanni conclude dicendo: “Queste cose sono state scritte affinché crediate che Gesù è il Messia, il Figlio di Dio”. (31), Garofalo) Notate che Gesù non viene definito Dio, ma il Figlio di Dio. Questa ulteriore informazione fornita dal Vangelo di Giovanni indica come si deve intendere Giovanni 1:1. Gesù, la Parola, è “un dio” nel senso che ha una posizione elevata, ma non è Dio Onnipotente.
ULTERIORI CONFERME
Ripensate all’esempio dell’insegnante e degli studenti. Immaginate che alcuni continuino ad avere dei dubbi, anche dopo l’ulteriore spiegazione dell’insegnante. Cosa potrebbero fare? Potrebbero rivolgersi a un secondo insegnante per avere altre informazioni sullo stesso soggetto. Se questi confermasse la spiegazione del primo, i dubbi della maggior parte degli studenti sarebbero chiariti. Similmente, se non siete sicuri di cosa intendesse dire lo scrittore biblico Giovanni riguardo alla relazione fra Gesù e l’Iddio Onnipotente, potreste rivolgervi a un altro scrittore biblico per avere ulteriori informazioni. Notate cosa scrisse Matteo, per esempio. A proposito della fine di questo sistema di cose, citò le parole di Gesù: “In quanto a quel giorno e a quell’ora nessuno sa, né gli angeli dei cieli né il Figlio, ma solo il Padre”. (Matteo 24:36) In che modo queste parole confermano che Gesù non è l’Iddio Onnipotente?
Gesù dice che il Padre conosce delle cose che il Figlio ignora.
Continuando a studiare la Bibbia, troverete molti altri passi biblici che hanno attinenza con questo soggetto e sostengono la verità circa il Padre, il Figlio e lo spirito santo.
Concentratevi sul ruolo di ognono d’essi che ha’ e poi capirete che aggiscono in unita’....come dovrebbe agire una buona famiglia in unita’ e cooperazione a fare quello che ogni menbro della famiglia ha’ la responzabilita’ di fare.
Cordiali saluti a tutti ...con tutto il bene del mondo...
(LO STAFF E" FORMIDABBILE NELL"ESPORRE TALI VERITA’ BIBBLICHE)